Guerra civile iugoslava 1 INTRODUZIONE Guerra civile iugoslava Sanguinosa guerra civile che oppose tra loro i gruppi etnici serbi, croati e musulmani, combattuta su più fronti tra il 1991 e il 1995 nel territorio della ex Repubblica federale socialista di Iugoslavia all'indomani della sua disintegrazione. 2 ORIGINI DEL CONFLITTO Le origini del conflitto hanno radici lontane, radicate in millenni di conflittualità etniche e religiose, di disparità di ordine economico e sociale, di frammentazione culturale e linguistica che hanno contribuito a rendere la regione un focolaio di tensioni sempre pronte a scoppiare (vedi Questione balcanica). 2.1 La frammentazione etnica della regione balcanica La popolazione della Federazione (secondo un censimento del 1988) era costituita per il 36% da serbi (prevalentemente nella Repubblica serba), per il 20 da croati (nella Repubblica croata), per il 9 da bosniaci (nella Repubblica della Bosnia-Erzegovina e in Macedonia), per l'8 da sloveni (nella Repubblica slovena), per il 7 da albanesi (prevalentemente in Macedonia e nella provincia autonoma del Kosovo, in Serbia), per il 6 da macedoni (nella Repubblica di Macedonia), per il 2,6 da montenegrini (nella Repubblica del Montenegro), più minoranze di ungheresi (nella provincia della Vojvodina, in Serbia), italiani (in Slovenia), bulgari e turchi (in Macedonia e in Bosnia). Il 36% della popolazione era di religione ortodossa (soprattutto in Serbia), il 29 cattolica (in Slovenia e in Croazia) e il 14 musulmana (soprattutto in Bosnia e nel Kosovo). La Repubblica bosniaca si presentava come la più composita: il 43% della popolazione, musulmana, si concentrava nelle città, il 31% era formata da serbi nelle campagne orientali e il resto da croati lungo le coste adriatiche a sud. 2.2 L'atavica rivalità tra serbi e croati La storia del Regno dei serbi, croati e sloveni (o Iugoslavia), entità statale sorta dopo la prima guerra mondiale dall'aggregazione della Serbia con i territori slavi meridionali appartenuti all'impero austroungarico, era già stata segnata dalle rivalità e dai conflitti tra i vari gruppi etnici e religiosi, acuiti anche dalle tendenze egemoniche della stessa Serbia nell'ambito della federazione. Gli odi esplosero nel corso della seconda guerra mondiale, quando il paese fu smembrato dai tedeschi per costituire, in Croazia, uno stato fascista governato da Ante Pavelić, il dittatore che condusse una politica di sterminio nei confronti dei serbi. Il ricordo dei massacri compiuti dagli ustascia croati, e quindi dai cetnici serbi, gli uni ai danni degli altri era perciò ancora vivo all'inizio degli anni Novanta. L'impossibile riconciliazione sembrò realizzarsi per opera del croato Josip Broz, detto Tito, durante la lotta di resistenza contro gli invasori tedeschi e italiani: alla fine della guerra egli costituì la Repubblica federale socialista di Iugoslavia, formata da sei repubbliche (Serbia, Croazia, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia e Montenegro) e due regioni autonome (Vojvodina e Kosovo). 2.3 La crisi della Federazione iugoslava La Repubblica di Iugoslavia sopravvisse meno di dieci anni alla morte di Tito, avvenuta nel 1980; in base alla costituzione del 1974, durante quel periodo la massima carica dello stato federale fu assunta a turno dai presidenti delle singole repubbliche. Le crescenti difficoltà economiche (indebitamento con l'estero, inflazione, disoccupazione) e la debolezza del potere centrale innescarono tuttavia un profondo malcontento, che portò a un progressivo inasprimento del clima sociale (manifestazioni del 1987). Imbavagliati da quarant'anni di regime socialista, i particolarismi etnici e religiosi si risvegliarono, trasformandosi in accese rivendicazioni nazionalistiche. La crisi delle istituzioni sulla questione del Kosovo, in un contesto internazionale turbato dalla dissoluzione delle repubbliche socialiste europee del Blocco orientale, fece da detonatore al conflitto. 3 CAUSE DIRETTE 3.1 La questione del Kosovo Ad avvelenare il clima generale fu la pubblicazione, nel 1986, di un promemoria segreto dell'Accademia serba di Arti e Scienze che denunciava l'indebolimento sistematico di cui i serbi si ritenevano vittime fin dall'epoca di Tito: il documento costituì da allora il credo dei nazionalisti serbi. Nel frattempo il Kosovo, considerato dai serbi la culla della propria civiltà, ma popolato all'80% da albanesi, chiedeva lo status di repubblica autonoma all'interno della Federazione: Belgrado replicò con la repressione e cancellando anche l'autonomia della provincia (1989), in un clima di montante nazionalismo alimentato da una campagna di stampa che denunciava i pretesi soprusi perpetrati ai danni dei serbi del Kosovo. 3.2 Il crollo della Federazione iugoslava Di fronte al peso crescente della Serbia (presieduta dal 1987 dal comunista nazionalista Slobodan Milošević) nelle istituzioni federali e al suo atteggiamento arrogante e aggressivo nella questione del Kosovo, Slovenia e Croazia proibirono le manifestazioni serbe al proprio interno, schierandosi con la minoranza albanese. A scatenare il processo di dissoluzione della Federazione fu tuttavia la decisione, da parte degli sloveni, di ritirarsi dalla Lega dei comunisti iugoslavi nel gennaio del 1990; quello stesso anno si tennero le prime elezioni libere e pluralistiche, che sancirono la vittoria dei nazionalisti in Slovenia (Demos) e in Croazia (HDZ, Unione democratica croata) e dei comunisti nazionalisti in Serbia e in Montenegro. Benché non fosse paese membro del patto di Varsavia, la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dei regimi comunisti dell'Est, avvenuta nel biennio 1989-1990, ebbero conseguenze profonde anche sulla Iugoslavia, mobilitando rivendicazioni a lungo sopite. Per la prima volta dopo mezzo secolo di pace, in Europa si profilava una guerra civile pericolosa e destabilizzante per gli equilibri mondiali. 3.3 Il blocco delle istituzioni federali Nel marzo del 1991, Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina e Macedonia si rifiutarono di acconsentire alla richiesta serba di dichiarare lo stato d'emergenza nel Kosovo: le repubbliche temevano il progredire dell'ondata nazionalista in Serbia, sostenuta da Milošević. A partire da questo momento, inoltre, il funzionamento delle strutture federali si bloccò. Macedoni e bosniaci, interessati a mantenere lo status quo, tentarono un accordo con sloveni e croati, i quali puntavano alla creazione di una confederazione di stati indipendenti, e con i serbi, desiderosi di rafforzare il centralismo a proprio favore. I rappresentanti della Vojvodina, del Montenegro e del Kosovo vennero sostituiti nella presidenza collegiale da uomini favorevoli a Belgrado: il "blocco serbo" si trovò così alla pari con le altre quattro repubbliche. Il mancato accesso, a norma di costituzione, del croato Stjepan Mesić alla presidenza federale, il 15 maggio 1991, rese evidente il blocco istituzionale. 3.4 La secessione di Slovenia e Croazia Il 25 giugno, in seguito a referendum, Slovenia e Croazia dichiararono la propria indipendenza. I serbi ortodossi di Croazia, per timore di ritrovarsi in minoranza nello stato indipendente e memori degli atti efferati compiuti dagli ustascia protetti dai nazifascisti durante la seconda guerra mondiale, proclamarono a loro volta con un referendum l'autonomia della Krajina di Knin, regione in cui costituivano la maggioranza etnica, e la sua adesione alla Serbia: l'appoggio di Belgrado al tentativo secessionista provocò gravi tensioni con il governo croato, presieduto da Franjo Tudjman. 3.5 L'intervento serbo e lo scoppio della guerra La Serbia si erse a paladina dell'unità della Federazione iugoslava fondata da Tito nel 1945: affermando il diritto di tutti i serbi, ovunque risiedessero, a vivere in uno stesso stato e dichiarando incostituzionale la secessione delle due repubbliche, inviò l'esercito federale in Slovenia e in Croazia. In Serbia si manifestavano non solo nostalgie per il regime titino, ma anche tendenze sciovinistiche panslave che puntavano a resuscitare la Grande Serbia. 4 IL CONFLITTO SERBO-CROATO Di fronte alla minaccia dell'Unione Europea di riconoscere immediatamente i due nuovi stati, il 18 luglio, dopo due settimane di combattimenti, la Serbia accettò di ritirare le truppe dalla Slovenia, mentre croati e sloveni acconsentivano a rinviare di tre mesi la propria dichiarazione d'indipendenza; in Croazia, invece, l'esercito federale rifiutò di ritirarsi, provocando decine di morti e i primi esodi di serbi e croati, mentre si moltiplicavano gli scontri interetnici. Malgrado il tentativo di mediazione europea condotto dal diplomatico inglese Lord Carrington, i combattimenti tra miliziani serbi, sostenuti dall'esercito federale, e truppe croate proseguirono e si aggravarono. La Repubblica serba di Krajina estese il suo controllo al 20% della Croazia. Dopo il bombardamento e l'assedio di Vukovar, conquistata il 19 novembre 1991, e di Dubrovnik (ottobrenovembre) da parte dei serbi, l'opinione pubblica internazionale si rese conto che nell'ex Iugoslavia divampava ormai una vera guerra. 4.1 L’intervento dell’ONU Il 25 settembre 1991 il Consiglio di sicurezza dell'ONU aveva sancito l'embargo della vendita di armi in Iugoslavia e il 23 novembre proclamò l'intenzione di inviare i caschi blu. Il riconoscimento ufficiale della Slovenia e della Croazia da parte della Germania il 23 dicembre precedette di un mese quello del resto della comunità internazionale. In Macedonia nel frattempo il 95% degli elettori si era dichiarato a sua volta a favore dell'indipendenza, proclamata il 15 settembre 1991. Nel gennaio del 1992 venne firmato un accordo per il cessate il fuoco, senza il riconoscimento da parte del governo di Zagabria della perdita della Krajina, a sud, e della Slavonia, a est. Il 23 febbraio 1992 il Consiglio di sicurezza dell'ONU votò l'invio in Croazia di 14.000 caschi blu, in maggioranza francesi e inglesi, dai quali i serbi speravano il riconoscimento di fatto delle proprie conquiste: l'attenzione della comunità internazionale si era però ormai spostata sulla Bosnia-Erzegovina. 5 LA GUERRA IN BOSNIA-ERZEGOVINA Il 15 ottobre 1991 i deputati croati e musulmani al parlamento della Bosnia-Erzegovina, nel timore di ritrovarsi da soli di fronte alla Serbia in una Federazione iugoslava largamente dominata da Belgrado, avevano votato per la sovranità della repubblica; a loro volta, respingendo la secessione, i serbo-bosniaci reclamarono il diritto di aderire alla Repubblica federale di Iugoslavia (RFI), entità statale che si proclamava erede della Federazione socialista fondata da Tito e che comprendeva, sotto la presidenza del serbo Milošević, la Serbia e il Montenegro: costituita nell'aprile del 1992, non ottenne tuttavia il riconoscimento internazionale. 5.1 L'assedio di Sarajevo Il 3 marzo 1992 un referendum popolare, boicottato dall’etnia serba, sancì la proclamazione dell'indipendenza della Repubblica bosniaca, sotto la presidenza del musulmano Alija Izetbegović: la Bosnia-Erzegovina ottenne il riconoscimento internazionale ma fu subito travolta dalla guerra civile scoppiata il mese successivo che giunse fin nel cuore della sua capitale, Sarajevo, sottoposta a un violento assedio da parte serba. Questa città dal plurisecolare profilo multietnico e multiconfessionale, la cui fama era stata tristemente legata allo scoppio della prima guerra mondiale ( vedi Attentato di Sarajevo), si ritrovò ad essere il simbolo martoriato dei conflitti scoppiati dopo la fine della Guerra Fredda. 5.2 La "pulizia etnica" La guerra fu scatenata nell’aprile 1992. Gli scontri interetnici si estesero rapidamente a tutto il paese: sostenute dall'esercito federale, le milizie serbe (comandate dal generale Ratko Mladić) iniziarono, con il ricorso a operazioni di "pulizia etnica" (nel corso delle quali furono perpetrati stupri, torture e eliminazioni in massa), a scacciare dal territorio croati e soprattutto musulmani. L’obiettivo della campagna era quello di creare uno stato serbo etnicamente puro all’interno della Bosnia; la sistematicità con cui furono compiute le operazioni di “pulizia” fece presumere che vi fosse alla base un disegno politico pianificato ai più alti livelli politici di Belgrado. I serbi di Bosnia proclamarono una propria repubblica sotto la presidenza di Radovan Karadžić con capitale a Pale, nei pressi di Sarajevo; a loro volta i croati costituirono la Comunità croata di Herceg-Bosna, una propria Unione croata di Bosnia-Erzegovina guidata da Mate Boban. 5.3 La mediazione della comunità internazionale Il cruento assedio di Sarajevo, la rivelazione delle atrocità commesse principalmente dai serbi in nome della "pulizia etnica", e l'esistenza di campi in cui erano detenuti in condizioni inumane i musulmani scossero l'opinione pubblica internazionale. Nonostante l'attenzione relativamente scarsa prestata dai mass media a un conflitto pur così drammatico e geograficamente così prossimo ai confini di alcuni dei paesi più avanzati del mondo, la comunità internazionale non poteva rimanere indifferente di fronte alla guerra civile iugoslava. Un suo intervento diretto presentava però notevoli difficoltà, a causa delle simpatie di cui all'estero godeva ciascuna delle parti in causa: i serbi da parte della Russia e degli altri paesi slavi a maggioranza cristiano-ortodossa; i croati da parte della Germania e di gran parte dei paesi dell'Unione Europea; i musulmani da parte della Turchia, del Pakistan, dell'Iran, dei paesi arabi e di altri paesi dell’area mediterranea, compresa l'opinione pubblica italiana, particolarmente sensibile al dramma che si consumava a pochi chilometri dai confini nazionali. Numerose furono infatti le iniziative filantropiche, sociali e di diplomazia informale assunte da organizzazioni non governative e da privati cittadini italiani a sostegno della comunità bosniaca musulmana e degli sforzi di pace. 5.4 L'intervento dei caschi blu Nessuno stato occidentale era disposto tuttavia a intervenire direttamente nel conflitto. Nel giugno 1992 le Nazioni Unite iniziarono a inviare contingenti dell'UNPROFOR (United Nations Protection Force), la forza d'intervento dei caschi blu appositamente costituita per il conflitto iugoslavo, con l'incarico di mantenere la pace e di compiere una missione umanitaria presso le popolazioni civili. Questa forza, sempre composta in prevalenza da francesi e britannici, ebbe però un ruolo ambiguo e a poco a poco venne considerata parte in causa nel conflitto; essa infatti si limitò a congelare le conquiste serbe, lasciando così che la lotta dei musulmani procedesse senza che a questi ultimi fossero forniti i mezzi per combattere, negati dalla permanenza dell'embargo della vendita di armi deciso dall’ONU all’inizio delle ostilità. Nel maggio del 1992 le Nazioni Unite imposero alla Repubblica federale iugoslava, considerata responsabile del conflitto, una serie di sanzioni commerciali e finanziarie la cui applicazione avrebbe dovuto essere garantita dalle forze della NATO. Gli sforzi di fermare la guerra si rivelarono tuttavia inefficaci: neppure l'incontro a Sarajevo dei responsabili militari delle tre parti in conflitto, patrocinato dall'ONU il 23 ottobre 1992, portò a qualche risultato. 5.5 I tentativi di ricomposizione del conflitto Il piano Vance-Owen (che prese il nome dai due mediatori Cyrus Vance e Lord Owen) presentato nel gennaio 1993 alla conferenza di Ginevra, prevedeva la suddivisione della Bosnia in dieci province, una ripartizione etnica equilibrata e la smilitarizzazione di Sarajevo, ma venne respinto sia dai serbi sia dai musulmani. In giugno, Milošević e Tudjman elaborarono un nuovo piano, che prevedeva la divisione in tre entità autonome e il mese successivo fu ottenuto un accordo di massima su un progetto di "Unione delle repubbliche di Bosnia-Erzegovina", sotto la guida d'un governo con scarsi poteri; il progetto, formalizzato nel piano Owen-Stoltenberg (dal nome dei due mediatori internazionali Lord Owen e Thorwald Stoltenberg), lasciava ai serbi (52% del territorio) la parte del leone a detrimento dei musulmani (32%) e dei croati (18%), e fu respinto in settembre dal parlamento bosniaco. 5.6 Il conflitto croato-musulmano e le zone di sicurezza Nel maggio 1993 un nuovo conflitto scoppiò nel centro della Bosnia tra croati e musulmani, protrattosi per oltre dieci mesi e a sua volta segnato da brutali episodi di pulizia etnica. Nel giugno 1993, al fine di proteggere la popolazione musulmana, l’ONU dichiarò le città di Sarajevo, Bihać, Zepa, Goražde, Tuzla e Srebrenica “zone di sicurezza”, senza che però vi fosse una cessazione degli scontri, che ora vedevano coinvolti gli stessi caschi blu. Le Nazioni Unite decisero anche l’istituzione di un Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra, con sede all’Aia, con la facoltà di mettere sotto processo e condannare chiunque fosse sospettato di crimini contro l’umanità nel corso del conflitto iugoslavo. Il cessate il fuoco tra croati e musulmani fu dichiarato nel marzo del 1994: l’accordo di Washington firmato dai presidenti Tudjman e Izetbegović prevedeva la creazione di una futura federazione croatomusulmana destinata ad aderire alla Croazia. I rapporti tra i due alleati restarono tuttavia tesi fino alla fine della guerra iugoslava: la Comunità croata di Herceg-Bosna in realtà mantenne le proprie funzioni, con un governo e un apparato militare separati. 5.7 L'escalation dei combattimenti e la reazione delle forze NATO Per tutto il corso del 1994 proseguirono le offensive serbe, mettendo in difficoltà i caschi blu nel loro compito di difendere le sei zone di sicurezza e impedendo ai convogli umanitari di portare soccorso alla popolazione bosniaca. Sotto la pressione della comunità internazionale e dell'embargo economico che la paralizzava, la Serbia prese le distanze dal governo serbo-bosniaco di Pale; in ottobre le sanzioni vennero alleviate ma non ritirate. Con l’intervento di forze aeree della NATO fu imposta sulla Bosnia una “no-fly zone” ma, nonostante il bombardamento delle posizioni serbe, gli attacchi alle zone protette dai caschi blu non furono impediti adeguatamente. 5.8 L’intermediazione degli Stati Uniti Un altro tentativo di risoluzione del conflitto, portato avanti con l’intermediazione dell’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, ebbe come esito il cessate il fuoco del gennaio 1995, rotto nel maggio seguente. Gli scontri proseguirono, segnati anche dalla prova di forza tra i serbi e i soldati dell'ONU, che erano considerati dai primi oggettivamente alleati dei bosniaci e non una vera forza d'interposizione. Dopo il raid aereo della NATO contro un deposito di munizioni nei pressi di Pale, eseguito come risposta al massacro di Tuzla (dove il 25 maggio 76 civili erano stati massacrati da un obice serbo), Karadžić prese in ostaggio alcune centinaia di caschi blu, che furono utilizzati come "scudi umani" davanti ai siti strategici allo scopo di impedire nuovi bombardamenti NATO. Francesi e britannici replicarono in giugno con la creazione di una "Forza di reazione rapida", dotata di un'autonomia di iniziativa più ampia dell'UNPROFOR. L'11 luglio Srebrenica cadde nelle mani dei serbi, che ne espulsero la popolazione, eccettuate varie migliaia di uomini, con tutta probabilità massacrati sul posto. Dopo la caduta di Zepa, il 25 luglio, Goražde, ultima enclave della Bosnia orientale, venne posta sotto la protezione aerea della NATO. 5.9 L'offensiva croata in Krajina Il 4 agosto la Croazia scatenò contro la Repubblica serba di Krajina l'offensiva più massiccia in quattro anni di guerra, ciò che le permise di riprendere il controllo di tutti i suoi territori (a eccezione della Slavonia, a est). Vittime a loro volta della "pulizia etnica", centinaia di migliaia di serbi furono messi in fuga e si diressero verso Banja Luka, la principale città serba della Bosnia. I musulmani ne approfittarono per riprendersi gran parte dei territori della Bosnia occidentale, potendo in tal modo rompere l'isolamento di Bihać, che durava da quattro anni. Il 29 agosto, per reazione all'eccidio del mercato di Sarajevo, dove erano cadute uccise 37 persone e ferite altre 80 sotto il tiro dei mortai serbi, i caschi blu condussero un'azione di rappresaglia senza precedenti contro le posizioni serbe. L'indomani il governo di Pale decideva di allinearsi alle posizioni "moderate" del presidente Milošević, che venne incaricato di trattare a suo nome. 6 GLI ACCORDI DI DAYTON E IL BILANCIO DELLA GUERRA Nel novembre 1995, per la prima volta dall'inizio della guerra, i presidenti Milosević, Tudjman e Izetbegović si incontrarono per discutere la pace. I negoziati, condotti dal diplomatico americano Richard Holbrooke e patrocinati dal presidente americano Bill Clinton, si svolsero presso la base di Dayton, nell'Ohio, e si sarebbero formalizzati con la firma del trattato di Parigi il mese seguente. L'accordo fu ottenuto sui seguenti punti: - lo stato bosniaco restava entro i suoi confini internazionalmente riconosciuti e la sua capitale, Sarajevo, era riunificata e liberata dall'assedio che la isolava. La Bosnia risultava uno stato unico, ma con il territorio diviso tra una Repubblica serbo-bosniaca (49%) e una Federazione croato-musulmana (51%); - tra le due entità sarebbe stata schierata una forza di interposizione multinazionale di 63.000 uomini, guidata dalla NATO e non dall'ONU; - i serbi restituivano l'ultimo baluardo secessionista, la Slavonia. 6.1 Il trattato di Parigi Il 22 novembre l'ONU votò il ritiro delle sanzioni economiche e dell'embargo contro la RFI. Il 13 dicembre il Senato americano decise l'intervento di 20.000 militari americani da affiancare a britannici e francesi nella forza multinazionale preposta a garanzia della pace. L'indomani, all'Eliseo, a Parigi, tutte le parti interessate firmarono il trattato di pace, che consacrava di fatto la spartizione della Bosnia-Erzegovina dopo quasi quattro anni di guerra, costata oltre duecentomila morti e più di due milioni e settecentomila profughi. All'indomani dell'entrata in vigore del trattato, la praticabilità della pace dipendeva in larga misura dai rapporti ancora tesi tra croati e musulmani all'interno dell'entità statale comune. Il ritorno dei profughi e il processo ai responsabili dei crimini perpetrati durante la guerra (in particolare i capi serbi Karadžić e Mladić) davanti al Tribunale penale internazionale dell'Aia, costituivano le altre due minacce che gravavano sugli accordi di pace. 7 IL BILANCIO DEL CONFLITTO IUGOSLAVO Dal punto di vista diplomatico, la guerra rivelò l'incapacità della comunità europea di gestire concordemente una crisi internazionale, a causa dell'assenza di istituzioni preposte allo scopo e delle divergenze esistenti fra i partner. I tedeschi furono accusati di aver riconosciuto con troppa fretta le nuove repubbliche, senza aver ottenuto le garanzie del rispetto dei diritti delle minoranze, mentre i francesi, tradizionalmente vicini ai serbi, tardarono a lungo a riconoscerne le responsabilità di aggressori. L'attività degli europei a favore della pace fu essenzialmente svolta nell'ambito del gruppo di contatto formato da Germania, Stati Uniti, Francia, Inghilterra e Russia. Accusati in un primo tempo di aver accettato con troppa leggerezza la spartizione della BosniaErzegovina, l'impegno diplomatico di questi paesi finì per servire poi da base agli accordi di Dayton; firmata la pace, essi si impegnarono a contribuire al finanziamento della ricostruzione del paese. Con le ambiguità che la contraddistinsero nel corso del conflitto, l'ONU, il cui intervento umanitario fu al centro di aspre polemiche, subì un colpo notevole alla propria immagine. L’esecuzione degli accordi di Dayton fu resa difficile dalle istanze nazionalistiche ancora vive e che facevano resistenza alla realizzazione di un processo di integrazione tra le diverse etnie; ugualmente difficile fu la normalizzazione nei territori evacuati, dove i profughi furono ostacolati nel far ritorno alle proprie case. L’obiettivo di elezioni da tenersi in Bosnia nel settembre 1996 sotto la supervisione dell’OSCE, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, fu mantenuto: l’esito elettorale sancì però le divisioni interne del paese, come si temeva, poiché decretò una netta maggioranza di voti ai partiti nazionalisti delle tre diverse etnie. Il Tribunale internazionale per i crimini di guerra emise un’ordinanza d’arresto nei confronti di più di 50 bosniaci, in maggioranza serbi (inclusi il leader serbobosniaco Karadžić e il generale Mladić, tuttora latitanti): alcuni sono stati rintracciati, processati e condannati. 8 NUOVI SCENARI DI GUERRA La presenza delle truppe NATO in Bosnia, inizialmente prevista fino al giugno 1998, fu protratta, anche per il riaccendersi, nella primavera del 1998 (dopo vari disordini e attentati susseguitisi nel corso del 1997), di un nuovo, potenzialmente esplosivo conflitto nei Balcani sorto all’interno della Federazione iugoslava. Il Kosovo, regione in maggioranza albanese che da tempo rivendica la propria autonomia da Belgrado, dopo essere stato una delle micce della guerra civile iugoslava, fu teatro tra la fine del 1998 e la prima metà del 1999 di un aspro e sanguinoso braccio di ferro tra il regime serbo e i paesi membri della NATO (in primo piano Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia), i quali, dopo il fallimento dei negoziati di pace di Parigi, decisero l’intervento armato contro la Serbia a difesa della popolazione kosovara di etnia albanese oggetto di una sistematica operazione di pulizia etnica. Dopo 78 giorni di bombardamenti aerei da parte delle forze NATO, cui rispose un intensificarsi di eccidi, devastazioni e violenze da parte serba, nel giugno del 1999 fu raggiunto un difficile e contrastato accordo tra le parti in conflitto, mediato dalla Russia e garantito dall’ONU, che tuttavia non sembra aver scongiurato del tutto quegli odi etnici che ancora covano sotto la superficie di una fragile pacificazione nell’area balcanica. Microsoft ® Encarta ® 2006. © 1993-2005 Microsoft Corporation. Tutti i diritti riservati.