le pratiche inclusive come presupposto di cittadinanza

LE PRATICHE INCLUSIVE COME PRESUPPOSTO DI CITTADINANZA
di Roberto Medeghini
(Pubblicato su Animazione Sociale 10/2006)
Il termine inclusione sta facendo timidamente la sua comparsa nel linguaggio pedagogico
attuale: infatti lo si ritrova nei convegni e in alcuni testi che riguardano l’integrazione delle persone
con disabilità all’interno del sociale e delle istituzioni educative. Sembra quindi che le resistenze
iniziali ad assumere tale forma lessicale, rilevabili soprattutto nell’ambito scolastico1, stiano
venendo meno e che quindi ci sia un accordo sul suo utilizzo: una riflessione più attenta porta però a
sottolineare come l’impiego dello stesso termine non corrisponda ad una identità teorica e di
prospettiva.
Il presente contributo cercherà quindi di proporre uno specifico teorico dell’inclusione che non
nega la storia dell’integrazione, ma cerca di rilanciarne l’idea in una fase in cui sembra essersi
ridotto e semplificato il suo potenziale di cambiamento.
Le ragioni di tale appannamento sono le più diverse, ma una potrebbe avere più peso di altre: il
prevalere di un’ottica legislativa di compensazione che ha attualmente raggiunto un punto di sintesi
oltre il quale non sembra possibile andare senza rompere equilibri ormai assestati sia nel campo dei
servizi che della scuola. Per chiarire la natura del problema posto possiamo, ad esempio, riferirci
alle politiche e all’organizzazione dei servizi per le persone con disabilità caratterizzati da una forte
deterritorializzazione, cioè senza specifici riferimenti alla natura di comunità delle relazioni, che
sradica le persone dai propri riferimenti. Oppure al tema delle figure specializzate come
l’insegnante di sostegno che, oggi, dovrebbe essere ridiscusso come figura specifica da assegnare
alla persona con disabilità, in quanto vi è, da sempre, un mandato sociale che assegna a tutti gli
insegnanti la responsabilità di un’azione educativa e formativa.
Pertanto la riflessione qui proposta cercherà di far emergere la saldatura fra processi esterni
(formativi e scolastici, quelli sociali e delle politiche relative ai servizi ) e il tema dell’appartenenza
sociale ed istituzionale, quest’ultima letta soprattutto attraverso la scuola.
É proprio tale relazione il tema che oggi sembra segnare maggiormente uno dei passaggi
fondamentali e cruciali della giustizia sociale: infatti sposta l’attenzione dall’integrazione di uno
specifico in un contesto dato, in questo caso la disabilità all’interno del sociale o della scuola, ai
processi generali di coesione e/o di espulsione sociale attraverso i quali si definiscono appartenenze
e cittadinanze e nei quali si esprimono le aspirazioni, le attese e i significati delle persone con
disabilità e delle loro famiglie.
In questa dimensione il tema della società e dell’istituzione scolastica sono viste e rappresentate
in forte relazione in quanto elementi costituiti dai processi sopra evidenziati. Per sottolineare tale
aspetto può quindi essere utile interrogarsi su come si definiscono le appartenenze sociali ed
istituzionali e quali sono le forme attraverso cui si concretizzano. Infatti quando si fa riferimento
all’inclusione sorge immediato il problema di come un gruppo sociale costruisce i suoi vincoli di
appartenenza e attraverso quali processi le persone e gruppi specifici riescono ad essere
riconosciuti e inseriti in questi sistemi e attraverso quali forme.
1
In un intervento del 1997 A.Canevaro mette a confronto il significato di integrazione e quello di inclusione:
infatti, per Canevaro, la parola integrazione “…è strettamente connessa a integra, che richiama uno stato di
completezza, una condizione intatta. Per questo, chi vive un processo di integrazione non parte dal presupposto di
essere completo o intatto. Le ragioni per proporre inclusione anziché integrazione indicano che è possibile pensare a un
processo unilaterale, e quindi a un bisogno di integrazione che riguarda dei soggetti incompleti rispetto ad altri che
sarebbero completi. Se invece parliamo di un processo che coinvolge tutti i soggetti, partiamo dal presupposto che tutti
sono incompleti e hanno bisogno di completarsi integrando elementi che non avevano…”.
Il riconoscimento sociale
Il processo di riconoscimento sociale delle persone con disabilità, come persone significanti di
un’esperienza, è storia recente in quanto, per molto tempo, sono state oggetto sia di occultamento
che di pratiche emarginanti.: ne sono esempio l’assimilazione della disabilità ad altre categorie
come i poveri ( Stiker, 1982), e l’istituzionalizzazione, come pratica di espulsione sociale attraverso
la definizione di linguaggi, luoghi specifici e pratiche (M.Foucault, 1981).
Tali forme, radicali nella loro ispirazione emarginante, sono state sostituite nel tempo dalla
costituzione di servizi specifici per le persone con disabilità (ad esempio i centri diurni per disabili,
i centri per le autonomie e i centri residenziali) e, attualmente, dai loro processi di razionalizzazione
che, in generale, lasciano aperto e senza risposta il tema dell’appartenenza sociale.
La difficoltà dei servizi a dare una tale risposta, difficoltà causata dalla collocazione delle
persone con disabilità in un’ottica medico-sanitaria, ha prodotto però diversi tentativi di ricercare
uno sfondo al recupero sociale della disabilità.
Un primo esempio viene offerto dai processi di assimilazione i quali, nei loro presupposti, fanno
riferimento alla presenza e alla condivisione di caratteri universali e di elementi prototipici, come i
comportamenti o il tipo di cultura, che assieme definiscono un modello di riferimento.
L’integrazione qui non diventa un processo, ma una semplice uniformazione in quanto la
conformità risulta il parametro di valutazione essenziale dalla quale consegue un’integrazione
consensuale e uniformante che porta a negare l’identità delle differenze.
L’utilizzazione di questo modello è prevalentemente presente in situazioni che mettono in
discussione valori culturali o sociali, ma può avere un’applicazione anche nell’ambito della
disabilità soprattutto nel momento in cui le forme di aiuto e gli interventi educativi e formativi
hanno l’obiettivo di adattare al meglio la persona disabile alla situazione sociale.
Infatti l’assimilazione, nel suo percorso, è necessariamente legata a richieste adattive e questo
intreccio produce un forte ricorso a pratiche compensative o sostitutive rivolte prevalentemente
alla persona definita nella sua difficoltà di adattarsi alla vita quotidiana. In questa direzione un
esempio di compensazione sociale è dato dal trasporto di persone con disabilità attraverso l’utilizzo
di mezzi speciali: con questa scelta si permette alla persona di potersi muovere
(assimilazione/compensazione), ma in una condizione di isolamento sociale. In questo caso è
evidente la natura contraddittoria che ispira la pratica di un servizio che tende a combinare processi
che si presentano diversificati.
Come si può osservare gli elementi che caratterizzano l’assimilazione e l’adattamento non
puntano ad una modificazione della struttura sociale, ma semplicemente ad una richiesta, alla
persona, e ad un tentativo, sulla persona, di ridurre le distanze da una condizione sociale già
normata.
Questi criteri, proprio perché si fondano su aspetti adattivi e sulle specifiche abilità, utilizzano un
punto di vista differenziale all’interno della stessa disabilità, introducendo una distinzione fra
diverse tipologie di gravità (lieve, medio e grave), distinzione che già dall’inizio fissa i margini di
possibilità. Non è un caso che l’area del ritardo mentale è quella che viene maggiormente investita
nella ricerca dei processi adattivi, mentre rimangono ai margini altre disabilità considerate più
problematiche.
Un ulteriore tentativo di recuperare la persona con disabilità nel sociale si ha con l’approccio
della normalizzazione che ha ispirato i principi dell’integrazione. Proposto da B.Nirje, direttore
dell’associazione svedese per i bambini con ritardo mentale il principio di normalizzazione indica
un’azione che tende :« […] a rendere disponibili a tutte le persone che hanno delle incapacità o
degli handicap intellettuali o altri, delle abitudini e delle condizioni di vita quotidiane che sono il
più possibile le stesse a quelle che si presentano nella società » (1992, p.16).
Questo principio viene rivisitato e ridefinito nel dibattito sviluppatosi nell’America del Nord ad
opera di W.Wolfensberger il quale, attraverso rielaborazioni successive, allarga il tema a tutte
quelle classi che vengono definite socialmente svalorizzate. Inizialmente (1972) la definizione di
normalizzazione viene collegata all’utilizzo di mezzi culturalmente valorizzanti, come il lavoro o la
partecipazione sociale, per produrre o mantenere dei comportamenti e delle caratteristiche
personali il più possibile normali. A seguito di diverse critiche seguite alla definizione di
normalizzazione, W.Wolfensberger (1983) la rinomina, introducendo il concetto di valorizzazione
dei ruoli sociali (VRS) dove il ruolo sociale viene inteso come un insieme di comportamenti, di
responsabilità, di aspettative e di prerogative conformi ad un modello sociale2 .
Da questa prospettiva la VRS tende a spiegare come si formano i ruoli sociali, come vengono
attribuiti e come possano essere utilizzati per contrastare la svalorizzazione: ne consegue che
l’obiettivo fondamentale diventa quello di rendere possibile alle persone svalorizzate l’accesso ai
ruoli socialmente valorizzati poiché, in tal modo, le persone verranno, da una parte, investite di
aspettative e avranno l’opportunità di migliorare le loro competenze e, dall’altra, potranno
compensare o diminuire gli aspetti deficitari. Nella prospettiva citata non è solo l’assegnazione a
ruoli sociali positivi che permette di minimizzare gli effetti sociali e le pratiche negative, ma anche
il tipo di servizi e di pratiche destinate alle persone svalorizzate. Infatti per la VRS l’organizzazione
dei servizi può avere un forte impatto sulla costruzione sociale di un’immagine valorizzata o
svalorizzata: ad esempio la localizzazione e gli aspetti esteriori, i contatti sociali in termini di
frequenza e tipologie, le attività proposte, i tipi di routines, i ritmi di vita del servizio, il tipo di
linguaggio e l’etichettatura utilizzata, i finanziamenti, … sono aspetti che generano immagini e
rappresentazioni sociali che possono essere positive o negative3 . Nella definizione di immagini
valorizzate un peso importante viene inoltre attribuito alle strutture informali ( gruppi di amici,
parenti, vicinato) le quali, nell’ambito dei servizi alla persona, vengono preferite ai mezzi
tradizionali e alle strutture professionali o specifiche come, ad esempio, i centri diurni per disabili.
Per chiarire ulteriormente la portata concettuale del suo approccio teorico Wolfensberger (1991)
propone sette temi attorno ai quali può articolarsi la VRS: rendere esplicite la dinamica della
svalorizzazione, l’importanza delle aspettative e dei ruoli sociali nella creazione e nella
eliminazione della svalorizzazione, la necessità di una compensazione positiva al ruolo sociale
svalorizzato, il ruolo di un modello basato sullo sviluppo per il miglioramento delle competenze,
l’importanza dell’imitazione come meccanismo di apprendimento, la valorizzazione dell’immagine
sociale e il ruolo centrale dell’integrazione sociale ( R.J.Flynn, 1994).
La teoria della normalizzazione e dei ruoli sociali valorizzati ha incontrato però diverse critiche
soprattutto da parte di quegli autori che vedono un forte intreccio fra condizioni individuali e
strutture sociali: fra questi M.Oliver (1999), esponente del modello sociale inglese che si ispira al
materialismo storico, il quale mette in discussione l’assunto che la svalorizzazione sia un processo
cognitivo universale che possa essere superato attraverso l’assunzione di ruoli valorizzanti. Per tale
autore la teoria della normalizzazione e la successiva modificazione non forniscono alcuna
spiegazione dei motivi per cui le persone con disabilità siano marginalizzate e svalorizzate né
alcuna soluzione adeguata per toglierle da tali condizioni. Infatti porre il problema della disabilità e
della relativa marginalità nelle menti individuali e sociali delle persone abili (pregiudizi e
rappresentazioni) non aiuta a comprenderne la natura: questa va ricercata nelle ideologie, nei modi e
nelle pratiche attraverso cui la società si struttura. A differenza della normalizzazione il percorso
indicato da Oliver sta nella modificazione dei presupposti sociali sui quali si fonda la
2
Qui è evidente l’influenza della corrente sociologica dell’interazionismo simbolico : G.H.Mead ne viene considerato il
fondatore e l’esponente principale, con H.Blumer, che ne ha coniato il termine. La Scuola di Chicago e E.Goffman ne
hanno sviluppato i temi.
3
La VRS utilizza strumenti di valutazione dei servzi: PASS (Wolfensberger e Glenn, 1975), PASSING (Wolfensberger
e Thomas, 1983).
svalorizzazione e l’esclusione delle persone, nonché nella ricerca e costruzione delle condizioni
sociali in cui tutti i ruoli siano valorizzati.
Da una prospettiva sociologica anche P. Fougeyrollas e K Roy (1996) hanno cercato di
problematizzare il concetto di ruolo sociale sia in riferimento al concetto di abitudini di vita, sia
alle idee sottostanti al principio della normalizzazione. Gli autori partono dall’idea che la disabilità
è un processo che si costruisce nell’interdipendenza fra fattori personali (sia biologici che
attitudinali) e fattori ambientali: è in questa interazione che si possono mettere in luce i modi
attraverso cui si costruiscono gli ostacoli o i facilitatori alla realizzazione delle abitudini di vita
delle persone. Ne consegue che tali abitudini di vita, intese come categorie di attività ( lavorare,
istruirsi, mangiare, guardare la televisione…), sono costruite socialmente in quanto risultato
dell’interazione fra persona e ambiente. Secondo gli autori, non tutte le attività di vita quotidiana,
come ad esempio il mangiare, la cura della persona, leggere comprendono obbligatoriamente una
dimensione interpersonale: da qui la critica avanzata al concetto di ruolo sociale che risulta parziale
in quanto non riesce a spiegare l’insieme della realtà sociale perché in essa sono presenti attività
quotidiane che rientrano in una dimensione culturale senza tuttavia rientrare nel campo dei ruoli
sociali.
Un secondo aspetto critico riguarda il rapporto fra il concetto di differenza e quello di
valorizzazione dei ruoli sociali. Per gli autori citati i principi di normalizzazione suggeriscono che
esiste una idea generale condivisa, di norme, di regole, di comportamenti, una sorta di verità
oggettiva nella quale si iscrivono dei ruoli sociali definiti dalla società. Tentare di normalizzare le
persone attraverso apparenze ordinarie come possono essere i ruoli sociali valorizzati può assumere
il senso di una violenza integrante, di una standardizzazione limitativa alla cui base si trovano la
negazione e l’espulsione delle differenze.
Dalle osservazioni precedenti emerge come gli approcci dell’assimilazione e della
normalizzazione si differenzino sia concettualmente che nel contenuto del recupero sociale delle
persone con disabilità; nell’assimilazione sono in evidenza i processi adattivi con una
accentuazione delle variabili individuali, cioè delle abilità che sono o non sono presenti, a scapito di
quelle sociali, mentre nella normalizzazione l’elemento principale si identifica con l’assunzione di
ruoli sociali valorizzati con la sottolineatura di quei pregiudizi e di quelle rappresentazioni sociali
che possono ostacolare la miglior integrazione. Accanto a queste differenze i due approcci
presentano però anche alcune similarità che riguardano l’assenza di un’attribuzione causale ai
fattori sociali nella costruzione della disabilità e la difficoltà ad assumere concettualmente l’idea di
differenza. Infatti sia i processi adattivi che l’assunzione dei ruoli sociali valorizzati propongono
un’idea omogenea e standardizzata dei comportamenti e delle posizioni sociali delle persone senza
alcun riferimento alla relazione dinamica fra questi e la strutturazione della società, fra l’azione e le
decisioni dalle persone.
Queste sottolineature fanno emergere come i tentativi qui evidenziati, proprio per lo sfondo di
omogeneizzazione che li ispira e la conseguente assenza di dinamicità, non rappresentino le forme
attraverso cui può attivarsi un processo inclusivo.
Una via diversa dalle precedenti tende a fare riferimento e ad utilizzare il concetto di
riconoscimento dei diversi modi, culturali, cognitivi, sociali, relazionali e d emozionali, attraverso
cui le persone si presentano: questo infatti sembrerebbe garantire la presenza delle differenze e,
quindi, di trovarsi in una certa relazione con i processi inclusivi. Un approfondimento ci porta però
ad evidenziare che il riconoscimento, pur essendo un elemento necessario per permettere
l’attivazione del processo inclusivo, implica la definizione delle differenze per la quale è necessario
demarcare proprietà, tracciare categorie e confini rispetto ad alcune caratteristiche: questo può
tradursi anche in leggi o norme che sanciscono la tutela del gruppo riconosciuto.
Rispetto a tale processo si possono introdurre due riflessioni. La prima, che il riconoscimento,
tende a marcare l’identità ed ad accentuare appartenenze: ne è un esempio la posizione di una parte
del movimento dei sordi secondo la quale esiste una cultura Deaf caratterizzata da un proprio
linguaggio (il linguaggio dei segni) e per la quale la marginalizzazione sociale subita viene
assimilata all’oppressione di altre comunità culturali. Secondo Z.Bauman (2001) il tentativo di
essere riconosciuti porta però con sé il rischio della radicalizzazione della differenza soprattutto
quando questa viene messa in relazione al principio dell’autorealizzazione e a quello dei diritti.
L’accentuazione del riconoscimento evidenzia ed amplifica quindi le proprietà di un gruppo,
proprietà che, fra l’altro, non sono una condizione sufficiente per un processo inclusivo. Infatti,
rimanendo all’interno della disabilità, vi può essere l’affermazione dell’identità disabile, ma rimane
aperto il problema dell’appartenenza ad una comunità collettiva che non può essere descritta come
somma di semplici avvicinamenti.
La stessa argomentazione può essere applicata ad una seconda riflessione che riguarda il
rapporto tra riconoscimento e leggi e/o norme di tutela. In genere i tentativi di riconoscimento
tendono ad ottenere dichiarazioni, intenti e una legislazione: questo è un insieme utile e, in certi casi
necessario, ma tale insieme rappresenta sempre un atto esterno, un atto che non necessariamente
attraversa la società e, per questo, non produce la generalizzazione del riconoscimento e la sua
traduzione sociale.
Per tali motivi il concetto di riconoscimento, più che rimanere all’interno di un processo
affermativo di gruppo, dovrebbe essere inserito all’interno del quadro più vasto della giustizia
sociale (Z.Bauman, 2001) in quanto, questa, assicura uno stretto intreccio con il tema dell’uguaglianza: ed è qui che si apre lo specifico per l’idea di inclusione proprio nel suo rapporto con
ciò che una società reputa fondamentale per l’essere umano.
Infatti è diverso, ad esempio, pensare alle persone solo come potenziali contenitori di utilità o,
invece, come persone che hanno interessi e bisogni più o meno prioritari, più o meno urgenti per cui
la priorità morale di una società sta nella soddisfazione di quelli più urgenti.
Ed è in questa urgenza che emerge il tema della disabilità e, con essa, delle persone
maggiormente svantaggiate: infatti tale lettura favorisce il perseguimento dell’uguaglianza delle
condizioni, in un significato sostanziale nel momento in cui implica per la società una priorità
morale per la soddisfazione degli interessi e dei bisogni delle persone meno protette e svantaggiate
(I.Carter, 2001).
Ma come interpretare una condizione? In questa direzione potremmo far riferimento alla posizione di A. Sen (2001) secondo il quale la risposta sta nelle capacità fondamentali, in quelle
capacità4 generali, intese come “funzionamenti” delle persone che sono le cose a cui le persone
attribuiscono un valore e che riescono a fare o a essere: ne sono un esempio il partecipare alla vita
sociale, tessere relazioni amicali, istruirsi, lavorare, divertirsi, esprimere emozioni. Nella prospettiva
citata questo insieme di capacità non viene però ridotto al livello di abilità del singolo o di semplice
ruolo sociale, ma si configura come possibilità, rapportandosi così alla presenza o meno di
4
Il concetto di capacità qui utilizzato non ha alcuna relazione con quello di abilismo. Rispetto al
contenuto specifico delle capacità, attualmente viene proposta una lista che è il frutto di discussioni e
aggiustamenti successivi: il carattere di tale lista è aperto in quanto si collega sia ad una dimensione storica
che culturale. Di seguito si propone una sintesi della versione attuale:
Vita, come possibilità di viverla dignitosamente. Salute fisica, che comprende una sana riproduzione, l’alimentazione e
un’abitazione adeguata. L’integrità fisica, come possibilità di movimento, di protezione da aggressioni, comprendendo
quella sessuale e domestica, e di poter godere del piacere sessuale e di scelta in campo riproduttivo. Sensi,
immaginazione e pensiero che comprendono l’alfabetizzazione, la possibilità di coltivare interessi culturali, la libertà di
pensiero, di pratica religiosa. Sentimenti intesi come possibilità di amare, provare desiderio, soffrire, provare ira
giustificata. Naturalmente per permettere che tali capacità si esprimano è necessario creare condizioni relazionali
significative. Appartenenza intesa sia come possibilità di vita associata e di relazioni sociali, sia come tutela dalla
discriminazione e dall’emarginazione. Altre specie cioè poter, saper vivere e potersi prendere cura dell’ambiente naturale. Tempo libero ricreativo, come possibilità di sperimentare forme associate informali basate sul gioco e avere
accesso e ruolo nelle attività ricreative. Controllo dell’ambiente sia politico come diritto di voto e di partecipazione al-la
vita politica, sia materiale come il diritto alla proprietà, a cercare e ad avere la-voro.
condizioni sociali che ne permettono o ne negano l’attualizzazione. Ad esempio, nell’ottica qui
espressa, nel caso di una disabilità grave l’istituzionalizzazione risulta un impedimento al concetto
di capacità in quanto limita la costruzione di una rete sociale in grado di creare le condizioni perché
le capacità possano esprimersi.
Questo approccio ha quindi un forte legame con il processo di inclusione in quanto è innanzitutto
rivolto a tutte le persone e all’investimento che le persone fanno su se stesse o su quelle che hanno
accanto, a ciò che vogliono e possono fare e non alle limitazioni individuali. Infatti la condizione
per l’inclusione è intendere le capacità come la possibilità per le persone, con disabilità e non, di
vivere la vita: qui la tutela sociale sta nella rimozione di quei vincoli e di quelle strutture che
impediscono l’attualizzazione delle capacità. Secondariamente, adottando il criterio degli interessi
più urgenti, si esprime una società fondata sui legami e nella quale si dispensano e si ricevono cure
non limitate ai servizi. In terzo luogo, l’approccio delle capacità qui espresso, è in relazione con la
strutturazione del sociale e con gli ostacoli e le barriere che impediscono alle potenzialità e capacità
delle persone di concretizzarsi.
[…]
La dimensione sociale e civile
Le argomentazioni che sostengono il tema dell’Inclusione sono state affrontate, fin qui, prendendo
in esame il forte legame fra processi sociali ed istituzionali, questi ultimi esemplificati attraverso la
scuola. L’evidenza di una tale relazione permette di completare l’analisi facendo riferimento ad
alcune ricadute significative nell’area delle politiche e del sociale che hanno una diretta influenza
sulla dimensione civile ed esistenziale delle persone.
-
Le politiche. Nel sociale e nell’istituzione scolastica il pensiero prevalente nel campo della
disabilità è di tipo compensativo: infatti l’utilizzo di risorse ha privilegiato l’investimento
rispetto al deficit e alla sua gravità, proponendone la gestione alle istituzioni sanitarie, ai
servizi e, nella scuola, a figure specializzate. Il riferimento al sanitario e allo specialismo ha
prodotto così una frattura culturale nella gestione della disabilità che ha avuto ripercussioni
sull’inclusione sociale e scolastica in quanto la persona con disabilità non è posta in gestione
alle diverse articolazioni del sociale e delle istituzioni, ma a strutture, servizi e sostegni che
escono dalla logica delle relazioni. In questo ambito sono significativi l’esempio dei trasporti
per le persone con disabilità che è in stretta relazione con le resistenze per il superamento
delle barriere architettoniche o il progressivo isolamento dell’insegnante di sostegno in
alcune esperienze di inserimento scolastico. A differenza di questa logica speciale e di
separazione, l’approccio inclusivo richiede di pensare una ricomposizione fra diversi livelli
delle politiche al fine di creare possibilità per le persone disabili di vivere la vita che rendano
effettiva non tanto e solo l’uguaglianza delle opportunità, ma soprattutto quella delle
condizioni. Per questo il tentativo di ricomposizione (ricomposizione che tenga conto
dell’insieme delle differenze, della loro condizione ed evoluzione) chiama in causa, ad
esempio, l’ambito dell’economia (i luoghi, l’ambiente, il tipo di lavoro, il suo rapporto con il
corso della vita e il senso che gli viene attribuito dalle persone), della progettazione
urbanistica ed edile ( la possibilità di avere spazi che permettano di essere vissuti in rapporto
alle diverse condizioni e al loro cambiamento), dei trasporti che superino la logica dello
speciale e della separazione, della cultura che ampli il suo riferimento ai modi differenti di
utilizzare linguaggi, esprimere significati e visioni dell’esistenza. In questo modo può essere
evitato il rischio di staticità insito nei processi di normalizzazione e della valorizzazione dei
ruoli sociali: infatti le possibilità che si aprono con il cambiamento delle prospettive in cui un
contesto si muove non solo offrono spazio alle capacità, ma permettono modi ed espressione
di vita che superano lo sfondo dell’omogeneità. Questo vale per il sociale, ma anche per
l’istituzione scolastica dove l’impedimento per una reale inclusione sta nei presupposti sui
quali si fondano attualmente le pratiche organizzative, didattiche e valutative utilizzate nei
processi di insegnamento-apprendimento rivolte non tanto e solo agli alunni con disabilità,
ma a tutti gli studenti.
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Gli attori e i luoghi sociali. La ricomposizione delle politiche sopra prospettata richiede l’
estensione di un pensiero, riferito a persone e luoghi, che assuma progettualmente il concetto
di differenza: questo porta ad una cultura diffusa, cioè ad un pensare, fare ed essere in grado
di includere le differenze e superare le barriere alla partecipazione, diventando così la risorsa
essenziale sulla quale si possono innescare altre azioni. Il riferimento agli insegnanti
curricolari è immediato, ma potremmo riferirci anche, ad esempio, alle persone che
gestiscono le politiche e le iniziative culturali e del tempo libero, che decidono la
progettazione e i modi di essere teatro, cinema, museo, creando il tipo di utenza media di
riferimento. In questa prospettiva assume grande rilevanza il processo di formazione e di
educazione continua, sia in riferimento alle diverse fasi dell’istruzione che nel corso di vita,
finalizzato all’assunzione delle differenze come presupposto della cittadinanza.
-
I servizi per le persone con disabilità. La prospettiva dell’inclusione pone domande
immediate anche al pensiero e alle conseguenti progettazioni che guidano i servizi per le
persone con disabilità. Uno sguardo alle diverse realtà mette in evidenza un loro incremento
quantitativo e diversificato, in base alle diverse tipologie di gravità, con una attenzione
rivolta prevalentemente alla persona con disabilità o alla sua famiglia. Ciò può essere vista da
molti come una scelta che dà risposte immediate ad una condizione ritenuta deficitaria, ma
nella prospettiva inclusiva tale scelta pone un interrogativo; e cioè se sia sufficiente istituire
servizi alla persona oppure non sia più opportuno pensare a servizi che, accanto
all’attenzione alle persone, permettano alla comunità di includere come cittadini le persone
con disabilità. Questa prospettiva richiede alla progettazione di modificare l’approccio fino
ad ora utilizzato, passando da proposte che tendono alla razionalizzazione dei servizi ( ad
esempio attraverso la loro concentrazione territoriale) a proposte che abbiano come
presupposto le relazioni di comunità: ciò permetterebbe alla comunità di riflettere sul proprio
ruolo nei processi inclusivi e alle persone, e con esse quelle con disabilità, di mantenere e
costruire quei riferimenti significativi ed esperienze che creano appartenenze.
-
Il piano legislativo. La riflessione sui servizi non può essere disgiunta da quella relativa alle
politiche e alle legislazioni conseguenti non solo nazionali ma anche regionali. In questo
ambito la prospettiva inclusiva pone un interrogativo sul ruolo delle politiche sociali e della
legislazione nella definizione del corso di vita delle persone con disabilità: infatti
l’istituzionalizzazione e la standardizzazione dei percorsi di vita attraverso una legislazione,
soprattutto regionale (ad esempio la suddivisione dei servizi in centri per le autonomie,
diurni, residenziali, basati sul grado di gravità) può non essere un fattore protettivo, ma , al
contrario, può diventare elemento di rischio e di emarginazione se costruisce percorsi non
modificabili. Per evitare ciò la prospettiva inclusiva richiede alle politiche e alla legislazione
di uscire dal vincolo della standardizzazione per assumere politiche differenziate che non
facciano riferimento a gruppi omogenei e statici, come, ad esempio, anziani o disabili, ma
che si collochino nelle vite, nelle relazioni e nelle esperienze delle persone e abbiano come
riferimento la loro possibilità di azione (C.Saraceno, 2001).
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