Vorrei proporvi alcune riflessioni generali su una serie di problemi sollevati dalla lettura dei testi di Marcuse: (farò riferimento ai testi in programma d’esame cercando però di sollevare delle questioni prettamente filosofiche.) Si tratta di cercare di individuare alcune linee guida per pensare a un confronto tra lo stesso Marcuse e Foucault. Questo intervento nasce da una domanda molto ingenua: perché due pensatori comunque cronologicamente piuttosto vicini tra loro e con un intento di fondo per molti versi analogo, giungono a elaborare due metodi critici così radicalmente diversi l’uno dall’altro? Qual è la posta in gioco di questa differenza? Non tanto per decidersi per Foucault contro Marcuse o viceversa ma per cercare di capire che cosa ci consentono di pensare e comprendere le loro analisi e, soprattutto, quali indicazioni utili possono fornire alle nostre azioni? Vorrei cercare di tematizzare tre nozioni che in Marcuse non sono esplicite, rimangono sullo sfondo ma che possono favorire la possibilità di un confronto con Foucault. si tratta di tre concetti se volete classici ma che proprio Foucault ha ritematizzato in maniera innovativa e che consentono di misurare la distanza tra i due stili di analisi. I tre concetti – potere, soggetto, verità – costituiscono una trama omogenea, ogni concetto rimanda agli altri e quindi il punto di partenza può essere scelto in maniera piuttosto arbitraria. Direi che un buon punto di partenza può essere il concetto di potere. Foucault, ne la volontà di sapere e facendo riferimento anche a Marcuse critica quella che definisce ‘l’ipotesi repressiva’ per cui il potere è essenzialmente repressione, il suo ruolo sarebbe dunque quello di vietare, dirigere, convogliare delle forze, di per sé anarchiche e spontanee nella direzione più congrua con il mantenimento dell’ordine sociale costituito. Marcuse pare perfettamente inscritto in questa prospettiva. In effetti è piuttosto semplice comprendere alcuni concetti marcusiani, come quello di desublimazione repressiva, da questo punto di vista: la desublimazione repressiva sarebbe quel tipo di soddisfazione di una pulsione sessuale che il potere, cioè la società del capitalismo avanzato retta dal principio di prestazione concede perché del tutto compatibile con il suo funzionamento. Concepire il potere in questi termini ha un vantaggio: è particolarmente intuitivo, conforme alla nostra esperienza quotidiana. Tutti noi, credo, pensiamo il potere essenzialmente nei termini di un divieto e di una imposizione. Ma ha anche un limite, meno intuitivo: non ci permette di comprendere il funzionamento di poteri che non assumono quella forma, come la relazione psicoanalista-paziente. Di passaggio: uno dei motivi per cui Marcuse, come tutta la scuola di Francoforte, ha considerato la psicoanalisi nel suo insieme come un possibile strumento di emancipazione, risiede probabilmente nella ipotesi repressiva che rende invisibili relazioni di potere che non funzionano secondo la forma del divieto ma secondo quella – a grandi linee – dell’incitamento a parlare a ‘liberarsi’, a rivelarsi a un ascoltatore. Se il potere è essenzialmente un divieto o una legge, cosa può esserci di meno implicato in esso che una terapia basata sulla parola? Pensare il potere in questi termini spinge a considerarlo, generalmente, come proveniente da un’unica istanza, come irradiante da un centro verso la circonferenza e come manifestazione di una forma di ragione uniforme, omogenea: se il potere è essenzialmente uno anche la sua forma di razionalità, la logica con cui produce i suoi effetti, sarà una, si potrà, in linea di principio, trovarla in azione in ogni ambito della società, Il potere, nelle analisi di Marcuse, benché acefalo è essenzialmente uno: diciamo,per semplicità, una determinata struttura economica che dà forma e organizza, spontaneamente, secondo una logica che le è intrinseca, sia le forme delle relazioni economiche e sociali sia la psiche dei soggetti. Come abbiamo visto Foucault inverte semplicemente l’asse: non si tratta di un potere che dal centro forma e struttura un’intera società ma piuttosto di una serie di relazioni di potere locali che possono, ma non necessariamente devono, integrarsi in dispositivi più complessi: quindi l’istituzione non è più il centro da cui tutto parte ma semplicemente il luogo con la maggiore cristallizzazione di relazioni di potere. In secondo luogo se il potere è essenzialmente repressivo esso deve applicarsi su un oggetto che gli preesiste: essenzialmente l’individuo, il suo corpo, la sua psiche. Il modello è essenzialmente quello hobbesiano: basti confrontare le pagine dedicate all’imposizione del principio di realtà in Eros e civiltà e confrontarlo con la nascita dello stato descritta nel Leviatano: in sostanza, dal momento che l’esistenza in un mondo governato interamente dal principio di piacere è incompatibile con la sopravvivenza dell’individuo e quindi anche con la soddisfazione stessa, gli individui ‘accettano’ una perdita di sovranità su parte dei loro impulsi a cui verrà interdetta la soddisfazione in cambio di una certa sicurezza nel soddisfare gli altri. In sostanza: l’uomo viene pensato sostanzialmente come un’invariante non nel senso che su di lui la storia non ha alcun effetto ma che questa è pensata, semmai, come lo sviluppo, il compimento, la realizzazione, l’inveramento di potenzialità che in lui giacevano sin dall’inizio. In questo senso forse è più corretto, nel caso di Marcuse, parlare di freudo-hegelismo piuttosto che freudo-marxismo (l’intelaiatura dialettica della fenomenologia e della filosofia della storia hegeliane rendono infatti la storia un processo senza sorprese, senza lo spazio per nessuna irruzione del nuovo). La domanda che Marcuse si pone a questo punto riguarda la possibile concretizzazione di un principio di realtà non repressivo o che almeno riesca a fare a meno della repressione addizionale legata al principio di prestazione e alla trasformazione del corpo da luogo di piaceri a strumento per il lavoro alienato: la domanda diventa, quindi, qual è la verità delle pulsioni, della psiche? Porsi questa domanda equivale per Marcuse a chiedersi se è possibile un’emancipazione dalla società repressiva. La possibilità di emancipazione politica si trova dunque fondata su, inscritta in e avvalorata da considerazioni di carattere epistemologico: la trasformazione della sessualità in eros garantisce la possibile sostituzione di un principio ‘eteronomo’: il principio di prestazione, con l’autonoma organizzazione degli istinti secondo una struttura compatibile con i risultati raggiunti dalla civiltà. la domanda può essere posta in questi termini: da dove e in virtù di quale istanza si può muovere una critica al potere e alla sua razionalità? Occorre dunque trovare una norma che renda epistemologicamente fondata l’operazione critica: nel caso di Marcuse la norma sarà quella della vera sessualità, cioè la sua possibile trasformazione, in determinate condizioni storiche, politiche e sociali di autoorganizzarsi come eros, rendendo compatibile la liberazione delle pulsioni con le conquiste della civiltà: la repressione diviene quindi ‘irrazionale’ nella misura in cui palesa una sproporzione tra i mezzi socialmente disponibili per il superamento del lavoro alienato e la permanenza o l’espansione del lavoro alienato stesso. Non si cerca dunque di attaccare il potere a partire dalla sua logica interna, mostrandone il funzionamento, ma lo si critica a partire dal suo deficit, dal suo ritardo, dalle sue violazioni delle norme della retta ragione. La risposta di Marcuse, come quella di tutti i filosofi legati alla Scuola di Francoforte consiste essenzialmente nel rinvenimento e nella definizione di una forma di razionalità alternativa e superiore che sia in grado di rendere evidente l’irrazionalità della ragione del potere. In ultima analisi si può criticare il potere perché è falso, irrazionale: la critica invece ha un valore se e soltanto se è vera: la verità del potere è sempre illusione, abbaglio, ideologia, la critica al potere smascheramento. Anche qui la proposta marcusiana ha un vantaggio: ci fa poggiare su un terreno solido, il potere è criticabile perché, in fondo, falso, ma la verità che emerge dalla critica veicola ancora una norma, proprio perché vincolata a un ideale regolativi e regolatore: consente di rispondere alla domanda classica della filosofia politica di ispirazione ‘rivoluzionaria’: secondo quale modello possiamo costruire una società nuova, senza potere né repressione? Ma ci risospinge di nuovo all’interno di uno schema normativo delle condotte. Ciò è particolarmente evidente se ripensiamo a concetti marcusiani come quello di desublimazione repressiva o al suo esempio, piuttosto inquietante della differenza tra fare l’amore in un prato e farlo in automobile (io ovviamente preferisco il prato anche perché non ho la macchina): Marcuse tenta chiaramente di distinguere tra piaceri veri e piaceri falsi, tra piaceri giusti e sbagliati, oscillando in maniera molto ambigua tra una valutazione epistemologica e un giudizio morale, ma esiste una norma interna al piacere e distinta dalla sua maggiore o minore intensità? Allo stesso modo Marcuse tenta di distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi: a rigore di termini è una distinzione superflua: sembra sufficiente distinguere tra bisogni determinati da una relazione di potere e bisogni che si oppongono a questa relazione: in che senso i bisogni possono essere pensati come veri o falsi? Come afferma Foucault siamo abituati a pensare che ‘la verità non appartiene all’ordine del potere ma è in parentela originaria con la libertà’ a questa concezione classica egli contrappone ‘una storia politica della verità’ volta a mostrare ‘che la verità non è libera per natura, né l’errore servo, ma che la sua produzione è interamente attraversata da rapporti di potere’ (volontà di sapere, p. 56). Nella prima lezione del corso Sicurezza, territorio popolazione Foucault, parlando dello scopo politico del suo lavoro, afferma che alla base della sua analisi sta un ‘imperativo condizionale’ del tipo: se volete lottare ecco dei punti chiave (p.15). Possiamo dire che Marcuse pone la sua proposta critica sotto l’egida di un imperativo categorico: potete combattere perchè la vostra lotta è protetta garantita e definita dalla verità: la verità della psiche, la verità delle dotazioni di cui dispone l’individuo per abbattere il potere, la verità dell’organizzazione della società futura, libera e non repressiva. Foucault ci invita a pensare la psiche, l’individuo come dei risultati, dei prodotti di relazioni di potere, e quindi storicamente superabili, ci parla di lotte locali, di resistenze, ci invita a abbandonare i sogni di palingenesi della società, ma ci consente di disancorare le nostre pratiche da ogni norma che sia estranea alla loro efficacia pratica. Vorrei concludere con una domanda brutale: la nostra individualità, ciò che sentiamo come più intimamente nostro e quindi più lontano, meno esposto al potere o ai poteri può essere ancora pensato come il perno, il centro delle nostre lotte? Dobbiamo lottare per essere maggiormente individui, liberi, autonomi e non repressi, oppure per non esserlo più? Che cosa possiamo opporre? In che forma resistere? Carlo Parisi