Note storiche sulla ex Jugoslavia

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Introduzione
L’area della ex Iugoslavia ha visto l’intrecciarsi di tre importanti culture, quella romana,
quella bizantina e quella islamica, ma ancor prima la presenza di numerose popolazioni che in quella
zona si stabilirono ad ondate successive.
Nel primo millennio a.C., la penisola balcanica aveva già assunto caratteristiche etniche ben
definite: gli illiri abitavano la parte centro-settentrionale, traci e daci quella orientale, i greci quella
meridionale.
Nel 350 a.C. i celti, seguendo il corso del Danubio, invasero i Balcani e vi si stanziarono
stabilmente, ma essi furono rapidamente assorbiti dagli illiri.
Fra il 229 e il 34 a.C. i romani riuscirono a conquistare gran parte della penisola e a “romanizzare”
traci e illiri.
Dal 375 la penisola balcanica fu attraversata dalle invasioni degli ostrogoti, degli unni, dei visigoti,
degli avari, degli slavi. Mentre gli altri popoli non rimasero nei Balcani, attratti dalle ricchezze
dell’Italia, gli slavi, contadini e pastori, vi si insediarono stabilmente nel VI-VII sec. d.C. Qui
trovarono una profonda frattura amministrativa, culturale e religiosa fra la zona d’Occidente, sotto
l’influenza di Roma, e quella d’Oriente, sotto l’influenza di Bisanzio. Mancando di forti tradizioni
unitarie, gli slavi non seppero opporre resistenza alle due così diverse culture, cosicché gli sloveni e i
croati accettarono il modello culturale occidentale e la religione cattolica; i serbi, i montenegrini, i
bulgari furono attratti da quello orientale e dalla religione ortodossa.
Dopo lo Scisma del 1054, la frattura tra Chiesa ortodossa e Chiesa cattolica si acuì sensibilmente,
non solo sul piano religioso, ma anche su quello politico; ciò diede luogo ad un confine sui Balcani
che corre lungo il fiume Drina e che divise il mondo serbo-ortodosso da quello croato-cattolico.
Sulla bipolarità Roma/Bisanzio si innestò, nel XIV-XV sec., la cultura islamica, portata dai turchi
nei Balcani nel corso della loro avanzata verso l’Europa centrale.
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Regni slavi prima dell’avanzata turca
A lungo le popolazioni slave rimasero organizzate in società di tipo tribale, solo nel basso
Medioevo cominciarono a sorgere dei veri e propri stati.
La Croazia si formò come primo regno slavo nel 925 e durò fino al 1102, quando fu
riconosciuto re di Croazia e Dalmazia, il re d’Ungheria, che si impegnò, comunque, a rispettare i
diritti dello stato croato. I croati posero sempre, anche quando persero territori a favore dei turchi o
la Dalmazia a favore dei veneziani, al centro del loro processo storico la loro identità nazionale.
La Slovenia riuscì a formare un principato autonomo nell’VIII sec., ma già nel IX cadde
sotto il dominio dei franchi, che svolsero una forte opera di cristianizzazione. In seguito, dopo un
breve periodo di dominazione boema, nel XIII sec. divenne parte integrante dei territori asburgici.
L’unico elemento rimasto dell’identità slovena fu la lingua: ciò permise nel 1500 ai protestanti
sloveni di dar vita ad una importante letteratura religiosa che contribuì a creare una coscienza
nazionale.
La Bosnia fu occupata nell’XI sec. dai re d’Ungheria, che la divisero in due parti con a capo
un ban (governatore). Uno di questi riuscì a riunire alla Bosnia l’Erzegovina ed altri territori, a farsi
proclamare re e a sottrarsi al rapporto di vassallaggio con l’Ungheria.
La Serbia si costituì come regno indipendente nel XIII sec. Fino al 1389 fu lo stato più
potente dei Balcani, avendo conquistato Albania, Montenegro, Macedonia, Tessaglia, Epiro. La
stretta connessione tra la Chiesa nazionale ortodossa (che si era resa autonoma nei confronti della
gerarchia greca) e lo stato fu l’elemento che cementò lo spirito nazionalistico anche nei più aspri
momenti della dominazione turca.
Nel Montenegro, dal XVI sec. tutte le tribù furono riunite e organizzate con potere a base
teocratica (elettiva prima, poi ereditaria: i vescovi lasciavano il potere ai nipoti).
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Le invasioni turche, le conquiste asburgiche, la presenza napoleonica
I turchi, chiamati dagli imperatori bizantini in funzione antiserba, iniziarono la conquista
dell’Europa balcanica nella seconda metà del 1300.
Nel 1389 (28 giugno - battaglia del "Campo dei Merli" - Kosovo) conquistarono la quasi totalità
dei serbi. Solo alcuni principati serbi del nord conservarono una parvenza di autonomia, ma nel
corso del XV sec. i turchi eliminarono le ultime signorie e l’intera aristocrazia feudale serba. La sorte
dei contadini rimase per lo più invariata: essi furono costretti a pagare ai nuovi signori tasse, gabelle,
tributi, tra i quali specialmente pesante il tributo “del sangue”, consistente nella tratta dei ragazzi
destinati a diventare giannizzeri (corpo militare scelto al servizio del sultano). Con la conquista turca
la Serbia, ridotta a provincia, fu governata militarmente e con tanta durezza da provocare un’ondata
di migrazioni (verso Ungheria, Dalmazia, Croazia, Slavonia..) che si protrasse fino al ‘700. Le
autorità austriache formarono lungo il confine con la Turchia un territorio popolato da questi
fuggiaschi, liberi da gravami feudali, ma soggetti alle autorità militari. Per secoli la “frontiera
militare” fu il principale serbatoio di soldati per l’esercito asburgico.
Nel 1463 gli ottomani occuparono la Bosnia. Lo sviluppo economico si arrestò e il paese rimase fino
al XX sec. una regione agraria arretrata. La maggior parte dei nobili bosniaci si convertì
all’islamismo; i contrasti fra le tre confessioni religiose (cattolica, ortodossa e musulmana) sfociarono
spesso in sanguinosi conflitti. L’Erzegovina ebbe dal 1468 una certa autonomia, ma nel 1483 fu
conquistata dai turchi e nei secoli successivi condivise sostanzialmente le sorti della Bosnia. Dopo
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una breve parentesi di dominazione asburgica (1718-1739), la Bosnia passò nuovamente sotto il
dominio ottomano
La Croazia, all’inizio del XV sec., aveva perso buona parte della costa (Zara, Spalato, Are,
Ragusa..); nel XVI sec. l’entroterra fu occupato dagli ottomani. Nel 1526 i croati, insieme agli
sconfitti ungheresi, riconobbero il dominio asburgico (contro i turchi) che garantì il mantenimento di
antichi privilegi e la difesa della popolazione croata. Per raggiungere tale obiettivo, furono posti
lungo la frontiera bosniaca fuggiaschi serbi (soprattutto contadini e militari che si erano allontanati
dalla Serbia per trovare rifugio sotto gli Asburgo): il territorio fu sottratto all’amministrazione di
Zagabria e sottoposto direttamente al ministro della guerra di Vienna. Questa frontiera militare
complicò ancor più la struttura etnica della Croazia e divenne un’ulteriore barriera fra i popoli slavi
(bosniaci e serbi inseriti nel mondo orientale; croati e sloveni in quello mitteleuropeo).
Nel XVIII sec., sotto il regno di Maria Teresa, la Croazia fu annessa amministrativamente
all’Ungheria.
Nel 1805, il trattato di Vienna assegnò a Napoleone, insieme ai territori sloveni, una parte della
Croazia costiera. La dominazione francese restituì al paese una parvenza di autonomia e contribuì a
risvegliare la coscienza nazionale croata.
Tra il '600 e il '700 gli Asburgo riuscirono a spingersi fino al Kosovo, ma furono poi costretti a
stabilire la frontiera sul Danubio. Migliaia di serbi al loro seguito si insediarono nella Vojvodina,
regione sotto il dominio ungherese (con serbi, ungheresi e numerose altre etnie) che divenne il
centro culturale e religioso più importante del popolo serbo. Nel Kosovo, abbandonato dai serbi,
giunsero gli albanesi dalle aree montuose meno fertili.
Nel 1496 i turchi invasero anche il Montenegro, ma concessero agli abitanti alcuni privilegi
fiscali e amministrativi. Nel '700 i montenegrini, approfittando della lotta tra Asburgo e ottomani,
riuscirono a conquistare l’indipendenza.
Movimenti insurrezionali nei Balcani
L‘idea “iugoslava”, che si proponeva come obiettivo il raggiungimento dell’unificazione degli
slavi del sud, risale alla fine del '700, anche se orientamenti in tal senso sono rintracciabili in
intellettuali croati del '500-'600. A quel tempo risalgono gli ideali illirici, ossia una visione
complessiva dei popoli dell’antica Illiria romana, comprendente non solo gli slavi meridionali (fra i
quali i bulgari), ma anche gli albanesi. Il pensiero politico croato affermò con forza, tra il '600-'700,
l’idea dell’unità etnica e linguistica degli slavi meridionali.
L’occupazione napoleonica della Slovenia, che aveva portato miglioramenti economici e
amministrativi, aveva fatto riscoprire agli Sloveni la propria cultura, i caratteri originali della propria
nazione e di quella degli altri popoli slavi sottomessi. La coscienza dei popoli balcanici di dover
riconquistare una propria identità nazionale, diede origine ad un movimento politico denominato
“Illirismo”.
Alle formulazioni teoriche seguì l’azione. Nel 1804, guidata da un mercante di maiali, Giorgio
Karadjordje, scoppiò in Serbia una violenta rivolta contadina contro il rigido sistema fiscale turco.
L’insurrezione, che assunse presto il valore di un riscatto nazionale e che presto ebbe l’appoggio
dell’impero russo in nome della fratellanza dei popoli slavi, si protrasse fino al 1813 e si concluse con
la vittoria degli ottomani solo a causa delle divisioni insorte in campo serbo e del ritiro delle truppe
russe richiamate in patria per combattere gli attacchi napoleonici.
Nel 1815, sotto la guida di Milos Obrenovic, anch’egli di origine contadina, riprese la lotta contro il
dominio turco, fino a che i serbi riuscirono ad ottenere l’autonomia. Obrenovic divenne principe
ereditario, fece uccidere Karadjordje e da allora iniziò tra le due famiglie una secolare rivalità
dinastica per il controllo del regno serbo.
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Seguì una serie di ribellioni che sconvolsero i Balcani nei successivi decenni, modificandone,
come si vedrà, la struttura geopolitica.
Rivalità austro-serba
Nel 1867 gli Asburgo riconobbero l’autonomia dell’Ungheria dall’Austria, sotto l’unione di
un comune sovrano. La Dalmazia entrò a far parte dei territori austriaci; la Croazia, la Slovenia e la
Vojvodina furono inglobate nel regno d’Ungheria, anche se la Croazia ottenne una certa autonomia
sotto l’alta autorità ungherese. Al congresso di Berlino del 1878 (che ridisegnò la mappa politica dei
Balcani), l’Austria ottenne il mandato di occupare la Bosnia-Erzegovina (poi annessa nel 1908).
La Serbia e il Montenegro ottennero il definitivo riconoscimento dell’indipendenza. Ma da questo
momento iniziò una crisi nelle relazioni tra Austria e Serbia, poiché quest’ultima costituiva il solo
ostacolo per l’espansione austriaca nei Balcani, tendente ad uno sbocco sul mar Egeo.
Nel frattempo si proponeva il problema della Macedonia, regione contesa da Serbia, Bulgaria,
Albania, Grecia. Su questa rivalità l’Austria fondò la sua politica di divisione nei Balcani nella
speranza di procedere a nuove annessioni. Per limitare l’influenza dell’Austria e combattere l’impero
ottomano, gli stati balcanici firmarono nel 1912 trattati di alleanza (Serbia/Bulgaria, Grecia/Bulgaria)
che prevedevano la spartizione della Macedonia.
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Le guerre balcaniche
Nell’ottobre del 1912 la Turchia, impegnata nella lotta con l’Italia per i territori libici, firmò
con gli italiani la pace di Losanna e dichiarò guerra alla Serbia e alla Bulgaria. Gli alleati balcanici,
cui si era aggiunto il Montenegro, conquistarono alquanto facilmente la vittoria, tanto da allarmare le
grandi potenze. La Francia e la Gran Bretagna temettero il definitivo crollo dell’impero ottomano,
che avrebbe rinnovato la questione del controllo degli stretti del Bosforo e dei Dardanelli (cui ambiva
anche la Russia). L’Austria e l’Italia videro come una minaccia ai loro interessi sull’Adriatico, la
presenza dei serbi e dei greci sul litorale albanese. Nel maggio del 1913 gli stati balcanici, anche per
la mediazione delle grandi potenze, sottoscrissero il trattato di Londra: alla Turchia rimaneva un
esiguo territorio, ma continuava a mantenere il controllo sugli stretti. La Serbia non ebbe lo sbocco
sull’Adriatico, per la creazione dello stato indipendente di Albania (posto sotto la protezione
dell’Austria e dell’Italia). Alla Grecia fu affidata Salonicco. Per quanto riguarda la spartizione del
territorio macedone, Serbia e Bulgaria non raggiunsero un accordo, tanto che quest’ultima riprese la
lotta armata nel luglio del 1913 contro gli ex alleati. (II guerra balcanica).
La sconfitta della Bulgaria fu catastrofica e fu sanzionata con il trattato di Bucarest (agosto
1913), con il quale tutta la Macedonia centrale oltre al Kosovo, fu assegnata alla Serbia, la Grecia
mantenne Salonicco e la Macedonia meridionale. Alla Bulgaria restò una parte della Macedonia
orientale e un piccolo sbocco sull’Egeo.
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La prima guerra mondiale
La Serbia, con i suoi successi, divenne il centro di attrazione di tutti gli slavi del sud ancora
sotto il dominio austriaco, costituendo una seria minaccia per la debole monarchia.
Il conflitto tra Serbia e monarchia asburgica ebbe inizio con l’attentato di Sarajevo del 28 giugno
1914 (anniversario della battaglia di Kosovo), in cui Gavrilo Princip uccise l’arciduca Francesco
Ferdinando, erede al trono degli Asburgo, e la moglie. Durante la guerra gli sloveni, i croati e i serbi
ancora sudditi dell’Austria-Ungheria, combatterono contro i serbi e i montenegrini alleati con
l’Intesa, nonostante il loro progetto di una lotta comune contro la dominazione straniera che avrebbe
dovuto riunire tutti gli slavi del sud in un’unica entità statale. La Serbia resistette dapprima con
successo all’esercito austriaco, ma dovette cedere nell’autunno del 1915 ad una offensiva congiunta
austro-bulgara. Il re, l’esercito e il governo fuggirono a Corfù. Nel 1918, con l’aiuto dei francesi, i
serbi riconquistarono il loro regno. L’idea iugoslava (unione degli slavi del sud) fu portata avanti da
un comitato di esuli croati e sloveni (costituito a Londra nel 1915 da Supilo e Tumbric) . Questo
comitato iugoslavo e il governo in esilio di Corfù firmarono, il 20 luglio 1917, la “dichiarazione di
Corfù” in cui si dichiarava che serbi, croati e sloveni si sarebbero riuniti in uno stato democratico e
parlamentare, nel quale sarebbero state rispettate le peculiarità nazionali dei singoli popoli.
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Il regno iugoslavo dalla nascita alla II guerra mondiale
Nel dicembre del 1918 la disintegrazione della monarchia asburgica e dell’impero ottomano
portarono alla creazione del regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (SHS), di cui divenne prima
reggente e poi re (1921) Alessandro I Karadjordje. I serbi vittoriosi dettarono le condizioni e nel
1921 fu imposta una costituzione che faceva della Iugoslavia una monarchia parlamentare, ma a
struttura fortemente autoritaria e accentrata; ciò determinò vive reazioni, particolarmente violenta fu
quella dei nazionalisti croati. La tensione politica che percorse il paese, che si espresse anche con atti
terroristici, culminò nel 1928 nell’assassinio di Radic, leader del partito contadino croato, ucciso in
parlamento. Il re Alessandro sospese la costituzione del 1921 e instaurò un regime dittatoriale,
accentuando la pressione centralizzatrice nel suo stato, che prese il nome di regno di Iugoslavia.
La situazione economica era molto precaria per l’arretratezza dell’agricoltura e per la situazione
dell’industria, incapace di creare posti di lavoro sufficienti per le esigenze della popolazione. Le
ripercussioni della crisi economica mondiale del 1929 peggiorarono la già critica situazione. I
contadini e gli operai croati si sentivano oppressi sia dal punto di vista sociale, sia come entità
nazionale; solo di poco minore era il malcontento degli sloveni. In condizioni peggiori erano i
macedoni, dei quali alcuni si ritenevano bulgari, altri appartenenti a una distinta nazione macedone. Il
governo di Belgrado però non riconosceva queste aspirazioni e trattava il popolo macedone come
“serbi del sud”, perseguitando coloro che si opponevano alla sua linea centralizzatrice. In
Macedonia, inoltre, la povertà e l’ignoranza erano più diffuse e l’amministrazione più corrotta e
repressiva che in ogni altra parte della Iugoslavia.
In politica estera, la Iugoslavia, insieme alla Cecoslovacchia e poi alla Romania, diede vita alla
"Piccola Intesa" per difendersi da eventuali tentativi di restaurazione dell’impero asburgico; nel 1927
firmò un trattato di alleanza con la Francia e nel 1934 l’"Intesa Balcanica", sottoscritta da Grecia,
Romania e Turchia, per proseguire una politica di difesa nei confronti dell’Ungheria e dell’Italia.
Nel 1934 il re Alessandro venne ucciso a Marsiglia, dove era in visita ufficiale, dagli ustascia croati
(corrente di destra del partito contadino croato, sostanzialmente fascista nella concezione e nei
metodi, finanziato con fondi italiani e ungheresi). La reggenza del cugino Paolo iniziò tra grandi
difficoltà a causa delle tensioni interne. Nel 1937 venne firmato un trattato di pace con la Bulgaria
che rinunciava alle pretese sulla Macedonia; nello stesso anno venne siglato un accordo d’amicizia
(valido cinque anni) con l’Italia, che prevedeva la reciproca neutralità in caso di conflitto non
provocato e l’impegno di non favorire i movimenti irridentisti all’interno dei due stati.
Nel 1939 venne concessa una larga autonomia alla Crozia; il governo di Belgrado si riservò ogni
potere in politica estera, in materia di difesa, di finanze e di interessi nazionali.
La seconda guerra mondiale
Lo scoppio della guerra, con la presenza di tedeschi alle frontiere nord e degli italiani in
Albania, spinse il reggente Paolo ad aderire alla politica dell’Asse. Ma un’indignata sollevazione
popolare ed un colpo di stato portarono il principe Pietro II (diciassettenne) ad assumere le redini
effettive del potere e a dichiarare una mobilitazione generale poiché la guerra con la Germania era
ormai inevitabile. Il 6 aprile la Germania invase la Iugoslavia e il 18 aprile venne firmata la
capitolazione. La Serbia, ridotta alle frontiere anteriori al 1913, passò sotto amministrazione tedesca;
la Macedonia venne annessa alla Bulgaria, il Kosovo all’Albania; la Slovenia venne divisa tra
Germania e Italia; il Montenegro, indipendente, fu posto sotto gli ordini del governo italiano; la
Croazia venne costituita in monarchia indipendente che comprendeva anche la Bosnia (sotto la
sovranità nominale del principe italiano Aimone di Savoia-Aosta, ma sotto il governo effettivo degli
ustascia, guidati dal duce Ante Pavelic, che praticarono una politica di persecuzione delle minoranze
serbe ed ebraiche che scavò un solco profondo di odio e di diffidenza soprattutto tra croati e serbi di
Croazia).
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Nel giugno 1941, il partito comunista cominciò una serie di operazioni insurrezionali in Serbia e nel
Montenegro sotto la guida di Josip Broz Tito (dapprima appoggiato e poi osteggiato dal governo in
esilio a Londra). Nei successivi tre anni i comunisti attuarono massicce azioni di guerriglia, mentre le
forze del governo in esilio, capeggiate da Mihalovic (cetnici) per avversare le formazioni partigiane
collaborarono prima con gli italiani, poi con i tedeschi. Tito estese gradatamente il suo movimento di
liberazione nazionale anche tra gli sloveni, i croati e i macedoni, propugnando l’obiettivo della
formazione di uno stato federale in cui tutte le nazioni (compresi i macedoni ai quali si riconosceva
una propria autonomia) avrebbero avuto uguali diritti. I comunisti riuscirono ad ottenere un
appoggio sempre più grande dai contadini, senza distinzioni religiose, e dalle donne; cosicché fin dal
1943 il movimento di liberazione assunse un carattere di massa e le operazioni di guerriglia si
estesero e si intensificarono a tal punto da configurarsi sempre più come una vera e propria guerra
rivoluzionaria. Le stesse autorità militari inglesi, riconosciuta l’utilità che le formazioni partigiane di
Tito avevano per la causa alleata, fornirono armi e materiali.
Nel 1945, al momento della resa tedesca, le forze partigiane controllavano l’intero paese.
La Iugoslavia federale
Tito e i suoi collaboratori istituirono un sistema politico ispirato al modello sovietico: uno
stato composto da sei repubbliche federali (Slovenia, Croazia, Bosnia, Montenegro, Serbia,
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Macedonia) e due regioni autonome (Kosovo e Vojvodina) e cercarono di imitare anche la struttura
e la politica sociale dell’URSS (nazionalizzazione delle industrie, collettivizzazione delle terre...)
mentre gli oppositori politici furono oggetto di dure misure repressive (confisca dei beni, privazione
del diritto di voto, arresti..). Tuttavia, a differenza delle altre repubbliche democratico-popolari
dell’Europa orientale, la Iugoslavia mostrò ben presto una notevole fermezza nei confronti
dell’URSS, resistendo alle pressioni per un allineamento della sua politica economica ai pretesi
interessi generali del “campo socialista” e assumendo in politica estera iniziative (come quella, fallita,
per una federazione con la Bulgaria e con l’Albania) non gradite all’URSS. La tensione tra Mosca e
Belgrado sfociò nell’espulsione dei comunisti iugoslavi dal Cominform (1948). La rottura era ormai
inevitabile, anche perché il partito comunista iugoslavo, come quello albanese, aveva ottenuto il
potere con le sue forze e Stalin diffidava di tutti i capi comunisti che non seguivano le sue direttive.
D’altra parte il governo sovietico non osava invadere la Iugoslavia perché temeva di scatenare
un’altra guerra in Europa. Inoltre, Tito e i suoi compagni cominciavano ad essere consapevoli della
forza che derivava dalla loro posizione e dal favore del popolo, ed erano pertanto certi di poter
contare sul patriottismo di quasi tutti i serbi, gli sloveni, i croati, i macedoni.
Nei successivi venticinque anni la Iugoslavia fece grandi progressi nel campo industriale e in quello
culturale. L’agricoltura rimase in mano ai contadini, piccoli proprietari, nonostante l’impulso dato in
un primo momento alla creazione di grandi aziende agricole nazionalizzate sul modello dell’industria
(che fu effettivamente nazionalizzata). Nelle fabbriche fu introdotta l’autogestione. L’economia
iugoslava continuò però a soffrire a causa della sovrappopolazione: la grave disoccupazione fu
alleviata dall’emigrazione temporanea di milioni di lavoratori nelle industrie tedesche, austriache,
svizzere.
In politica estera vi fu, nel 1955, un tentativo di riavvicinamento all’URSS di Kruscev, ma il limite
che la potenza sovietica poneva allo sviluppo delle “vie nazionali al socialismo” indusse Tito a
prendere le distanze da Mosca. Nel frattempo il leader iugoslavo stabiliva sempre più stretti contatti
con i paesi del Terzo mondo, a mano a mano che questi si rendevano indipendenti. Nel 1956,
nell’isola di Brioni, un summit fra Tito, Nehru (India) e Nasser (Egitto) pose le basi per la nascita
del Movimento dei non allineati, che trovò la sua sanzione formale nel vertice di Belgrado del 1961.
A partire dagli anni ‘60 si avviò anche un processo di liberalizzazione interna: la censura venne
allentata gradualmente, la stampa diede voce a opinioni diverse, aumentarono i contatti con l’Europa
occidentale, fu incentivata l’importazione di beni di alta qualità e migliorati i servizi sociali, ai
cittadini fu concesso il passaporto con validità quinquennale e la possibilità di viaggiare all’estero.
Fra il 1965 e il 1968 il reddito nazionale medio crebbe del 18%, l’urbanizzazione si intensificò e
l’istruzione nelle medie inferiori registrò un incremento del 42% rispetto al triennio precedente e del
31% nelle superiori. Contemporaneamente, però, aumentavano le differenze sociali tra Nord e Sud e
tra i vari strati sociali.
Il riemergere del nazionalismo
Tra la fine degli anni ‘60 e gli inizi degli anni ‘70 cominciarono a riemergere, proprio per
l’accrescersi delle differenze sociali ed economiche e con la riapertura del dibattito sulla riforma delle
istituzioni a favore del decentramento, idee nazionalistiche. Gli sloveni, i croati, le popolazioni
settentrionali della repubblica serba, avevano la sensazione di essere danneggiate a beneficio delle
repubbliche più arretrate (Bosnia, Macedonia, Montenegro). Nel ‘68 fu il Kosovo a chiedere
l’autonomia e riuscì, in effetti, a svincolarsi dalla tutela della Serbia; analogo trattamento fu da allora
riservato alla Vojvodina. Nel 1971 esplose una grave crisi in Croazia: furono portate durissime
critiche al governo centrale, stampa e studenti tentarono di sfuggire al controllo comunista, fu
richiesta la creazione di un esercito croato . Il governo centrale intervenne duramente arrestando
centinaia di croati e attuando epurazioni nei partiti comunisti serbo e macedone, ritenuti troppo
liberali. Questa decisa azione di Belgrado rinforzò il nazionalismo croato e si diffuse il timore di una
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dittatura militare. Il timore era accresciuto dal fatto che Tito era ormai vecchio e il problema della
successione si presentava alquanto complesso. Ma, tutto sommato, lo spirito unitario iugoslavo era
ancora più forte delle forze disgregatrici. Per promuovere un miglior equilibrio fra le nazionalità, le
repubbliche e i loro organi rappresentativi, fra questi e gli organi esecutivi federali, nel 1974 entrò in
vigore una nuova costituzione. I poteri del governo federale vennero ridemensionati, mentre
crebbero quelli delle repubbliche e delle regioni alle quali fu assegnato, di fatto, un diritto di veto su
tutte le questioni di carattere generale. Dal 1975 esse ottennero anche la sovranità valutaria. Le élite
di Stato e di partito vennero scelte rispettando la proporzionale etnica. I diritti all’uso della lingua
nazionale furono garantiti, mentre problematici rimasero ancora i rapporti fra le tre religioni
principali . Al vertice della Federazione fu posta una presidenza collegiale, alla cui guida, una volta
scomparso Tito, sarebbero ruotati ogni anno i rappresentanti delle sei repubbliche e delle due regioni.
L’autogestione fu estesa dalle fabbriche a tutti gli aspetti della vita sociale.
Sempre negli anni '70 la Iugoslavia conobbe nuovamente ritmi elevati di sviluppo e il tenore di vita
crebbe. La fase di espansione fu agevolata dall’accesso ai crediti internazionali; l’indebitamento
raggiunse, all’inizio degli anni Ottanta, i 20 miliardi di dollari, con gravissime conseguenze
successive.
Il dopo - Tito
Negli ultimi anni della sua vita, Tito aveva concentrato la propria attività soprattutto in
politica estera per riaffermare i caratteri originali del "Movimento dei non allineati" e in politica
interna aveva abbandonato parte dei propri poteri a un gruppo dirigente alquanto inefficiente.
Scomparso il vecchio maresciallo nel 1980, il dopo - Tito venne così affrontato da élite di Stato e di
partito impreparate ad affrontare la crisi economica che avrebbe devastato il paese per tutto il
decennio successivo. La crisi economica e l’inefficienza politica fecero riesplodere i contrasti fra le
repubbliche e ripropose istanze nazionalistiche (il Kosovo chiese nel 1981 di essere trasformato in
repubblica).
Nel frattempo il paese veniva travolto da un’inflazione galoppante che raggiunse, nel 1989, il 2000
per cento e da una drastica riduzione del tenore di vita e degli investimenti. In tali condizioni i gruppi
dirigenti tesero, in un primo tempo, a ricercare nell’ambito territoriale d’origine la propria e unica
legittimità di potere, con ciò provocando una rapida delegittimazione dell’élite iugoslava e il
rafforzamento di un ceto politico a carattere locale. Successivamente, nel 1987, Slobodan Milosevic
si pose a capo della protesta dei serbi, mirando a modificare la Costituzione per sostituire il principio
decisionale dell’unanimità con quello maggioritario, ben sapendo che i serbi costituivano la
maggioranza relativa della popolazione iugoslava. Questo atteggiamento, unito ad un
comportamento decisionista e autoritario, spaventò in particolare gli Sloveni che, soprattutto dal
1985, avevano avviato una progressiva liberalizzazione della società, permettendo la crescita di
un’opinione pubblica più dinamica e articolata, e mirando, in prospettiva, a indire elezioni
pluripartitiche. Probabilmente nella speranza di contenere la protesta serba, essi accettarono, alla fine
del 1988, di ridurre l’autonomia del Kosovo e della Vojvodina, che furono riportate, anche
militarmente, sotto il controllo della Serbia. Ma la minaccia di una “marcia” dei serbi del Kosovo su
Lubiana, poi annullata, e gli aspri contrasti tra il presidente sloveno Kucan e quello serbo Milosevic
spinsero gli sloveni a far prevalere gli elementi nazionalistici sulle istanze democratiche. I rapporti
tra i leader politici si inasprirono, si aggravarono i contrasti interetnici, crebbero le richieste di
autonomie e di libere elezioni. Per risolvere questo momento di forte tensione fu nominato capo del
governo federale Ante Markovic, croato, che riuscì a stabilizzare l’inflazione, a far riemergere la
fiducia nel popolo e si adoperò affinché le tensioni tra i leader non portassero alla divisione del paese.
Ma la crisi era ormai troppo grave e non furono sufficienti i positivi risultati raggiunti da Markovic
per poterla risolvere. La rottura intervenuta al XIV congresso della Lega dei comunisti (gennaio
1991), con l’abbandono della delegazione slovena, confermò come stessero ormai affermandosi le
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tendenze centrifughe. La scomparsa improvvisa della Lega dei comunisti e la sua frantumazione in
tanti partiti comunisti a carattere locale segnarono di fatto la fine di quel cemento unitario che Tito
aveva posto a equilibrio del sistema costituzionale federale .
Le lotte per le affermazioni nazionalistiche
Le elezioni pluripartitiche, svoltesi nelle sei repubbliche nel corso del 1990, confermarono la
progressiva disarticolazione politica del paese, ma non risolsero pacificamente la questione
“iugoslava”. Si è invece assistito all’acuirsi della crisi, che è sfociata in vere e proprie guerre.
Il primo conflitto ha visto di fronte l’armata federale e la Slovenia per la cosiddetta “guerra delle
dogane”. L’armata federale fu inviata da Markovic, ultimo primo ministro della ex Iugoslavia
federale e socialista, per controllare i confini internazionali della Slovenia e far rispettare l’integrità
dello stato iugoslavo. Le forze armate, invece di muovere le truppe presenti in Slovenia mossero
quelle presenti in Croazia, facendo così apparire l’operazione militare come una vera e propria
invasione della Slovenia. L’operazione durò pochi giorni (fine giugno - inizio luglio 1991) e si
concluse con la piena sconfitta dell’esercito federale, formato da tutti gli slavi, anche sloveni.
L’esercito non seppe capire che da parte slovena vi era la precisa volontà di perseguire l’obiettivo
della secessione. Per raggiungere tale obiettivo la Slovenia si era preparata adeguatamente
costituendo depositi di armi, addestrando gruppi speciali e, soprattutto, assumendo il controllo
politico della situazione attraverso il dominio dei mass-media, che presentavano solo il punto di vista
sloveno sul conflitto. Alla stampa occidentale, infatti, il conflitto in atto venne presentato come una
massiccia e violenta invasione, con centinaia e centinaia di morti, della Slovenia da parte dell’esercito
federale. In realtà vi furono 75 morti, quasi tutti militari di leva dell’esercito federale. Esercito che
era stato fin dall’inizio paralizzato poiché gli sloveni avevano minato le strade, avevano isolato i
militari nelle caserme togliendo l’acqua e l’energia elettrica, avevano bloccato l’arrivo dei viveri e dei
rinforzi. Il conflitto, probabilmente concepito da qualche generale anche come invasione, si trasformò
così in una sorta di assedio dell’esercito federale all’interno del territorio sloveno. La guerra si
concluse, con la mediazione della Comunità europea, che, nell’isola di Brioni, riuscì a far
sottoscrivere, il 7 luglio 1991, all’armata federale e ai rappresentanti della Slovenia un accordo per il
cessate il fuoco. I militari iugoslavi si impegnavano a ritirare le proprie truppe entro tre mesi dal
territorio sloveno, in cambio gli sloveni si impegnavano a togliere il blocco alle caserme per
permettere ai militari di organizzare le loro forze e avviare il ritiro dal paese.
L’accordo di Brioni ha segnato di fatto la fine ufficiale della Iugoslavia, nel momento in cui l’esercito
federale ha rinunciato alla Slovenia e lo Stato ha abdicato alla sovranità su una parte del suo
territorio. La scelta del ritiro compiuta dal corpo ufficiali (60% serbi) seguiva le indicazioni del
leader serbo Milosevic. Questi aveva sempre rivendicato un maggior peso della Serbia all’interno
della federazione e aveva minacciato che in caso di morte dello stato iugoslavo, la Serbia non
avrebbe considerato i confini tra le repubbliche iugoslave come confini intangibili, ma avrebbe agito
per ridiscutere tutti quei confini. Di fatto gli ufficiali accettarono questa indicazione, perché segnando
la fine della Slovenia come repubblica federale iugoslava sancirono il principio secondo cui anche i
confini tra le repubbliche potevano essere modificate, così come si erano modificati i confini della
federazione.
Proprio per questo, terminato il conflitto in Slovenia, ha avuto inizio la seconda guerra iugoslava,
quella tra Croazia da una parte e i resti dell’esercito federale e i ribelli serbi dall’altra. Questa guerra
è stata più vasta del conflitto in Slovenia perché ha interessato una porzione di territorio molto più
grande, che va dalle sponde dell’Adriatico, da Zara, passa attraverso la Krajina (la zona al confine
tra la Bosnia e la Croazia abitata dai serbi), si spinge fino alle porte di Zagabria e poi si estende in
tutta la pianura pannonica, fino oltre al lembo estremo della Croazia intorno alla città di Dubrovnik
(Ragusa). L’estensione così vasta del conflitto è dovuta al fatto che in questi territori abita una
popolazione serba che già nell’estate del ‘90 aveva rotto ogni rapporto con il governo di Zagabria,
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prendendo il possesso delle linee di comunicazione, interrompendo le linee ferroviarie e, di fatto,
costituendo delle piccole repubbliche autonome dal governo di Zagabria. Con il ritiro dell’armata
federale dalla Slovenia, il governo croato cominciò a temere che queste piccole repubbliche serbe
costituitesi al suo interno diventassero di fatto repubbliche definitive, poiché nel momento in cui
erano stati modificati i confini della nazione iugoslava (caso sloveno) anche queste repubbliche
potenzialmente avrebbero potuto rivendicare la secessione dalla Croazia. E ciò accadde, perché dopo
il luglio del 1991 queste repubbliche si proclamarono indipendenti da Zagabria e rivendicarono
l’unione con Belgrado. L’esercito federale mantenne un atteggiamento controverso e
contraddittorio, anche se nei suoi vertici continuò a presentarsi come espressione di tutti i popoli
iugoslavi, di fatto nei suoi quadri intermedi cominciò a perseguire esplicitamente gli obiettivi di
guerra dei serbi. Cosicché ha finito, in concreto, per schierarsi dalla parte dei ribelli serbi,
conducendo operazioni intensissime in particolare in direzione di Zagabria e della pianura della
Slavonia (Bucovar). Il risultato di questa operazione militare (luglio 1991- gennaio 1992) sancì
l’occupazione di circa un terzo del territorio della repubblica croata da parte dei ribelli serbi
appoggiati dall’esercito federale, ormai composto da soli serbi. Il risultato di questo conflitto fu la
secessione di un terzo della Croazia e l’occupazione di questo territorio da parte dei ribelli di
Zagabria. Nel gennaio 1992 Zagabria accettò così, seppur temporaneamente che tale territorio
rimanesse fuori del suo controllo. Con questa seconda secessione, un altro confine, di fatto, anche se
non formalmente, venne mutato all’interno dell’area iugoslava.
Questa seconda importante modifica ha fatto precipitare rapidamente la situazione in Bosnia,
situazione assai più complessa, perché se in Croazia il confine riguardava due etnie, due nazionalismi
(serbo e croato), qui riguardava serbi, croati e musulmani. La vittoria dell’idea nazionalista in
Slovenia e in Croazia, dette l’avvio ai vari nazionalismi bosniaci per raggiungere gli stessi obiettivi.
Nell’inverno del 1992, così, anche in Bosnia cominciò a serpeggiare un clima di guerra civile.
L’esercito “federale”, ormai pressoché tutto serbo, cominciò a distribuire armi al partito democratico
serbo di Bosnia, il cui leader era Karadic. La distribuzione delle armi continuò fino all’aprile ‘92.
La comunità internazionale aveva imposto alla Bosnia di tenere un referendum per verificare se vi
fosse l’intenzione di costituire uno stato indipendente. Questo referendum si tenne nel marzo del ‘92
e diede come risultato il 60% di adesioni all’ipotesi dell’indipendenza. I serbi, circa il 30% della
popolazione, non parteciparono, perché videro questo referendum come un’azione di forza da parte
dei croati e degli slavi musulmani di Bosnia, che avrebbero pregiudicato le ambizioni dei serbi. Pochi
giorni dopo la diffusione dei risultati cominciarono le sparatorie e l’assedio di Sarajevo.
Rispetto a questi eventi vi sono due tipi di interpretazione: alcuni affermano che la sopravvivenza di
una Bosnia plurietnica, dopo che si era avuta la secessione degli sloveni e dei serbi di Croazia, era
una ipotesi impossibile, visto che lo stato iugoslavo plurietnico si era disgregato. Secondo questa
tesi, dall’aprile 1992 tutti i gruppi politici presenti in Bosnia operarono per una divisione del
territorio, conducendo azioni violente contro gli appartenenti agli altri gruppi.
Secondo l’altra ipotesi a prendere l’iniziativa violenta furono solo i serbi di Bosnia, i quali fin
dall’inizio mostrarono di avere un piano ben preciso per dividere il territorio bosniaco: garantire
all’esercito dei serbi di Bosnia il controllo dei comuni bosniaci in cui i serbi erano la maggioranza
della popolazione e realizzare un corridoio territoriale che unisse le zone della Bosnia da loro
occupate con il territorio serbo. La prima parte di questo piano consisteva così nel controllare la
Krajina, il territorio della Bosnia in cui i serbi erano la maggioranza della popolazione e collegare
questa zona con la Serbia.
In effetti, alla fine dell’estate del ‘92 questo piano era stato completato. I serbi erano in grado di
controllare tutti i comuni in cui essi erano la maggioranza ed un corridoio che, passando nella valle
della Sava, portava al territorio serbo e garantiva l’afflusso di rifornimenti e aiuti dalla Serbia. Questo
piano sconvolse l’equilibrio etnico e demografico della Bosnia, perché fece affluire centinaia di
migliaia di profughi in Croazia e nella stessa Serbia, perché le operazioni militari obbligavano decine
di migliaia di persone a lasciare il territorio bosniaco. Questo piano ebbe poi una connotazione più
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cruenta che consisteva nell’allontanare il maggior numero di persone appartenenti alle altre etnie dal
territorio controllato dai serbi. Cominciò così quella che viene chiamata “pulizia etnica”, operazione
che di fatto venne perseguita più che con la creazione di campi di concentramento, con la conduzione
di operazioni militari, nel senso che le persone per non essere coinvolte si allontanarono per conto
proprio. Con la “pulizia etnica” si sgombrarono i comuni e le vallate dalla presenza di popolazioni
miste e si creò la base sulla quale costruire uno stato mononazionale e monoetnico. Le operazioni
militari e la pulizia etnica condussero alla formazione di aree compatte, laddove prima le popolazioni
erano miste: i serbi a est, i musulmani al centro, i croati verso l’Erzegovina e Sarajevo. Alla fine
dell’estate ‘92 gran parte della popolazione bosniaca si era raggruppata in queste aree per affinità
etnica.
Nel frattempo la comunità internazionale, viste violate le decine di "cessate il fuoco" che l'ONU
aveva intimato, aveva posto gravi sanzioni nei confronti della Serbia.
Nel gennaio del 1993 si aprirono a Ginevra le trattative dirette a risolvere il sanguinoso conflitto. Si
cominciò a delineare l'ipotesi della divisione etnica del Paese, ma non si riusciva a trovare un accordo
tra le parti. La guerra intanto continuava con una crudele e atroce escalation e colpiva in particolar
modo Sarajevo, senza risparmiare ospedali, scuole, bambini, civili innocenti.
La situazione diventava sempre più intricata per i continui rovesciamenti di fronte, il farsi e disfarsi
delle alleanze tra i vari gruppi, le tregue annunciate e mai rispettate.
Di questa confusione approfittò la comunità croata che, nell'agosto del 1993, proclamò, nei territori
sotto il suo controllo, la "Repubblica croata di Bosnia".
Per tutto il 1994 continuarono le stragi tra le fazioni e in alcune zone si consumarono anche guerre
fratricide tra musulmani di opposte tendenze.
La Nato iniziò a bombardare le postazioni conquistate dai serbo-bosniaci in territorio bosniaco.
Nello stesso anno, a marzo, i croati e i musulmani posero termine agli scontri e costituirono una
federazione croato-musulmana, voluta fortemente dagli USA.
Contemporaneamente avvenne la rottura tra la "Repubblica serba di Bosnia" e la stessa Serbia,
dovuta all'intransigenza e alla eccessiva indipendenza dimostrata dalla prima nei confronti di
Belgrado. Milosevic decretò addirittura l'embargo tra le due repubbliche.
L'isolamento in cui venne a trovarsi la Repubblica serba di Bosnia e i difficili rapporti all'interno della
Federazione croato-musulmana permisero al presidente statunitense, Jimmy Carter, il 31 dicembre
1994, di far pervenire le due parti ad un accordo per un "cessate il fuoco" della durata di quattro
mesi, che fu per lo più rispettato.
I tentativi di far durare la tregua fallirono, tanto che nel maggio del 1995 il conflitto si aggravò. I
serbo-bosniaci intensificarono i bombardamenti su Sarajevo, mentre i croati bombardarono la
capitale nemica in Krajina.
In luglio e in agosto dello stesso anno la Nato intensificò i bombardamenti sulle postazioni serbobosniache attorno a Sarajevo, contro i quali diresse la propria azione anche la "Forza di reazione
rapida europea", inviata in Bosnia dopo la cattura di alcune centinaia di Caschi blu dell'ONU (liberati
dopo qualche giorno). L'esercito croato-musulmano riuscì, approfittando delle difficoltà in cui
versava l'esercito serbo-bosniaco, a strappare alle forze nemiche una parte del territorio bosniaco.
L'avanzata croato-musulmana e i bombardamenti americani con missili a lunga gittata costrinsero i
serbo-bosniaci a porre fine all'assedio di Sarajevo. Anche la Croazia, che nel frattempo aveva
conquistato tutta la Krajina, ritirò l'avanzata del suo esercito.
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La nuova situazione militare facilitò la mediazione degli americani. Dopo difficili negoziati si giunse
al trattato di pace di Dayton, negli USA. Il trattato fu ufficialmente firmato il 14 dicembre 1995, a
Parigi, dal presidente croato Tudjman, da quello bosniaco-musulmano Izetbegovic e da quello serbo,
Milosevic, in rappresentanza dei serbo-bosniaci. Testimoni furono: il Cancelliere tedesco, Kohl e i
Presidenti di Stati Uniti, Clinton, e della Francia, Chirac.
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Gli accordi di Dayton hanno sancito la costituzione della Bosnia come stato unitario, anche se divisa
tra la Federazione croato-musulmana (51% del territorio) e la Repubblica serba di Bosnia (49% di
territorio), con istituzioni comuni (presidenza della Repubblica, parlamento bicamerale, Corte
costituzionale, banca federale) e autonome (polizia, esercito, Costituzione).
Il rispetto del trattato venne garantito dalla presenza sul territorio di una forza multinazionale (IFOR)
composta da sessantamila uomini (tra cui duemila italiani e ventimila statunitensi!).
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Gli accordi di Dayton appaiono alquanto fragili, poiché non hanno risolto la questione dei
nazionalismi, non hanno posto fine alle operazioni di "pulizia etnica", non hanno eliminato le tensioni
all'interno della Federazione croato-musulmana e, soprattutto non hanno eliminato i problemi e le
tensioni presenti in tutta l'area balcanica.
Attualmente, infatti, è in corso una guerra, iniziata il 24 marzo 1999 con i bombardamenti Nato
contro la Serbia, per indurre Milosevic a concedere l'autonomia al Kosovo (regione a maggioranza
albanese), della quale l'ha privata nel 1989, e soprattutto, a sospendere la "pulizia etnica" attuata dai
serbi nei confronti degli albanesi.
Contro la repressiva politica serba il leader moderato kosovaro Ibrahim Rugova e i suoi più vicini
collaboratori avevano attuato una forma di opposizione non violenta, ma nel frattempo si era
organizzato l'UCK, l'esercito di liberazione del Kosovo.
L'uccisione di due gendarmi nel febbraio dello scorso anno, proprio da parte dei guerriglieri
dell'UCK, è stata vendicata dalla polizia serba nel massacro di Likosane (28 febbraio - 1 marzo
1998). Da allora la popolazione civile del Kosovo ha dovuto subire l'incontrollata violenza dei
militari serbi.
Tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo di quest'anno, per evitare ulteriori e più drammatici eventi,
si sono tenuti nel castello di Rambouillet, in Francia, dei negoziati per una soluzione pacifica della
questione del Kosovo, ma l'opposizione ostinata del presidente Milosevic ha reso inutile ogni sforzo.
A questo punto la guerra è parsa inevitabile. Ma un mese e mezzo di bombardamenti non solo non
ha condotto ad una soluzione della questione, ma ha finito per fare vittime anche tra i civili. I
cosiddetti "missili intelligenti", infatti, hanno spesso sbagliato bersaglio, colpendo autobus, un
ospedale, l'ambasciata della Cina ecc.
Solo negli ultimi giorni, i tentativi di mediazione internazionale sembrano dare qualche esito
positivo. Pare, infatti, che Milosevic si sia dichiarato disponibile al ritiro delle truppe serbe in
Kosovo, ma……
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Bibliografia
J.Pirjevec
Aldo De Matteis
S.Piziali
Il giorno di San Vito
Cronache della storia
Jugoslavia. Tra nazionalismo e
autodeterminazione
Enciclopedia Europea Garzanti
AA.VV.
Dossier Jugoslavia
Marco Derva
Doc.Internet (Virgilio)
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