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Lucio Gentilini
LA SCUOLA DI FRANCOFORTE:
CECITA’ ED INGRATITUDINE DELLA FILOSOFIA
Introduzione
Durante i frenetici e tormentati anni della Contestazione – quelli che sono passati alla
storia col nome di ‘Sessantotto’ – i temi e le analisi della Scuola di Francoforte (e
soprattutto di Marcuse, la terza ‘M’ di riferimento dopo quelle di Marx e di Mao)
erano largamente diffusi, tanto da divenire quasi dei luoghi comuni o una moda
culturale.
Al di là delle intenzioni degli stessi autori, la loro voce costituì allora un richiamo
quale raramente (se non mai) la filosofia aveva avuto: pensiero filosofico, sentire e
musica (rock, beat, pop) della gioventù colta nata nel dopoguerra non solo si
incontravano nello sforzo di comprendere e di giudicare il mondo e la società degli
anni Sessanta, ma si sommavano e si fondevano nella speranza e nel progetto di un
futuro pacifico, libero e felice.
L’aspirazione alla liberazione non si limitava più ai soli rapporti sociali ed
all’organizzazione di lavoro e proprietà ma, entrando anche nel ‘privato’ delle
persone e mostrando come la liberazione dell’Eros (libertà sessuale ed omosessuale,
emancipazione della donna e quant’altro) era parte essenziale del programma per un’
era di autentica felicità, assumeva contorni nuovi ed inattesi.
I temi fondamentali della scuola di Francoforte (oggi caduta in oblio) erano allora
usciti dal ristretto dibattito filosofico, resi vivi e significanti dall’ardore di tanti
giovani che cercavano di dare voce alla loro insoddisfazione e di trovare una via
d’uscita ad essa.
Questi temi si cercherà qui di mettere in luce tenendo presente che essi furono una
fonte ispiratrice fra le tante e che insieme a tanti altri fornirono pensieri e parole
all’insofferenza delle masse giovanili in agitazione.
Non si può far di più: non è infatti possibile esaurire in un’unica visione d’insieme
tutti gli aspetti, le cause, le modalità, i richiami, i programmi (spesso confusi e
contraddittori) di quel composito e caotico movimento che travolse l’Occidente e la
sua cultura, ma chi ha respirato l’aria di quegli anni capisce al volo di cosa si parla,
mentre i conservatori di allora (reazionari oggi) dopo oltre quarant’anni fremono
ancora di indignazione e di sgomento al solo sentir nominare il ‘Sessantotto’.
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La Scuola di Francoforte
Nel 1931 Max Horkheimer diventò direttore dell’ “Istituto per la ricerca sociale”
fondato a Francoforte otto anni prima e fu da questo momento che l’Istituto divenne
una vera e propria scuola con un programma preciso, l’elaborazione della “teoria
critica della società”, che l’avrebbe resa famosa.
Già l’anno seguente la rivista dell’Istituto, l’ “Archivio per la storia del socialismo e
del movimento operaio”, venne affiancata dalla “Rivista per la ricerca sociale” che
si concentrava sulla concezione della società come totalità dialettica piuttosto che
sui suoi aspetti specialistici e settoriali: essa infatti, volendo fondere (i ‘giovani’)
Hegel e Marx con (il ‘vecchio’) Freud, aveva lo scopo dichiarato di considerare la
società industriale avanzata (cioè capitalistica moderna) come una totalità attraversata
da una contraddizione ineliminabile ed intendeva prefigurare così una nuova società
libera dallo sfruttamento ed anche liberata in senso erotico.
L’Istituto era dunque dichiaratamente schierato a favore di un marxismo aperto ed
antidogmatico e ne rifiutava così l’interpretazione e l’esito che esso aveva avuto in
U.R.S.S.: l’istituto tuttavia volle sempre mantenere un atteggiamento puramente
teorico senza farsi coinvolgere in nessuna partecipazione attiva e concreta alla
situazione storica della Germania e dell’Europa del tempo.
Evidente erede del marxismo ‘occidentale’ del ‘giovane’ Lukàcs e di Korsch, il suo
ambiente non era certo quello dell’Internazionale Comunista, ma dell’Università, ed
il contributo che i ‘francofortesi’ (chiamiamoli così) vollero dare alla liberazione ed
alla disalienazione della società del futuro rimase così sempre confinato all’ambito
culturale.
Ma il momento era quanto mai infelice: la Repubblica di Weimar, incapace di
risolvere la crisi del 1929 che stava squassando la Germania, cessò di esistere già il
30 gennaio 1933 con l’ascesa al Cancellierato di Hitler e per gli uomini dell’Istituto –
oltretutto quasi tutti ebrei – non ci potè essere scampo che nell’esilio che, dopo
Ginevra e Parigi, si concluse a New York.
E sarà proprio presso la Columbia University di New York che essi riaprirono l’
“Istituto internazionale della ricerca sociale” perchè l’indirizzo della loro scuola
potesse continuare a svilupparsi.
Dopo la guerra solo una parte di essi (fra cui Horkheimer e Adorno che nel 1950
riaprirono l’Istituto stesso a Francoforte) fece ritorno in patria, mentre altri (fra cui
Marcuse e Fromm) preferirono restare negli Stati Uniti.
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In questo saggio si cercherà di esaminare le principali opere che questi intellettuali di
sinistra tedeschi scrissero e pubblicarono una volta trapiantati negli U.S.A. ed a
contatto con la realtà dell’Occidente sull’altra sponda dell’Atlantico – opere che
ebbero larga eco e che resero i loro autori famosi praticamente in tutto il mondo.
Horkheimer e Adorno: la paralisi della dialettica come
ragione del dominio
Scritta da Horkheimer e Adorno fra il 1942 ed il 1944 e pubblicata per la prima volta
nel 1947, “Dialettica dell’illuminismo” ebbe il preciso scopo di mostrare che
l’Europa del nazifascismo e gli U.S.A. democratici, cioè l’Occidente, erano ambedue
società asservite alle cieche esigenze dell’economia capitalistica ed avevano lo stesso
fondamento culturale.
Per quanto le differenze fra le due realtà fossero evidenti, i due autori insistettero su
ciò che invece le unificava e che le rendeva figlie dello stesso evento: il definitivo
ripudio da parte della società occidentale (tutta) del pensiero dialettico.
Questo evento per i due autori era stato talmente devastante per la causa della libertà
e della felicità che essi ritennero non ci fossero più speranze nè furono in grado di
offrire soluzioni (nemmeno in teoria).
Essi sentirono di poter soltanto lanciare un grido di allarme e di disperazione.
Ecco come procede la loro analisi.
I
Secondo Horkheimer e Adorno storicamente e filosoficamente l’illuminismo (inteso
in senso lato come ragione in continuo progresso) si trasformò in dialettica nella
misura in cui trovò ostacoli alla realizzazione del suo programma di liberazione
dell’individuo e della società: esso si appellò al non-essere perchè non sentiva
realizzata nell’essere l’esigenza di un individuo e di una società sempre più liberi e
padroni di se stessi.
Filosofia e cultura nella loro irriducibilità alla realtà ne avevano sempre mostrato
l’imperfezione ed avevano sempre denunciato i suoi limiti, errori e contraddizioni.
La loro negazione della realtà era volta a mostrarne l’inadeguatezza e l’ingiustizia,
ma, insieme, anche le sue possibilità di sviluppo: la filosofia portava insomma alla
luce i limiti e le contraddizioni della realtà perchè quest’ultima potesse evolversi.
Filosofia e cultura erano state così la coscienza della società e ne avevano
rappresentato e fatto avvertire l’alienazione.
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Metafisica, filosofia, arte (anche al di là delle loro intenzioni dichiarate) avevano
sempre mostrato in modo lampante quale avrebbe dovuto e potuto essere la realtà
(storica e sociale) - e come invece non era.
Ecco che allora l’illuminismo “pensiero in continuo progresso” tendeva ad una
continua elevazione della vita e della coscienza: esso negava valore alla società
opponendosi ad essa come portatore di ben più alte possibilità.
Trionfava la contraddizione, il pensiero era dialettico, e l’illuminismo con la sua
prospettiva rivoluzionaria apriva il cammino al progresso continuo della liberazione.
II
Apparentemente nel mondo occidentale l’illuminismo si affermò e proseguì il suo
cammino, ma – tutto al contrario di quel che ci si sarebbe potuto attendere - la società
moderna per i Nostri due autori è semplicemente mostruosa: invece di un mondo
libero e felice ne esiste invece uno asservito e dominato in modo sempre più
totalitario e la causa di questo apparente paradosso sta nella trasformazione (per un
movimento tutto interno) dell’illuminismo in positivismo.
Horkheimer e Adorno continuano a chiamarlo ‘illuminismo’, ma in realtà esso si è
rovesciato nel suo contrario (il positivismo) e la sua dialettica si è paralizzata
nell’accettazione totale, preventiva ed acritica (propria del positivismo, appunto) dei
fatti, cioè dell’essere così com’è.
Per Horkheimer e Adorno filosofia e cultura non esprimono più anche la protesta e la
negazione della realtà immediata, non ne mostrano più anche i limiti e le
manchevolezze, non affermano più anche l’inadeguatezza del(la società) reale e la
sua intrinseca contraddittorietà: hanno invece perso completamente il loro ruolo di
opposizione alla realtà per divenirne pura cassa di risonanza.
L’illuminismo (cioè il positivismo) ha totalmente ripudiato la sua dimensione
dialettica e riflette solamente i fatti nel loro apparire immediato; esso allora non trova
(nè può trovare) più ostacoli dinanzi a sè, non ha più nulla da affermare contro la
realtà così come essa si manifesta.
Trionfa il principio di chiarezza: linguaggio e pensiero possono e devono parlare solo
di fatti precisi e concreti ed espungono da sè tutto ciò che non ha possibilità di
verifica scientifica nè di impiego concreto ed utile.
Nel 1944 Horkheimer tenne una serie di lezioni proprio su questo punto e le
condensò in un’opera pubblicata nello stesso 1947 dal titolo “Eclisse della ragione –
Critica della ragione strumentale”.
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Anche qui ribadì che la volontà di dominare la natura ha reso la ragione puro
strumento e puro calcolo dei mezzi necessari ed utili e l’ha trasformata
inevitabilmente in strumento di dominio sull’uomo spazzando via ogni
considerazione sulla sua umanità, sulla sua liberazione e sulla sua felicità (a meno
questa non sia intesa come possesso di beni e di risorse materiali perchè in questo
campo i successi della ragione strumentale sono enormi ed innegabili).
La ragione non è più ‘oggettiva’, cioè immanente nella realtà e quindi ancora da
realizzare, ma ‘soggettiva’, cioè volta unicamente al raggiungimento di risultati –
indipendentemente dai fini; il pensiero può così servire a raggiungere qualsiasi scopo
in quanto strumento per qualsiasi azione della società.
Chi organizza la società, chi stabilisce i fini da raggiungere, chi insomma ha il potere,
non è un problema della ragione - che ha perso la sua autonomia ed ha rinunciato alla
sua funzione di indirizzo, di critica e di opposizione.
La ragione si è piegata al potere, ne è diventata strumento operativo, pronta quindi a
realizzarne gli ordini (tutti) senza fiatare (perchè non ha più fiato per questo!).
Ogni tensione fra concetto e realtà sparisce in nome del principio di concretezza che
impone si possa parlare – rispecchiandoli passivamente - solo dei fatti reali ed
esistenti, cioè solo dell’essere.
Il non-essere non esiste.
La conoscenza è ripetizione ideale del fatto accaduto e l’apparato teorico, asservito a
ciò che è, si limita a riprodurlo.
Ciò che è è ciò che deve essere e null’altro c’è.
L’essere (questa società) viene accettato prima ancora che se ne parli e precisamente
questo soffocamento del pensiero negativo è l’espressione compiuta del sistema
totalitario.
III
Horkheimer e Adorno parlano di totalitarismo, di oppressione, di tirannia e
denunciano disperati un sistema chiuso e fondato sul dominio, ma è evidente che in
apparenza il mondo occidentale è tutt’altro e sembra proprio che, tutto al contrario, si
sia qui arrivati ad un livello di libertà, di benessere e di felicità senza precedenti.
E’ necessario chiarire dunque cosa i nostri due autori intendono per totalitarismo e
per dominio.
Per Horkheimer e Adorno nel mondo occidentale contemporaneo l’oppressione e la
tirannia non sono quelle tradizionali per cui un gruppo sottomette la società e la tiene
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asservita con la violenza anche perchè, oltretutto, un dominio del genere finisce col
generare un pensiero rivoluzionario, crea tensione ed apre le porte alla dialettica.
Nel mondo occidentale di oggi il dominio è invece molto più pericoloso perchè è
senza volto o, meglio, ha il volto di tutti: la società, così razionale e tecnologica, con
tutta la sua organizzazione e divisione del lavoro, con tutto il suo ordine ed i suoi
ruoli, assicura un dominio tale sulla natura che i prodotti, i beni e le merci che può
offrire (più o meno) ad ogni suo membro aprono veramente un’età di benessere (più o
meno) per tutti.
Sembrerebbe proprio che quel regno di felicità e di fine della schiavitù dal bisogno
siano ormai arrivati, ma al prezzo che il destino della società stessa non le appartiene
più: i tempi e le modalità della produzione non possono essere alterati che in misura
marginale e, insomma, in questo sistema onnicomprensivo non solo la libertà
dell’individuo è impossibile, ma l’insieme stesso procede in modo automatico senza
che una volontà lo possa dirigere e indirizzare.
Il potere economico è divenuto talmente forte ed è in grado di offrire tanti beni che di
fronte a lui qualsiasi opposizione sparisce: l’imponente sviluppo produttivo non solo
ha eliminato la metafisica, ma si è messo al suo posto.
Ordine, sottomissione, divisione del lavoro, gerarchia, disciplina, sono le
caratteristiche della società che col dominio della natura assicura il benessere
collettivo: il controllo e lo sfruttamento della natura ha generato una società di
dominati e di amministrati che trovano il loro senso ed il loro valore solo
nell’inquadramento della colossale divisione del lavoro.
Horkheimer e Adorno possono così parlare di “impenetrabile unità di dominio e
società”: il sistema (perchè di un sistema c’è stato bisogno per arrivare al dominio
della natura) siamo tutti noi, qui ed ora: non si può tornare indietro, il sistema è
invulnerabile ed ha prodotto un pensiero (il positivismo) che si limita a rispecchiare
(e a giustificare) l’esistente come unica realtà.
E’ la reificazione definitiva: spazzata via la filosofia, l’arte ridotta a puro (ed inutile)
godimento estetico, ordine e sottomissione sono inestricabilmente fusi con un
benessere mai visto prima.
IV
La società in cui secondo Horkheimer e Adorno la paralisi della dialettica ha
raggiunto il massimo livello ed in cui il sistema totalitario funziona meglio è quella
statunitense ed il capitolo che le è dedicato, “L’industria culturale”, è quello che ha
avuto maggiore diffusione e successo: l’analisi verte qui sulla funzione essenziale dei
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mass-media che danno nel modo certamente più lampante la misura del livellamento
preciso e massiccio operato su individuo e società.
I mass-media penetrano ovunque, armonizzano tutto e tutti e senza di loro un
controllo così sistematico dell’immensa macchina sociale non sarebbe nemmeno
pensabile.
L’industria culturale traduce tutto nel suo linguaggio ed ha una capacità di
assorbimento senza limiti: notizie, idee, concetti, messaggi, opere d’arte, libri,
avvenimenti, tutto (tutto) l’industria culturale assorbe e poi offre al pubblico: nulla è
più proibito, nulla scandalizza più, nulla è più rivoluzionario, tutto è posto sullo
stesso piano, tutto viene prodotto e riprodotto in serie, divulgato, reso accessibile a
tutti – ed in questo modo perde ogni possibile carica negativa ogni efficacia come
possibile fattore di trasformazione.
La forza dell’industria culturale sta nel fatto che essa è capace di intercettare tutte le
spinte, anche quelle contrarie ad essa stessa, e di riproporle immediatamente come
prodotti propri: ciò che potrebbe resisterle viene inserito (magari coll’etichetta di
‘diverso’, ‘rivoluzionario’, ecc.) nel suo mercato e da quel momento, entrato a farne
parte, la rafforza.
Una volta inserita nel sistema dell’informazione ogni comunicazione diviene uno dei
prodotti che il mercato consuma e cambia di continuo.
L’industria culturale identifica arte e cultura con lo svago e le trasforma così in
consenso perchè divertirsi vuol dire essere d’accordo ed il divertimento è l’apologia
della società.
Questi concetti oggi (nel 2011) sembrano ovvii e addirittura scontati, ma non fu
certamente così al tempo in cui vennero espressi dai Nostri due autori.
V
Anche l’antisemitismo nazifascista viene denunciato da Horkheimer e Adorno come
un fenomeno proprio della società occidentale e non come una sua deviazione
tanto folle quanto feroce: anch’esso è considerato un esito ed una conseguenza della
paralisi della dialettica dell’illuminismo, proprio come la reificazione totale della
società statunitense: analizzarlo significa dunque comprendere ancora meglio ciò che
è accaduto nell’intero mondo occidentale.
L’energia psichica dell’antisemitismo è infatti l’allergia al ‘diverso’ in quanto l’ebreo
non si identificherebbe nella società (livellata e dominata) e vi figurerebbe quindi
come un estraneo: e qui sta il problema perchè il ‘diverso’ non solo fa venire alla
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mente un altro modo di vivere, ma, in quanto possibile dissolutore della società, fa
anche rivivere l’antica paura nei confronti della natura.
Da una parte l’ebreo viene inteso come libero (o più libero) e ciò in una società di
dominati suscita risentimento (perchè fa avvertire ancora più dolorosamente ciò a cui
si deve rinunciare e quel che si deve sopportare) ma, contemporaneamente, appare
anche come fattore di disgregazione della società che ha sottomesso la natura e ciò,
avvertito come un pericolo, fa risorgere l’atavico terrore del periodo in cui la natura
vinceva l’uomo.
In una società inquadrata, livellata e dominata, la ‘diversità’ è una colpa che non può
essere perdonata: l’ebreo viene percepito come felicità senza potere, compenso senza
lavoro, patria senza confini, religione senza mito, società senza stato, e tutto ciò non è
sopportabile dai dominati che in cuor loro aspirerebbero a tutto questo mentre il
dominio può sussistere solo finchè essi odiano ciò che bramano.
I tristi esecutori del genocidio tentano di eliminare ciò che provoca in loro
risentimento e paura e cercano così di non sentirsi completamente dominati: il
sanguinario persecutore antisemita vede insomma nella sua vittima una minaccia ed
in un certo senso ha ragione perchè l’ebreo con la sua stessa esistenza gli impedisce
di adagiarsi (senza la pena di pensare) nella sottomissione senza fine al dominio
totalitario.
VI
Il panorama offerto in “Dialettica dell’illuminismo” è davvero desolante: vi si scopre
che la società occidentale, dopo aver vinto la natura ed aver offerto ai suoi membri
beni e benessere in quantità, in realtà è dominata in un regime totalitario senza volto
ed onnicomprensivo: vi si denuncia che i suoi membri sono livellati ed asserviti a tal
punto che, pur di non dover pensare ad un’alternativa, si scatenano in modo assurdo e
folle contro chiunque sia solo sospettato di resistere ancora.
E a tutto ciò non ci si può nemmeno opporre perchè nella Germania nazista come
negli U.S.A. democratici l’illuminismo si è rovesciato nel suo contrario, il pensiero è
completamente interno al sistema ed ha così perso definitivamente ogni capacità
dialettica di negazione.
Non esiste più alcuna speranza di liberazione e nessuna possibilità di uscire da questo
incubo: la conclusione dell’opera è disperata:
“... se il discorso, oggi, deve rivolgersi a qualcuno non è alle cosiddette masse (il
pubblico fa parte del sistema), nè al singolo, che è impotente, ma piuttosto a un
testimone immaginario, a cui lo lasciamo perchè non scompaia interamente con noi.”
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(pag. 272).
Horkheimer e Adorno affermano che la lotta di classe non è più motore nè della storia
nè del cambiamento e che le classi oggi collaborano fra loro come organi dell’unico
sistema: essi tuttavia, fedeli alla loro impostazione originaria di occuparsi solo di
teoria, non dicono come e perchè l’antagonismo fra le classi è sparito anche se
questo sarebbe un punto decisivo in quanto spiegherebbe perchè il rinnovamento
sociale - che può essere conquistato solo da una o più classi che, escluse e sacrificate,
elaborano un nuovo pensiero (alternativo) e si ribellano – oggi sia escluso.
Il sistema del dominio totalitario è invincibile perchè coinvolge tutti, ha bisogno di
tutti e riguarda tutti indifferentemente: apparirebbe logico concludere che la dialettica
dell’illuminismo si è irrimediabilmente inceppata quando la lotta di classe si è spenta
nell’accordo generale, ma anche su questo punto Horkheimer e Adorno tacciono
limitandosi a constatare il fenomeno.
Marcuse: la dialettica come logica del Grande Rifiuto
Pubblicata nel 1964, l’opera più nota di Marcuse, “L’uomo a una dimensione –
L’ideologia della società industriale avanzata”, affronta le stesse problematiche della
“Dialettica dell’illuminismo” e parla anch’essa della società occidentale o, meglio, di
quella statunitense, il più ricco, potente ed avanzato sistema capitalistico del mondo.
Su questa civiltà il giudizio di Marcuse non si discosta troppo da quello espresso da
Horkheimer e Adorno, anche se il suo appare molto più concreto nel senso che cerca
una rispondenza più precisa nel contesto storico-sociale preso in esame e, soprattutto,
indica anche una possibile via d’uscita da esso.
I
Secondo Marcuse nella società industriale avanzata (il capitalismo post-bellico) gli
individui sono dominati con la Tecnologia piuttosto che col Terrore cui un tempo i
loro controllori dovevano far ricorso: la quantità di beni, servizi, merci e benessere a
disposizione di (più o meno) tutti sembra legittimare questa società nella quale non si
scorgono veri contrasti, dato che praticamente tutti i ceti sono uniti nello sforzo per la
sua conservazione.
Il processo attraverso il quale l’individuo è sempre più inserito nella società, nonchè
manipolato senza tregua, è quello che in seguito sarebbe stato chiamato
‘consumismo’, nel quale l’apparato produttivo non determina più solo l’offerta, ma
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anche la domanda, cioè i bisogni e le esigenze del pubblico dei (appunto)
consumatori.
Il controllo sociale inoltre non agisce più semplicemente solo sul lavoro
dell’individuo, ma anche sul suo rilassamento (guidato fino all’istupidimento) e sulle
sue pulsioni stesse (manovrate e mutilate).
Grazie a una vera e propria manipolazione la società industriale avanzata influisce in
maniera rilevante sui desideri stessi dell’individuo ed in questo modo il controllo
sociale, anche se è divenuto inavvertito ed addirittura piacevole, è in realtà sempre
più totalitario perchè chi non accettasse l’interesse sociale prevalente dovrebbe
rimettere allora in discussione anche tutto l’insieme – seppur indotto - dei propri
bisogni e delle proprie soddisfazioni.
Nella società industriale avanzata la manipolazione arriva insomma fino agli istinti.
L’individuo ripropone bisogni e desideri che gli sono stati imposti ed entra così in un
circuito dal quale non riesce più ad uscire.
Questo tema dei falsi bisogni che vengono artatamente suscitati nell’individuo in
modo che egli non possa più gestirsi autonomamente (perchè è la sua stessa volontà
ad essere predeterminata) negli anni della Contestazione (ed oltre) fu ripreso tante
volte ed in tanti modi che alla fine, a forza di ripeterlo, divenne un luogo comune:
oggi sembra così aver perso la sua efficacia, ma nel discorso di Marcuse assume
invece grande rilievo.
II
Come già Horkheimer e Adorno, anche Marcuse ritiene che la società industriale
avanzata dalla conquista della natura è passata a quella dell’uomo e che la mancanza
di forze sociali disponibili al cambiamento ha fatto venir meno il pensiero negativo,
un tempo così attivo nella sua opposizione al potere costituito.
La società industriale avanzata sarebbe così l’ultimo stadio cui è pervenuto un preciso
progetto storico, quello della trasformazione ed organizzazione della natura in mero
oggetto di dominio - e la razionalità tecnologica è divenuta così razionalità politica.
La meccanizzazione di tutte le attività sociali soddisfa un numero sempre crescente di
bisogni e desideri, ma elimina anche ogni possibilità di autentica alternativa: le forze
politiche possono insomma operare soltanto rimanendo all’interno dell’ordine
costituito.
Comunicazioni di massa e produzione in serie rendono la cultura merce assorbita nel
sistema anche quando vorrebbe opporvisi.
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La struttura e l’efficacia dell’apparato tecnico-produttivo assoggettano l’individuo
ricoprendolo di beni: la società industriale avanzata non è libera, ma concede una
serie notevole di gratificazioni - nell’accontentarsi delle quali si forma quella che
Marcuse chiama efficacemente ‘coscienza felice’.
III
La ‘coscienza felice’ si sente in armonia con la realtà, l’accetta, accetta tutto, si
identifica completamente con la sua condizione (ormai del tutto reificata) che ritiene
unica e razionale.
L’uomo è dunque ‘a una dimensione’ nel senso che si adegua in tutto e per tutto alla
società in cui vive ed ha perso l’altra dimensione, quella che critica, che nega, che
non si identifica, che si oppone, che rifiuta: essere a una dimensione significa
adeguarsi con la mente svuotata alla realtà così come essa appare.
La società industriale avanzata ha fatto del progresso tecnico e scientifico uno
strumento di dominio: essa opera una mobilitazione totale nel senso che ha bisogno di
tutti gli uomini e di tutti i loro sentimenti.
Da groviglio di classi in lotta fra loro la società è diventata sistema sempre più
pianificato, burocratizzato, livellato, ed in cui è sempre più assente la fatica del
lavoratore-bestia da soma: l’apparato appare compatto ed immodificabile nella sua
reificazione più totale. Per Marcuse
“Questa è servitù allo stato puro: esistere come strumento, come cosa.” (pag. 52)
Ovviamente poi il sistema totalitario ha generato un pensiero a sua immagine e
somiglianza: come la società industriale avanzata è a una dimensione perchè non
contempla opposizione e rifiuto, così la sua filosofia sarà anch’essa a una
dimensione, nel senso che non c’è in essa alcuno spazio per la negazione.
Questa filosofia è il positivismo.
IV
Come già Horkheimer e Adorno avevano sostenuto, anche Marcuse afferma che in
passato la cultura era sempre stata in contraddizione con la realtà (storico-sociale) in
cui pure si era formata ed era sempre stata capace di esprimere anche la negazione di
quest’ultima - la sua altra dimensione, appunto - ma nella società industriale avanzata
il pensiero si è appiattito sull’unica dimensione del concretamente esistente.
Il pensiero si è completamente adeguato alla realtà e la ragione al fatto.
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Nel positivismo – la filosofia della società industriale avanzata – tutte le parole
vengono riferite agli oggetti che ne rappresentano l’unico significato.
Tutto viene tradotto nel linguaggio che rispecchia e riproduce la realtà così com’è:
nulla le si oppone o ne rimane fuori - nè può più farlo.
Ciò che è, è, e ciò che non è, non è: più semplice di così!
La trascendenza e la negatività della ragione sono definitivamente spazzate via.
I positivisti si sforzano in ogni modo di mostrare la vanità della filosofia e rifiutano
ogni allontanamento dalla realtà concretamente esistente.
Il potere della negazione è così precluso in partenza ed essi demoliscono senza tregua
i modi di pensare alternativi all’universo stabilito di discorso non attraverso la loro
confutazione, ma semplicemente dichiarandoli insensati in quanto privi di un
referente extralinguistico: la moderna semantica definisce i linguaggi che si pongono
in alternativa o al di fuori dell’essere nella sua immediatezza privi di oggetto e
dunque di significato.
Un simile sistema di pensiero è definito da Marcuse ‘mutilato’ ed ‘a una
dimensione’, mentre la teoria critica che egli propone è a due dimensioni perchè
include anche la negazione della realtà (in vista di un suo superamento).
Il positivismo, espressione filosofica di questa società, parla di una realtà mutilata ed
immobile, cioè reificata, mentre la teoria critica vuole esprimere tutta la realtà e
quindi ne fornisce una conoscenza intera e veritiera.
V
Fin dalle primissime pagine della sua opera Marcuse avverte che fonderà il suo
discorso sui concetti negativi della filosofia dialettica che egli chiama ‘teoria critica’:
la ‘teoria critica’ può essere definita come quella teoria che non accetta le ‘regole
del gioco’, cioè che sfugge fin da subito dalla trappola del positivismo e della sua
pretesa concretezza (unidimensionale).
Nei confronti dell’attuale assetto sociale (e di pensiero) Marcuse opera così quello
che suggestivamente chiama ‘Grande Rifiuto’, rifiuto di accettarlo preventivamente
(insieme al suo pensiero) come l’unico vero, reale e quindi immodificabile; rifiuto di
non vederne le contraddizioni interne e le alternative; rifiuto dei limiti entro cui il
positivismo afferma che pensare ha un senso; rifiuto di fermarsi all’ottimistica, ricca
e piacevole immagine con cui la società industriale avanzata ama mostrarsi.
Il Grande Rifiuto non solo è dunque essenziale per modificare la società, ma anche
per comprenderla.
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Procedere su una strada simile implica il ricorso ai concetti negativi propri della
dialettica, cioè non negativi in assoluto, ma negatori della pretesa della realtà di
essere razionale e completa così come appare, senza storia e senza alternative.
La teoria critica di Marcuse è incompatibile col positivismo (ogni filosofia dialettica
lo è) perchè quest’ultimo elimina come addirittura impensabile tutto ciò che non si è
(ancora) realizzato completamente.
La ‘teoria critica’ esprime un giudizio storico e quindi non assolutizza i risultati cui è
pervenuta la società industriale avanzata, ma, alla luce del processo del suo stesso
sviluppo, esamina anche le altre possibilità, quelle che non si sono realizzate o che si
potranno realizzare in futuro.
Marcuse insomma non si limita all’‘universo dato dei fatti’ (cioè alla società
industriale avanzata così com’è oggi) ma ritiene che una vera e completa conoscenza
di questa stessa società non è possibile se non facendo ricorso anche all’astrazione da
essa: solo così è possibile esprimere un giudizio completo sulla società - ed anche
non accettarla.
Ecco allora che mentre Horkheimer e Adorno ritenevano che ad opprimere
l’individuo con un dominio sempre più totalitario fosse l’organizzazione sociale
basata sulla tecnologia che, in quanto tale, assoggetta e sottomette, Marcuse invece
non incolpa tanto la tecnologia, quanto l’uso della tecnologia stessa.
Non è la tecnologia ad avere colpe e responsabilità, quanto invece il suo uso:
l’assoggettamento sociale è dovuto ad un certo indirizzamento dell’apparato
produttivo - arrivato addirittura alla manipolazione dei bisogni stessi.
Per lui è certo che la tecnologia permea di sè ogni sfera sociale, invade tutti i campi e
neutralizza tutte le opposizioni; è senz’altro vero che grazie alla sua sempre più
incontrastata diffusione ogni possibile alternativa viene rigettata e nullificata ... ma è
anche vero che l’apparato produttivo attuale, se ben indirizzato a soddisfare i bisogni
vitali, potrebbe diventare la garanzia dell’autonomia dell’individuo in quanto
potrebbe farlo passare dallo stato di necessità a quello di libertà.
Insomma: il giudizio sulla tecnologia di Marcuse è storico: se è vero che le cose sono
andate in un certo modo è anche vero che sarebbero potute andare diversamente e soprattutto – che potranno anche cambiare.
VI
Così come Marcuse si erge sulla tecnologia per definirne e valutarne l’uso, allo stesso
modo si erge sulla società e la giudica indagandone la genesi storica, le alternative ed
i processi interni.
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Come Horkheimer e Adorno, anche lui insiste sulla sistematicità della società
industriale avanzata, sulla sua organizzazione a tutti i livelli, sulla sua pianificazione
e sul suo continuo affinamento e tuttavia, nonostante la scientificità delle sue parti se prese e considerate separatamente - conclude che
“questa società è, nell’insieme, irrazionale.” (pag. 8)
Nonostante la società industriale avanzata sia completamente organizzata dalla
scienza e dalla tecnologia ed offra un benessere mai raggiunto prima, rimane infatti
minata da contraddizioni per lei insolubili.
Essa crede di essere arrivata alla sua perfezione ed esclude la possibilità di mutamenti
sostanziali e di alternative a se stessa, ma la sua contraddizione sta proprio nel fatto
che mentre tende a sfruttare al massimo la sua capacità tecnologica, vuole anche
mantenerla nell’ambito delle sue istituzioni – ed è precisamente questo il suo punto di
rottura:
“La società industriale che fa proprie la tecnologia e la scienza è organizzata per
conseguire un dominio sempre più efficace sull’uomo e sulla natura per utilizzare in
modo sempre più efficace le sue risorse. Diventa irrazionale quando il successo di
questi sforzi apre nuove dimensioni alla realizzazione dell’uomo.” (pag.37)
L’uomo è stato liberato dalla fatica e dalla paura della natura; ha tempo libero e
mezzi sempre più elevati per la soddisfazione dei suoi desideri; così, vinta la lotta per
la vita dopo millenni di durissime privazioni, gli si dischiude dinanzi agli occhi la
possibilità delle sempre più alte realizzazioni che lo sviluppo tecnologico porta con
sè. La contraddizione consiste nel fatto che queste sempre più alte realizzazioni
cozzano contro il peso del dominio esercitato da questa stessa società.
Nonostante le blandizie dell’industria culturale e di quella del divertimento, è lo
sviluppo tecnologico stesso che implica una sempre più elevata esigenza di
liberazione e di realizzazione: la società industriale avanzata marcia verso
l’implosione dato che le prospettive ed i bisogni (su cui Marcuse insiste molto) che
essa stessa ha generato sono incompatibili col mantenimento del suo apparato
repressivo.
Offrire all’individuo sempre più mezzi e possibilità, agi e comodità, vuol dire anche
spingerlo a reclamare una vita sempre più aperta a nuove realizzazioni – cioè più
libera e meno alienante.
Per Marcuse lo sviluppo e la prosecuzione della tecnologia sono incompatibili col
mantenimento dell’attuale ordine sociale – e questo in una prospettiva dialettica (e
marxista) è il destino di ogni società che più prosegue sul suo cammino, più sviluppa
al suo interno i fattori che la disgregano, la negano e generano un contrasto
risolvibile solo in un contesto sociale diverso.
15
VII
Quando Marcuse parla di oppressione ed alienazione non intende comunque solo
quella (classica, verrebbe da dire) riferita al mondo del lavoro, al suo sfruttamento ed
alla conseguente divisione sociale: già nel 1955 con “Eros e civiltà” aveva allargato
la sua analisi anche all’universo non meno importante della soddisfazione erotica
(quella che Reich avrebbe poi definito “La rivoluzione sessuale”).
In quest’opera Marcuse riprende la teoria di (il ‘vecchio’) Freud secondo la quale
condizione necessaria alla coesione ed al progresso sociale è la repressione degli
istinti e la sublimazione della loro energia – la ‘libido’ – in cultura e comportamenti
socialmente utili: nel vocabolario marcusiano il prezzo da pagare alla civiltà sarebbe
dunque il sacrificio del ‘principio del piacere’ al ‘principio di realtà’.
Tuttavia se da una parte Marcuse conferma la correttezza dell’analisi freudiana,
dall’altra però contesta la pretesa ineliminabilità della repressione degli istinti: il fatto
che ciò avvenga nella nostra società non significa che debba avvenire in ogni società,
cioè che ogni società non possa che essere repressiva.
In altre parole, secondo Marcuse una diversa politica basata su una diversa
organizzazione del lavoro che parta dalla soddisfazione dei bisogni e dalla possibilità
che l’enorme progresso tecnologico (che ci ha liberato dalla necessità del lavoro)
venga volto a favore della liberazione in un mondo pacificato può interrompere la
logica della necessità della repressione dell’Eros ed anzi permetterne finalmente la
realizzazione.
Dal ‘regno della necessità’ si potrà passare – finalmente! - al ‘regno della felicità’.
Si ripropone la contraddizione vista prima: l’organizzazione sociale che permette un
sempre più ricco benessere è allo stesso tempo livellatrice ed oppressiva, così, prima
o poi, si scontrerà coll’esigenza di liberazione che lei stessa ha suscitato grazie alle
sue stesse realizzazioni.
Questa società non potrà continuare a contraddirsi in questo modo – opponendosi alle
sue stesse promesse – e quando crollerà non lascerà tuttavia rovina, macerie ed un
mondo da ricostruire, ma un apparato produttivo altamente sviluppato: nulla
mancherà allora per un’esistenza libera e felice.
E’ il progresso tecnologico stesso a racchiudere in sè la concreta possibilità della
autentica liberazione della società.
16
VIII
Il soggetto attivo di questa trasformazione rivoluzionaria Marcuse lo individua
proprio nell’ultima pagina della sua opera: se infatti borghesia e proletariato sono da
tempo uniti nel conservare e perpetuare l’attuale società così com’è,
“Tuttavia al di sotto della base popolare conservatrice vi è il sostrato dei reietti e degli
stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati
e degli inabili. Essi permangono al di fuori del processo democratico; la loro presenza
prova come non mai quanto sia immediato e reale il bisogno di porre fine a
condizioni ed istituzioni intollerabili. Perciò la loro opposizione è rivoluzionaria
anche se non lo è la loro coscienza.”
L’opposizione degli esclusi, dei sottoproletari e degli emarginati, costituisce la forza
vergine che, seppur elementare ed ignorante, può scuotere il sistema e metterlo in
crisi: pur facendo parte della società l’emarginato non fa però parte del sistema e per
questo la sua azione è disgregante – anche contro la sua intenzione! – dello stesso.
Il ruolo storico dei reietti e degli esclusi riguarda l’intera società ed è per questo
universale.
E’ evidente quanto Marcuse ripercorra il cammino che un secolo prima Marx aveva
tracciato (come Marx aveva individuato il soggetto rivoluzionario nel proletariato,
così Marcuse lo ritrova negli esclusi) ma Marcuse è ben attento a chiarire che quella
che sta indicando non è una previsione o una speranza, ma una possibilità, una
possibilità che si schiude ma che potrebbe benissimo rimanere irrealizzata.
In ogni caso, la teoria critica col mettere in luce la contraddizione ineliminabile della
società industriale avanzata è giunta al termine del suo cammino ed al culmine dei
suoi compiti – e la parola spetta ormai all’azione.
Così conclude Marcuse nelle ultime righe dell’opera, ma due anni dopo nella
“Prefazione politica 1966” ad “Eros e libertà” riconoscerà anche la necessità
dell’opposizione degli intellettuali ed “il rifiuto istintuale dei giovani in protesta.
Sono le loro vite che sono in gioco, e se non le loro vite la loro possibilità di essere
completamente uomini.” (pag. 45)
IX
Altro tema fortemente sottolineato da Marcuse è che la società industriale avanzata si
prepara sempre più per la guerra mentre parla in continuazione di pace: il suo
apparato militare si è sviluppato al punto tale da creare i mezzi per cancellare
(centinaia di volte) l’intero genere umano dalla faccia della Terra.
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Le due superpotenze di allora, U.S.A. ed U.R.S.S., a causa della logica espansiva dei
loro sistemi produttivi si affrontavano per tutti i mari e su tutti i continenti
coinvolgendo in una crescente tensione internazionale i Paesi terzi: il concretissimo
pericolo di un’ecatombe nucleare planetaria per Marcuse era la seconda
contraddizione di questa società che, così ricca ed agiata, faceva però vivere
l’intero pianeta sotto l’incubo della catastrofe nucleare.
E’ la prosecuzione stessa del modello di sviluppo della società industriale avanzata a
richiedere la continua sottomissione di popoli e Paesi che sottomettersi non vogliono.
Nella “Prefazione politica 1966” a “Eros e civiltà” (cioè due anni dopo “L’uomo a
una dimensione”) Marcuse insisterà molto proprio su questa estrema militarizzazione
della situazione mondiale:
“... nelle società ... opulente ... il conflitto fra padrone e schiavo è efficacemente
tenuto sotto controllo. O piuttosto si è socialmente spostato. Esso ora esiste ed
esplode nella rivolta dei paesi sottosviluppati contro l’intollerabile eredità del
colonialismo e il suo prolungarsi nel neocolonialismo.” (pag. 37)
Dopo la contraddizione fra uso della tecnologia ed aspirazioni rese possibili dalla
tecnologia stessa, Marcuse ne segnala dunque un’altra, quella fra l’inevitabile
imperialismo della società industriale avanzata e la rivolta dei Paesi che non
vogliono essere sottomessi e dominati - è appena il caso di ricordare che quegli
erano gli anni della storica opposizione e della protesta giovanile contro la guerra del
Vietnam.
La società del futuro in cui le contraddizioni verranno risolte non potrà essere dunque
solo quella in cui istinti e bisogni troveranno la loro soddisfazione grazie alla
tecnologia, ma anche quella da cui sarà bandita la guerra.
Solo in un sistema sociale che sia anche ‘pacificato’ (secondo l’espressione di
Marcuse) gli uomini potranno infatti riappropriarsi del loro apparato produttivo ed
indirizzarlo al raggiungimento della felicità.
Limiti di una filosofia
Al giorno d’oggi (nel 2011), in un mondo profondamente cambiato da quello di
mezzo secolo fa, è difficile ed allo stesso tempo facile esprimere un giudizio sui testi
della Scuola di Francoforte.
Difficile perchè l’atmosfera in cui quei pensieri maturarono è da tempo svanita - e
capita insomma quel che si prova ascoltando la musica di quegli anni: certamente si
può ancora apprezzare e può ancora piacere, ma non può più parlare al cuore,
entusiasmare e commuovere come invece faceva allora.
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E’ vero che il ragionamento filosofico – freddo per sua natura – dovrebbe esulare e
prescindere dal clima ideologico e culturale che lo circonda ma, come si diceva
nell’Introduzione, la filosofia della Scuola di Francoforte era uscita (volente o
nolente) dal suo ambito più proprio (ma anche tanto più ristretto) per entrare nel vivo
del dibattito pubblico e del sentire del tempo.
E tuttavia giudicare è anche facile perchè la lontananza temporale rende tutto molto
più comprensibile: oggi così si può notare subito come i Nostri autori siano riusciti a
cogliere in pieno tanti pericoli e tante trappole che la società di massa comportava (e
comporta ancora): la denuncia del ‘sistema’ che compatta classi sociali un tempo
nemiche; il potere incredibile dei mass-media e dell’industria culturale nel chiudere e
livellare le menti omologandole sotto una continua valanga di informazioni, mode,
pubblicità e messaggi; la mancanza di volto e pensiero di coloro che sono al vertice
della società amministrata; l’impossibilità di un cambiamento sostanziale;
l’abbondanza di beni e servizi, consolazioni e rifugi dallo stress e dal conformismo
della vita uniforme e plasmata dalle esigenze dell’economia onnipresente ed
onnipervasiva; ... sono solo alcune delle denunce che devono preoccupare e che non
possono che essere riconosciute purtroppo vere e fondate.
Ma, detto questo ed avvertiti di tanti rischi e problemi della nostra società
occidentale, non si può però concludere che quando è troppo, è troppo.
I
Come è possibile che Horkheimer e Adorno - due ebrei tedeschi in fuga dal Terzo
Reich, scampati negli U.S.A. e qui accolti a braccia aperte, entrati a far parte di una
prestigiosa università e riaperto il loro Istituto mentre i loro confratelli in Europa
finivano nei campi di sterminio – abbiano potuto scrivere disperati che i due sistemi
erano figli dello stesso padre (la paralisi del pensiero dialettico), ugualmente
soffocanti ed annichilenti e che ormai non c’era più alcuna speranza di uscire da
questo dominio totalitario?
Qui non si perderà tempo a confutare queste assurdità, quanto a diagnosticarle – e la
diagnosi è questa: quando libri e ‘cultura’ diventano fini a se stessi (cioè quando si
vive chiusi nelle biblioteche), quando la filosofia diviene puro esercizio mentale
senza contatti con la realtà, il risultato può essere la cecità, la cecità di chi non vuol
vedere.
Prigionieri dei propri schemi intellettuali come gli aristotelici al tempo della
rivoluzione scientifica, tanti filosofi (si pensi ad esempio ai marxisti) hanno dato
19
prova di questa completa incapacità di riconoscere perfino i fatti più elementari e di
chiudersi nei loro circuiti tanto astratti quanto superbi.
E l’ingratitudine? Come si fa ad essere così incapaci di riconoscenza verso gli
U.S.A., il Paese che non solo permise la loro sopravvivenza ma che li fece entrare a
pieno titolo nei ranghi della sua classe intellettuale e docente?
Anche se è doveroso tener conto dello sbigottimento e dell’angoscia di due ebrei
tedeschi negli anni Quaranta, c’è bisogno di aggiungere altre parole a queste ovvietà?
A proposito dell’analisi e della sconsolata disperazione di Horkheimer e Adorno vien
proprio da ripetere il giudizio che Kierkegaard espresse sull’imponente sistema di
Hegel: ridicolo!
II
Con Marcuse le cose vanno un po’ meglio: la sua filosofia (posteriore di un
ventennio!) è più ancorata alla concreta realtà del suo tempo, non equipara nazismo e
capitalismo statunitense, esprime una condanna condivisibile dell’imperialismo e del
neocolonialismo e, segnalando che qualcuno è rimasto fuori dal ‘sistema’, individua
così un’effettiva contraddizione nella società statunitense e su questa intende far leva.
Marcuse appare così il pensatore che – prevedendola - ha anticipato la Contestazione
alla quale ha dato veste filosofica.
Su cosa la Contestazione sia effettivamente stata le opinioni si sprecano, ma si dovrà
pur ammettere che esplose allora un processo rivendicativo che trasformò la società:
rivoluzione femmnista, liberazione del sesso (etero ed omo), migliori garanzie in tutti
i campi, rinnovamenti diffusi in ogni settore, nei costumi e nella mentalità di tutti i
ceti e tutti i gruppi, affermazione incontrovertibile dell’universale diritto alla
partecipazione, irruzione tumultuosa sulla scena politica dei giovani e dei
giovanissimi giunti improvvisamente alla pari dignità con gli adulti ... si potrebbe
continuare a lungo ad enumerare gli spazi che si aprirono in luogo dei vecchi divieti
divenuti intollerabili, le conquiste, le rivendicazioni e la nuova sensibilità che come
una valanga si abbatterono sul vecchio assetto, sul vecchio ordine e sulla vecchia
disciplina.
Ebbene, tutto ciò che fu se non una “nuova dimensione alla realizzazione dell’uomo”,
come invocava Marcuse?
Si potrà anche concordare sul fatto che la Contestazione in fondo null’altro fu che
una razionalizzazione ed un riequilibrio all’interno della società data e che a ben
guardare le caratteristiche essenziali di quest’ultima sono rimaste le stesse – resta il
fatto che costumi e comportamenti da allora cambiarono nel senso di una decisa
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liberalizzazione, che ancora ai giorni nostri diritti e aspettative sono reclamati con
sicura determinazione e che oggi si vive in modo ben più libero che prima del
‘Sessantotto’.
Come auspicato da Marcuse, tutta una gamma di nuovi bisogni e di nuove esigenze si
è affermata attraverso l’appropriazione delle possibilità che il moderno apparato
produttivo offriva ed offre.
Certamente Marcuse anticipò tutto questo nella sua filosofia - anche se per lui la
rottura col vecchio mondo sarebbe dovuta essere ben più profonda e portare al
socialismo.
III
Comunque, anche se per Marcuse la storia continua ad andare avanti e non si è
paralizzata come invece per Horkheimer e Adorno, anche i suoi toni sono troppo
esasperati: anche Marcuse infatti non scorge che limiti e negatività nella società che
l’ha accolto e onorato e nella quale ha potuto vivere come preferiva (tanto da restarci
fino alla morte).
Qui non si pretende la sottomissione per obbligo di riconoscenza nè certamente il
silenzio di chi ha la bocca unta, ma semplicemente una maggiore obiettività, un
maggiore equilibrio nei giudizi e, ancora una volta, una maggior concretezza.
Certamente tutto quello che non va, va denunciato; è sicuramente un bene che lo
sguardo sia sempre critico e volto a cercare tutto quel che è bene sia cambiato, ma il
pensiero di un filosofo dev’essere completo (cioè concreto).
E’ ovvio che a mostrare ciò che non va si offre un utilissimo servizio alla società ed
erra chi tace (per qualsiasi motivo lo faccia), ma vedere solo un aspetto della realtà
– stavolta quello negativo - è l’errore del pensiero astratto (ed anche di Marcuse)
che così non può che concludere che la società statunitense va integralmente rifiutata,
senza chiedersi per esempio quando nella storia (quella vera) si sia stati meglio.
Vedere solo negatività, rifiutare in toto l’esistente è anch’esso un atteggiamento
proprio di chi ne ha una visione unilaterale – un positivismo alla rovescia! - e quindi
monca: insomma: anche l’analisi di Marcuse è ad una dimensione!
E fu proprio questo il limite e l’errore più serio dei giovani contestatori del
‘Sessantotto’ - l’unilateralità della loro analisi del mondo e della società occidentale.
Certamente la loro denuncia di tanti mali – la guerra, segnatamente quella del
Vietnam, l’ingiustizia sociale, il consumismo fine a se stesso, il conformismo ipocrita
e servile, la chiusura mentale dei conservatori, la scuola e l’università di classe, la
repressione sessuale, l’antifemminismo, ecc. ecc. – colpiva il segno e svegliava
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coscienze e intelligenze; sicuramente l’aspirazione ad un mondo migliore – così
propria dell’innocenza e della purezza dei giovani – non può venir sopita senza
produrre gravi effetti di sottomissione, di acquiescenza e di rassegnazione; protestare
contro quello che non andava fece maturare una generazione che altrimenti (per dirla
con Kant) non sarebbe mai uscita dallo stato di minorità in cui la si voleva tenere per
farle così accettare passivamente il mondo che aveva trovato; lo sdegno per
l’ingiustizia e la scoperta delle mille ipocrisie della società resero la gioventù di allora
sicuramente migliore ... tutto bene, tutto giusto, ma tutto ciò fu il anche frutto della
parzialità di un’analisi monca.
Come giudicare infatti il silenzio (per non dire altro!) sull’orrore del comunismo? Il
tacere sugli spazi di libertà, sulle aperture, sugli aspetti di tolleranza e progressismo
che pure in Occidente non mancavano certo?
La mancanza di una disamina completa della situazione, di un giudizio che valutasse
anche il valore della democrazia raggiunta dall’Occidente, che insomma non si
limitasse ai suoi soli aspetti negativi rese ciechi ed ingrati i giovani e portò i più
deboli di loro verso derive estremistiche ed anche terroristiche – al naufragio quindi
della spinta iniziale del movimento, che veniva così tristemente (e drammaticamente)
contraddetto nei valori sui quale era pur nato e su cui si era formato.
Che ironia! La denuncia del pensiero a una dimensione (quella positiva) portata
avanti da Marcuse proprio per la sua unilateralità contribuì a far nascere un altro
pensiero ad una dimensione (stavolta quella negativa)!
Sarà mai possibile costruire una filosofia completa e capace quindi di abbracciare
l’intera realtà, nella sua imperfezione ma anche nei risultati che è stata capace di
raggiungere, insomma nella sua complessità?
Operiamo in questo senso impegnandoci ad essere completi ed equilibrati e senza
cedere mai al semplicismo in cui fin dai tempi di Platone tanti filosofi cadono: essi
condannano il mondo in cui vivono confrontandolo con uno ideale (che esiste solo
nelle loro teste) preso a modello – e con quanta alterigia si ergono allora sulla realtà
che trovano così inferiore ed imperfetta!