Fantasmagorica
Alessio Kolioulis
“Space and Space travel will [again] be at the forefront of sciences in the decades
to come and I hope to see Techno music as playing a slight contribution in making
people better understand what’s out there and how it works. Also, I believe that
the sound of music will be matched or superseded by the experience of imagining
something that doesn’t exist. I hope that Axis can be in a position to add to this
experience as well. We have plans to explore Techno outside the scope of music.”
Jeff Mills
Find me in the dark
Facebook Messenger Ore 22.02, Martedì 2 febbraio, conversazione tra amici
(Carlos, Hannah, Harriet, Manu, Niamh, Paul e Robert).
Paul: “Io ho preso il biglietto per andare a sentire Donato Doozy il 29 marzo.
Ai Corsica Studios, in Elephant & Castle, sarà una bomba. Per l’occasione Donato Dozzy suonerà in duo con Neel sotto il nome di Voices from the Lake, credo
presenti il suo nuovo album”.
Seen by Robert 22.04.
Robert: “Yo. Perfetto ne prendo due, uno per me e l’altro per Manu. Verrà di
sicuro, e se non può troviamo qualcun altro. Vado su Resident Advisor e prenoto.
Quanto costa?”
Paul: “12 punti. Se ti muovi trovi ancora gli early bird tickets.”
Seen by Robert and Hannah. 22.04.
urban millepiani
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Hannah: “Yeaaah. Finalmente si va a ballare di nuovo. Ragazzi, l’ultima volta che siamo andati tutti assieme era la fine dell’estate! Vengo di sicuro. Ora sento Niamh e Harriet ma verranno anche loro”.
Seen by all 22.05.
Carlos: “Uè uè. A sto giro ci si diverte più che a Jeff Mills. Il posto è più piccolo, solo aficionados, Donato Doozy è per intenditori. Ma avete sentito l’ultimo
album, Vaporware? http://bit.ly/1mpdsHP. Non oso immaginare come lo mixi live.”
Paul: “Hahaha. Con due bassi e il buio ci troveremo tutti vicini. Il nome della
serie per la serata è Find me in the dark. Tra l’altro i Vaporware sono i prodotti
informatici come quei videogames che sono annunciati, ma poi non escono mai.
Chissà…magari live farà un set come ai vecchi tempi e non c’entra nulla con questi suoni vaporosi dell’album.
Robert: “Mah…vedremo. Alcuni dei suoni vaporosi mi ricordano molto Pantha
du Prince, l’album Black Noise. Lì le campane suonavano vicino al lago della foresta nera. Si sentiva il rintocco e la vibrazione nell’acqua. Ma al contrario di
Pantha du Prince, si sente che Donato Doozy viene dalla città. È li che lavora, il
suo studio è grande come tutta Roma. La pioggia all’inizio dell’album fa il suono di quando scende sull’asfalto. Una piccola doccia primaverile. Riesco a vedere i taxi bianchi, le strisce pedonali, lui che guarda dalla finestra”.
Hannah: “Basta romanticherie ragazzi, prendiamo tutti i biglietti e facciamoci
dare i soldi dagli altri. Io ne posso prendere 2”.
Niamh: “Si viene prima tutti da me?
Harriet: “Io vi raggiungo lì perché arriverò da Bruxelles ;)”
Manu: “L’importante è che non cucini Paul!”
Paul: “Haha. Mangieremo poco, senza appensatirci che poi dobbiamo saltellare almeno le 3 ore del set”.
Robert: “Biglietti presi”.
Seen by all 22.10.
Technocity
Donato Scaramuzzi (in arte Doozy) è uno dei dj italiani più apprezzati del panorama musicale internazionale. Incominciò ad osservare i suoi prodi al Piper di
Roma. Non aveva che 18 anni. Poi, seguendo l’evoluzione della scena musicale
capitolina, finì per fare parte della storia dei rave romani. Donato Doozy oggi la100
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vora in tuto il mondo. Non suona molto rispetto ad alcuni stakanovisti della techno. Per questo sentirlo suonare è un evento ancora più importante. Un appuntamento raro.
Avere un incubo a Roma è cosa facile, ma è la città stessa che poi sa risvegliarti
come solo Lei sa fare, come se nulla fosse accaduto, con quella luce arancione che
si riflette sui palazzi del Lungotevere al sorgere del sole. E’ una cosa bellissima e
struggente...il mio sogno è andato più o meno così, in questa bella Roma.
Celebrando i vent’anni della rivista electonique.it, Donato Doozy l’ha descritta così. La città non è solo immagine o contorno della musica elettronica che egli
produce. Essa ha una un carattere proprio, che ha la forza di dettare i tempi della
vita.
Onestamente, Roma non l’ho mai vissuta molto bene, tanti amici trovati poi
persi di nuovo…Un meccanismo infernale caratterizzato da distensione e tensione, se esiste una colpa, questa è di tutti, anche la mia, ma la verità è che la città
stessa tende ad essere adorabile e violenta allo stesso tempo, ed a livello psicologico ne siamo tutti influenzati. Roma è una città che si nutre della dualità dei
sentimenti.
Agli inizi degli anni ’90 i raves romani del Canneto crebbero a tal punto che
si guadagnarono il rispetto degli artisti che già si erano affermati tra Stati Uniti ed
Inghilterra. Dj e produttori romani riuscirono ad imporsi con creatività e sperimentazione, superando gli attriti imposti dalle logiche della mentalità locale. Roma stava diventando una città techno. Il passaggio, così come racconta Donato
Doozy, avvenne gradualmente. La sua carriera iniziò nelle discoteche più popolari del Circeo, poi al N.2 di Capri, una discoteca per turisti. Una lenta sperimentazione per capire la reazione dei corpi alle tendenze musicali.
La lezione più dura da imparare fu il saper leggere le menti della gente, insomma era il momento di cominciare ad essere “psicologi”, seguendo i desideri
della gente, assecondandoli per poi farli infiammare, continuando a tenere in considerazione il fatto che quello era un locale per gente in vacanza: poca sperimentazione.1
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Corsica Studios. Il Club.
Il club Corsica Studios si trova a Elephant & Castle, a sud del Tamigi, nel primo quartiere in cui spuntano i primi segni di povertà al di fuori delle vie del turismo londinese. Il quartiere si caratterizza visivamente per una grande rotonda che
smista il continuo traffico in direzione dei quartieri suburbani che si estendono a
sud. È un elemento di transito, attraversato da due linee metropolitane e vari snodi ferroviari. Da qua si raggiungono Oval, Stockwell, Brixton e Battersea a sudovest, Camberwell, Peckham e New Cross a est.
Elephant & Castle fa parte del municipio (borough) di Southwark, uno dei più
poveri di tutta l’Inghilterra, nonostante qui trovino sede – a ridosso di Tower e
London Bridge – sia il comune della City, che i quartieri generali dell’azienda multinazionale PricewaterhouseCoopers (PwC), una delle big four dell’accounting
mondiale, e che nel 2012 registrava profitti per 31 miliardi di dollari, poco meno
dell’intero PIL della Serbia.
Di fronte all’entrata dei Corsica Studios si impone nella sua maestosità distopica uno dei simboli della decadenza metropolitana inglese, l’Heygate Estate, edificio in stile corbusiano costruito nel 1974 che da solo ospitava più di 3000 persone.
Nel 2004, il municipio di Southwark ne ha deciso la demolizione, anche se iniziata
effettivamente solo sette anni più tardi, nel 2011. Questo piano di rigenerazione fa
parte di un progetto urbano da 3 miliardi di sterline atto a costruire 5000 nuove case, 4 ettari di spazi commerciali, 5 spazi verdi e un rinnovato hub per il trasporto locale. Se da una parte questa si profila come una necessaria rigenerazione urbana, a
livello macroeconomico l’operazione è un frammento della grande bolla immobiliare che sta avvolgendo la capitale inglese. James Meadway, economista della New
Economics Foundation, sostiene che la bolla stia crescendo a ritmi più sostenuti dei
valori pre-crisi. Negli ultimi 12 mesi e nella sola Londra, c’è stata una crescita dei
valori immobiliari pari al 10%. In termini generali, questo tipo d’inflazione corrisponde ad un terzo dell’aumento, minimo, del prodotto interno lordo nazionale, coprendo altri indicatori negativi, come il declino dei salari, delle esportazioni e l’aumento dei tassi di interessi sul debito contratto per comprare casa.
Il club è così ricavato nello spazio lasciato vuoto da tre elementi. Sul lato nordest, un vicolo separa l’entrata del club dalle reti messe a proteggere il cantiere do102
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ve la demolizione dell’Heygate Estate è in atto. Sul lato sud-ovest, quello coperto dai muri della stazione metro-ferroviaria, vi è la rotonda di Elephant & Castle,
al cui centro c’è il memoriale in stile brutalista progettato dall’architetto Rodney
Gordon e dedicato a Micheal Faraday, padre dell’elettromagnetismo e dell’elettrochimica. Il soffitto del club, invece, è costituito da una sopraelevata dove scorrono veloci e rumorosi i treni suburbani che collegano l’orizzonte periferico con
il centro della capitale.
Il locale si sviluppa su un solo piano. Due sale da ballo con impianto. Poche
luci di un blu denso ed elettrico. Altre sono bianche ed il risultato è un ambiente
scuro ma accogliente. C’è anche uno spazio esterno per fumare e socializzare, dove le persone abbandonano le giacche e gli zaini nel guardaroba. Sul retro ci sono le uscite di sicurezza di un altro locale latino-americano. L’unico bar della discoteca è collocato al fondo della stanza principale. Ci sono non più di tre persone a servire da bere. Le code si formano ad inizio e a metà serata. I due divani opposti al bancone si riempiono spesso dopo le 4. I bagni, separati per uomini e donne, si trovano ad un piano superiore a cui si accede da delle scale posizionate tra
le due sale. A metà serata, gli orinatoi sono sommersi di bicchieri di plastica vuoti, tag, scritte, volantini, tracce di stupefacenti e risate nervose. L’entrata al club si
aggira di solito intorno ai £12.
I Corsica Studios ospitano fino a 350 persone e al suo limite non è mai troppo
pieno. C’è sempre abbastanza spazio per muoversi, uscire e rientrare da una stanza all’altra. Si definisce come club medio-piccolo. Rispetto ai numeri, dal 2005
ad oggi ha ospitato quasi 10000 eventi, 1 milione di persone e 2500 giorni di musica. È uno dei venti club più conosciuti del panorama techno londinese.
Dinamiche di una serata.
Tutto nasce nell’identificare la serata giusta nel calendario, chi viene e chi no.
Tutto accade online. Il gruppo di amici trova un accordo a secondo di alcuni criteri, tra questi ci sono: l’affezione verso un tipo particolare di musica elettronica,
il locale, quanto vuoi stare fuori, l’importanza e il prezzo dell’evento, e così via.
I generi techno variano di intensità. Da quelli più lenti e funky a quelli più dark
e veloci. I migliori dj riescono a trasmettere sensazioni che stanno alle estremità
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dello spettro. La bravura del dj fa davvero tanto, nonostante la musica in sé non
sia così difficile da comporre. Il luogo da scegliere è altrettanto importante. Essere in un locale gremito di gente può rovinare la serata. Così come il contrario. Essere pochi non dà una sensazione di pienezza corporea. Quando tutto combacia,
le serate si inscrivono nella memoria collettiva: io c’ero.
Si inizia usciti da lavoro o da scuola. Si fanno pre-bevute, poi ci si prepara tornando a casa o scegliendo quella di un amico come base per uscire. La serata inizia quando ci si muove verso il club prendendo i mezzi di trasporto pubblico. La
città cambia subito forma. Le luci della sera illuminano in modo diverso la vita di
chi vive la notte.
Quando si raggiunge il locale, la serata è al suo vero inizio. I territori urbani
che si sono lasciati all’interno sono sommati nel corpo pieno della sala da ballo.
Il dj determina la coordinazione e il movimento dell’insieme dei corpi. Si guarda
il dj e la folla attraverso varie prospettive. Quella frontale, del potere univoco.
Quella totale, del dj e della folla assieme. Quella decentrata, senza la figura del dj,
per esplorare la dinamica tra individuo e gruppo. Quella dei codici tra individui.
Quella esterna, quando si esce per fumare e si sente la folla da fuori. Quella infine mistica, ad occhi chiusi. Per ogni prospettiva c’è un concatenamento di figure
e forme che collegano l’interno del club al suo esterno o a livello della superficie
corporea.
Al suo apice, la serata si elettrizza per una serie continua di scosse. Questa fase dura in genere un paio di ore. In alcune discoteche che stanno aperte per più
giorni vi sono più climax. È in questo momento che la produzione di significati si
proietta come immaginazione collettiva. I simboli naturali vengono liberati, comunicati e scambiati al ritmo della musica.
A fine serata, quando fuori fa luce, il gruppo di solito si scioglie o si dirige verso un porto in cui rilassarsi collettivamente e dormire.
Pensare la città. Milano, Londra, Detroit
Paul: Qual è il tuo primo ricordo legato alla techno?
Manu: I primissimi ricord legati alla parola “techno” li ricollego ai diversi party
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illegali a cui sono andato al liceo (2001-2003). Si scriveva tekno, con la “k”, e sia
che la sentissi nei centri sociali, ai teknival, dai camion durante i cortei o in feste
improvvisate, mi ricordo che dava un senso di libertà assoluta e di appartenenza
molto forte a qualcosa che quasi nessuno poteva comprendere. Ricordo un festone in via Quaranta a Milano in un capannone occupato temporaneamente, il “40/42”,
diverse feste al Bulk e due minidisc con set degli Okupè che avrò ascoltato 2000
volte. Una volta entrato in contatto con la musica elettronica più “colta” e “mainstream” (Kraftwerk, Aphex Twin e Daft Punk principalmente) scopro la “techno”,
i suoi suoni e le sue feste. Tutto questo è stato possibile solo ed esclusivamente
grazie all’influenza di amici che, negli anni, hanno fatto della techno uno stile di
vita portando avanti una ricerca quasi maniacale. Il primo ricordo è una festa, primavera 2003 al gasometro in Bovisa organizzata dal collettivo CCKZ a cui ha suonato DJ Rolando. Sentire “The knights of the Jaguar” in un capannone abbandonato uscire da un muro di casse, anziché i ritmi ipnotici frenetici “tekno”, mi ha
cambiato la percezione di tutto. Era musica, ero circondato da ragazzi con cui non
solo condividere un’esperienza e uno stile, ma anche una cultura. Qualche mese
dopo Richie Hawtin al petrolchimico di Marghera, e poi Jeff Mills al Rohstofflager a Zurigo…
Paul: Puoi descrivere perché e come ballare è importante per più?
Manu: Ballare è importante per diversi motivi. E’ un’azione fisica che fa sudare, rilasciando energia e facendoti distaccare dal mondo col quale quotidianamente ti devi rapportare. E’ creare una sinergia unica con le persone che ti circondano, sinergia che si oppone all’indifferenza fastidiosa che ti assale nell’ora di
punta in metropolitana. E’ ogni volta una riscoperta di se stessi, un “aggiornamento” dei propri limiti e del proprio stato mentale e fisico. E’ una scusa per creare nuove amicizie, consolidarne di vecchie, vedere posti nuovi e ascoltare musica che altrimenti non conosceresti.
Paul: Come credi che la techno sia nata come genere musicale?
Manu: La techno è una delle evoluzioni della musica elettronica che negli anni ’80 ha conquistato la scena mondiale. E’ stata una fuga dalle sonorità pop,
un’esplorazione verso suoni più cupi, grezzi e sperimentali che come reazione al
crollo dei valori nella società post industriale hanno creato un senso di soddisfazione e di appartenenza ai margini di tutto quello che veniva comunemente accettato dalle masse. Che sia in un capannone a Detroit, in un campo aperto in Franurban millepiani
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cia o in un gasometro in Bovisa, gli elementi tipici della techno e la totale mancanza di compromessi con altri generi musicali ha portato gente diversa a ballare
per giorni interi distaccandosi dal mondo intero.
Paul: Qual è il tuo rapporto con le droghe?
Manu: Le droghe sono sempre state nella mia vita un gesto di trasgressione che
ha rafforzato legami di amicizia o di conoscenza. Fin dalle prime canne ho notato il distacco che si creava, mentale e fisico, col resto del mondo che ottusamente rifiutava di comprendere, e apprezzato l’intesa con le persone con cui condividevo esperienze. Non penso che il consumo di droghe sia fondamentale nella vita di ogni persona, ma l’ignoranza e la propaganda che influenza la nostra società
sono pericolosi tanto quanto l’abuso di molte sostanze. La conoscenza è un requisito fondamentale per giudicare l’uso e l’abuso di delle diverse sostanze stupefacenti.
Paul: Qual è la tua droga preferita e perché?
Manu: Oltre alla marijuana, la mia droga preferita è l’mdma. Diverse esperienze con questa sostanza mi hanno fatto provare emozioni e sensazioni uniche,
quasi tutte positive.
Paul: In che modo le droghe influenzano la tua serata/il modo con cui ascolti
la musica?
Manu: Le droghe sono un elemento che influenzano molto le serate mie e dei
miei amici. Alterano la percezione dei posti in cui andiamo, della musica che ascoltiamo, creando una situazione di complicità unica, ogni volta diversa.
Paul: Quali sono i valori che ti porti dietro quando vai a ballare?
Manu: Valori positivi. Amore, rispetto, complicità, anticonformismo, pace,
uguaglianza, libertà.
Paul: Qual è il tuo party/discoteca/ambiente ideale?
Manu: Senza dubbio i miei luoghi preferiti sono capannoni dismessi, scantinati bui
e grezzi, in generale luoghi normalmente non adatti ad ospitare felicemente tante persone. Penso che questa contrapposizione di fondo sia molto importante per apprezzare
e capire la techno. E’ proprio in luoghi dove è evidente la decadenza e il fallimento della società industriale, ma che sopravvivono grazie a “pirati” come noi, che si apprezza
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un senso unico di fratellanza e complicità. La capacità di appropriarsene in maniera inaspettata e incomprensibile ai più è un elemento fondamentale della musica techno.
Paul: Qual è stata l’esperienza più brutta e perche?
Manu: Probabilmente con alcune droghe dissociative pesanti, che non mi hanno fatto godere per niente la serata. Non direi necessariamente esperienze brutte,
ma di sicuro non belle.
Paul: E la più bella?
Manu: Jeff Mills @ Rohstofflager 2005 o 2006, “Strings of Life” a ripetizione, abbracci, baci, luci, calore…
Paul: In che modo descriveresti e perché il rapporto tra città e techno?
Manu: Il rapporto tra città e techno è intrinseco, essenziale, non esisterebbe la
techno se l’uomo non vivesse in città. Non esisterebbe la techno se l’uomo non
vivesse nel disagio, se i modelli di vita che ci vengono imposti non fossero spesso fallimentari. La techno è una fuga da tutto ciò, dalla città-gabbia che rischia di
soffocare la propria popolazione. La techno è rivincita, creazione di un percorso
alternativo nuovo, mai esplorato prima, utilizzando al meglio le risorse a propria
disposizione rimodellandole, e inventando un mondo nuovo con nuove regole alla ricerca di un equilibrio ormai perso. La techno utilizza apparecchi analogici o
digitali per creare artificialmente ritmi e melodie mai sentite prima, combinate tra
loro ogni volta in modi rivoluzionari per creare emozioni all’interno di capannoni abbandonati. Non a caso la techno è nata a Detroit, città post industriale per eccellenza, e si è sviluppata a Berlino, Londra, Parigi e molte altre città dove è evidente lo stato alienate del tessuto urbano in cui viviamo, e la dimensione molto
poco umana delle nostre strade, delle nostre periferie e delle nostre autostrade.
Underground Resistance. Utopia e Urbanistica.
Il nome appare per la prima volta nella città di Detroit nei primi anni ottanta.
Il gruppo nasce in un contesto socio-economico caratterizzato dalla eccessiva frammentazione del lavoro e da tassi di disoccupazione elevati, indicatori di un modello fordista alla deriva. Fondata da Jeff Mills e Mad Mike e ancora attiva oggi,
la nascita dell’Underground Resistance è celebrata come l’origine della “Detroit
Techno”.
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Sono vari gli artisti che ruotano intorno al gruppo. Essi appartengono per lo
più a minoranze nere e latine, figli di ex lavoratori della linea di produzione Ford
fanno parte della generazione che ha vissuto prima della recessione e la rovina di
una città speciale come Detroit, irriducibilmente definita dal suo tessuto economico e industriale. Detroit continua a fare da paradigma: ora è la metafora della
macchina rotta che ha smesso di funzionare.
Scriveva Thomas A. Reiner. “Così come l’urbanistica deve oggi misurarsi con
le conseguenze di azioni nate da concetti utopistici, nel ventesimo secolo essa ha
assorbito, sia pure indirettamente, molte delle idee che hanno trovato la loro prima espressione nella letteratura utopica. […] Ovviamente, le stesse utopie non sono che una delle forme in cui si esprime l’interesse per l’ambiente ideale”.2
La resistenza si manifesta nella fantasia utopica dell’Underground Resistance.
L’immaginario fa perno sul riutilizzo in chiave positiva delle macchine e degli ambienti che li supportano. Il messaggio audiovisivo proposto appare sotto le vesti
di una cyborg-utopia: un immaginario caratterizzato dall’incontro-scontro tra natura e tecnologia. Il club è il simulacro metafisico dello spazio vuoto e liscio, accomodante per il divenire futuro.
Il successo diventa mondiale grazie all’esplosione simultanea della “cultura
underground” in Europa negli anni attorno alla caduta del muro di Berlino. Londra, Berlino, Parigi, ma anche Roma e Milano condividono un pubblico che desidera gli ibridi della fantascienza. Si va diffondendo una cultura di opposizione ai
processi sociali responsabili del declino urbano. La proposta – valida ancor oggi
– è riassunta dal rovesciamento dell’uso dei mezzi di produzione: computer analogici e macchine.
La diffusione dell’immaginario techno nelle città europee mostra alcuni punti
di rottura con la tradizione del modello di contestazione della società contemporanea. In primo luogo, l’uso positivo della macchina e della tecnologia, nonostante esse abbiano contribuito all’alienazione degli operai e alla rovina di Detroit.
Questo nuovo impiego di macchine è un modo per deviare il percorso tecnologico. Il secondo punto di rottura corrisponde alla dissoluzione di tutte le dicotomie.
Il terzo punto di rottura concerne la temporalità transitoria di appropriazione del
territorio, attraverso l’utilizzo di spazio non occupato.
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Simboli Naturali
L’atmosfera che si respira dentro un club è l’esperienza urbana che più si avvicina al contatto con l’aura tecnologica. Ma non bisogna farsi ingannare da questa celebrazione della macchina. Se da una parte c’è la tendenza a vedere tutti i
fenomeni techno sotto la lente futuristica di quel che un tempo si chiamava cyber
punk, oggi nei club ci si veste bene, si apprezza la qualità della musica e si sperimentano altre forme dello stare insieme.
Moltissimi dischi che vengono suonati celebrano il connubio temporale tra città
e natura, tra futurismo e primitivismo, tra animalità e robotica, e così via. Gli esempi sono moltissimi e se ne trovano ovunque, dalle origini della techno Detroit agli
album più recenti. Solo per citarne alcuni: il singolo Urban Tropics di Juan Atkins
(1991) incluso nell’EP The Future Sounds, l’ultimo album di Jeff Mills intitolato
Jungle Planets, passando per il meno conosciuto Techno Primitivism del duo olandese Juju & Jordash. Questo elemento dialettico rappresenta senza dubbio uno degli elementi simbolici più importanti che riguardano il legame tra l’immaginario
techno e la città.
La sensazione che si prova dopo svariate ore dentro un club è talvolta di metamorfosi del corpo in una massa di rottami; altre volte di simbiosi tra storia naturale e ambiente tecnico. Quando le persone ballano da sole ad occhi chiusi cercando di entrare in “contatto” con la musica e l’ambiente circostante, provano delle sensazioni che si muovono sul filo tra organico e meccanico. I lavori dei giovani Tim Noble e Sue Webster lo comunicano efficacemente. Quelli che sembrano solamente composti di trucioli e ferri vecchi, in realtà se gli si proietta della luce contro, formano l’ombra di figure umane. Nel club, in quel momento di autoterapia che ci si concede quasi misticamente, avviene una catarsi simile. Da una
parte, il rumore della città amplificato nella musica mette in moto alcune difese.
Ci si dice e si pensa che, nonostante tutto, al centro del caos urbano ci sia comunque l’umano. Tuttavia, c’è un momento in cui si sente che il corpo – e non
più l’ombra – si smaterializza, scomponendosi nelle tante componenti degli ingranaggi sociali.
Questa composizione di elementi eterogenei si ritrova, almeno nel campo artistico dell’era moderna, all’interesse dei surrealisti per l’arte africana. Michel Leiurban millepiani
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ris, dopo aver accompagnato l’etnologo Marcel Griaule nella spedizione Dakar
Djibouti, riportò nell’ambiente parigino l’interesse della vita urbana nei confronti delle sue origini. Nacquero così molti dibattiti sul “valore” e sulla “storia” in seno alla critica artistica e se l’arte africanista fosse da ritenersi al pari del cubismo
di Picasso.
Nel libro I frutti puri impazziscono James Clifford propone una storia del tribale e del moderno attraverso la significativa mostra tenuta al Museum of Modern
Art di New York nel dicembre del 1984 dal titolo “Primitivism in 20th Century
Art: Affinity of the tribal and the modern”. 3 In questo allestimento gli oggetti tribali non-occidentali vennero affiancati ai dipinti dei più importanti artisti moderni occidentali. Tra i primi a ritenere doveroso tale accostamento ci fu Picasso che
intuì che gli oggetti primitivi sono, in realtà, arte formidabile. Non quindi una somiglianza o influenza reciproca, ma una “affinità”, una parentela che dovrebbe
suggerire una relazione intima e naturale tra le arti. L’affinità si gioca sul piano
del “concettualismo” o della “astrazione”. Tuttavia – ricorda Clifford – occorre
prestare attenzione a non sottovalutare la varietà della scultura africana. L’affinità
del tribale e del moderno “non è che una grossa illusione ottica: la misura di una
comune diversità rispetto alle modalità artistiche che hanno dominato in Occidente dal Rinascimento al tardo Ottocento”.4 Il suggerimento di lettura che viene
fornito dall’antropologo dei “frutti impuri” è che la celebrazione degli artefatti
non-occidentali a forme d’arte deve essere considerata storicamente in un contesto non casuale.
I mezzi di comunicazione locale/globale hanno il potere di produrre forme autentiche locali con cui sviluppare discorsi tesi a globalizzare la circolazione virtuale del capitale, che in questo caso è definibile come capitale simbolico. Non è
quindi una globalizzazione omologante che tende ad uniformare l’immaginario,
bensì un processo per via tecnica di diffusione globale del capitalismo virtuale,
astratto, simbolico. La mercificazione degli immaginari a opera della pubblicità,
della costruzione di un comune linguaggio mediatico, del branding commerciale
e politico, non comporta l’omogeneizzazione culturale.
L’armonia che l’ibridismo produce a livello mediatico costituisce il successo
dell’equilibrio generale nel campo delle leggi economiche. Nel frattempo, questo
tipo di consumo che suggerisce l’immaginario postfordista assume i contorni
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dell’uscita dall’industrialismo e dal capitalismo. “È il capitalismo stesso che, senza volerlo, lavora alla sua propria estinzione sviluppando gli strumenti di una specie di artigianato high-tech, che permette di fabbricare quasi qualsiasi cosa abbia
tre dimensioni con una produttività molto superiore rispetto a quella dell’industria
e con un basso consumo di risorse naturali.5
All’apice di produzione simbolica del postfordismo, quando esso tenta di riassumere tutta la società nei suoi schemi fluidi di messa a valore dei beni immateriali, presentandosi come mediazione tra economia e ambiente, o in altri termini,
tra umanità e natura, si riapre la prospettiva marxiana del ricambio organico come sintesi superiore di agricoltura e industria.6
Utopia ed urbanistica sono le due parole chiave del club. Mentre i tre elementi sono: la macchina sociale, il desiderio e i corpi. Macchina ed utopia: lotta dell’accelerazionismo contro la storia del capitalismo. Desiderio: Utopia. Corpo utopico: cyborg. Urbano: macchina sociale. Urbanistica: etica dell’abitare il mondo.
Corpo-urbanistico: immagine ambientale. Questi elementi compongono l’ombra
fantasmagorica della città. Proporzioni e prospettive danno materia al virtuale.
L’ecologia da marketing tanto alla moda oggi ha invaso vestiti, muri, pubblicità, giornali, riviste, schermi. Queste forme di vita animali sono puramente statiche. Non c’è vera vita negli occhi di una giraffa stampata su una maglietta. Esse sono forme che vengono dal di fuori. Eco- di una nuova origine?
Come sosteneva Kevin Lynch in The Image of the City, l’immagine ambientale ha tre componenti. Struttura, Identità e Significato. Il futurismo cui tendono i
club ne proietta le figure corrispondenti: la città produce ritmo/tecnica, polvere
smaterializzata, stringhe elettriche. Le luci attraggono l’uomo in modo sempre più
simile al rapporto tra lampadine ed insetti. Un anti-specismo al contrario, rovesciato.
Sotto lo stimolo costante della comunicazione digitale, il corpo risponde coordinatamente alla relazione occhio-mano. Cellulare, carta di credito, riserve d’alcol. La società dei dati altro non è che la più grande impresa di codificazione del
mondo. Big data = small world. La biologia politica controlla la vita. L’informatica la fluidifica con la meccanica finanziaria.
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Walter Benjamin affermava che il Futurismo si affermava come forza reazionaria a partire del tentativo di permutare le forme tecnologiche determinate in costanti invariabili. Vista di fuori, la musica techno sembra affrontare lo stesso problema. È invece nella molteplicità delle esperienze e dei valori che in essa crescono che possono essere trovate delle risposte alternative allo sviluppo speculativo delle zone urbane.
La funzione biologica e sociale degli spazi liberi, ricordava Lewis Mumford,
non può ricollegarsi all’igiene del perimetro dei centri urbani. Ci sono territori periferici già all’interno della città. L’immagine fantasmagorica racconta la storia
dello scambio tra spazio biologico e spazio sociale.
Note
1.
2.
3.
4.
5.
6.
112
http://bit.ly/NhU1UD
Utopia e Urbanistica, p.7
Bollati Boringhieri, Torino 2004.
ivi, p.224.
A.Gorz, 2009, op. cit., p.110.
Schmidt, 1969, pp.72-86.
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