Dopoguerra in Europa e Italia: il biennio rosso La pace di Parigi, anziché determinare “un nuovo ordine europeo, crea nuovi motivi di antagonismo che si aggiunsero alle insoddisfazioni nutrite dalle attese inappagate” (E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, 2000). L’umiliazione inferta alla Germania porrà basi molto fragili per la nuova repubblica tedesca nata dalle ceneri dell’impero, gettando il paese in una crisi finanziaria foriera di forti instabilità, come previsto da Keynes. Anche l’instabilità politica dei nuovi stati centro-orientali, baluardo tra la Germania e la Russia bolscevica, e lo scontento dell’Italia, che non aveva ottenuto la Dalmazia promessa con il patto di Londra, rendono precario l’equilibrio europeo. Intanto la Terza Internazionale diventa un punto di riferimento per i popoli extraeuropei che ambiscono all’emancipazione dalla soggezione coloniale in nome del principio di autodeterminazione evocato da Wilson e dalla Società delle Nazioni, ma poi disatteso. La fine della guerra lascia tutta l’Europa in preda a un’acuta conflittualità sociale: tra il ’19 e il ’20 si assiste a un’impennata degli scioperi rispetto al periodo precedente alla guerra. La connotazione ideologica spessa assunta dalle proteste induce alcuni studiosi a denominare tale fase come un “biennio rosso”. A Berlino la Lega di Spartaco, un gruppo comunista guidato da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, avvia un tentativo di insurrezione sedato con la violenza dai corpi franchi (Freikorps), bande paramilitari che operavano agli ordini del governo provvisorio di ispirazione socialdemocratica. I due leader vengono uccisi, i consigli si operai e soldati sorti sulla scorta del modello bolscevico soppressi. Le elezioni per l’Assemblea costituente sanciscono la vittoria dei socialdemocratici, che scelsero di allearsi con il partito moderato e cattolico del Zentrum instaurando una repubblica parlamentare che evidenzia ancora una notevole continuità con il sistema economico-sociale pre-esistente, i cui pilastri erano burocrazia e esercito. In Austria la transazione alla repubblica viene gestita dalla socialdemocrazia in accordo con partiti borghesi, ma negli anni si assiste a una rimonta del partito cristiano-sociale, sostenuto dai ceti rurali. In Ungheria il tentativo di instaurare un repubblica bolscevica avviato dal comunista Béla Kun fallisce e si instaura la dittatura controrivoluzionaria dell’ammiraglio Miklos Horthy. In Italia, paese indicato dalla Terza Internazionale come più prossimo alla rivoluzione, gli scioperi e le occupazioni produssero conquiste importanti come la giornata lavorativa di otto ore. Si aggiungono anche rivolte contro il carovita (i prezzi sono aumentati circa del 30%) e conflittualità nelle campagne, dove le “leghe rosse” nell’area padana ottengono aumenti salariali, il controllo del collocamento e una solida egemonia sociale, nell’ottica della promozione della socializzazione della terra; le leghe bianche cattoliche sono più orientate alla tutela della piccola proprietà contadina; al centro i mezzadri impongono nuovi patti colonici; al sud i contadini ex-fanti occupano vaste estensioni di terre incolte. La crisi economica (inflazione, debito pubblico, difficoltà nella riconversione da economia di guerra a economia di pace), sociale (disoccupazione, proletarizzazione dei ceti medi) e morale rende difficile la ricostruzione di un equilibrio politico. La guerra, esperienza collettiva senza precedenti, provoca un’accelerazione della massificazione politica e una crisi dei legami tradizionali. Il protagonismo della masse si riflette in una crescita dei sindacati (in particolare la Confederazione generale del lavoro) e del PSI orientato su posizioni massimaliste, ma dilaniato al suo interno da un’opposizione riformista che controllava il gruppo parlamentare. Il PSI ottiene alle elezioni del ’19 il 32% dei voti, grazie soprattutto al consenso ottenuto nell’area settentrionale (Piemonte, Lombardia, Emilia e Toscana). Il Partito Popolare fondato nello stesso anno da Don Luigi Sturzo ottiene circa il 20%, inaugurando una autonoma presenza dei cattolici nella vita politica italiana. Sulla carta i due partiti avevano la maggioranza, ma l’uno era anticlericale, l’altro molto dipendente dalla Chiesa, nonostante la dichiarata aconfessionalità, dunque il Partito popolare si allea con partiti di area moderata. I governi liberali del dopoguerra (guidati prima da Nitti e poi da Giolitti) faticano ad adeguare le strutture oligarchiche dello stato italiano a una società ormai massificata (è la tesi di Vivarelli, Storia delle origini del fascismo): esemplare in questo senso l’introduzione nel 1919 del sistema elettorale proporzionale che favorì l’affermazione dei partiti di massa come socialisti e popolari ai danni della vecchia classe dirigente formata da ristretti gruppi di potere locali legati ai collegi uninominali. Questi governi non riescono a riprendere il controllo del parlamento in un paese profondamente cambiato e attraversato da tensioni sociali che fanno invocare al mondo imprenditoriale uno stato forte capace di ripristinare l’ordine e esorcizzare lo spettro della rivoluzione. Il governo si mostra incapace di fornire risposte anche alle aggressive tendenze nazionaliste che alimentano il mito della “vittoria mutilata”, fomentando l’opinione pubblica: nel ’19 D’Annunzio con un corpo di volontari occupa la città di Fiume per annetterla all’Italia, determinando una situazione di illegalità che evidenzia la debolezza della classe dirigente liberale e che raccoglie i consensi di ex combattenti e di un ceto borghese in cerca di un riscatto. La situazione verrà risolta con il trattato di Rapallo. E’ in questo clima che nel marzo del ’19 l’ex socialista Benito Mussolini fonda i Fasci di combattimento, cui aderiscono futuristi, ex sindacalisti rivoluzionari, ex soldati, studenti, piccola borghesia. Il programma, un coacervo di attivismo rivoluzionario e di istanze reazionarie, attira le attenzioni del padronato rurale, che sostiene le squadre paramilitari fasciste impegnate a intimidire le organizzazioni socialiste e cattoliche nell’area della Toscana e dell’Emilia in particolare. Lo squadrismo è anche un fenomeno urbano che denota l’ostentato dispregio della legalità e della democrazia da parte dei fasci di combattimento. I fasci diventeranno partito nazionale fascista nel 1921, arrivando a ben 300.000 iscritti. Le nuove elezioni politiche del ’21 vedono i fascisti inclusi nei blocchi nazionali, liste che univano esponenti politici di partiti moderati o conservatori col fine di arginare la temuta ascesa delle sinistre. Il calcolo di Giolitti e dei liberali era probabilmente quello di riassorbire i fascisti nella legalità dopo essersene serviti per ristabilire l’ordine. I fascisti eletti furono una trentina. Tra il ’21 e il ’22 l’agonia dello stato liberale, con i deboli governi Bonomi e Facta, suggella il consolidarsi di un blocco sociale composto prevalentemente da ceti medi e padronato agrario e industriale che si salda intorno al fascismo. Il movimento operaio in questo stesso momento si divide: nel 1921 a Livorno l’estrema sinistra socialista fonda sotto la guida di Amedeo Bordiga il partito comunista, cui aderisce anche il gruppo torinese del giornale “L’Ordine nuovo” composto da giovani intellettuali del calibro di Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Umberto Terracini, che negli anni precedenti aveva promosso i consigli di fabbrica come strumenti per rinnovare il movimento operaio. Nel 1922 una nuova scissione nel partito socialista porta all’espulsione dei riformisti turatiani, indebolendo ulteriormente il partito. Nel 1922 lo stallo politico è tale da indurre Mussolini ad agire: in ottobre convergono su Roma alcune decine di migliaia di “camicie nere”: Vittorio Emanuele III rifiuta di firmare lo stato di assedio proposto da Facta e incarica Mussolini di formare il nuovo governo, cui partecipano nazionalisti, liberali e popolari. Mussolini può godere del sostegno dell’alta finanza, delle gerarchie militari, della Chiesa (come dimostrerà la vicenda di don Sturzo).