top 100 clubs - InFiné Music

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IL CULT MAGAZINE DELLA DJ CULTURE MONDIALE
APRILE 2017
NUMERO 69
EURO 3,90
LIVING AND BREATHING DANCE MUSIC
Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n.46)art.1 comma 1, Aut.C/RM/29/2012 DATA P.I. 14/04/17
LA CRISI DELLE
DISCOTECHE
ITALIANE
NELLA MENTE
DEI DISCIPLES
CARL
CRAIG
UN UOMO CHIAMATO
FUTURO
TOP
100
CLUBS
LA MAPPA DEL CLUBBING MONDIALE
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djmagitalia.com
I
I MILLE VOLTI D
CARL
DI ANTONIO DI GIOIA
RASTOIN
FOTO PIERRE EMMANUEL
CRAIG
erdonate lo sconfinamento nel personale, che tuttavia mi
pare un’utile premessa per entrare in argomento. In occasione dei lunedì “alternativi” del club, anni fa ho avuto la
fortuna di assistere all’esibizione di Francesco Tristano al
Berghain. Un accostamento e una commistione, a dir poco
inusuale, di spazi e generi. Un artista di formazione classica nel tempio techno per eccellenza. Eppure, a un’attenta riflessione, questo
è un esempio tangibile di come la musica possa essere sinonimo di
libertà, di creatività e arte allo stato puro, priva di compromessi e
capace di azzerare le distanze. Perché uno degli artisti che più ha
contribuito all’avvicinamento tra techno e musica classica, due universi per definizione distinti, è stato proprio Francesco Tristano, che
nel nuovo progetto di Carl Craig riveste un ruolo fondamentale di interprete tra i due mondi musicali, come peraltro conferma lo stesso
Craig nell’intervista che segue. Ascoltando la produzione musicale del
produttore di Detroit, tuttavia, risulta già evidente come la sua ambizione creativa sia stata nel tempo quella di tendere verso una dimensione musicale superiore, i cui elementi ritmici avessero un risvolto in grado di elevare l’aspetto puramente “terreno” del suono
techno. La prospettiva trasversale, parallelamente a un approccio di
scrittura concettuale, è la peculiarità unica che lo ha differenziato
dagli altri grandi produttori della seconda generazione di Detroit da
cui è emerso. Il nuovo album ‘Versus’ rappresenta pertanto un punto di arrivo inedito, raggiunto attraverso una reinterpretazione di alcuni brani arrangiati in chiave sinfonica. Una rilettura “colta” che
conferma la solidità delle sue intuizioni. La nuova direzione di Carl
Craig, per certi versi, deve essere interpretata come l’evoluzione naturale di un suono emotivo e razionale, elegante e spirituale. Non è
dunque una sorpresa lo sbocco sinfonico, a pensarci bene, perché il
lato intellettuale è sempre stato presente nella techno di Detroit,
fin dalle sue origini. E la musica di Craig ben si presta ad essere plasmata e contestualizzata con assoluta credibilità e autenticità.
Carl, sei costantemente in tour: non ti sei ancora stancato?
Quando qualcuno mi chiede quanto dura il tour, rispondo che sono
in tour dal 1991…
Quando trovi il tempo per scrivere nuova musica?
Devo produrre quando posso e quando riesco a trovare il tempo.
P
In tour ci riesci?
Cerco di farlo, ma in realtà per me è meglio fare musica quando sono a casa a Detroit.
Quanto tempo sei a Detroit?
Non così spesso come vorrei.
Cosa ti manca maggiormente quando sei in giro?
Poter essere nel mio studio e poter cucinare, in giro mi adatto ma
non riesco mai a cucinare.
E tra poco partirà anche il tour legato al nuovo album ‘Versus’.
Quali sono state le prime reazioni al progetto?
Non ne ho ricevute molte, perché l’album è in uscita ma, suonando
in giro, spesso qualcuno mi ha indicato la preferenza per una o per
l’altra traccia.
Il tuo è stato un percorso che è partito con la techno, ma che
nel tempo ha mostrato aperture e contaminazioni con generi diversi, che vanno dalla house agli inizi della jungle (di cui il progetto Innerzone Orchestra è considerato come precursore), fino
alla musica classica, esplorata in ‘ReComposed’ insieme a Moritz
Von Oswald su Deutsche Grammophon, e approfondita sul tuo materiale come nel caso dell’album in uscita. Pensavi che saresti
approdato alla musica classica?
Quando io e Derrick May abbiamo iniziato a fare musica insieme avevamo questa visione: che la nostra musica dovesse essere qualcosa
di simile a una colonna sonora. Crescendo con influenze diverse,
ascoltando il jazz, la musica orchestrale, James Brown e quindi il funk
e il soul, avevamo già l’idea di mettere tutte queste influenze nella
techno. Quando Alexandre Cazac di InFiné ha proposto l’idea di realizzare nuove versioni dei miei brani ho avuto l’occasione di poterlo fare con Francesco Tristano, che ha una solida formazione alle spalle su questo tipo di musica.
Quale è stato quindi il ruolo di Francesco Tristano?
Francesco ha curato gli arrangiamenti di tutti i miei brani. La parte
realmente più importante nelle composizioni riguarda gli arrangiamenti. Se presti attenzione ai crediti dei dischi degli anni Cinquanta e Sessanta, era sempre presente la figura di un arrangiatore. La
sua posizione era quella di mettere in comunicazione il compositore e i musicisti, specialmente i musicisti orchestrali. Miles Davis, in
Autore di un percorso musicale tra
i più originali e innovativi
nel panorama elettronico, Carl Cr
aig ritorna con un nuovo
album che unisce techno e musica
classica, confermandosi un
artista eclettico e trasversale. Lo ab
biamo incontrato a Milano.
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‘Sketches Of Spain’, ha avuto bisogno di un arrangiatore che traducesse in
jazz le sue idee. Allo stesso modo, io ho avuto bisogno di qualcuno che
traducesse le mie idee in una lingua che non parlo. Non sono un musicista classico.
Nei crediti dell’album il ruolo di Moritz Von Oswald è quello di “spiritual advisor”: quale funzione ha ricoperto esattamente?
Moritz è stato coinvolto nella line-up originale e nelle prime registrazioni, ma nel mezzo purtroppo ha avuto i noti problemi di salute e, pertanto, ha avuto bisogno di tempo per recuperare e rimettersi. Non è stato coinvolto come avremmo voluto ma ha contribuito con idee, dato che il progetto è stato elaborato lentamente.
In effetti l’inizio del progetto risale al 2008…
È vero, però l’abbiamo realizzato in quattro giorni attraverso sessioni diverse. Otto anni per finalizzarlo e solo quattro giorni per realizzarlo.
Tutti insieme nello stesso studio?
Io, Francesco Tristano, il direttore Francois-Xavier Roth e l’orchestra, tutti insieme nello stesso studio. L’abbiamo realizzato in uno studio molto famoso a Parigi, dove generalmente vengono realizzate registrazioni orchestrali per colonne sonore di film.
Ma nel tour del progetto, che si chiama ‘Versus Synthesizer Ensemble’,
sarete in cinque?
Saremo in sei: io e Francesco, il mio direttore musicale e altri tre musicisti.
Tra l’altro suonerete al Sonar?
Saremo al Sonar, così come al Movement di Detroit, a Londra e altre date
a seguire.
Suonerete anche in Italia?
Spero di suonare ovunque, a Ottobre è prevista una data a Roma, ma è meglio controllare le date che si stanno aggiungendo.
Cosa pensi del pubblico italiano?
Il pubblico italiano può essere energico, solitamente preferisce la cassa
ma soprattutto predilige la linea di basso.
All’inizio di questa intervista mi hai parlato dei tuoi inizi con Derrick
May: è vera la storia che non voleva produrti perché secondo lui non eri
ancora pronto e preferiva che lavorassi a fondo per trovare un tuo suono?
Avevo musica che a me piaceva davvero ma a lui no, e quindi non voleva
pubblicarla, come ad esempio ‘Elements’, che poi è finita sulla seconda raccolta techno della Virgin. Questo è il motivo per cui ho creato le mie etichette.
Inizialmente hai prodotto musica con pseudonimi diversi, come ad
esempio 69, Psyche, BFC, C2…
Da giovane, ma anche adesso seppur in misura minore, ero stranamente molto timido. Fare cose diverse con moniker diversi era un modo per nascondermi. Ma nello stesso tempo era anche divertente.
E come hai deciso che era arrivato il tempo di produrre con il tuo vero
nome?
Sono nato lo stesso giorno di Sun Ra e da qualche parte avevo letto una
sua fiera rivendicazione della propria identità, della propria origine afroamericana collegata alla schiavitù e, in generale, ad altri popoli oppressi,
gente che ha subito persecuzioni nel corso degli anni.
Perchè hai contattato Derrick May e non Juan Atkins, dato che Juan aveva lavorato con tuo cugino Doug Craig?
Juan e Doug, dopo aver pubblicato ‘Technicolor’ come Channel One, hanno
litigato e non sono più stati amici. Sono cresciuto con la musica di Juan
ma ero innamorato della musica di Derrick. Quando è uscita ‘X-Ray’ avevo
quindici/sedici anni, ma quando ho ascoltato ‘Nude Photo’ ho capito che
era quello che volevo fare. Suonava come un canzone, ma di fatto non lo
era. ‘Alleys Of Your Mind’, ‘Cosmic Cars’, ‘Night Drive’ suonavano più come
canzoni; nonostante mi piacesse la musica avevo una sensibilità diversa.
All’inizio suonavo la chitarra, ma dopo aver scoperto i sintetizzatori e i sequencer è cambiato tutto: potevo sperimentare con i suoni e fare quello
che volevo, senza confini. Quando ascolto Steve Reich o Steve Roach, o cose basate sui loop o dall’estetica sognante, ho la conferma che i sintetizzatori hanno reso possibile tutto questo.
Se consideriamo Atkins e May come la “prima generazione” di Detroit
e la tua come la “seconda”, che cosa è successo dopo?
Oggi c’è gente come Jay Daniel, ma dopo di me, Stacey Pullen, Anthony Shakir, Octave One, Claude Young, sono arrivati, anche se non sono considerati strettamente techno, Moodymann, Theo Parrish, Rick Wade.
Che però, appunto, non sono considerati propriamente come Detroit
techno…
È un discorso di attitudine, non di suono. Di attitudine e di accuratezza.
E quindi qual è la tua definizione di Detroit techno?
È qualcosa di sognante, che ti deve letteralmente trasportare altrove, deve esserci la componente ritmica, che deriva dai ritmi africani e che di fatto rappresenta l’aspetto terreno, ma deve avere una dimensione celestiale.
In un certo senso, il rapporto tra techno e Detroit techno è quello che esiste tra reggae e dub. Nel dub persiste la struttura ritmica, ma ci sono gli
effetti e la spinta in profondità che sono in grado di trasportarti altrove.
I SINGOLI & REMIX
Ogni tentativo di riassumere i pezzi più importanti prodotti da Carl Craig è destinato all’incompletezza. Troppi i singoli e i remix storici prodotti dall’uomo. Si inizia nel 1990
sotto il moniker Psyche con ‘Elements’ e i suoi synth sognanti, per poi passare alla spazialità da pista della seminale ‘Crackdown’. Coevi, ma con uno sguardo più rivolto alla house ci sono i singoli come BFC (‘Evolution’), Paperclip
People (e vanno citati almeno i bleep da brividi di ‘Oscillator’ e il tunnel disco-moroderiano ‘Throw’) e 69. Quando si
parla di ‘Bug in the Bassbin’ prodotto come Innerzone Orchestra, bisogna per forza menzionare la rilevanza di questa traccia nel modellare la drum’n’bass. Passando nel nuovo secolo si arriva a un’altra traccia seminale come ‘Demented’ firmato come Tres Demented e che vede la complicità di Laurent Garnier nella realizzazione di una traccia
techno percussiva mentale che trasuda fervore jazz, lo stesso che Craig applica nel remix di ‘Angola’ che trasforma la
canzone afro di Cesaria Evora in un gorgo inarrestabile di
synth analogici. Chiudiamo citando almeno altri due remix:
‘Tides’ di Beanfield in tutti i suoi 10 minuti di epica gloria
Detroit che continua il discorso e i brividi che dieci anni prima Carl Craig ci aveva regalato su ‘God’ di Tori Amos.
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UN UOMO
CHIAMATO
FUTURO
DI ALBERTO SCOTTI
Carl Craig ha da sempre interpretato la techno in modo
unico, tra orchestra e meccanicità elettronica.Vi racconto
la sua grandezza da una prospettiva molto personale.
Carl Craig b2b Stacey Pullen
“Sciacquatevi la bocca quando pronunciate il suo nome!”. Battuta ad effetto da gangster movie. Ma il protagonista della nostra cover story di questo mese non
ha nulla a che fare con i film di Humphrey Bogart o
James Cagney. La battuta mi è venuta in mente perché Carl Craig è una leggenda vivente. Un monumento
alla stessa parola “techno” e alla città che questa musica l’ha inventata ed esportata in tutto il pianeta.
Detroit e Craig, un assioma. L’uomo che rappresenta il filo rosso tra i tre inventori del genere (Juan Atkins, Derrick May, Kevin Saunderson) e la nuova
scuola. Mai integralista come Jeff Mills o Underground Resistance ma rispettato da tutti. Capace di album e progetti seminali, e di remix ricchi di
melodia e canzoni vere e proprie. Forse per questo mi ha sempre entusiasmato e affascinato tutto ciò che circonda questo artista così peculiare e
dalla personalità tanto forte.
Yin e Yang
Due anime. Quella purista e quella accessibile. Non mainstream, sarebbe esagerato. Ma accessibile sì. Carl Craig muove i primi passi nella sua città, e ne
diviene un simbolo. Un simbolo la sua etichetta Planet E; un simbolo i numerosi pseudonimi dietro i quali gioca a nascondersi di volta in volta. Potrei consegnarvi la solita, stanca biografia nella quale celebro il nostro eroe,
parlando di come abbia attraversato gloriosamente gli anni ’90 entrando nel
nuovo millennio con addosso un alone di leggenda. Ma ormai queste sono
storie da Wikipedia. Chi se ne frega. Amo talmente tanto questo artista, e
lo ritengo così fondamentale, da lasciar perdere queste info di base. Vi voglio invece raccontare le due anime, lo Yin e lo Yang, attraverso alcuni episodi che mi hanno segnato e che riguardano, ovviamente, l’arte di Carl Craig.
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Metti una sera al Plastic, e un’altra al Dude
Milano, primavera 2004. Il Plastic è nella storica sede di viale Umbria, e sta
vivendo una delle sue stagioni più interessanti. L’onda lunga delle frequentazioni di artisti e icone della moda si sta attenuando, ma il club tiene botta e alza il tiro con una programmazione di qualità. Nel giro di pochi mesi
arrivano Matthew Herbert, Laurent Garnier e Carl Craig. Io sono un giovane
universitario di 22 anni con qualche soldo in tasca e mi posso permettere
di fare tardi (molto tardi) senza rimorsi di coscienza la mattina successiva.
I set dei dj che ho menzionato me li ricordo tutti, sono stampati a fuoco
nella mia memoria. Mi ricordo Laurent Garnier suonare a oltranza con la sua
classe e il suo carisma impareggiabili. Matthew Herbert che si spinge senza timore nei territori dove non è facile seguirlo ballando, me lo ricordo aprire un disco incellophanato e appoggiarlo direttamente sul piatto. E soprattutto mi ricordo Carl Craig, meno istrionico e folle, più discreto. Profilo basso, movimenti controllati. E un talento immenso nel creare un’ipnosi che avvolge tutto il dancefloor e i muri stessi del Plastic, quei muri neri come la
notte, bagnati di condensa sudata. Tre ore incredibili in cui per la prima volta mi sono davvero sentito completamente, assolutamente trasportato anima e corpo in un’altra dimensione. Non sto esagerando. Un vero orgasmo.
Salto temporale. Milano, primavera 2017. Il Dude è uno dei club più interessanti della città. Ho da poco finito di suonare nell’Osservatorio Astronomico, la sala piccola, e mi precipito in quella principale per sentire, ancora una volta, Carl Craig. Sono passati tredici anni, sono cambiati i dischi, il
sound, ma il talento e la capacità di ipnotizzare sono rimasti intatti. Non
gli serve picchiare duro, non gli serve alzare i bpm o raggiungere volumi da
far sanguinare le orecchie. Basta quel calibratissimo e delicato equilibrio che
tramuta un set techno in un volo sospeso a qualche metro da terra. E ritrovo il senso di tutto ciò che amo in questa musica e nella storia che un dj sa
raccontarci attraverso i dischi.
Quel remix di Tori Amos
Tra il 2003 e il 2006 il mio amore per il djing e la musica da club stava scemando inesorabilmente. Mi annoiava la minimal, mi aveva stufato la trance, non trovavo novità interessanti nella house nella techno. Poi mi capitò
in mano un triplo vinile. Copertina bianca, anonima. Sui centrini è stampato il viso di un dj americano. Carl Craig. Una raccolta di remix. Incognito, La Funk Mob, Aquarhythms. Ogni traccia una scoperta. Grandiose da suonare, da ballare, da ascoltare. Ogni volta che la puntina solca i due vinili,
scopro nuovi dettagli e la cura delle tracce mi lascia stupefatto. Tra tutte,
quella che mi colpisce di più è un remix di una canzone di Tori Amos nemmeno troppo nota. Si intitola ‘God’. La semplicità nel taglio del vocal, nella sua messa in loop a cui si aggiunge un arrangiamento dove gli strumenti entrano uno per volta, in punta di piedi, per poi accendersi come una banda quando entra il beat, è semplicemente stellare. Sensazionale. Non è un
remix che ribalta il dancefloor, non è un lavoro storico di Carl Craig, non è
tra i suoi classici. Ma mi trasmette tutta l’essenza e lo spirito con cui que-
sto artista affronta una composizione. Smembrando il materiale a disposizione per costruire una nuova grammatica che risponda unicamente alle sue
regole. Non sto parlando di stravolgimenti dei canoni come può fare Flying
Lotus, o come faceva Aphex Twin. È tutto perfettamente sui binari, è il treno ad essere diverso. Invece del solito regionale passa un treno iper-veloce di quelli giapponesi. Un altro mondo. Ascoltare per credere.
L’amore è una delusione grandiosa
Così recitava in un italiano dall’accento grottesco e sensuale la voce in ‘Glamourama’ di Photek. E a volte capita di essere delusi da un proprio grande
amore, come Carl Craig. È il 2008 quando viene annunciata l’uscita di un volume della serie ‘Recomposed’ della storica etichetta tedesca Deutsch Grammophon in cui Craig e Moritz Von Oswald rileggono e remixano Ravel e Mussorgsky. Le mie aspettative erano altissime, il disco l’ho ascoltato e riascoltato e non mi ha mai convinto. Trovai e trovo qualcosa di pretenzioso
in tutta l’operazione, una rilettura sfilacciata e un accostamento poco riuscito tra il rigore meccanico della techno e l’estro rigoglioso di due personalità così fuori dalle righe come i due compositori in questione. Nessuno
è perfetto. Neppure il genio di Detroit, che ha comunque dimostrato con questo scivolone (ma poi è un mio personalissimo parere, per qualcun altro sarà un capolavoro) di essere umano, e non ha smesso di regalarci altri lavori epocali: dal remix di ‘Tides’ dei Beanfield alle uscite a nome Tres Demented, dal take su ‘Kill 100’ di X-press 2 a quello su Guti ‘El Solitario’. Fino alle piccole grandi perle confezionate insieme a quell’altro geniaccio di Francesco Tristano. Comunque vada, Carl Craig è uno dei grandissimi che hanno
segnato, e segnano, la storia della musica.
Va beh, dai…
…ho parlato molto da una prospettiva personale e per bilanciare ecco un
po’ di Wikipedia per chi non vuole sforzarsi: Carl Craig nasce a Detroit nel
1969, inizia a pubblicare su label come Transmat per poi fondare la sua Planet E, tutt’oggi una delle realtà più rispettate nel mondo elettronico. Ama
utilizzare tantissimi pseudonimi: Psyche, The Innerzone Orchestra, 69, C2,
CC BFC. Nel ’94 fa il botto con ‘Throw’ con il nome di Paperclip People. Nel
’96 cura ‘DJ Kicks’. Poi tracce e remix diventati culto non si contano. Su tutte, Beanfield ‘Tides’, ‘Junior Boys ‘Like A Child’, Rhythm & Sound ‘Poor People Must Work’.
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DALLA TERRA ALLA LUNA: GLI ALBUM DI CARL CRAIG
DI MARCO RICOMPENSA
Passi, una portiera che si apre e
un motore che si mette in moto.
Si apre così il primo album di Carl
Craig, ‘Landcruising’, uscito nel
1995 per la Planet E. Una colonna
sonora originale per un viaggio
immaginario che va dalla Motor
City di Detroit fino alle
profondità stellari attraverso
megalopoli futuristiche e
paesaggi desertici.
La techno si fa viaggio ed
esplorazione “per arrivare là dove
nessuno è mai giunto prima”
direbbe Star Trek, ma in realtà un
viaggio nelle profondità del
sentire umano. Kraftwerk,
Tangerine Dream, Blade Runner
per una techno che si prende le
libertà del jazz in un album
complesso che non contiene
nessuna hit da pista ma veleggia
continuamente fra bordate
ritmiche ed eterei riff di
sintetizzatori e tastiere.
Con ‘Landcruising’ Carl Craig apre
alla techno nuovi mondi,
realizzando uno degli album di
musica elettronica più importanti
di sempre.
In occasione del decennale
dell’album, nel 2005, l’album
viene ripubblicato in una nuova
veste, rimasterizzato e con le
tracce proposte in una nuova
versione. ‘The Album Formerly
Known As…’ – chiamato così in
onore di uno degli eroi di Carl,
Prince – espande alcune tracce
che erano troppo corte
nell’originale (per esempio
‘Landcruising’ raddoppia il
minutaggio), ed elimina alcune
parti che sembrano datate
all’autore (la coda floydiana di
‘Science Fiction’). Il grandeur
magistrale del lavoro viene così
amplificato, ma il capolavoro
originale è difficile da superare.
Nel 1997 è la volta di ‘More Songs
About Food And Revolutionary
Art’, con il titolo che è un altro
omaggio: questa volta ai Talking
Heads di ‘More Songs About
Buildings and Food’.
La tensione fra la fredda
meccanica e l’umanità pulsante,
fra techno e jazz, continua in
quello che diventerà poi
conosciuto come “high tech soul”
(‘Televised Green Smoke’).
Menzioni a parte meritano due
progetti usciti a nomi differenti.
‘The Sound Of Music’ viene
pubblicato come 69 (anno della
nascita di Carl Craig) nel 1995 ed
è in realtà la raccolta di EP usciti
nei due anni precedenti con
questa denominazione
(completata nel 2009 con ‘The
Legendary Adventures of a Filter
King’). Techno funky con
complesse percussioni e un tocco
di electro (‘Microlovr’) per dei
classici delle piste più
underground. L’anno successivo è
la volta di ‘The Secret Tapes Of
Dr. Eich’ che raccoglie i singoli
pubblicati con il nome Paperclip
People. Dai bassi malsani di ‘The
Floor’ fino ai complessi synth
modulari di ‘Oscillator’, Carl Craig
continua a mostrare il suo talento
cristallino per creare raffinata
musica da ballo fra house, techno
ed electro.
foto MaximeChermat
RICOMPOSIZIONI: GLI LP COLLABORATIVI
DI MARCO RICOMPENSA
A chi obietta la solitudine del produttore
elettronico, Carl Craig dimostra che nella sua
carriera si è sempre trovato a suo agio a
lavorare in compagnia. A cavallo degli anni
novanta e duemila, Carl Craig si circonda di
una serie di musicisti per visitare nuovi spazi
sonori. Si inizia nel 1998 con ‘The Collapse Of
Modern Culture’, album che esce sotto il nome
Urban Tribe, un supergruppo di nativi
detroitiani messi assieme da DJ Stingray aka
Sherard Ingram che conta Craig, Anthony
“Shake” Shakir e Kenny Dixon Jr ovvero
Moodymann. Siamo fra le pieghe di trip-hop,
funk, elettronica in salsa Warp e ambient. Il
passo successivo del 1999 vede Craig come
aggregatore di talenti sonori dietro il moniker
Innerzone Orchestra. ‘Programmed’ è
interamente scritto da Carl ma realizzato
insieme a musicisti come Francisco Mora alle
percussioni, Craig Taborn al piano e persino
Richie Hawtin in una traccia. Un LP che mira
dichiaratamente al jazz, ma per raggiungerlo si
serve di house, techno e hip hop centrando il
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bersaglio in maniera commuovente (una traccia
per tutte: ‘At Les’). Chiude il trittico ‘The
Detroit Experiment’ che espande il concetto
imbarcando ancora più musicisti ed esplora in
forma di cover dei classici funk e soul anni
settanta declinandoli in un jazz elettronico
suonato molto raffinato. Il capitolo successivo
è con ‘ReComposed’ che nel 2008 lo unisce a
un altro mostro sacro della techno: Moritz von
Oswald, ovvero metà della divinità techno-dub
Basic Channel. Insieme si imbarcano in un
compito tanto improbo quanto potenzialmente
criticabile: rileggere modernamente in chiave
elettronica la classica di Maurice Ravel (sì,
proprio il ‘Bolero’) e Modest Mussorgsky. E così
il minimalismo reichiano si sporca di bolle dub,
e le serpentine di fiati e archi si fondono con il
beat per una colossale sinfonia techno. Ogni
preconcetto è vinto. L’ultima collaborazione è
recente, del 2015, con l’iconoclasta chicagoano
Green Velvet. ‘Unity’ è un lavoro viscerale e
immediato che oscilla vistosamente fra i suoi
creatori: se ‘Rosalie’ è un pezzo Green Velvet
fino al midollo con il suo cantato-declamato e
il suo basso gommoso, ‘Murder of the Innocent’
gira su un arpeggiato alla Tangerine Dream e
sintetizzatori eterei.
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