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a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Gennaio '09
Numero Gennaio '09
EDITORIALE
Passate le feste e iniziato – speriamo nel migliore dei modi, anche se la situazione
internazionale è quanto mai fosca – l’anno nuovo, rieccoci per un nuovo appuntamento con
“Fuori dal Mucchio” e con quanto di meglio avviene nel sempre vivace underground italiano.
Tanti, come d’abitudine, i generi affrontati nelle recensioni, dall’hip hop alla canzone d’autore
passando per il rock più muscoloso e l’avanguardia, e approfonditi nello spazio delle
interviste, senza dimenticare l’abituale appuntamento con “Dal basso”, e un “Sul palco”
dedicato al fresco vincitore del premio “Fuori dal Mucchio”, Le Luci della Centrale Elettrica.
Molti, allora, i gruppi e gli artisti trattati, che tuttavia non sono altro che la punta dell’enorme
iceberg delle uscite discografiche tricolori di questi ultimi mesi. Talmente abbondante –
decisamente troppo – la quantità della proposta da rendere il doveroso lavoro di scrematura
particolarmente arduo e, in alcuni casi, difficoltoso. Non temano, quindi, etichette e produttori
che ci hanno inviato il loro materiale: tutto viene accuratamente ascoltato e vagliato, anche
se, come è giusto che sia, solo le proposte ritenute migliori vengono recensite e
approfondite. L’unico consiglio che ci sentiamo di dare è quello di inviare non soltanto copia
del materiale a entrambi i curatori di questo spazio, ma anche a uno o più dei suoi
collaboratori fissi (tutti i contatti li trovate seguendo il link “Per invio materiale”).
Buone letture e buoni ascolti, allora; e, soprattutto, buon 2009 a tutti, e a ritrovarci qui il
mese prossimo.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Gennaio '09
Colore perfetto
David Pollini alla voce e al basso, Stefano Bandiera alla batteria e Alessandro Fioroni alle
chitarre; così è formato il trio dei Colore Perfetto da Perugia. I ragazzi, nonostante suonino
insieme solo da tre anni, hanno dimostrato con questo loro primo album intitolato non a caso
“Il debutto” di avere le idee ben chiare su quel che volevano ottenere, rimanendo affezionati
alle distorsioni allargate degli anni 70 e a quelle di rock noise malinconico romantico di metà
anni 90. La Tempesta Dischi (distribuzione Venus) ne ha prodotto il risultato, a mezza via tra
i primi Marlene Kuntz e i Northpole. Ne parliamo con il cantante.
Com'è iniziata la storia musicale dei Colore Perfetto?
La nostra storia è iniziata nel 2005. Veniamo tutti da esperienze diverse con gruppi della
nostra zona, però la situazione ha cominciato sicuramente a decollare dal momento in cui
abbiamo conosciuto Umberto Giardini in arte Moltheni con il quale abbiamo collaborato
nell'ultimo disco aprendo una sua serata a Perugia, ci siamo conosciuti ed è nato
l'interessere reciproco nel collaborare insieme. Qui è partita la nostra storia, altrimenti
saremmo rimasti conosciuti solo nella zona circoscritta che non è che offra molte possibilità
di emergere.
Quindi questo incontro è stato fondamentale, comunque a parte questo, voi tre: i
Colore Perfetto, cosa pensi vi abbia uniti?
Fondamentalmente uno spirito comune di amicizia e questo traspare anche nel modo che
abbiamo di creare gli appuntamenti per stare insieme. Nel corso di questi anni si è potuto
formare un gruppo molto solido, molto forte al di là della musica in sé, perché c'è questa
voglia di stare insieme. Adesso ci ritroviamo a vivere un bellissimo momento e c'è una
grande energia tra di noi.
Quando vi capita di stare in sala prove, quali canzoni vi capita di fare per distrarvi
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dalle vostre nei momenti di pausa?
Per noi è molto più facile affrontare pezzi nostri. A volte, ci troviamo in saletta dopo cene
molto alcoliche e il nostro interesse, anche in quei casi, non si discosta dai nostri pezzi o
almeno nello spaziare e nello sperimentare. Non è un gruppo nato per fare cover di altri,
questo. L'esigenza che ci preme è solo quella di esprimerci e comunicare i nostri stati
d'animo sempre e comunque. Ci piacciono molto le sonorità anni 70. Siamo patiti di pedalini,
effetti e sonorità strane.
Ci sono alcuni gruppi che fanno delle canzoni con delle storie e altri come voi che
fanno invece delle canzoni con delle riflessioni. Come mai questa scelta?
Credo che questa cosa sia stata abbastanza spontanea e naturale. La maggior parte dei
testi li ho scritti io, a parte “Un giorno qualunque” scritta da Moltheni. Non lo so, ci piace dar
voce a quelli che sono i sentimenti, a quella che è la vita quotidiana respirata in ambito delle
situazioni sentimentali di disagio sociale magari. Disagio nel vivere. Sono argomenti che ci e
mi toccano particolarmente e quindi non faccio molta fatica a trasmetterli o a trascriverli nei
testi.
Se dovessi pensare ad un gruppo da accostare a voi, a chi penseresti?
Io, anzi noi oltre alla musica anni 70, siamo legati alla musica venuta fuori dopo la metà
degli anni 90. Credo che si senta. Parlo dei Marlene Kuntz e degli Afterhours ad esempio. Ci
identifichiamo soprattutto in quegli aspetti musicali.
Visto che vi siete denominati i Colore Perfetto, quando lo è?
“Il colore perfetto” è un termine che usavamo soprattutto per quanto riguarda gli incastri
musicali, cioè una cosa che è riferita alla colorazione musicale, ma ne Il Debutto è venuta
oltretutto fuori un'immagine grafica che si esprime soprattutto dai colori. Per noi il colore è
perfetto quando usiamo il giusto modo di abbinare delle sonorità a determinate situazioni e
troviamo i giusti paesaggi, quindi credo sia nato da questo. Un'espressione che in saletta
prove veniva utilizzata spessissimo quando cercavamo una sonorità giusta, in un preciso
momento di un brano e quindi credo che tutto nasca da lì.
All’interno del disco, ci sono queste canzoni "Da quella sera" e Come se non
bastasse" che sembrano canzoni (ho trovato) molto arrabbiate e anche a tratti
rassegnate. Era quello che volevi che si percepisse o è venuto così?
Rassegnate non mi sembra. Nel senso che la rassegnazione un po' mi è appartenuta e un
po' mi appartiene, però dai, un lato di positività ce lo metto sempre! Naturalmente in queste
canzoni ho trattato soprattutto temi sentimentali. Storie che mi hanno segnato
particolarmente quindi, però la rassegnazione non è il termine giusto. Mi piace parlare della
sofferenza ma con un briciolo di positività. Questo di sicuro.
Prima dicevi che Moltheni è stato molto importante per voi per realizzare questo
disco, oltre a partecipare con un suo pezzo e collaborare all'interno di un altro, lui si è
occupato anche della produzione artistica?
Beh, la produzione artistica credo sia da attribuire a Giacomo Fiorenza: il bassista di
Moltheni e che è un bravissimo produttore nel campo del mondo indipendente italiano, però
non nego il fatto che se non ci fosse stato l'incontro con Moltheni, sarebbe stato molto più
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difficile per noi riuscire a mettere la testa fuori, perché è un periodo molto difficile e
complicato per i gruppi indipendenti. Arrivare ad una piccola notorietà con la possibilità di
andare con lui in tour non è poco. E la visibilità che ci offre un artista come Moltheni è
veramente oggi tutto per noi.
Il disco è stato prodotto da La Tempesta Dischi, com'è avvenuto questo contatto?
A tal proposito devo specificare che anche se è la stessa etichetta di Moltheni, il contatto
non è avvenuto grazie a lui. Noi Colore Perfetto, ci siamo ritrovati dopo l'incisione del disco
che è stata fatta all' Alpha Dept. di Bologna nel marzo 2008, quindi nella seconda fase, molto
impegnati a cercare un'etichetta ed è stato molto difficile, però grazie a MySpace siamo
riusciti a trovare dei contatti fino ad arrivare nelle orecchie di Enrico Molteni: bassista dei Tre
Allegri Ragazzi Morti che gestisce assieme al gruppo questa etichetta. La cosa è piaciuta
molto e da qui è nata la collaborazione. Tutto qua insomma. Un nostro bellissimo sogno che
si sta avverando.
Sul prossimo disco ci sarà ancora Moltheni?
Il prossimo disco sarà incentrato solo sui Colore Perfetto, ma se le collaborazioni portano
sempre a questi risultati ben vengano.
Contatti: www.myspace.com/coloreperfetto
Francesca Ognibene
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El Cijo
EL CIJO
Un viaggio nell’immaginario americano, attraverso stili e stilemi rimescolati e a volte
reinventati secondo nuove prospettive, una serie di schizzi e appunti sparsi tanto convincenti
quanto volutamente lasciati in sospeso, dai quali emerge una sintesi pop di sorprendente
efficacia. Ne abbiamo parlato con il chitarrista del collettivo anconetano, Marco Molinelli.
Prima di tutto, vorrei che mi parlaste della genesi del gruppo. Che non è un puro e
semplice gruppo, ma è nato come sorta di "divisione musicale" di Postodellefragole,
collettivo che produce videoclip e lavora nel campo del video e della grafica
principalmente. A sentire l'entusiasmo e il divertimento che ci avete messo nel disco,
pare proprio che ci abbiate preso gusto...
Corretto. All’inizio abbiamo creato una vera e propria divisione musicale chiamata
Postodellefragole Music Session. Al suo interno El Cijo, non ancora con questo nome, ha
mosso i primi passi. Poi ci siamo resi conto che senza un aiuto esterno avremmo
difficilmente combinato qualcosa di buono. E allora dentro un chitarrista, poi un batterista. El
Cijo ha preso forma. Postodellefragole è stata un’anticamera. Ora entrambi i progetti vivono
in autonomia e quando possiamo farli incontrare di nuovo siamo felici di farlo. A proposito:
Postodellefragole firmerà il primo clip di El Cijo, dovrebbe essere pronto per la metà di
gennaio. Sì, hai ragione, ci abbiamo preso gusto...
Questo disco battezza la vostra carriera musicale ma anche una nuova etichetta, la
Still Fizzy. Che genere di etichetta è? Ve lo chiedo in un momento in cui aprire
etichette discografiche viene considerato da più parti una follia.
Dobbiamo ringraziare Gilberto Caleffi, creatore della Still Fizzy. Senza il suo aiuto “Bonjour
My Love” sarebbe ancora un demo sgangherato. Credo che avesse intenzione già da tempo
di fondare un'etichetta. Quando ha sentito la nostra musica ha deciso di passare all’azione.
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Follia? Può darsi. Che genere di etichetta? Onestamente non saprei rispondere. Dovreste
parlare direttamente con Mr. Caleffi. Mi pare di aver capito che le sue prossime produzioni
saranno molto differenti da El Cijo. Forse ha voglia e necessità di far uscire musica senza
troppe costrizioni stilistiche o restrizioni di genere. Effettivamente aprire un’etichetta, al
momento, parrebbe sconveniente da molti punti di vista. Ma poi interviene la passione per la
musica, irresistibile, e persone come Gilberto Caleffi (per fortuna) perdono la testa e
decidono di mettersi al lavoro.
El Cijo parrebbe una espressione gergale messicana, mentre è dialetto anconetano e
sta per "ciglio". Mi pare indicativo di una certa vocazione al depistaggio, che se
vogliamo sta anche nei contenuti musicali del progetto: un gruppo di italiani che si
divertono a fare una specie di compendio della tradizione musicale americana in
senso lato, giocando con gli stereotipi e con gli stili ma in un modo assolutamente
credibile, allo stesso tempo innestando elementi anomali. E' solo una mia
impressione oppure questa componente di "gioco", di interazione ludica con chi vi
ascolta, è un elemento fondante del progetto?
Il depistaggio è divertente per un po’, dopodiché stanca. Non vogliamo depistare in
eccesso, ecco. Suoniamo quel che meglio sappiamo suonare. Nessun lavoro a tavolino sul
"come confondere l'ascoltatore", siamo stati spontanei nelle composizioni, nate di getto
durante il periodo di reclusione nelle campagne marchigiane. Periodo che ci siamo imposti
all'inizio del 2008, chiusi in una casa di campagna a registrare le 16 tracce del disco. Detto
questo l'America fa parte dei nostri ascolti quotidiani, tutti i suoi mostri sacri, Johnny Cash,
Bob Dylan, John Fahey, Leadbelly, Howlin' Wolf, Karen Dalton, Hank Williams, Tom Waits,
fino a Bonnie Billy, e poi i neointimisti degli ultimi anni. È curioso riscoprire, dopo tanti anni,
che il disco che metteva su mio padre in macchina quando io ancora mi addormentavo sui
sedili posteriori era “Sweet Baby James” di James Taylor. Non credo sia un gran disco, ma
lo canto a memoria.
L'incompiutezza, tra virgolette naturalmente, l'amore per gli sketch piuttosto che per
le rifiniture sembra attraversare queste canzoni... era questo il loro obbiettivo,
sembrare in qualche modo gli appunti presi durante un viaggio immaginario (e
nell'immaginario)?
Fa tutto parte del gioco. Il disco stesso è nato per gioco. Probabile che i nostri appunti presi
di fretta abbiamo mantenuto la loro natura. Alcuni pezzi sono nati via web, passandoci
bozzetti a distanza quando eravamo lontani e non c'era altro modo di comunicare. Le
rifiniture le abbiamo concesse solo ad alcuni brani, quelli che sentivamo la necessità di
arricchire e che pensavamo le meritassero. Per tutti gli altri ci è sembrata la scelta migliore
congelarli al loro stato embrionale, senza fioriture che ne avrebbero fatto perdere la
spontaneità. Un viaggio, sì, c'è stato, a livello inconscio: nel cinema di Altman e dei fratelli
Coen, per citarne giusto un paio tra i tanti altrimenti si rischia di vomitare lì tutta una serie di
nomi e la lista diventa esageratamente lunga, dentro all'iconografia yankee e bifolca che
stranamente esercita un discreto fascino su di noi. E anche se potrebbe risultare solo un
omaggio all'America, credo che il nostro lavoro abbia un respiro decisamente europeo. Chi ci
verrà a vedere dal vivo se ne accorgerà meglio. Probabilmente con il secondo disco
metteremo meglio a fuoco la questione.
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Come funzionano le dinamiche all'interno del gruppo, a livello di scrittura? Chi
propone i brani e quali i criteri per cui entrano a far parte del repertorio?
I brani del disco, in fase di composizione e arrangiamento, sono stati in gran parte scritti di
concerto. La penna, diciamo così, è quella di Simone, voce de El Cijo, che ha scritto testi e
melodie di base, fatta eccezione per gli strumentali e per qualche altro pezzo concepito a più
mani. I criteri con cui definiamo il nostro repertorio non sono del tutto chiari. Attualmente, nei
live ci stiamo concentrando su brani energici e veloci, delle rumbe, riarrangiando anche
alcuni lenti del disco e proponendone di nuovi. Vorremmo che il nostro fosse un concerto su
di giri, la gente dovrebbe sbattere i piedi. Stiamo già lavorando al secondo disco in maniera
indiretta, abbiamo una produzione decisamente compulsiva e vorremmo che il prossimo
lavoro fosse il risultato di una intensa esperienza sul palco.
Contatti: www.myspace.com/elcijo
Alessandro Besselva Averame
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Macno
Al secondo lavoro “Tutto come prima” (Load Up/Venus), e dopo la brillante partecipazione
alla compilation di Mucchio Extra dedicata a De Gregori, il gruppo comasco dei Macno, a
dispetto dal titolo, cambia molte carte in tavola. A partire dall’organico. Ne abbiamo discusso
con Mimmiz, il cantante e paroliere della band.
Molti osservatori hanno rimarcato la crescita rispetto al primo album. Ce le spieghi
tu, le ragioni di questa maturazione?
Penso abbia a che vedere con la crescita individuale di ognuno di noi, sia sul piano umano
che su quello strettamente musicale. L’idea di fare un disco diverso è cresciuta con noi, poco
alla volta. Sentivamo l’esigenza di coinvolgere altri strumenti e di sperimentare formule
diverse dal canonico schema strofa-ritornello-strofa. Siamo orgogliosamente soddisfatti del
risultato ottenuto e coscienti che anche il prossimo album sarà un ulteriore passo verso
direzioni ad oggi ancora a noi sconosciute. Non so se la si può definire una sfida con noi
stessi, però mi piace pensarlo. Bisogna sottolineare, inoltre, che il primo album è uscito nel
2005, ma la maggior parte dei pezzi in esso contenuti risalgono al periodo 2001/2003, quindi
era inevitabile che venissimo attratti da qualcosa di diverso.
Marco Ambrosi sembra essere diventato a tutti gli effetti il quarto Macno. È così?
Com’è avvenuto il vostro incontro e come pensi continuerà la vostra collaborazione?
È assolutamente così. Nonostante nei crediti dell’album appaia a parte, Marco Ambrosi è,
ad oggi, un membro dei Macno a tutti gli effetti. Ci siamo conosciuti grazie alle compilation
tributo del “Mucchio Extra” che lui curava magnificamente. Gli è piaciuta moltissimo la nostra
versione di “Rimmel” con Paolo Benvegnù, così è cominciato un carteggio via mail molto
interessante. Poi, conoscersi, trovarsi in sintonia e cominciare a collaborare è stato tutto
molto naturale. Seppur a bassa voce, eravamo alla ricerca di una persona che potesse darci
una mano, in grado di entrare nel gruppo con tatto e senso di responsabilità. Siamo felici che
questa persona sia lui. La collaborazione chiaramente continuerà, e cominceremo quanto
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prima con la scrittura dei pezzi per il prossimo disco.
È forse superfluo notare che si avverte sulla vostra musica la forte influenza dei
Marlene Kuntz. Vorrei che tu dicessi con sincerità come stanno le cose.
Visto che mi chiedi sincerità, cercherò di essere il più sincero possibile: noi pensiamo che le
nostre cose, soprattutto le più recenti, siano molto diverse dalla proposta dei Marlene Kuntz.
Certo, loro hanno fatto parte dei nostri ascolti e i loro dischi girano tuttora nei nostri lettori,
questo è innegabile, ma a nostro avviso, ripeto, tutta questa somiglianza noi non la vediamo.
Continuiamo a leggerlo in quasi tutte le recensioni che escono, ma usare chitarre distorte e
cantare in italiano non vuol dire necessariamente ricordare i Marlene Kuntz. Capisco che il
primo nome che viene in mente sia il loro e che in fase di recensione serva citare nomi per
dare punti di riferimento al lettore, ma noi pensiamo di avere una nostra identità ben definita.
Per “Tutto come prima” avevamo pensato di rivolgerci a Gianni Maroccolo per la produzione
artistica, poi abbiamo cambiato idea, anche per non cadere nella trappola del: ”Ecco, ora
vogliono essere davvero i Marlene Kuntz”.
Quali altre influenze e quali ascolti vi portate dietro, e dentro?
Un po’ di tutto, dai Beatles ai Radiohead, passando per i Joy Division, che tutti amiamo alla
follia. Personalmente, soprattutto di recente, preferisco ascoltare cose che hanno poco in
comune con i Macno, tipo gli ultimi due album dei Talk Talk, Portrait Of David, Joanna
Newsom, Bark Psychosis, Jocelyn Pook. Mi accorgo che tra le cose nuove non riesco a
trovare niente di interessante, di emozionante, qualcosa che mi squarci il cuore e la mente.
Dei moltissimi dischi ascoltati quest’anno, ad esempio, mi sono piaciuti soltanto l’album dei
Fleet Foxes e quello di Bon Iver.
Anche Lorenzo Ori lascia il segno sull’album. Com’è stato lavorare con lui? Quanto vi
ha condizionato?
Lorenzo è una persona davvero meravigliosa e siamo contenti di aver lavorato con lui.
Adora il proprio lavoro, è bello vedere persone che lavorano al tuo progetto sentendolo
anche loro. Ci è stato molto vicino e ci ha dato consigli preziosi per la realizzazione del
disco, nonostante fossimo arrivati da lui con le idee già molto definite. Ci ha messo a nostro
agio, non è facile convivere in uno studio per dieci ore al giorno, ed è intervenuto sempre
con argomenti validi.
Come procede l’attività live? E visto che di fatto siete adesso un terzetto, qual è la
formazione sul palco?
Un po’ a rilento, a dire il vero, anche a causa della nostra pigrizia. Sul palco ora siamo in
cinque, oltre a noi tre, ci sono ovviamente Marco Ambrosi alle chitarre e Alessandro Nespoli
alla batteria, che ha suonato anche nel disco. È sicuramente la miglior formazione che i
Macno abbiano mai avuto, suonare dal vivo è diventato davvero molto divertente, come
forse mai in passato.
“Baci rubati” è una citazione di Truffaut, o è solo un caso? Mi sembrerebbe strano,
visto che si parla anche di “libri bruciati” (“Fahrenheit 451”) e di forse hitchcockiani
“sipari strappati” e “ombra del dubbio”. Ho preso un granchio? Che rapporto avete
con il cinema e le arti visive?
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No, non hai preso nessun granchio: tutto giusto, complimenti. Mi sono divertito a citare o ad
omaggiare alcuni dei miei autori preferiti, vedi Truffaut o Hitchcock, appunto, ma anche
Jacques Tati (“Confusione” vuole essere un omaggio a “Confusion”, ultimo e, purtroppo, mai
realizzato film di Tati) e molto altro. Tutto il disco è volutamente molto cinematografico, ogni
frase riporta a delle immagini ben precise, almeno secondo noi. Avevo in mente da tempo un
tipo di scrittura del genere e sono molto orgoglioso del risultato. Francamente, ti confesso
che non mi reputo un grande cantante, però adoro cantare quello che scrivo e adoro farlo
con trasporto. Non potrei mai cantare una cosa se non la sentissi mia, e questo vale anche
per le rare cover che suoniamo. Di cinema, invece, potremmo parlare per ore. Con alcuni
film ho un rapporto straordinario, al limite del feticismo. Potrei guardarli tre o quatto volte di
seguito, senza mai stancarmi. In questo momento penso ai primi film di Godard, quelli girati
tra il 1960 e il 1966. Sono per me una piacevolissima via di fuga, un modo per estraniarmi
dalla realtà che mi circonda. Il cinema tutto è inoltre una grande fonte d’ispirazione, come del
resto i quadri di Yves Tanguy, che adoro particolarmente.
Contatti: www.macno.it
Gianluca Veltri
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Marco Notari
“Babele” (Artes/EMI) è il secondo album del songwriter piemontese, cresciuto in personalità
e padronanza dei propri mezzi. Approfondiamo i contenuti di un lavoro articolato e
ambizioso, sia dal punto di vista sonoro che concettuale.
Rispetto a “Oltre lo specchio” del 2005, più ruvido e immediato, “Babele” mostra
maggiori sfumature.
L’esordio era un punto di partenza, registrato in una decina di giorni e dagli arrangiamenti
fatti abbastanza velocemente, per via delle scadenze. Stavolta ho avuto più tempo per
lavorare al disco, al quale ho dedicato due anni. Registrare alle Officine Meccaniche di
Mauro Pagani ha contribuito: ci sono tantissimi strumenti e possibilità che altrove non avrei
avuto.
“Babele” è contraddistinto da una certa varietà: elettriche rock, elementi moderni
come loop e synth, parentesi delicate con piano o viola, gli strumenti bizzarri – da un
organetto indiano a una chitarra giocattolo - impiegati in “Sacrilegio di luce”...
La varietà era un obiettivo. Amo i dischi che riescono a essere sfaccettati e mantenere
omogeneità, un marchio riconoscibile: penso a “Mellon Collie And The Infinite Sadness”
degli Smashing Pumpkins o ai lavori dei Radiohead, da “OK Computer” in poi. Gli strumenti
per “Sacrilegio di luce” sono stati scelti lì per lì. I fonici hanno tirato fuori un bellissimo
organetto indiano in madreperla, con una specie di mantice sul retro: ci abbiamo messo
mezz’ora ad accordarlo.
Come ti è venuto in mente di realizzare un concept? La storia sentimentale di
Cristiano e Lucia è accompagnata da una descrizione abbastanza cupa dei giorni
correnti.
Quando ho scritto i primi cinque pezzi, non avevo ancora optato per il concept. Mentre
risentivo i demo, mi sembrava che ci fossero due personaggi e un filo conduttore. Un giorno
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stavo ascoltando “Storia di un impiegato” di Fabrizio De André e mi è venuta voglia di
provare a fare un concept, anche perché l’idea mi è sempre piaciuta e amo complicarmi la
vita. “Babele”, concepito in seguito, è il brano più a fuoco di tutti a livello di testo. C’è stato un
avvicinamento progressivo nella composizione: dai margini delle vicende fino ad arrivare al
centro.
Una via di fuga è la maternità di Lucia, affrontata in “Porpora”. Un argomento
contraddittorio e facilmente equivocabile...
Ho immaginato che il rapporto con Cristiano, finito in malo modo, le lasciasse una maternità
indesiderata, che diverrà punto di contatto con se stessa. Ci sono molte questioni spinose
legate alla maternità e alla figura della donna, che spesso percepisce il ruolo assegnatole
come obbligo. A un livello di lettura più profondo, la maternità può essere irreale e
interpretata come rinascita derivata da una speranza, una consapevolezza successiva a un
momento di disperazione. In pratica, ho dato al tutto un valore simbolico e un’impronta
fiabesca. Non me la sentivo di fare un’analisi sociale: esprimersi su ciò che le riguarda è
diritto delle donne, e non degli uomini. La parte di Lucia è eterea e si solleva su quella di
Cristiano, più radicata nella società.
“Io non mi riconosco nel mio stato” cita il “crepa consuma” dei CCCP?
CCCP e CSI sono stati capostipiti di una scuola. Ho scritto di getto il testo del brano, e mi
sono reso conto a posteriori della citazione evidente. La mia impressione è che, salvo casi
isolati come Le luci della centrale elettrica, si abbia paura a parlare di certe tematiche. Chi fa
musica meno commerciale tratta determinati argomenti in maniera esplicita e schierata,
rischiando di diventare retorico o prigioniero di uno schema, o non lo fa per niente adottando
una patina fighetta.
Che ne pensi dei paragoni con Afterhours e Marlene Kuntz?
In passato li ho ascoltati parecchio, ma nel disco non ho fatto riferimenti a loro. I modelli
sono stati altri, e non italiani. Comunque sia, va bene: preferisco essere accostato alle
migliori band che ci sono in Italia piuttosto che ad altri.
Giulio Casale, che aveva prestato il suo fondamentale contributo al tuo debutto, ha
ricoperto ancora una volta il ruolo di produttore artistico.
Per quanto riguarda i testi, Giulio – che ha una cultura enciclopedica – è stato un forte
appoggio e mi ha saputo indirizzare: anche se li ho scritti io, passavamo interi pomeriggi a
parlarne. Stessa cosa nella fase di composizione: buttavo giù le canzoni, gliele facevo
ascoltare e discutevamo sulle strutture. Oltre che un bravo artista, Casale è una persona
splendida e ha capito che doveva lasciarmi maggiore libertà sonora. Ho registrato diversi
brani già pronti e il mio album è diverso da quelli degli Estra, ma penso che in studio sia
importante la presenza di una persona di fiducia ed esperienza, di un punto di vista esterno.
La tua band, Madam, ha composto “Anch’io perduto ormai”.
Il mio progetto è trasversale. Dopo la pubblicazione del primo album, la band è subentrata
in maniera decisa. La scrittura è sempre delegata a me, ma alcuni arrangiamenti sono stati
decisamente influenzati dalla loro presenza. Dal vivo ci presentiamo addirittura come Marco
Notari & Madam, anche perché in precedenza mi è capitato di essere associato per via del
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nome da solista ad artisti quali Cesare Basile o Marco Parente, che stimo ma sono distanti
da me. Ho voluto omaggiarli e lasciar loro spazio: lo strumentale “Anch’io perduto ormai”
rappresenta il sogno di Cristiano e, dato che mi sono interrogato a lungo su quanto di lui ci
sia in me e il sogno è uno stato di incoscienza, mi sembrava giusto non parteciparvi. Sono
andato via dallo studio e, quando sono tornato, il pezzo era già stato inciso dal gruppo e
Giulio.
Come ti organizzerai per i prossimi concerti?
Il live è rock e, rispetto allo scorso tour, la componente elettrica è accentuata. Abbiamo
preparato uno spettacolo anche per i locali più piccoli e gli showcase: anziché sul classico
set acustico, punteremo maggiormente sull’elettronica.
Per la conclusiva “Arrivederci”, hai tradotto un testo di Mark Haddon.
Haddon mi sembra un Lewis Carroll moderno, e apprezzo il fatto che sia leggero e fiabesco.
“Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” è brillante, ma è stato un po’ svalutato dalla
critica in quanto bestseller. Nella raccolta di poesie “Il cavallo parlante e la ragazza triste e il
villaggio sotto il mare” ho trovato un bel testo, che trasmette speranza e un senso di
circolarità. Si parla della morte con serenità, nonostante sia un concetto che di solito ci si
rifiuta di trattare perché mette in discussione gli attuali fondamenti consumistici. Ho cantato
con la chitarra e il libro aperto, e in dieci minuti è nata la melodia della voce. Spero in un lieto
fine per la nostra società, anche non riesco a capire quale possa essere. Si arriva laddove si
era partiti perché il primo e l’ultimo brano sono i più solari del disco.
Mi pare che la tua situazione discografica sia ideale: etichetta indipendente e
distribuzione major.
Sono cocciuto e lo studio per il discografico è off limits: non mi piace far ascoltare le cose
prima che siano terminate né subire delle intrusioni perché ci deve essere una chiara
divisione dei ruoli. Gli artisti dovrebbero appropriarsi sempre più degli aspetti gestionali, sia
alla luce della situazione del settore sia per salvaguardare la musica. Essere davvero
indipendenti è il futuro. Il disco è lo spunto per i concerti, che hanno sempre più importanza
a scapito dei bassi risultati delle vendite.
Alle numerose immagini del libretto si contrappone la copertina bianca, che sembra
simboleggiare un futuro ancora da scrivere.
Il bianco può essere visto in maniera positiva, come punto di partenza per ricostruire, o
negativa, come attuale stato delle cose. L’auspicio è che il vuoto contemporaneo si riempia
negli anni a venire. “Babele” è una parola che rappresenta la distanza tra le persone, la
difficoltà di comunicazione e il vuoto in cui viviamo. All’inizio mi era stata proposta una mia
foto, ma ho evitato una soluzione del genere per rifiuto della figura tradizionale del
cantautore italiano.
La frase-chiave dell’intero lavoro sembra essere “Non voglio un movimento ma un
momento per me”.
È una frase, tratta da “Babele”, che ha varie implicazioni. L’individualità, non intesa come
affermazione del proprio ego, è importante. Le rivendicazioni collettive dei diritti sociali,
ovviamente, sono altrettanto fondamentali. Oggigiorno siamo all’interno di un meccanismo
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che fa sì che i movimenti abbiano il sopravvento sulle singole persone, mentre il movimento
dovrebbe essere formato e mutare continuamente sulla base dell’analisi critica dei suoi
membri. Nel ’68 si scoprì che, per magnificare un movimento, bastava renderlo di moda: una
strategia tuttora utilizzata. Le persone devono continuare a manifestare il proprio impegno
sociale, tenendo però presente che la libertà di pensiero individuale rimane il punto di
partenza per lo sviluppo di qualsiasi società.
Contatti: www.marconotari.it
Elena Raugei
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Merolla
Non è certo un giovane MC di belle speranze, Merolla: il suo “Kokoro”
(Italiapromotions/Edel), pur essendo un lavoro basato principalmente sul canone espressivo
del rap, si differenzia profondamente dalle uscite musicali hip hop che ormai da anni sono
quelle che monopolizzano la musica parlata invece che cantata.
Attivo da ormai vent’anni, dopo l’esordio coi Panoramics è diventato il turnista di fiducia per
quanto riguarda le percussioni per mezza, anzi, due terzi della scena partenopea: Bennato,
Senese, Zurzolo, anche e soprattutto Gragnaniello. Nel 2000 una collaborazione che a otto
anni di distanza si rivela ancora più significativa: quella con La Famiglia, il miglior progetto
hip hop mai sfornato da Napoli (e uno dei migliori in assoluto). Merolla incontra il rap, e la
faccenda evidentemente gli piace non poco. “Lì è nata la scintilla. Il passo successivo è stato
cimentarmi in prima persona. Sono sempre stato un amante del free style, ovvero del rap
improvvisato: con Lucariello ho cominciato a lanciarmi in lunghe jam session, facendo
definitivamente mio questo codice espressivo. Nel momento in cui ho lavorato a ‘Kokoro’, un
album in cui mi espongo in prima persona, sapevo che dovevo partire dal rap”. Però
appunto, qua non si ha a che fare col ragazzino ventenne affascinato dalla cultura
americana... “Vero, il mio è un rap molto particolare, come confezione sonora. Un po’ perché
il mio è un disco pieno di riferimenti. Sai, io arrivo dai Quartieri Spagnoli... una zona tra l’altro
dove il rap va a alla grande, è proprio uno dei codici della strada... ma è anche un posto
dove davvero puoi sentire di tutto, soprattutto se sei curioso. Ed è così scherzando ma non
troppo che io posso dire che i miei primi riferimenti musicali fin da piccolo sono Mario Merola
e Miles Davis! Dicevo insomma che in questo album ci sono elementi che di solito non trovi
in un disco hip hop. Per dire, tracce addirittura di musica araba, non solo funk, soul, ritmi
latini, melodia napoletana; e al di là di questo, mentre di solito il rap si adagia su musica fatta
dai campionatori, dalle macchine, nel mio caso è tutto al cento per cento suonato. Non
voglio con questo dire che è meglio quello che faccio io. Anzi, per certi versi ammiro la
purezza dell’hip hop. Perché se vuoi sederti allo stesso tavolo con protagonisti di altri generi
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musicali, un po’ ti devi annacquare, se non addirittura spersonalizzare... l’hip hop invece è
assolutamente orgoglioso della sua purezza. Non è la mia via, ma la rispetto
profondamente”.
La via di Merolla è musicalmente eclettica, mentre nei testi segue un filone ben riconoscibile
di analisi e critica sociale vista dall’interno. Napoli vista da un napoletano, insomma.
Denunciando tutti i lati negativi e i drammi di una città, ma con partecipazione e solidarietà
quasi, non con fredda condanna distaccata. Si è creato un certo rumore attorno ad una
presunta polemica con Saviano, vista una citazione di “Gomorra” nel testo di “Femmena
boss”. Chiediamo allora come stanno davvero le cose: “Saviano ha tutta la mia solidarietà,
questa è la prima cosa da dire. E’ assurdo che un ragazzo per il semplice fatto di aver scritto
un libro ora debba girare sotto scorta tutto il tempo. Ecco, questo sa fare il nostro Stato: non
risolve i problemi, mette le scorte! E pensa che così si risolve tutto. Il punto è che non
dobbiamo pensare che basti ‘Gomorra’. Non mi risulta che dopo l’uscita del libro i delitti di
mafia siano diminuiti, né il volume del suo giro d’affari. No? Significa che la via aperta da
Saviano con la sua coraggiosa cronaca di denuncia ora deve essere approfondita, affrontata
più in profondità”.
E, più modestamente e meno pericolosamente, la via di Merolla adesso qual è,
musicalmente parlando? “L’obiettivo principale è suonare dal vivo il più possibile. Un
obiettivo già di per sé non facile. A complicare il tutto, ci si mette il fatto che il mio è un disco
rappato in dialetto napoletano. Ma resto convinto che se qualcosa è fatto con cura, con
amore, con entusiasmo allora il messaggio non può non arrivare, se non altro sotto forma di
vibrazione. Le esperienze che sto avendo in queste settimane mi fanno pensare che sia
assolutamente così. Mi è capitato di suonare anche al Nord Italia, e l’accoglienza è stata
ottima, molto partecipata. Io come musicista sono un grande perfezionista, prima di entrare
in uno studio di registrazione mi concentro in modo maniacale sulla pre-produzione. Ma tu
puoi fare tutto il lavoro del mondo al computer,farlo bene per davvero, però l’imprevedibilità e
il calore della musica suonata live è impagabile!”.
Contatti: www.myspace.com/merollaciccio
Damir Ivic
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Morkobot
Hanno destrutturato la musica, hanno riscritto le regole per il nuovo suono che corromperà
ciò che verrà, hanno cancellato tutto ciò che di rock li ha preceduti. Ma i Morkobot non
sembrano soddisfatti: il terzo album, "Morto" (Supernatural Cat), chiusura di una trilogia
indefinita vita/morte/tempo è solo la via d'accesso ad uno dei tanti possibili futuri che
attendono gli alieni terrestri Lin, Lan e Len.
Quando un gruppo decide di celarsi dietro degli pseudonimi, si scatenano
considerazioni contrastanti, che vanno dalla presunzione al fascino. La vostra
biografia poi parla di marziani e dominatori di razze. Difficile prendervi sul serio.
Eppure la vostra musica è maledettamente seria. Come convivono questi due aspetti.
(Lin, Lan) Ti assicuriamo che non sono pseudonimi, anzi, ci rammarica il fatto che spesso
questa cosa non venga presa sul serio come dovrebbe. Non vediamo il motivo per cui storie
di fantasia apparentemente analoghe a quella di Morkobot quali le religioni organizzate,
Atlantide, il mostro di Loch Ness i cerchi nel grano, e molte altre ancora, debbano essere
prese sul serio con tanto di organizzazioni economiche alle spalle ed invece venga denigrata
l’origine di Morkobot. Comunque, in questo ultimo lustro siamo giunti alla conclusione che
non ha importanza che Lin, Lan, Len (i messaggeri di Morkobot) vengano presi sul serio,
l’importante è che vengano presi i loro dischi.
A leggere in giro, parrebbe che il rock sia allo spasimo da anni. Eppure ascoltando i
Morkobot, le cose non sembrano stare così. L’idea di utilizzare due bassi ed una
batteria (più un synth), anziché essere un limite, ha espanso i confini dei suoni. Come
dire, togliere per aggiungere. Come nasce questa estrosa esigenza?
(Lin) In parte è semplicemente una questione tattile, il manicone e le cordone del basso
danno molta più goduria rispetto alle cordine e ai manicini della chitarra, è un po’ come la
predilezione femminile per i grossi peni... credo. In parte (l’altra parte) è stata un po’ una
scoperta casuale, abbiamo provato e abbiamo immediatamente apprezzato il risultato, la
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risposta degli effetti allo strumento ha poi consacrato la scelta. Non escludiamo in futuro di
utilizzare strumenti del tutto differenti, ma sarà la noia a decidere ciò.
“Morto” è il terzo e definitivo capitolo di una trilogia, iniziata con “Morkobot” e
proseguita con “Mostro”. Tre album all’interno dei quali è passato sicuramente una
fetta di futuro del rock, sempre che questa definizione vi piaccia. In cosa “Morto” ha
cercato di essere un passo avanti e cosa ci riserverà il vostro futuro?
(Lin, Lan) Con “Morto” siamo riusciti finalmente a fare un pezzo unico e non a dare
l’impressione di aver fatto un pezzo unico. Se ascolti “Mostro”, invece, puoi notare come tutti
i brani siano legati tra di loro (ad eccezione della versione in vinile, sulla quale stiamo ancora
studiando il modo di collegare fisicamente l’audio del lato A con quello del lato B, ma non è
facile, il vinile è un supporto bidimensionale, attualmente stiamo effettuando nuovi
esperimenti per la realizzazione di un vinile di forma sferica), non c’è mai del silenzio per una
questione di editing, in realtà i pezzi sono stati composti singolarmente e poi “incollati” tra
loro per dare l’idea della continuità, riuscendoci solo in parte. La (de)composizione di
“Morto”, invece, parte dalla consapevolezza che per dare un certo tipo di compattezza a 40
minuti di robaccia bisogna pensarci sin dall’inizio e non all’ultimo momento. Noi purtroppo
abbiamo cominciato a pensarci quando eravamo quasi a metà. Il perché volessimo dare
questa idea di continuità/compattezza/consequenzialità/pezzo unico è tuttora sconosciuto
anche a noi.
Qual è la situazione ideale per proporre dal vivo la vostra musica? Esiste qualcuno
con cui vorreste dividere il palco in una esoterica jam session?
(Lin) Basta che ci sia un impianto audio... effettivamente ci vorrebbe anche un locale per
contenere l’impianto ed effettivamente servirebbe anche un sacco di gente per riempire il
locale che altrimenti, col solo impianto e noi, sembrerebbe un po’ vuoto... a meno che non
sia all’aperto, insomma va bene un po’ dappertutto. Ci sarebbero molte band con cui
sarebbe bello suonare, ad esempio un paio di volte abbiamo jammato con gli Ufomammut
ed è stato molto assordante. Per il futuro sarebbe interessante suonare con un gruppo folk di
pornostar slovene.
È opinione diffusa che la musica sia tornata indietro alle origini, quando a dominare
erano le singole canzoni e non gli album. Ad ascoltare le vostre lunghe divagazioni
sonore non si direbbe. Come chiudete il cerchio per sigillare lo spazio e dire che una
canzone è completata?
(Lin, Lan) Noi facciamo coincidere entrambi le cose: la singola canzone è l’album quindi
siamo destinati a dominare! Ahahahahaah (La risata ha una voce grossa ed è condita da
un’ingente quantità di riverbero naturale, Ndr)! La forma canzone è stata inventata per
adeguarsi alla durata dei un 45 giri. D’ora in poi la forma canzone dovrà abituarsi ad
assumere una nuova vita ed adeguarsi alla durata di un 45 giga.
David Kuser e Gerd Leonhard, nel loro saggio “Il futuro della musica”, hanno
ipotizzato per la stessa, un utilizzo privo di freni, come se fosse acqua che trova
spazio anche tra le rocce. Voi invece come vedere il futuro della musica, Se c’è un
futuro?
(Lin, Lan) Bellissima immagine! Noi come la vediamo... un futuro ci sarà sicuramente a
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meno che qualche meteorite non distrugga la Terra oppure, che ne so, si risveglino i
dinosauri e vi mangino tutti, sarebbe bello poter registrare i suoni di migliaia di dinosauri
carnivori che distruggono l’umanità: passi pesanti, urla impazzite, fauci dilanianti.
Sorgerebbe poi il problema che nessuno potrebbe mai utilizzare questa registrazione perché
tutti sono stati divorati dai mastodonti. A quel punto noi tre (gli unici sopravvissuti) non
sapremmo nemmeno cosa fare dell’audio raccolto dato che non esisterebbero più umani a
cui vendere questo supporto audio. Con questa soluzione però avremmo anche risolto il
problema del supporto audio di forma sferica. Il supporto sarebbe la Terra stessa. Non
sarebbe male quindi l’idea di vendere la Terra su altri pianeti... mmm... non male come idea.
Al momento l’idea più terra-terra (in tutti i sensi) sarebbe quella di mettere un pitchshifter
all’audio di “Jurassic Park” per ricreare tale suggestione e continuare la vendita di supporti
bidimensionale come abbiamo sempre fatto.
Contatti: www.myspace.com/morkobot
Gianni Della Cioppa
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Super Elastic Bubble Plastic
L’uscita del terzo album “Chances” (Super Fake/Venus), ad oggi il loro disco più riuscito,
offre l’occasione per intervistare i Super Elastic Bubble Plastic, gruppo in costante
evoluzione, capace di coniugare i suoni spigolosi e abrasivi del noise e del post-hardcore di
scuola albiniana con vibranti e raffinate soluzioni melodiche. Ne abbiamo parlato con Gianni
Morandini, bassista della band mantovana.
Ripercorrendo la vostra carriera si coglie un’evoluzione nel vostro sound: dal
tellurico e graffiante noise-core-blues dell’esordio “The Swindler” alle aperture
melodiche di “Small Rooms” e dell’ultimo “Chances”. Cosa ha prodotto un simile
cambiamento?
Il tempo. Le nove canzoni di “The Swindler” sono semplicemente i primi nove pezzi che
abbiamo scritto. In seguito abbiamo cercato di non ripeterci, di dare alle canzoni strutture più
intricate, di sperimentare qualche arrangiamento più articolato. E allo stesso tempo siamo
cambiati noi. Essendo il nostro progetto musicale basato più sull’amicizia che sulla volontà di
affrontare un preciso genere musicale, non ci precludiamo alcuna evoluzione, alcun
cambiamento di rotta, purché ci vada di suonare quella musica.
Che cosa rappresenta per voi il nuovo album dal punto di vista musicale e non solo?
Possiamo considerarlo il disco della maturità?
Si tratta di un disco più maturo dei precedenti, e suppongo che un eventuale prossimo
album lo sarà ancora di più, ma questo non significa nulla. Noi non rinneghiamo quello che
abbiamo fatto finora, non pensiamo ai primi dischi come ad opere immature. E poi il passo
dalla maturità alla vecchiaia è molto breve e noi non ci sentiamo affatto vecchi! Direi che le
considerazioni sulla maturità artistica non ci colpiscono. Ogni disco ha avuto il suo momento,
appropriato a quello che eravamo quando lo abbiamo scritto, e non per questo deve esserci
un disco giusto o sbagliato. All’inizio, quando avevamo scritto solo qualche nuova canzone,
avevamo pensato ad un doppio, metà elettrico e metà acustico. Ma poi abbiamo seguito
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l’istinto, abbiamo scritto seguendo l’ispirazione del momento, e alla fine è risultato un disco
in gran parte elettrico, e non molto dissimile dal precedente. Queste canzoni sono il meglio
dei SEBP odierni. Personalmente lo ritengo il nostro miglior disco. Questo per il lato
musicale. Per il resto, “Chances” è stato alla lettera il disco di un’opportunità colta da noi.
Quale significato date alla parola “Chances”?
Il titolo dell’album è stato deciso alla fine, pensando a una parola che potesse accomunare
tutti i brani. Ci siamo resi conti che ogni canzone raccontava di un’occasione, a volte colta,
altre no. Ad esempio, “Like The Sea” è l’occasione colta di un momento magico con una
donna. “Lover’s Heart”, “Bad News” sono occasioni perse. “Travis” è la storia di un tipo che
scopre di stare per morire, e coglie l’occasione per vendicarsi di tutte le umiliazioni che ha
dovuto subire in vita. “Young Shark” è la storia di una ragazza che decide di cambiare il
proprio modo di pensare e di relazionarsi con gli altri, trasformandosi in una persona
spregevole, per cogliere il successo. Ci siamo poi accorti che il disco stesso era per noi
un’occasione che avevamo colto. “Chances” è il frutto di un periodo difficile per il gruppo. Da
una parte venivamo da un disco, “Small Rooms”, che alcuni hanno descritto come un nostro
passo falso, anche se noi non ci troviamo nulla di cui vergognarci; dall’altra la presenza di
Gionata nel Teatro degli Orrori ha fatto pensare a molti che i SEBP fossero un gruppo finito.
Così ci siamo ritrovati come all’inizio, a dover dimostrare di nuovo a tutti, pubblico, stampa,
perfino il nostro management, e naturalmente a noi stessi, che eravamo vitali e che
potevamo ripeterci e addirittura migliorare. In questo senso “Chances” ha rappresentato per
noi un’opportunità da cogliere.
“Chances” è il primo disco che non si avvale della produzione artistica di Giulio
Favero, ex chitarra degli One Dimensional Man. Come mai avete scelto di
autoprodurvi?
Non volevamo che Giulio diventasse un marchio per noi. Lo stimiamo molto, come
musicista, tecnico del suono, come persona e come amico. Ma desideravamo cambiare.
Non sapevamo però a chi rivolgerci, pensavamo che l’impatto con uno sconosciuto avrebbe
anche potuto nuocere all’equilibrio nostro e delle canzoni. In fondo ci sentivamo abbastanza
sicuri di noi da pensare che potevamo registrarcelo da soli. Gionata (voce e chitarra, Ndr) in
questi anni ha imparato abbastanza da mostrarsi competente davanti al mixer; si è proposto
a me e ad Alessio (batteria, Ndr) come produttore e abbiamo pensato “perché no?”. Un vero
azzardo, se ci pensi; ma oltre che un’esperienza divertente e rilassata è stata per noi
un’orgogliosa attestazione di autosufficienza.
Nel vostro percorso musicale decisive sono state le esperienze con One Dimensional
Man e col Teatro degli Orrori. In che modo hanno inciso sulla musica dei SEBP?
Abbiamo sempre amato gli One Dimensional Man, la loro musica ha inciso sulla nostra, e
quando li abbiamo conosciuti è stato fantastico. Loro ci hanno espresso il loro
apprezzamento, che si è poi concretizzato col lavoro di Giulio nella registrazione dei primi
nostri dischi. Anche se noi ci teniamo a non essere emuli di nessuno, è ovvio che la musica
che ascolti si rifletta in quella che produci, e gli ODM sono sempre stati tra i nostri ascolti
preferiti. Poi è nato il Teatro degli Orrori, penso il miglior gruppo italiano, che ha contribuito
molto a far maturare (ma non invecchiare!) Gionata sia musicalmente che come approccio, e
tutto questo si è riversato anche nei SEBP. Abbiamo lavorato ai pezzi di “Chances” nelle
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pause del tour del Teatro. Però credo che la nostra musica abbia una sua specifica identità.
A parte il cantato molto diverso, l’atmosfera che crea la nostra musica è decisamente
diversa da quella del Teatro. A noi piace essere più eterogenei e un poco più melodici.
Non nascondo di aver trovato il vostro secondo album “Small Rooms” meno ispirato
rispetto al precedente e col senno di poi, messo a confronto anche con “Chances”,
appare il meno a fuoco della vostra discografia. Che ne pensate?
Ti do ragione ma solo in parte. Penso anche che non sia stato sufficientemente promosso, o
non nel modo giusto; e anche l’ordine della canzoni, e in generale la concezione del disco,
non è stata indovinata. Ma se confronto i singoli pezzi dei nostri tre dischi, trovo delle
ingenuità soprattutto in “The Swindler”. Mentre quelle di “Small Rooms” sono le canzoni
registrate meglio. Però è vero che certi arrangiamenti di “Small Rooms” potevano essere
migliorati. Soprattutto, ha inciso l’intenzione con cui i pezzi sono suonati. Forse all’epoca
della registrazione non eravamo a fuoco noi, ci mancava la determinazione e la voglia di
suonare che avevamo col primo e che abbiamo ritrovato con quest’ultimo. Forse eravamo
troppo concentrati sull’idea del fatidico secondo disco che doveva confrontarsi con l’esordio.
Ora, con più disincanto, ci siamo scrollati di dosso la pressione delle aspettative altrui.
Sono curioso di sapere cosa è accaduto di preciso in occasione della vostra prima
esibizione del febbraio 2001 in un centro di abbigliamento: una jam session di cinque
ore di pura improvvisazione rock. Avete corrotto il proprietario?
No, lui era un po’ folle, per lanciare il reparto aveva deciso di far esibire gruppi dal vivo, il
problema era trovare un gruppo che suonasse l’intero pomeriggio. Noi all’epoca ci
divertivamo a passare il pomeriggio in sala prove a improvvisare, a suonare a caso.
Eravamo perfetti! Così, grazie a un commesso che era nostro amico, ci siamo esibiti; è stato
allora che abbiamo dovuto inventarci un nome. Il nostro gruppo era un divertissement tra
amici, pensato senza impegno; ma dopo quel concerto abbiamo deciso di proporci ancora
dal vivo, sempre salendo sul palco senza nulla di pronto, improvvisando. Non avevamo certo
alcuna attidudine jazz, direi piuttosto punk, meglio ancora anti-musica. Tutti i gruppi hanno
qualcosa da proporre, noi non avevamo nulla tranne l’ostentazione di questo nulla, il tutto
all’insegna dello scazzo e del tirare sino a fine esibizione. E’ stato un periodo divertente, ma
ora non lo ripeterei; ora sento che abbiamo anche noi qualcosa da proporre! A proposito, il
proprietario del negozio non ha più ripetuto l’esperimento del live.
Quali sono i vostri ascolti attuali?
Oltre a “Chances”, che continuo ad ascoltare per ‘ripasso’, Unwound, Miss Fraulein, Johnny
Cash, Rites Of Spring, Dead Elephant, Pazi Mine, Melvins, Scritti Politti, Pop Group,
Screaming Trees, Duflan Duflan, Deliriohm, Franz Ferdinand, Led Zeppelin, Bob Dylan, Eels
sono i miei ascolti più recenti, piuttosto eterogenei.
Quali gruppi rock italiani ritenete meritevoli di attenzione?
Alcuni di quelli che ho appena nominato, come Miss Fraulein o Dead Elephant, a cui
aggiungo gruppi già affermati come Forty Winks, Red Worm’s Farm, Hot Gossip, e altri
meno affermati come Pig Tails, Dismorphic (nostri concittadini) o Pilar Ternera
(consigliatissimi!). Sono tutti gruppi che abbiamo avuto l’occasione di ascoltare o conoscere,
e ci sono piaciuti moltissimo. Non sarà come all’estero, ma anche il nostro Paese ha buona
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musica da offrire.
I vostri tre dischi da “isola deserta”.
Scelgo i miei tre dischi preferiti tra quelli che non possiedo (colpevole pigrizia): “Red” dei
King Crimson; “Stoner Witch” dei Melvins; “The Record” dei Fear.
Contatti: www.myspace.com/superelasticbubbleplastic
Gabriele Barone
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Amir
Paura di nessuno
La Grande Onda/Self
Things come and go... Abbiamo la fortuna di seguire le sorti dell’hip hop italiano diciamo
non dall’inizio ma almeno dalla prima emersione, quella che si può far risalire ai primi anni
90. Quasi vent’anni (maledizione, son mica pochi), e in tutto questo tempo abbiamo visto
decine di ascese e altrettante discese. Il copione si ripete. E non parliamo tanto di storie
singole, quanto in generale di una scena che, pur fra scazzi litigi interni differenze bisticci, si
è sempre sentita tale. E quindi: Amir è uno di quelli che era stato tirato su dall’ultima ondata
di piena, quella di Fabri Fibra e di Mondo Marcio, e messo quindi sotto contratto da una
major (la Emi) che pensava di aver trovato il filone giusto, da sfruttare in automatico – prendi
il rapper, trovagli un punto più sociale che artistico qualificante,e vedrai che si vende. Non va
così, non è così liscia. Lo ha vissuto sulla propria pelle Amir: perché è stato trasformato più
in un caso di studio sociologico-giornalistico (il rapper immigrato di seconda generazione),
cosa che lui non è, e perché si è ritrovato in una posizione troppo alta per i suoi mezzi
artistici. Il risultato, “Vita di prestigio”, soffriva di scarsa consistenza, o meglio – consistenza
posticcia. Ora che la Emi lo ha scaricato, Amir ha continuato per la sua strada aggiustando il
tiro. Bravo, anche perché “Paura di nessuno” è davvero un passo in avanti: più calibrato, più
sentito, più autentico. Non è però un lavoro che esca tanto dai canoni di genere, nei testi
come nelle produzioni: poco significativo per orecchie esterne alla scena hip hop. Per chi
invece è all’interno di essa, si parla di un disco sì ben fatto ma che non dovrebbe lasciare
particolare traccia se riascoltato fra un anno.
Contatti: www.amirpauradinessuno.blogspot.com
Damir Ivic
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Aphelion
Franticode
Lizard/Btf/Eventyr
È lecito oggi, parlare, scrivere, ma soprattutto suonare rock strumentale? O almeno un certo
rock strumentale, che non sia fatto di post o misto metal ambient, due trend che ancora
sembrano mantenere identità e integrità, alle soglie della chiusura di questo primo decennio,
targato anni duemila. Sembrerebbe proprio di sì, alla luce di quanto di buono proposto da
questi Aphelion, che con “Franticode”, riescono a superare quel muro di indifferenza che da
sempre mi assale quando mi trovo davanti a produzioni strumentali che pongono alla base la
tecnica per lasciare in un angolo la melodia, ma meglio dire le canzoni. In questo senso il
quartetto veneto ha saputo trovare il giusto equilibrio, non mancano i virtuosismi, tra i solchi
dei sette lunghi brani che si dipanano nei quarantacinque minuti di musica, ma la sensazione
è che non tutto sia funzionale al sensazionalismo, il metal fusion con reminescenza di
progressive (praticamente un mostro a tre teste, per i lettori abituali del “Mucchio
Selvaggio”), è sviluppato con gusto e strappa l’applauso. Lo strumento che meglio alimenta
l’album è la tastiera multiforme di Alessandro Bertoni, che primeggia sul trio
chitarra-basso-batteria di Matteo Gasparin, Sebastiano Pozzobon ed Enrico Pintonello. A
dar altro lustro a “Franticode” contribuiscono una registrazione di ottimo livello, l’apparizione
nel pezzo “Clouds Over Tharsis” del chitarrista Alex Stornello, ma soprattutto il lavoro in fase
di missaggio di Derek Sherinian, tastierista di casa Dream Theater. E, a questo punto, chi
doveva capire ha tutte le informazioni necessarie.
Contatti: www.aphelion.tv
Gianni Della Cioppa
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Avvolte
Avvolte Kristedha
K-Factor
Nuova fatica per i torinesi Avvolte Kristedha, che rispetto al precedente “Ama-n-tide” (2001)
hanno perso per strada la seconda parola di quella che era la loro storica ragione sociale,
lasciando al titolo del disco il compito di ricordarla per intero. Questo, ci sembra, nel tentativo
di mantenere saldi i legami col passato, guardando però al futuro senza che il peso di
quanto successo finora si trasformi in un’ingombrante zavorra. Primo frutto di questo nuovo
corso è un lavoro – co-prodotto da Franz Goria (Fluxus, Petrol) – che si muove sulla
falsariga di un rock in italiano di volta in volta sanguigno e roccioso oppure più liquido ed
evocativo. E se, nel primo caso, non mancano i riferimenti al (post-)grunge più acido e a un
passato non troppo distante dai lidi metal, è nel secondo che la formazione mette in campo
le idee migliori, rivelandosi capace di creare scenari sonori sospesi e avvolgenti. C’è
qualcosa degli Afterhours tra questi mircosolchi, e qualcos’altro dei Marlene Kuntz, rispetto
ai quali però gli Avvolte paiono a tratti mancare di profondità, quasi come se non riuscissero
ad andare oltre la superficie (musicale, ma soprattutto lirica) delle canzoni, che quindi si
fanno sì ascoltare senza troppi problemi, ma alla fine non lasciano tracce significative del
loro passaggio. Discorso che vale anche per i due brani meno “allineati” della scaletta,
ovvero la strumentale ambientale “Svaria II” e l’acustica “La memoria, il canto e la marea”,
che se non altro mostrano come gli orizzonti del quartetto siano più ampi di quanto altrove
potrebbe apparire.
Contatti: www.avvolte.it
Aurelio Pasini
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Califfo De Luxe
Un anno in un giorno
La Stanzetta/Goodfellas
Certo: è difficile trovare sorprese e sperimentazioni in un gruppo dedito allo ska. Però
intanto si è un po’ spenta l’ondata del decennio scorso, quella in cui praticamente anche la
casalinga di Voghera si cimentava a mettere su un demo o un disco autoprodotto ska,
incastonando poi le tre lettere nel titolo del disco, o nel nome stesso del gruppo (facendo i
giurati in piccoli concorsi rock in giro per il paese, “Punkina skassata” come nome della band
o del loro disco l’avremo trovato non meno di cinque volte). I Califfo De Luxe mettono “ska”
nella loro ragione onomastica sociale, ma ci aggiungono anche “orchestra” (e in effetti sono
in otto, organico più che robusto) e “cabernet” (da bravi veneti, un richiamo vinicolo è
irresistibile). Oltre a questo, aggiungono anche una penna discreta; alcune loro
composizioni, vedi prima di tutto “Etere in pillole” e “Strade”, non sono per nulla male. Certo,
come si diceva bisogna mettersi l’anima in pace sul fatto che un album ska è alla lunga
ossessivo nel suo incedere quasi sempre in levare e nell’avere proprio quel tipo di
arrangiamenti per la sezione fiati, vero; e i Califfo De Luxe seguono abbastanza strettamente
questi canoni. “Un anno in un giorno” comunque nel suo genere rientra nella fascia buona di
prodotti. Manca ancora un po’ di compattezza nell’esecuzione strumentale e le parti vocali
devono essere fatte in modo un po’ più incisivo per entrare nella Champions League dello
ska (quella che da noi giocano i Bluebeaters, per intenderci), ma sono sfumature, non vallate
insormontabili. Non male, insomma.
Contatti: www.califfodeluxe.it
Damir Ivic
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Numero Gennaio '09
Ciacca
India ad ovest
Ciacca/Self
Non c’è bisogno di essere (di fingersi) per forza eroi del ghetto. Non c’è bisogno di essere
(di fingersi) per forza protagonisti di una vita difficile. Non c’è bisogno di essere (di fingersi)
per forza reduci da una infanzia e da una adolescenza accidentata. ...continuate a compilare
a piacere, ciò che importa è che il messaggio sia chiaro per tutti i rapper o aspiranti tali qua
sul patrio suolo. Ecco, questo è il lascito migliore di “India ad ovest”, esordio discografico da
solista di un MC che in realtà è attivo nella scena hip hop nazionale da tipo quindici anni. C’è
la meravigliosa scorrevolezza della normalità, in queste quattordici tracce. Normalità nel
senso che quello che si sentono sono storie che non hanno nulla di eccezionale o
straordinario ma sono invece il diario perfetto di una vita media – che poi è quella che vive il
99,9 percento delle persone. Una delle cose che affossa da sempre l’hip hop di casa nostra
è la pretesa di una sterminata platea di persone normalissime cresciute nella tranquilla
provincia italiana di essere una volta indossati i panni del rapper dei cavalieri dell’apocalisse
del Queens o del Bronx, con rime di conseguenza. Così non si va da nessuna parte. Invece
Ciacca, al secolo Dario Zugno, ha l’accortezza, la lucidità e l’umiltà di non fare testualmente
parlando il passo più lungo della gamba e della propria vita. Il rischio è quello di essere
banali; ma se, come in questo caso, si ha proprietà di linguaggio e di introspezione, allora il
gioco riesce e si fa ascoltare piuttosto volentieri. A maggior ragione considerando che pure
la parte musicale di questo album non è male, già. Vari sono i produttori (tra cui il sempre
bravissimo Shocca) ma l’amalgama è buono, così come la qualità media, e soprattutto non
c’è il tentativo di inseguire suoni di matrice commerciale americana, cosa che in Italia si fa
sempre più spesso nelle faccende di rap.
Contatti: www.ciacca.net
Damir Ivic
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Numero Gennaio '09
Claudio Sanfilippo
Fotosensibile
Maxine/Vaporosa
Personaggio dal corposo e lungo curriculum, il milanese – da qualche anno trasferitosi nel
Pavese – Claudio Sanfilippo si è sempre mosso ai margini di qualsivoglia scena e lontano da
qualsiasi bisogno di legittimazione da parte del mondo discografico che conta. E quando
parliamo di corposo curriculum, intendiamo dire che ha scritto canzoni per Mina e per l’amico
Eugenio Finardi (sul quale ha pure scritto un libro), e che nel 1996 si è aggiudicato il Premio
Tenco per il miglior esordio con “Stile libero”. Questo nuovo album (il quarto in più di dieci
anni di carriera “emersa”), “Fotosensibile”, è l’ennesima manifestazione di uno stile elegante
e mai banale, sospeso tra atmosfere che si fanno sofisticate senza mai diventare leziose,
rimandando in parte a certa canzone americana (James Taylor tra i riferimenti storicamente
dichiarati dal Nostro) e in parte a coloriture sudamericane targate Veloso e Chico Buarqe e
una schietta poetica del quotidiano. Con l’apice nella cristallina “Rispetto e amore”, il disco
scorre piacevolmente, facendoci sorvolare su qualche forzatura “tecnologica”, non sempre
necessaria a parere di chi scrive visto il carattere positivamente “demodé” della scrittura. A
completare l’uscita, un DVD che racconta la genesi del disco: in questo caso il possibile
effetto autocelebrativo insito in un’operazione del genere è sventato dalla grande umiltà e
dal sense of humour del soggetto, che si racconta e mostra in divenire le proprie creazioni.
Contatti: www.claudiosanfilippo.it
Alessandro Besselva Averame
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Numero Gennaio '09
Deasonika
Tredicipose
Edel
Album numero tre – anzi quattro, se contiamo l’omonima antologia di riletture semiacustiche
del 2006 – per la formazione milanese, che all’attivo può anche vantare una partecipazione
a Sanremo. Una scelta, quella di prendere parte alla kermesse ligure, che magari all’epoca
poteva aver fatto storcere il naso a qualche purista, ma che col senno di poi appare in
perfetta sintonia con quello che sembra essere l’intento del quartetto espanso (ché ormai è
da considerarsi un membro aggiunto fisso anche il produttore Marco Trentacoste): ovvero,
raggiungere un pubblico quanto più possibile ampio – e quindi generalista – senza però
mettere in secondo piano la qualità e lo spirito rock della proposta. Un terreno minato, dal
quale è difficile uscire illesi: che Max Zanotti e soci se la cavino solo con qualche
escoriazione è segno di personalità tutt’altro che disprezzabile. Non è da tutti infatti riuscire a
coniugare melodie a presa rapida e “adolescenziali” con una robusta epicità da stadio (a
metà tra gli U2 e una versione più muscolosa dei Coldplay) senza cadere nell’improbabile o
nel ridicolo. La cura nei suoni, la gestione sapiente delle dinamiche, la potenza di certi
passaggi e la solidità della scrittura (anche per quanto concerne i testi) permettono di portare
a casa il risultato; e, se gli spettri dell’ultimo Francesco Renga e degli ultimi Keane talvolta
sono proprio dietro l’angolo, per lo meno la loro presenza è passeggera e non troppo
ingombrante. Se l’idea di un possibile ponte tra l’underground e i network più mainstream
non risulta troppo indigesta, allora vale la pena dare un ascolto a “Tredicipose” e, magari,
dare anche un’occhiata al DVD allegato, contenente un cortometrtaggio (“Dovunque
adesso”) di Simone Covini musicato dagli stessi Deasonika.
Contatti: www.deasonika.it
Aurelio Pasini
Pagina 31
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Numero Gennaio '09
Gadamer
Gadamer
Altrisuoni
Gadamer è un duo costituito da Andrea Manzoni e Zeno Gabaglio: il violoncello del ticinese
Gabaglio ha frequentato a lungo l’Italia interagendo con le situazioni più disparate, suonando
tra gli altri con Garbo, Xabier Iriondo e Gianni Maroccolo, mentre il biellese Manzoni,
eclettico pianista con studi classici alle spalle e attivo soprattutto nel circuito
dell’improvvisazione jazz, ha alle spalle un curriculum altrettanto fitto ed espanso. Un
incontro in campo neutro che funziona molto bene, dialogando con la tecnologia (le derive
quasi drum’n’bass di Methode e della gemella Martinsson, ospite la batterista Chiara
Rizzolo, sono inequivocabili in tal senso, anche se non rappresentano il meglio del disco,
che per chi scrive se ne sta altrove) oppure disegnando con grande efficacia dialoghi pacati
tra tastiere e violoncello, lasciando spesso spazio alle fughe delle prime (i saliscendi di
pianoforte di “Gate”, ad esempio) e avventurandosi, attraverso il suono manipolato e filtrato
del secondo, in tessiture ambient e approdi elettronici che ricordano certi pionieri del
krautrock. Le composizioni si muovono entro un ampio spettro di soluzioni, cambiando
sovente umore e colori in corsa, come accade nella toccante “Niemandsrose”. Un disco che
flirta col silenzio ma tiene sempre acceso l’interesse di chi ascolta, evitando sia l’estremismo
sonoro che gli eccessi decorativi e scontatamente melodici, tanto che pure un brano
potenzialmente ruffiano come Chiara si sviluppa con mirabile equilibrio e minimo sfoggio di
abilità.
Contatti: www.gadamer.biz
Alessandro Besselva Averame
Pagina 32
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Numero Gennaio '09
Il Cielo di Bagdad
Export For Malinconique
RecBedroom
Trentatré minuti di estatiche, nordiche effusioni pop-post-rock possono bastare per
consacrare un piccolo gioiellino indie-rock nazionale, che meritatamente e non casualmente
sta suscitando un certo credito e interesse anche all’estero. Un disco non è mai stato una
questione di minutaggio, molto meglio cercare di coglierlo nella sua talentuosa leggerezza
come nel caso di “Export For Malinconique”, colorato biglietto da visita, sin dalla sua
suggestiva grafica naïf-psichedelica, dei casertani Il Cielo di Bagdad. Malinconia da
esportazione dunque, sciorinata in nove piccoli deliziosi atti per lo più strumentali (la voce,
sporadica, rimane solo un effetto sonoro ai margini), fra dolci rintocchi di pianoforte, algidi
fondali di synth, elettronica discreta e gentile, luminose scie chitarristiche shoegaze ed
enfatici crescendo impreziositi da violino, glockenspiel, organo e tromba occasionale. Tutto
molto toccante in filmica sequenza, e quasi pare di scorgere immagini di ghiacciate lande
islandesi, tanto per citare un nobile riferimento estetico (riscontriamo anche talune affinità
con gli apprezzati genovesi Port-Royal). Ma l’anima se ne sta al calduccio, lieve e di
rassicurante personalità, trovando modo di ispirarsi pure a Gigi Meroni (“Mr. Butterfly”) e a
Diego Armando Maradona (“Sunday Afternoon”). Ed è sempre una questione di sentimenti,
emozioni e ricordi, che scorrono punteggiati da tintinnii e gocciolii di piano, come brividi sulla
pelle.
Contatti: www.ilcielodibagdad.it
Loris Furlan
Pagina 33
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Numero Gennaio '09
Le Fragole
La piccola enciclopedia del bosco - Vol. I
Real Sound Record
Mentre è quasi pronto il volume 2, ci occupiamo solo adesso del primo episodio di un
“concept” uscito un po’ in sordina. Le Fragole, nate dalle ceneri dei Radio KO, propongono
un cantautorato giocoso e poppeggiante, tra Belle & Sebastian e i Beatles più ludici - “La
favola degli orchi” cita esplicitamente moduli e melodie beatlesiani - ma d’impronta senz’altro
italica (Battisti, Rino Gaetano, Baustelle, spruzzate di lounge-cocktail).
In generale su tutti i brani di questo parco tematico è stesa una patina naïf, il più delle
volte piacevole. Una nota di giovanilistico entusiasmo, ma anche di attitudine visiva, quasi
cinematografica.
“Qualcuno lassù ci ama” porta avanti un’idea di freschezza pop baustelliana, idea ripresa
anche in “Arance a mezzanotte”, cantata (come l’altra) da Laura Cenesi, e vestita di
intimismo civettuolo. “2 agosto ‘80” rivisita la strage di Bologna da una interessante
prospettiva privata: quella di un uomo la cui donna, morta nell’attentato, era alla stazione
all’insaputa di lui (“chi aspettavi quel giorno in stazione?”). La regola è la semplicità finale
(esemplare “Colori”, scandita con decisa delicatezza), ma a volte (per esempio nella lunga
“Quasi suicidio sulle scogliere di Moher”) le soluzioni armoniche sono un po’ stanche.
Una copertina ch’è una mappa illustrata aiuta l’ascoltatore a muoversi tra le tappe-canzoni.
All’ensemble di Borgo Panigale, guidato dal terzetto Marco Anderlini-Simone
Rusticelli-Marco Tascone, non fanno certo difetto l’inventiva e la grazia e siamo in curiosa
attesa delle prossime puntate. Intanto lasciamoci rigirare nella testa lo slogan freak “non devi
permettere all’immaginazione di andare a braccetto con la preoccupazione”.
Contatti: www.lefragole.net
Gianluca Veltri
Pagina 34
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Numero Gennaio '09
Luca Bassanese
La società dello spettacolo
Buenaonda/Venus
Un progetto coraggioso, quantomeno nelle intenzioni, quello sviluppato dal cantautore
vicentino Luca Bassanese in occasione del suo secondo album: un ciclo di canzoni
intervallato da brevi letture – affidate la voce recitante di Vittorino Curci – e ispirato per
l’appunto, come rivela il titolo stesso, a “La società dello spettacolo” di Guy Debord. Non
pensate ad un lavoro di estrazione concettuale però, né ad una verbosa trasposizione
musicale del testo del pensatore francese: l’autore veneto ha bene in mente il concetto di
“popolare” quando imbastisce le proprie canzoni, immergendole in ambientazioni folk intrise
di italianità ma allo stesso tempo in grado di guardare oltre, tra spunti circensi e suggestioni
balcaniche (un’influenza sancita già nel disco precedente, che ospitava la Kocani Orkestar).
A questa ampiezza di sguardo si aggiunge una personalità vocale di un certo rilievo, in
grado di toccare vari registri e di coprire tutte le parti del coro (in “Maria”, ad esempio, tutte le
voci sono sue). Quello che manca un po’, facendo le pulci ad un lavoro comunque assai
valido nel suo genere, è forse un approccio del tutto originale: l’impianto teatrale dell’insieme
non rappresenta certo una novità, e i lampi di genio si inseriscono in un panorama molto più
tradizionale (non nel senso di tradizione in senso stretto ma di conservazione di schemi
preesistenti) di quanto l’impulso iniziale non sembrasse promettere. Il talento e l’efficace
capacità affabulatoria, invece, conditi con la giusta dose di istrionismo, sono elementi già
consolidati dell’arte del Nostro.
Contatti: www.lucabassanese.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 35
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Numero Gennaio '09
Martinicca Boison
Sovrapensieri
Materiali Sonori/Venus
Che cosa fanno i Martinicca Boison? Una domanda a cui, a nostro avviso, la risposta più
calzante è “canzoni”. Perché al centro dell’universo sonoro dell’ensemble fiorentino non vi
sono riferimenti di genere precisi, ma, appunto, le composizioni, con le loro storie e le
atmosfere che, di volta in volta, evocano. Cedrto, non mancano rimandi o punti di contatto
con altre esperienze, solo che i sette non si fanno vincolare in alcun modo da essi, ma se ne
servono per sottolineare al meglio gli umori della loro musica e delle loro parole. Ascoltando
questa loro opera seconda, ottimamente prodotta da Enrico “Erriquez” Greppi dalla
Bandabardò, ci si imbatte quindi tanto nella chanson d’Oltralpe quanto in istanze elettriche
più vicine al rock, tanto in sonorità desertiche quanto in delicati paesaggi cameristici e rapidi
accenni reggae, passando per l’Oriente come per i Balcani e per l’Irlanda. E se il centro di
gravità dell’intero lavoro sembra essere la toccante e multiforme “Kairòs”, anche “Con la biro
sulle mani”, “Rainbow song in Bosnia” e “In The Mood For Love” – solo per limitarsi a
qualche esempio – regalano intuizioni melodiche da primi della classe, mettendo al
contempo in luce un gusto raro per gli arrangiamenti e gli intarsi strumentali. Tra ironia e
profondità, “Sovrapensieri” si rivela così un disco davvero notevole, ricco com’è di stimoli,
idee e, appunto, buone canzoni. Rigorosamente d’autore.
Contatti: www.martiniccaboison.it
Aurelio Pasini
Pagina 36
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Numero Gennaio '09
Michelangelo Mineri & Max Cosmico
La musica differenziata
Latlantide
Consorzio di due musicisti che hanno eletto Rimini come base, Cosmico & Mineri è una
proposta di “musica differenziata”. Spavalda e spiritosa, la musica del duo nasce dallo
sconforto e dalla precarietà. Per intenderci, ci si muove dalle parti di Elio e le Storie Tese. Il
nonsense garage di “L’invasione dei cazzabuboli” si avvicenda all’irresistibile caricatura del
romanticismo di Mineri in “Garibaldi” (“1-2-3 stella questa vita è bella/ 1-2-3 stella questa vita
è strana/ e nonostante tutto tu sei sempre quella/ e nonostante tutto sempre più puttana”).
Le firme degli otto pezzi sono più o meno equamente divise dai due soci, con l’inserto
dell’unica cover “Pablo”, De Gregori di rimmeliana memoria, rifatta in rock’n’roll e con un eco
sfottente alla Pelù (“e il padrone non sembrava poi cattivoooaaauuu”).
La citazione della “Musica differenziata” non è sfacciata né sbeffeggiante. Max Cosmico si
definisce “primo cantautore della generazione 1000 euro” e lo conferma nel sarcastico “1000
euro blues”, che ricorda, forse anche per la prepotente presenza della chitarra slide,
corrosive esibizioni del primo Edoardo Bennato con Roberto Ciotti. Certo Bennato torna
anche con “Ricordati che”, dalla partenza un po’ stile-Doors, mentre un sapore di quel che
resta dei sogni viene rimasticato amaramente in “Cent’anni”, condotta da un bel piano
Rhodes, subito corretto dal gusto per il calembour (“Io che coltivavo la vita/ avevo l’insalata/
maramao perché sei morto”).
Come avviene nelle società in declino, le verità più vere arrivano dai comici e dai satirici
― e questo a loro modo sono Mineri e Cosmico, oltre che musicisti. Messaggio finale
affidato a “Repubblica banana”: “ha affermato di lunedì/ poi ha smentito al martedì/ l’hanno
frainteso di mercoledì/ il giovedì non è mai stato lì”. Indovinate di chi si parla.
Contatti: www.latlantide.it
Gianluca Veltri
Pagina 37
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Numero Gennaio '09
Movie Star Junkies
Melville
Voodoo Rhythm/Goodfellas
Il termine “garage” risulta un po’ fuorviante per descrivere la proposta di questi cinque
piemontesi, essendo la loro musica aperta anche ad altre influenze quali il surf, il folk e
atmosfere di sapore western. Una musica, quindi, di natura “apolide”. I Movie Star Junkies
pubblicano il loro primo album sull’etichetta-simbolo del garage-trash europeo, la svizzera
Voodoo Rhythm. Tuttavia vantano già una discreta esperienza alle spalle: concerti – si dice
infuocati - sparsi per l’Europa e una discografia che conta una cassetta sulla nostrana No=Fi
Recordings, due 7” e un 10” a metà con i francesi Feeling Of Love. “Melville”, registrato
all’Outside Inside Studio, è un disco formidabile e bellissimo, di sicuro uno dei migliori album
rock’n’roll del 2008. È un concept dedicato allo scrittore Herman Melville, ai suoi viaggi e alle
sue avventure. Tema dominante è quello del naufragio, non solo fisico ma anche spirituale.
La musica è un ancestrale, malsano e alcolico blues-punk dalle venature noir. D’altra parte
se i numi tutelari della band si chiamano Birthday Party e Gun Club un motivo ci sarà. Basta
ascoltare “Dead Love Rag”, un r’n’r virato surf e dal retrogusto western, per farsi un’idea. Ma
non sono da meno le altre undici canzoni, dal fascino oscuro e sinistro e percorse da una
vena sottilmente malinconica. Chitarre fuzz, tastiere vintage e voci “cavernose” sono gli
elementi trainanti del loro suono. Chiude in bellezza la singolare “Melville Brass Version”,
arrangiata da ben nove elementi che compongono la “banda rumorosa bovesana”.
Contatti: www.myspace.com/moviestarjunkies
Gabriele Barone
Pagina 38
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Numero Gennaio '09
Nigro
Orientato a sud
MK Records
Chissà perché, le musiche del sud fanno venire in mente il mondo intero. Sono musica del
mondo, che appartiene al mondo. Forse perché la gente del sud ha contagiato la terra in
lungo e in largo: ha addosso la condanna del migrare, del portarsi dietro le note della
nostalgia.
La fisarmonica di Pasquale Nigro, 26enne di vasta esperienza al suo debutto solista, è
capace di disegnare scenari di grande suggestione, di delineare un pensiero meridiano con
l’utilizzo di una tradizione sostanzialmente non rivisitata. Dopo aver suonato nei Rosaluna e
nel Sàzizz’ Trio, nel Parto delle nuvole pesanti e nel progetto Ramsàzizz, Nigro ha radunato
intorno a sé un gruppo virtuoso e funzionale, affiancato nella produzione artistica dal
Mandara Gennaro De Rosa, impegnato a percuotere tamburi d’ogni tipo (darbouka, bendir,
tamburi militari, bongos, congas, ecc.). Come in una colonna sonora dei Sud, Nigro ci porta
nei vicoli di Montevideo e ai sobborghi di Lanús, con “Milonga des amantes” ed “El
barrio”; gli basta un minuto per trasportarci in un pessimo locale del Quartiere francese di
New Orleans nel cameo rag-time di “Giocolieri”.
Coadiuvato da ottimi contraltari melodici ― il violino di Piero Gallina, le chitarre di
Massimo Garritano e Franco Ierardi, il clarinetto e il sax soprano dell’altro Mandara
Gianfranco De Franco ― il fisarmonicista di Cariati imbastisce canti di lontananza
askenazita nella festa drammatica “Heiser bulgar”, per poi inoltrarsi ai confini dell’Asia in
“Lammabede”. Insomma un viaggio guidato, dalla Lousiana a Srebrenica, da Buenos Aires a
Varsavia. Tutto strumentale, a parte il brano finale, cantato da Cinzia Cerenzia su testo di
Mirco Menna (cantante del Parto), che è il manifesto d’intenti: “Quando i giorni del Nord si
fanno gabbia di gelo/ una rondine non può che ritornare/ orientata a Sud/ [...] è dolce amare
e amaro assai e di più/ Sud”.
Contatti: www.mkrecords.it
Gianluca Veltri
Pagina 39
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Numero Gennaio '09
Raven Sad
Quoth
Lizard/Btf/Eventyr
È il futuro, bellezza. Quel futuro che si incunea ovunque ha immediatamente trovato nella
musica terreno fertile e menti aperte. Nasce così un progetto artistico, con un sodalizio
virtuale a base di file multimediali, che viaggiano nell’etere. Si sono mai incontrati i
protagonisti dei Raven Sad, ovvero Samuele B. Santanna, cantante, oltre che mente
operativa e creativa del gruppo e quel Marco Tuppo, che ricopre il medesimo ruolo nei Nema
Nika? L’ho chiesto a quest’ultimo, ma non ricordo la risposta, comunque ininfluente, visto
che tra questi solchi ha avuto il compito di ampliare gli orizzonti e dare nuova luce a spettri
sonori di casa ambient intimista – ma non fermatevi sulle definizioni, non contano –
interessanti, ma forse non come avrebbero potuto essere. E così Marco, in un gioco di
decompressione ed elaborazione, ha teso ed allargato idee e suoni originali, senza cambiare
nulla o forse tutto. Cosa ascoltiamo in “Quoth”? Un tappeto sonoro avvolgente, cantati tenui
e vellutati, passaggi soffusi e quella lentezza che non sembra appartenere, meglio dire
interessare, più a nessuno nel panorama musicale odierno e che invece tra queste dodici
tracce, funziona benissimo. Appare incredibile riconoscere in “Talk To Me”, l’arpeggio di
“Free Bird” dei Lynyrd Skynyrd, citazione certamente non voluta, ma che dimostra quanti
richiami siano possibili, in qualsiasi genere. Una citazione che qui assume un tono
malinconico assolutamente seducente. Piccoli raggi di Mogwai e Appleseed Cast, si
accavallano con rimandi di Elbow e Flaming Lips, senza mai cercare una sola coppia di note
ruffiana. E l’effetto funziona a meraviglia.
Contatti: www.lizardrecords.it
Gianni Della Cioppa
Pagina 40
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Numero Gennaio '09
Smoke
Routes
Smoke/Edel
Secondo disco, e decisivo salto in avanti qualitativo per gli Smoke, progetto nato (in parte)
dalle ceneri dei Reggae National Tickets. “Routes” infatti è uno dei migliori dischi di impronta
giamaicana mai usciti in Italia. Merito anche, ed è quasi un paradosso, di un artista che per
molto tempo non è stato certo noto per le sue frequentazioni in levare, quel Sean Martin che
è uno dei veterani della scena hip hop nazionale e che solo dopo molti anni si è scoperto
ottimo cantante, mai sopra le righe ma con una educata e calibrata propensione soul. È lui la
marcia in più di un gruppo che dalla sua ha comunque già una proprietà di linguaggio
musicale ad altissimo livello. Livello internazionale, diciamo subito chiaramente le cose come
stanno; è davvero uno di quei casi in cui ascolti il disco ed, ehm, non diresti mai che è un
lavoro al cento per cento italiano, e non solo per la presenza del cantato in inglese. Sarebbe
curioso vedere fino a dove potrebbero arrivare gli Smoke se si divertissero ad uscire un po’
dalle vie maestre del reggae. Contiamo proprio lo facciano; ma non c’è fretta, per intanto
possiamo goderci una quindicina abbondante di tracce tutte più che valide per ideazione ed
esecuzione, con la punta assoluta in “Wasn’t It You”. Arrangiamenti, toni, copertura
armonica e melodica degli spazi: tutto da manuale, e col giusto calore per non essere solo
un semplice esercizio di stile. Bravi, bravi davvero.
Contatti: www.smokeroutes.com
Damir Ivic
Pagina 41
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Numero Gennaio '09
Soul Of The Cave
Asphalt
UK Division
La globalizzazione discografica è realtà da un bel po’ di tempo, e tuttavia è sempre un
piacere notare che fuori dall’Italia si accorgano di noi. Stavolta è toccato ai Soul Of The Cave
che da Roma arrivano ad esordire addirittura nella “perfida Albione”, per UK Division, con
“Asphalt”. Ed effettivamente il sound di questi quattro ragazzi, insieme dal 2004, ha un
sapore decisamente internazionale, capace di amalgamare le influenze più diverse un po’
come riesce a band quali i Biffy Clyro, non a caso inglesi. Troviamo infatti, un esempio?
“Dead Dogs”, il gusto per il tempo asimmetrico ed il cambio di ritmo tipico del rock più
recente, ma le atmosfere serrate che si fanno via via più rarefatte di “Cloro” ci riportano
subito alla mente gli anni 70 e i loro “dinosauri”. Anche alla luce di quanto detto finora la
scelta per le liriche è caduta sull’inglese, e a giudicare dai due brani qui cantati in italiano ci
pare la decisione migliore. Piuttosto il consiglio potrebbe essere quello di osare di più con il
canto: l’idea delle due voci va bene, ma bisognerebbe trovare un po’ di personalità in più.
Personalità che speriamo di vedere presto espressa live; del resto con un disco distribuito in
ventisei paesi le possibilità non dovrebbero tardare ad arrivare.
Contatti: www.soulofthecave.com
Giorgio Sala
Pagina 42
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Numero Gennaio '09
Teka P
Pan e larsen
Decam
Nella musica dei Teka P (in dialetto milanese, “hai capito”, così come si pronuncia) si
mescolano in maniera avventurosa funk e jazz, reggae e rock, al servizio di un vocalese che
tocca tutti i toni espressivi possibili, da quello puramente ritmico (“Tiketetaketitak”) al
melodico d’autore (“Sbasii”), con buona pace dei puristi delle tradizioni.
Ivo Magrini e Andrea Rodini hanno radunato un corposo numero di adepti del loro dialetto e
non si sono spaventati della modernità: il risultato, dopo “Caragna no” (2005), è un album
spiazzante ma piacevole. Privi di un tono uniforme, eppure parecchio riconoscibili, questi
lombardi dalle buone capacità tecniche e dall’estro in primo piano prediligono comunque i
giri circolari (“Taka a sonà”) e un po’ straniti, una specie di linea che unisce un Enzo
Jannacci e un Nanni Svampa postmoderni con il rock cittadino degli Ottanta. Presa diretta e
una innegabile capacità dei singoli componenti per un pugno di canzoni che tengono alta la
pulsazione sonora della band.
Unico difetto, una evidente impostazione teatrale, che azzera qua e là l’interesse musicale
vero e proprio. Chi li ha visti dal vivo dice che sono uno spasso; chi scrive può soltanto
immaginarlo e, dopo un po’, ha la sensazione di ascoltare un album di cabaret a cui manca
qualche cosa. Ci sono spunti sufficienti per divertirsi, alcuni momenti d’empasse, un punto di
maniera. Promossi, certo, ma con riserva.
Contatti: www.tekapi.it
John Vignola
Pagina 43
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Numero Gennaio '09
The Legendary Kid Combo
Viva la muerte

VinylSick/Self
Sul sito ufficiale è lo stesso gruppo che prova a dare una definizione del proprio stile,
coniando un neologismo che è tutto un programma: “cock-a-billy”. Un termine che oltre a
richiamare significati che poco hanno a che vedere con la musica, sintetizza in modo
efficace una proposta artistica spacciata per un “perfetto punto di incontro tra
country-punk-psychobilly-bluegrass-folk-gothic-balkanica e una spolverata di ironia”.
Qualsiasi cosa significhi tutto questo, a parlare per la band ci sono un “Booze Bucks Death &
Chicks” uscito nel 2007 e un “Viva la muerte” che quest'anno si prende la briga di ribadire il
concetto, impantanato com'è in un'orgia irrefrenabile tutta ritmiche, chitarre slide,
contrabbassi, suoni elettro-acustici e banjo. Un'esplosione di energia che diventa anche un
concept sulla morte, se è vero che ogni brano è dedicato a un personaggio che racconta i
suoi ultimi istanti su questo mondo. Quasi a bissare un “Murder Ballads” di caveiana
memoria in chiave country-punk, insomma, a suon di batterie scapicollanti e stop-and-go
fulminei (“Mary Blunder”), rockabilly à la White Stripes (“Eddie Montana”), suggestioni
provenienti dall'Est Europa (“Ivanov Sergej”) e folk ubriaco su fisarmoniche libertine
(“Unknown”). Il risultato finale entusiasma, pur non richiedendo sforzi di comprensione
particolari, e mostra una band che oltre a divertirsi e a far divertire, ha il non trascurabile
pregio di suonare come Dio comanda.
Contatti: www.kidcombo.com
Fabrizio Zampighi
Pagina 44
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Numero Gennaio '09
Thee Jones Bones
Sticks & Stones
autoprodotto
I cultori del rock’n’roll più crudo e selvaggio non si saranno fatti sfuggire un disco come
“Rock’n’Roll Is A Lifestyle”, il debutto autoprodotto dei Thee Jones Bones uscito nel 2006, un
omaggio alle radici della tradizione americana rivisitate con sporcizia garage e spirito punk:
fulminante esordio nel quale il duo bresciano (Luca Ducoli, voce e chitarra; Mauro
Gambardella, batteria e voce) attinge con passione viscerale al rock dei ’60 e dei ’70 (Rolling
Stones, Stooges), al rock-blues “classico” (Chuck Berry, Little Richard, John Lee Hooker) e
“moderno” (Blues Explosion, Bob Log III, Black Keys).
Nel 2007 il batterista Mauro Gambardella lascia il gruppo per motivi personali e a lui
subentra Michele Federici, il cui arrivo si accompagna a una maggiore varietà stilistica: non
più e non solo la crudezza garage di “Rock’n’Roll Is A Lifestyle”, ma una proposta più
personale e matura, incentrata su un suono più levigato, ripulito dalle asprezze degli esordi.
Il nuovo album presenta infatti maggiore cura negli arrangiamenti e nel songwriting ed è
musicalmente più sfaccettato e ricco di sfumature, con le sue inflessioni country/garage e
l’uso di strumenti quali banjo, chitarre acustiche, violino, piano e armonica. “Sticky & Stones”
allinea undici episodi autografi (con l’aggiunta di una bonus track), tra i quali vanno segnalati
il puro country di “I’ll Be Back To You” e “Waitin’ For A Train”, la ballata acustica “Baby Blue”
e il distorto funky hendrixiano di “Too Much Confusion”. Anche se non mancano il
devastante punk-blues di “Super Cocktail” e sfrenati assalti r’n’r come “Get Away”, “To The
Right Thing”, “Bobby Perù” e “Hey! Hey!”. I Thee Jones Bones sono dunque la conferma che
il rock’n’roll in Italia gode ancora di ottima salute.
Contatti: www.theejonesbones.com
Gabriele Barone
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Numero Gennaio '09
Ultravixen
Avorio Erotic Movie
Wallace/Audioglobe
Il nome della band è un omaggio al regista underground Russ Meyer e a uno dei suoi
film-culto, “Beneath the Valley Of The Ultravixens”. Stessa carica erotica e debordante
fisicità nella musica degli Ultravixen, power-trio catanese che nasce dall’incontro-scontro tra
elementi di due indie noise band siciliane, i Jasminshock (Alessio, chitarra, theremin e voce;
Mr Nunzio Jamaika, basso e voce) e i Jerica’s (“Fabulous” Carmelo, batteria e cori). Il
gruppo prende le mosse da un concerto ai Mercati Generali di Catania in occasione di un
festival organizzato da Indigena, etichetta dei Jerica’s. “Avorio Erotic Movie” è il primo album
e si annuncia già come una delle migliori uscite del nuovo anno, essendo un concentrato di
quanto di meglio è stato prodotto dal rock underground negli ultimi venti anni: il math-rock di
Chicago (Rapeman e Shellac), il garage-blues della prima Blues Explosion, il noise dei
catanesi Uzeda. Il disco unisce l’impatto fisico del r’n’r più sporco e travolgente, il rumore
assordante e disturbante del noise, il feeling del blues, le ritmiche sbilenche del post-punk e
della new wave. Registrato e prodotto da Fabio Magistrali a Milo (ai piedi dell’Etna),
masterizzato a Chicago da Bob Weston, è un ideale ponte di congiunzione tra la Chicago
post-rock e Catania. Un album che scuote e tramortisce sin dal primo ascolto e ha le stesse
caratteristiche dell’amore descritto nelle sue nove tracce: sudicio, sudato, sensuale e
sfasciato. Tellurico e devastante come il vulcano che li ospita. Anche questa volta, centro
pieno della Wallace.
Contatti: www.ultravixenband.com
Gabriele Barone
Pagina 46
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Numero Gennaio '09
Le Luci della Centrale Elettrica
Koko Club, Castelletto Cervo (BI), 19 dicembre 2008
Anzitutto parliamo del luogo. Tu leggi Koko Club, ma già all'ingresso capisci che in realtà si
tratta del Babylonia. Si, lo storico locale del biellese si è reincarnato, e vedere Aldo, la mente
di quell'esperienza unica, qui a fare le tessere porta la mente indietro di cinque anni e scalda
il cuore. Il “gruppo”, invece, è sulla bocca di tutti: un esordio col botto, una targa al Premio
Tenco e tante, tante chiacchiere intorno a Vasco Brondi e le sue Luci della Centrale
Elettrica. Per il sottoscritto, orgoglioso possessore del demo da cui tutto è partito, si tratta la
possibilità di vedere live la nuova speranza del cantautorato rock italiano. L'apertura, in un
locale animato ma non troppo, è affidata ai novaresi Eva's Milk con un sound a metà tra rock
duro e divagazioni soniche che, voce a parte, interessa e conquista. Quando tocca agli
headliner si presentano in tre: il “titolare” Vasco, il suo mentore/produttore/chitarrista Giorgio
Canali e Daniela, che al violoncello compensa le spigolature della parte maschile. Un trio
abbastanza squilibrato capace però di far subito silenzio in sala e di incantare gli spettatori.
Potere delle parole “nuove” che hanno convinto anche i critici più ingessati o merito di un
suono scarno e tagliente rimbalzato dai cori urlati di Canali? Ognuno scelga la sua risposta,
la risposta è comunque vincente, e lo è per l'inserimento di una violoncellista capace di
gestire i registri bassi con leggerezza ma anche per la scelta di inserire nei brani estratti dal
repertorio solista di Canali senza perdere un grammo di coerenza espressiva. In un'ora le
canzoni sono finite, il pubblico è conquistato ed il concerto un successo. Mancava giusto un
gesto punk, e lo fa il “vecchio” del gruppo prendendo a testate un microfono. Mancava solo
quello.
Giorgio Sala
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Numero Gennaio '09
Abba Zabba
Fidarsi dei cantautori non è facile. In Italia, poi, dovremmo tendere alla diffidenza verso chi ci
propone un piatto che non sempre siamo stati in grado di preparare con la dovuta maestria
(facciamo riferimento alla canzone d’autore di stampo anglosassone con richiami ai mostri
sacri della musica rock e pop). Da quando esiste MySpace, tra l’altro, c’è stata la
degenerazione: moltissimi mestieranti e artistoidi di casa nostra si sono sentiti in dovere di
far conoscere al mondo – o, per lo meno, pretendere di farlo – le loro agonie manierate in un
lo-fi imbarazzante buono solo a sottolineare una generale completa mancanza di talento.
Ma se siamo ancora qui, è perché a volte nel mucchio si pesca ancora qualcosa di buono
ed è il caso di Abba Zabba, cantautore triestino folgorato dal beatlesiano “Abbey Road”
all’età di sette anni e che pare continuare la recente tradizione musicale del fertile Nord Est
italiano. Abbiamo deciso di segnalarlo non solo perché il suo “Today EP” ci ha convinto con
il suo mix di malinconia notturna ed ingenua freschezza post-adolescenziale, ma anche
perché ridendo e scherzando, il Nostro è riuscito a convincere la Centre Of Wood –
solitamente atta a musica drone & affini – a puntare su di lui. Questi primi passi, soprattutto
“Moonback” e “Let It Be Me” sono degli ottimi biglietti di presentazione così come tutto
“Today EP”. Un ascolto consigliato e non solo una scimmiottatura dei cantautori
indie-folk-depressi d’Oltreoceano.
Contatti: www.myspace.com/abbazabbahome
Hamilton Santià
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