ITSOS MARIE CURIE CERNUSCO SUL NAVIGLIO (MI) ESAME DI STATO 20010/2011 APPROFONDIMENTO PLURIDISCIPLINARE CANDIDATO: Marta Calcagno CLASSE: 5^A INDIRIZZO: Giuridico Amministrativo “LE DUE CRISI A CONFRONTO: 1929-2008” MATERIE: Storia, Scienza delle finanze, Economia Aziendale INDICE Capitolo primo. La crisi del 1929 Contesto storico e cause Caratteristiche e conseguenze Le vie d’uscita dalla crisi Capitolo secondo. La crisi del 2008 1.1 Le bolle speculative: strutturazione del fenomeno 1.2 Effetti ed evoluzione della crisi 1.3 I provvedimenti per contrastare la crisi Capitolo terzo. Le due crisi a confronto 1.1 Analogie e differenze La crisi del 1929 1.1 Contesto storico e cause Gli Stati Uniti d’America furono in tutti i sensi i vincitori della Grande Guerra. Con le sole eccezioni del 1924 e del 1927, gli USA registrarono un boom ininterrotto fino all’ottobre 1929. Il reddito nazionale aumentò, fra il 1923 e il 1929, del 23% laddove la popolazione, in seguito alle leggi restrittive sulla immigrazione del 1921, aumentò solo del 9% e la forza di lavoro solo dell’11%. Questa maggiore disponibilità di capitali fece degli Stati Uniti il Paese più prospero del mondo. Furono proprio queste abbondanti disponibilità che consentirono agli USA di concedere cospicui prestiti non solo all’Europa ma anche all’America latina, al Canada e ad alcuni paesi asiatici (si parla in tutto di quasi 30 miliardi di dollari). La maggior parte dei prestiti fu concessa ai paesi europei dopo che essi erano riusciti a domare l'inflazione che li aveva afflitti nel dopoguerra, inflazione che era stata di tale ampiezza e gravità che si era dovuto provvedere a sostituire le monete esistenti, creandone delle altre, dopo aver assicurato loro congrue ed effettive garanzie (esempi furono il passaggio dalla corona allo scellino in Austria; dal marco al renten-mark in Germania dove nell’immediato dopoguerra per raggiungere la somma di un dollaro bisognava possedere 4200 miliardi di marchi; dal rublo al rublo-cervonetz in Russia). Ma allora perché la crisi del ’29 ebbe le sue radici proprio nel “Nuovo Mondo”, dove si registrò un boom economico senza precedenti fino all’ottobre 1929? L’instabilità del sistema monetario internazionale fu solo uno dei fattori che influirono sul periodo nero dell’economia mondiale di cui stiamo parlando. La causa prima di questo crollo finanziario è sicuramente il fatto che questa fu una crisi di sovrapproduzione, amplificata dalla speculazione sui titoli azionari. Infatti, durante tutto il decennio precedente, si registrò in America una crescita di produzione di molto superiore a quella dei profitti: il potere d’acquisto della popolazione era dunque aumentato meno del valore della produzione offerta sul mercato. Questo portò ad un indebolimento, alla lunga, della domanda: il mercato si stava cioè avvicinando ad una condizione prossima alla saturazione. Tutto questo fu aggravato inoltre da una difficoltà del settore primario che si sviluppò nella seconda metà degli anni Venti. Infatti gli USA avevano accresciuto notevolmente la produzione agricola durante il conflitto, forti del fatto che tutti i Paesi europei acquistassero i loro prodotti cerealicoli a basso costo in quel periodo. La fine della Grande Guerra ,però, portò con sé inevitabilmente una diminuzione della domanda da parte del “Vecchio Continente” (nel quale l’agricoltura attraversò un periodo di ripresa) che causò il fallimento di molti investitori statunitensi che, al fine di accrescere la produzione agricola, si indebitarono pesantemente con le banche. A questi fattori di debolezza si sommò un altro e fondamentale elemento negativo: la speculazione finanziaria. In quegli anni infatti un’enorme massa di denaro si diresse in misura crescente verso la borsa. L’indice di borsa, a causa dei giochi di speculazione avviati dai finanzieri, si tenne per molto tempo in forte ascesa e questo diffuse la convinzione che investire in borsa portasse a un sicuro e rapido guadagno. Un’enorme quantità di piccoli risparmiatori furono trascinati dall’euforia di facili guadagni nell’investire in Wall Street. Non solo capitali americani presero questa via ma anche ingenti somme di denaro europeo furono investite nella borsa di New York. Questo portò in sostanza ad una crescita smisurata del settore finanziario senza una diretta corrispondenza nella crescita reale. Bastò infatti un singolo giorno di caduta dell’indice di Wall Street (ovvero venivano vendute più azioni di quante ne venissero comprate) a causare il 24 ottobre 1929 il celebre “giovedì nero”. Per il timore di subire gravi perdite gli investitori cominciarono all’unisono a vendere i titoli. Già martedì 29 ottobre (il "martedì nero"), la borsa newyorkese aveva perso tutti i guadagni dell’intero anno. Si diffuse il panico: più azioni venivano vendute più l’indice cadeva. 1.2 Caratteristiche e conseguenze La conseguenze dirette del Crollo della Borsa furono innanzitutto la caduta dei prezzi agricoli, delle materie prime e, poi (ma in misura minore), dei prodotti industriali e la rapida ma violenta contrazione del commercio in tutto il mondo, il che non poteva non riflettersi negativamente sul potere d’acquisto degli strati produttivi di tutti i Paesi. Il quadro degli effetti della crisi è tuttavia contraddistinto sia da luci che da ombre: i salari si ridussero ovunque e, anche se la caduta dei prezzi delle derrate alimentari servì a contenere i danni per il livello dei consumi, si registrò una caduta vertiginosa dei prezzi; i profitti industriali si ripresero, ma non vennero eliminati completamente, grazie al processo di rapida concentrazione industriale che si era sviluppato dal dopoguerra; altro fenomeno di rilievo nei paesi industriali colpiti dalla crisi, come la Gran Bretagna, dove il movimento sindacale era più solidamente organizzato, fu che i salari subirono minori riduzioni per la diminuzione del numero dei salariati occupati (fatto che già veniva evidenziandosi nel periodo precedente alla crisi). La politica degli Stati Uniti inoltre non aiutò in un primo momento la ricrescita economica nell’immediato post-crisi. Con le loro esportazioni di capitali, avevano contribuito a mantenere in equilibrio la bilancia internazionale dei pagamenti. Scoppiata la crisi, essi non accrebbero questa esportazione di capitali, anzi iniziarono il ritiro dall’estero dei capitali a breve termine. Il ritiro di questa moneta, che già era cominciato nel 1928, si intensificò nel 1930 e nel 1931 e toccò gradualmente livelli mai registrati in passato. Questa tendenza al ritiro dal mercato internazionale, specie europeo, fu rafforzata dalla politica doganale che gli Stati Uniti perseguirono. La tariffa doganale (la famosa Hawley-Smoot) che essi adottarono a partire dal giugno 1930, fu duramente protezionistica, e, quel che è più grave, costituì un pericoloso precedente. Oltre che borsistica, industriale, agricola e commerciale, la crisi fu presto anche bancaria. Il fatto che le industrie non producessero, e che quel che producevano dovesse essere venduto a prezzi bassi, con minori profitti, e che gli agricoltori, per la caduta dei prezzi agricoli, fossero costretti o ad abbandonare la terra, o ad accontentarsi di un guadagno minimo, ebbe notevoli conseguenze sul sistema bancario. Questo perché sia l’industria che l'agricoltura erano seriamente indebitate con le banche. Nel periodo di boom, che aveva preceduto lo scoppio della crisi, queste banche avevano ecceduto nei prestiti, confidando non solo in una restituzione regolare, ma anche nel fatto che i risparmiatori non avrebbero ritirato i loro depositi, ed anzi li avrebbero accresciuti. La crisi però mise in grave difficoltà molte banche. A causa della caduta delle vendite e dei prezzi, un numero crescente di imprese non fu in condizione di pagare i debiti alle scadenze, e intanto le banche erano premute dai loro depositanti che, spinti a loro volta da crescenti esigenze di liquidità, volevano la restituzione di tutto o parte delle somme depositate. Tra il mancato rientro dei prestiti e i depositanti che pretendevano la restituzione dei loro capitali, molte di queste banche fallirono trascinando nel fallimento altre banche collegate. Un esempio clamoroso lo possiamo riscontrare nel dicembre 1930 quando fallì la Bank of the United States in New York city, che contava oltre 400.000 depositanti, un terzo della popolazione della città ne fu gravemente colpita. La principale causa della mancanza di liquidi da investire fu ovviamente il crescente tasso di disoccupazione che travolse tutti i Paesi investiti dalla crisi. Secondo i dati della Società delle Nazioni, la disoccupazione superò nel 1932 i 25 milioni di unità cui bisognava aggiungere i milioni di lavoratori agricoli e di contadini che, se non disoccupati, erano occupati quasi ovunque solo parzialmente. CONSEGUENZE: La crisi ebbe inevitabilmente anche una dimensione internazionale e anche su questo piano le conseguenze furono gravissime, a causa principalmente della quota di produzione mondiale ormai detenuta dagli U.S.A. e dei legami finanziari che essi instaurarono con Europa e America Latina. Le esportazioni statunitensi infatti diminuirono drasticamente (-70% nei cinque anni successivi alla caduta di Wall Street) verso tutto il “Vecchio Continente”. Ciò provocò una recessione economica e una caduta dei commerci a livello internazionale. I grandi Paesi esportatori furono quelli maggiormente colpiti, basti pensare all’America Latina che faceva delle esportazioni la sua principale fonte di reddito. In Europa la crisi fu particolarmente grave per la Germania e l’Austria, le cui ricostruzioni erano sorrette da capitali statunitensi. Più in generale, però, la crisi fu un fattore di grave instabilità, sia economica sia politica: essa spinse infatti tutti gli stati ad adottare politiche protezionistiche e a cercare una ricrescita attraverso la svalutazione delle proprie monete. Queste linee adottate dai vari Paesi portarono all’accrescimento del ruolo dello stato nell’economia, poiché si instaurò il pensiero comune che il mercato non potesse riequilibrarsi autonomamente. Questo accumulo la gran parte delle nazioni europee, anche se evidenti differenze si posso riscontrare fra Paesi come USA, Gran Bretagna, Francia e Paesi come Italia e Germania. 1.3 Le vie d’uscita dalla crisi America Eletto nel 1932, il democratico Roosevelt si era trovato di fronte la disastrosa situazione lasciata dalla precedente amministrazione repubblicana di Edgar Hoover, dimostratasi incapace di gestire la crisi di sovrapproduzione che aveva causato negli anni venti fallimenti a catena di banche e fabbriche e il crollo in Borsa. Nel 1933 il numero di disoccupati aveva toccato livelli fino ad allora mai raggiunti, fra i dodici e i quindici milioni di persone. Nonostante ciò però il ‘33 segnò una svolta importante nella crisi. Solo dopo un paio d’anni dal 1929 si incominciò a porre rimedio, dopo vani e controproducenti tentativi di auto-isolamento economico, agli effetti della crisi. Il primo concreto e sistematico tentativo che è stato alla base della presidenza roosveltiana è senza dubbio il New Deal (o nuovo corso). Questo strumento rappresenta innanzi tutto un nuovo stile di governo. Tra i primi vi è per esempio la ristrutturazione del sistema creditizio, la svalutazione del dollaro al fine di rendere più competitive le esportazioni. Non meno importanza hanno gli incrementi dei sussidi di disoccupazione e i prestiti alle famiglie. Tra i secondi emergono: AAA (Agricoltural adjustment act) che ha come obbiettivo quello di limitare la sovrapproduzione agricola assicurando premi in denaro a chi avrebbe ridotto le coltivazioni e/o gli allevamenti; NIRA(National industrial recovery act) che ha l'obiettivo di favorire i codici di comportamento volti ad alleviare una concorrenza accanita e a tutelare i diritti e i salari dei lavoratori. Questo istituto che è essenzialmente una riforma che ostacola la ripresa è stato varato con troppa fretta, confondendola come parte della manovra della ripresa. TVA (Tenesse valley authority) al fine di sfruttare le risorse idroelettriche del fiume a Tenesse producendo energia a buon mercato e di sostenere la sistemazione del territorio. Il TVA ebbe successo tutto sommato, mentre il NIRA favorì solamente i grandi industriali, invece l’AAA bloccò la caduta dei prezzi agricoli ma incrementò le fazioni di contadini che avessero come obiettivo l’arrivo in città dalla campagna. Il secondo New Deal portò nuove e importantissime innovazioni: innanzitutto il Social Security Act del 1935 creò per la prima volta negli Stati Uniti un sistema nazionale di pensioni di vecchiaia e di invalidità, introducendo anche misure di assistenza per le madri e per i bambini, mentre il National Labor Relations Act (o Wagner Act), sempre del 1935, sancì la libertà di organizzazione dei lavoratori e vietò l'istituzione di sindacati da parte degli industriali; nel 1938 fu approvato il Fair Labor Standards Act, che fissò minimi salariali per tutto il territorio nazionale, anche se il provvedimento fu mutilato per l'opposizione sia degli industriali del sud sia degli stessi sindacati. BILANCIO CRITICO SUL NEW DEAL Possiamo individuare alcuni limiti al New Deal anche se non mancano gli aspetti positivi. Difatti esso non si può negare che sfatò i dogmi liberisti sottolineando l’importanza dell’intervento statale nel corso della crisi ma comunque non riuscì a ridare slancio all’iniziativa economica e i privati, la quale si sarebbe ripresa pienamente soltanto nella seconda guerra mondiale. Dopo la crisi del 1929 ecco le nuove forme d’intervento statale: sostegno esterno alle attività produttive (anche prima veniva effettuato); misure di controllo dei cambi, dei prezzi, del salari; stato come oggetto attivo dell’espansione economica. In America si incrementò la spesa pubblica per aumentare la domanda, in Italia si nazionalizzarono le imprese in difficoltà. In Inghilterra e nei paesi scandinavi si elaborarono programmi di sviluppo tramite l’utilizzo della manovra fiscale e di credito. Situazione italiana Anche l'Italia che aveva fatto ricorso dal 1926 ai prestiti delle banche americane per una cifra pari a 8000 milioni di lire dell'epoca, venne coinvolta nella spirale della crisi. Con il ritiro del credito americano non fu possibile contare sui capitali dell'oltreoceano, di cui avevano beneficiato le principali imprese industriali (Fiat, Breda, Olivetti); mentre le banche prive di liquidità dovettero fare ricorso all'Istituto di emissione per i propri fabbisogni. La rivalutazione della lira a quota novanta, che era giustificata dall'opportunità di procurarsi all'estero i mezzi finanziari per lo sviluppo dell'industria, aveva reso vulnerabile la situazione dell'economia italiana, alleviata dal deficit della finanza pubblica ma colpita dal rallentamento degli investimenti e dalla flessione delle esportazioni. Infatti, le vendite all'estero erano scese di oltre 23 punti fra il 1929 e il 1932; la bufera del 1929 minacciò gli stessi equilibri politici e sociali faticosamente ricomposti dal governo Mussolini con il salvataggio della lira, che aveva premiato i ceti medi risparmiatori e a reddito fisso, con gli sgravi fiscali alla grande industria, e con la conciliazione fra Stato e Chiesa avvenuta con il concordato del febbraio 1929. Alla fine del 1930 la disoccupazione nell'industria era aumentata del 70% e quella agricola del 50%; sino a raggiungere la cifra di 1.300.000 persone nel 1933. L'Italia scontava ora la debolezza strutturale della sua economia: da un lato si riducevano le esportazioni verso i tradizionali mercati di sbocco a causa delle politiche protezionistiche della Francia, dell'Inghilterra e degli Stai Uniti; dall'altro si erano ridotte le possibilità di emigrazione della manodopera eccedente il che faceva venire meno anche i contributi alle partite invisibili forniti dalle rimesse dai lavoratori italiani all'estero. In complesso peggiorò notevolmente lo scambio. Il governo decise inasprimenti doganali sui prodotti dell'industria, e provvide a regolamentare il mercato interno con la creazione di consorzi obbligatori fra singoli produttori di uno stesso settore. Ma , il problema maggiore fu rappresentato dall'insistenza sul cambio lira fermo alla parità fissata nel 1927. Mussolini, illustrando al Senato queste decisioni, affermava nel dicembre 1930: l'imposizione dell'austerità per risanare la difficile situazione economica. Dunque si scelse una politica di tagli che provocò il malcontento degli operai. In Italia, si manifestavano fiammate di protesta contro le tasse, il peso del lavoro, le diminuzioni salariali e i licenziamenti. Le condizioni così precarie di molte imprese dal punto di vista finanziario minacciavano di travolgere anche i principali istituiti di credito, bruciando gran parte dell'industria e del risparmio nazionale. Gli effetti della crisi furono quindi dirompenti ma la soluzione fornita fu estremamente innovativa. Per questo motivo, gli anni fra le due guerre furono un periodo di grandi rivolgimenti bancari che modificarono radicalmente la struttura e il funzionamento del sistema bancario italiano, con ricadute anche all'estero. Dalla crisi di liquidità conseguente alla crisi del 1929, il governo dovette intervenire. Nel febbraio del 1931 lo Stato stipulò una convezione con il Credito Italiano, assicurando l'intervento per lo smobilizzo delle partecipazioni più consistenti. Questi primi interventi dello stato non avevano riguardato la Banca Commerciale Italiana; solo dopo la svalutazione della sterlina, quando il crollo dei titoli era divenuto irrimediabile, si stipulò una prima convezione tra la Banca Commerciale Italiana e il governo. Si trattava di evitare il fallimento e di salvare il patrimonio industriale che altrimenti sarebbe andato distrutto. L'istituto Mobiliare Italiano (IMI), creato nel novembre del 1931, avrebbe dovuto concedere alle industrie prestiti ipotecari rimborsabili in dieci anni ed emettere proprie obbligazioni sul mercato per procurarsi fondi necessari. Nel gennaio del 1932 fu creato l'Istituito per la Ricostruzione Industriale (IRI), che avrebbe dovuto sanare la piaga delle anticipazioni sempre più elevate a favore delle banche e il danno ricorrente dei salvataggi industriali a carico dello stato a fondo perduto. Nel marzo del 1934 si giunse allo smobilizzo pubblico delle banche miste. Lo stato si assunse il compito di mettere a disposizione i capitali necessari a coprire le perdite bancarie e altre operazioni di salvataggio, ma acquisì perciò stesso i titoli e le proprietà industriali delle banche, provvedendo direttamente alla loro gestione e al successivo smobilizzo; si riportarono le banche alle normali funzioni. Nel 1936, venne completata la parte più rilevante dell'intervento pubblico, con il riordino complessivo dei rapporti fra lo Stato, l'istituto di emissione, le banche e le industrie. Con la riforma bancaria del 1936, si attribuirono alla Banca d'Italia funzioni generali di controllo sull'intero sistema creditizio, e si trasformò l'IRI in un ente permanente per la gestione diretta delle imprese non smobilizzate, si venne formando un consistente apparato di aziende industriali e di istituti bancari a partecipazione statale. Non si trattava ancora di un sistema industriale di Stato, ma nemmeno più di un salvataggio episodico. Oramai lo Stato era divenuto padrone delle tre maggiori banche e di alcune fra le principali industrie: e si trovava così nella situazione di poter risolvere anche problemi di carattere militare e di difesa sociale. La crisi del 2008 “La crisi ha avuto sostanzialmente tre tappe: la prima è stata l'esplosione della bolla immobiliare e finanziaria con il fallimento della Lehman Brothers, che segna in qualche modo lo spartiacque tra la fase dell'oro precedente e la fase del ferro che è incominciata con questa crisi. La seconda fase è lo scoppio della crisi dell'economia reale, quindi l'impatto sull'economia reale e sul commercio mondiale si è contratto, in dollari, di un terzo. La terza fase, altrettanto preoccupante, di questa crisi è lo scoppio del problema dei debiti sovrani”. Marco Fortis, Università Cattolica 1.1 Le bolle speculative: strutturazione del fenomeno La Grande depressione del 1929, famigerata per aver messo in ginocchio l’America e poi l’intero Occidente, non fu certamente l’ultima crisi finanziaria che il sistema capitalistico dovette affrontare. Di recente, un’altra crisi, di portata inferiore, ha avuto origine dalla cosiddetta “crisi dei mutui subprime” del 2007. La Gran Bretagna, dove vennero ideati i mutui sub-prime, che poi furono adottati per la prima volta dagli Stati Uniti, fu il luogo di origine di tale crisi. I mutui sub-prime sono prestiti che le banche concedono esclusivamente a soggetti che, non possedendo un reddito alto e/o stabile, non si possono pagare tassi di interesse troppo alti poiché. E il primo errore fu proprio quello di concedere a questi soggetti, senza alcuna garanzia, ingenti capitali per finanziare l’acquisto di una casa, senza tener conto del rischio contro cui sarebbero andati. Chiaramente questa era una strategia per aumentare il giro d’affari, che le banche pensavano di poter mettere in atto, forti di un andamento positivo del mercato immobiliare. La conseguenza diretta di questa azione fu che, a partire dal 2000 fino a metà del 2006, l’aumento del prezzo delle abitazioni crebbe così tanto da stimolare le banche a concedere più mutui a tassi di interesse bassi rassicurati dal fatto che se il cliente fosse stato insolvente, avrebbero potuto pignorare la casa e rivenderla ad un prezzo sicuramente più alto. Nel 2004, invece, venne commesso il secondo errore, quando le banche decisero di aumentare i tassi di interesse sui mutui sub-prime, costringendo così i clienti a pagare interessi troppo onerosi per il loro reddito, tanto che la maggior parte di loro risultarono insolventi. Così, l’unico modo per le banche di recuperare il denaro perduto, fu quello di vendere le case dei clienti insolventi, che nell’autunno del 2006 provocò il crollo dei prezzi delle abitazioni. Però, anche se le banche vendevano le abitazioni dei clienti, a causa del prezzo delle case, notevolmente diminuito, non riuscivano a recuperare il capitale perduto. Ben presto la crisi avrebbe superato i confini nazionali, investendo l’intero globo. E il motivo principale è da attribuirsi al fatto che prima della bolla immobiliare, le banche riuscivano a rivendere i mutui sub-prime grazie alle società veicolo, società che compravano i mutui alle banche permettendo loro di recuperare liquidità e ricominciare a concedere mutui. Queste, a loro volta, emettevano obbligazioni e si rivolgevano ai mercati finanziari chiedendo in prestito dei soldi con la garanzia di ripagare gli interessi con le rate dei mutui che avrebbe incassato in futuro. Le obbligazioni emesse dalle società veicolo intanto, favorite dal fenomeno della globalizzazione, raggiungevano tutti gli angoli del mondo. Così, quando le banche iniziarono ad avere troppi clienti insolventi e non riuscirono più a coprire le perdite con la vendita degli immobili, le Società Veicolo non ricevettero più le rate che gli spettavano, le obbligazioni persero valore e tutti coloro che avevano acquistato quelle obbligazioni, persero i loro capitali. Ed è così che si è passati da una crisi immobiliare ad una crisi finanziaria. Fra le tante cause della crisi finanziaria, che si é successivamente trasformata in economica, sono molteplici: l’incremento dei prezzi delle materie prime, iniziato nei primi mesi del 2008 e che ha visto salire il petrolio al prezzo record a 147 dollari al barile l’11 luglio 2008, la crisi alimentare mondiale e l’aumento del prezzo del grano, un’elevata inflazione globale, la minaccia di una recessione già nata nel 1991 in America e l’esplosione della bolla dei valori Internet del 2001. Inoltre, a partire dal secondo dopo-guerra, si era sviluppata una nuova tendenza da parte della popolazione: le economie capitalistiche iniziarono ad esaltare i vantaggi del credito facile per consentire alle famiglie di procurarsi ogni tipo di comodità, dalla casa all’automobile, dagli elettrodomestici ai viaggi, passando così da una forte propensione al risparmio a una fortissima propensione al consumo, il tutto rafforzato da un sistema di rinvio al futuro della spesa attraverso strumenti quali carte di credito ed il pagamento a rate. Saranno queste ultime ad originare la crisi economica che stiamo vivendo. La svolta della crisi arriva all'inizio di settembre, quando il governo americano annuncia la nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac, le due società che da sole detengono quasi la metà dei mutui immobiliari americani. Il crack di Lehman Brothers Lehman Brothers è una antica banca d'affari americana, fondata nel 1850 in Alabama. Il suo fallimento, il 15 settembre 2008, costituisce una sorte di spartiacque della grande crisi finanziaria. Da quel giorno è il panico a diventare padrone del mercato, perché Lehman è una sorta di istituzione e nessuno poteva immaginare che venisse costretta a portare i libri contabili in tribunale e il suo management potesse finire sotto inchiesta. In realtà la Lehman Brothers è una delle più attive sottoscrittrici di titoli garantiti da mutui subprime. Nei giorni seguenti al crollo, le banche, diffidando della solidità degli attivi degli altri enti e nel tentativo di accumulare liquidità, smettono del tutto di prestarsi denaro tra loro determinando la paralisi del credito. 1.2 Effetti ed evoluzione della crisi I primi a subire le ripercussioni di una crisi sono gli intermediari finanziari come le banche. Per mezzo della cartolarizzazione che consente alle aziende di raccogliere risorse finanziarie sui mercati mobiliari a fronte della cessione degli attivi di cui sono titolari, i mutui subprime vengono messi in pacchetti di titoli e poi venduti sul mercato. Questi titoli sono venduti in tutto il mondo, perché oramai il mercato è globale. Il che significa che la crisi nasce nelle banche americane, ma è di fatto planetaria. Gli effetti sono drammatici . Quando esplode la crisi, tutti detengono questi titoli subprime in bilancio iscritti per un certo valore, e ora è difficile stimarne l'attendibilità. È per questa la ragione che subentrano i fenomeni della paura e della prudenza. Il crollo delle borse Il panico generale in seguito al fallimento di Lehman Brothers provoca un'ondata di vendite sui mercati azionari. I listini delle borse di tutto il mondo, da settembre del 2008, scendono vistosamente e sembrano toccare il fondo in alcune settimane d'autunno. Il 6 ottobre è il tracollo: da Londra, Parigi, Francoforte e Milano le perdite delle persone arrivano a sfiorare il 10 %, soltanto il calo più contenuto di Wall Street evita momentaneamente il peggio. Ci sarà qualche piccolo rimbalzo verso la fine dell'anno, ma poi, per i primi tre mesi del 2009 le perdite continueranno in modo vistoso e consistente. Solo a metà marzo del 2009 le Borse cercheranno un recupero e faranno, come si dice in gergo, una sorte di “zoccolo, una tenuta. Ma la “volatilità”, l'incertezza dei valori azionari, resta la regina incontrastata dei mercati. Il paragone con la crisi del 1929 su giornali e tv diventa costante. Le immagini in bianco e nero di quel periodo tornano d'attualità e vengono riproposte insistentemente. Il crollo delle Borse ha conseguenze sia sugli investimenti, che subiscono perdite di valore delle loro azioni e dunque di patrimonio, sia sugli emittenti che opereranno in un contesto destabilizzato. Ma c'è un altro danno collaterale. Il crollo contribuisce a una situazione di sfiducia generale e innesca una diminuzione dei consumi delle famiglie. 1.3 I provvedimenti per contrastare la crisi America Nella seconda metà di settembre del 2008, l'amministrazione americana ipotizza i suoi primi tentativi. Ma solo il 3 ottobre del 2008 il congresso degli Stati Uniti approva il TARP (Troubled Assets Relief Program), un programma di 700 miliardi di dollari per eliminare i titoli tossici e ricapitalizzare le banche. Il TARP diventa il principale intervento del governo americano per far fronte all'emergenza del breve periodo. In realtà altre somme ingenti sono già stanziate per piani di salvataggio specifico, per esempio il salvataggio di Bearn Stearn. Sostanzialmente, il piano approvato al Congresso del 3 ottobre è creato per arginare le grandi perdite e per stabilizzare l'intero sistema finanziario. Inoltre nel gennaio 2009, il nuovo presidente americano Obama lancia un programma di stimolo fiscale, consistente in tagli di imposte e incentivi all'economia per ulteriori 820 miliardi di dollari. E il 17 giugno 2009 Obama annuncia la riforma dei mercati finanziari. Al centro del piano una super-Federal Reserve gran controllore dei gruppi finanziari e una Sec (Securities and Exchange Commission)che vigila anche su fondi di private equity, attività di investimento nel capitale di rischio,e venture capital,attività effettuata da intermediari finanziari istituzionali e non istituzionali a favore di imprese nella fase di avvio di un'impresa. Sarà approvata nel luglio 2010. Potremmo quindi individuare un'analogia fra il New Deal di Roosevelt e il piano economico di Barack Obama, ideati entrambi per far ripartire l’economia americana, il primo contro la crisi del 1929 e il secondo contro la crisi attuale, sono ispirati largamente alle teorie dell’economista inglese John Maynard Keynes. L’idea base di Keynes a cui poi si ispireranno Roosevelt e Obama è che non è il capitalismo che crea occupazione, anzi è la piena occupazione che crea il capitale e mantiene in piedi l’intero sistema capitalistico, perché essa crea domanda di consumi e quindi spinge le imprese a produrre e a non risparmiare. Ecco quindi che al liberismo “puro”, Keynes contrapponeva non il protezionismo, ma un’altra forma di intervento della Stato a favore dell’economia: lo Stato doveva abbassare i tassi d’interesse, concedere prestiti con rapidità e fiducia e investire a sua volta nelle grandi opere pubbliche creando così nuovi posti di lavoro anche a costo di indebitarsi a sua volta . Asia Le contrazioni dei consumi nei paesi occidentali influisce negativamente sulle esportazioni dei paesi asiatici. Le economie asiatiche hanno tuttavia elevati tassi di crescita e buoni “fondamentali” macroeconomici, con avanzi sia fiscali che commerciali. Tutto questo permette di attuare manovre forti di politica economica che, compensando la riduzione dei consumi esteri, favorisce una rapida ripresa. La Cina, quasi l'emblema dell'economia asiatica, nel novembre del 2008 approva un pacchetto di aiuti per 586 miliardi di dollari. Il piano intende sostenere la crescita e i consumi interni ed è articolata su 10 settori dell'economia. Europa La prima reazione significativa avviene nella riunione dei ministri finanziari degli stati membri dell'Unione Europea, ovvero al Consiglio dell'Economia e finanza detto comunemente ECOFIN, il 7 ottobre del 2008, dove sono concordati principi guida comuni aventi il duplice obiettivo di ripristinare la fiducia e il corretto funzionamento del settore finanziario. Queste sono le linee guida: fornire sostegno ai principali gruppi finanziari il cui fallimento avrebbe conseguenze catastrofiche; assicurare liquidità sufficiente alle banche e nel contempo aumentare la quota di garanzia sui depositi bancari; rafforzare la situazione patrimoniale degli istituiti bancari in difficoltà attraverso piani di intervento pubblico nel capitale. In Europa, innanzitutto si cercò di allontanare la paura. Per evitare una corsa agli sportelli, l'Ecofin di ottobre stabilì una garanzia statale fino a 50 mila euro per i depositi bancari. Successivamente vennero varate altre misure di salvataggio e di stimolo per l'economia che possono essere raggruppate in tra grandi tipologie: riduzione dei tassi: il primo provvedimento adottato dalle banche centrali fu quello di abbassare i tassi di interesse. Una misura che non si dimostrò sufficiente. Nessuno poteva conoscere esattamente quanti titoli spazzatura(è un termine che indica quei titoli che appaiono come insicuri, illiquidi e fonte di potenziali perdite per chi ne è in possesso) fossero in circolazione e chi le detenesse. Il crollo delle borse continuò fino ai primi mesi del 2009; “pulizia dei conti”: per stabilizzare i bilanci delle banche, finanziarie e assicurazioni, che detenevano titoli tossici e ricreare un clima di fiducia, fu avviata una politica di fiducia attraverso il trasferimento del rischio dagli investitori privati alle banche centrali e agli stati; stimoli fiscali e ammortizzatori sociali: la terza tipologia di interventi fu quella dedicata a misure per evitare il tracollo dell'economia reale, stimolare la ripresa e salvaguardare la coesione sociale aiutando le fasce più colpite dalla crisi. Una svolta coordinata a livello mondiale avvenne però solo con il vertice dei G20 di Londra dell'aprile 2009, quando vennero concordate alcune importanti misure di sostegno finanziario volte a rilanciare l'economia. Le borse nel corso del 2009 mettono a segno significativi recuperi rispetto ai minimi di marzo. Il piano anti-crisi italiano A causa del suo elevato debito pubblico, l'Italia non può effettuare interventi massicci per evitare l'accrescimento della spesa pubblica. Per fronteggiare la crisi e contrastare lo spettro della recessione, il governo italiano vara un piano di 80 miliardi di euro. Il piano si pone i seguenti obiettivi: favorire il potere d'acquisto delle famiglie; promuovere lo sviluppo economico e la competitività del paese; riassegnare le risorse del quadro strategico nazionale. Questi obiettivi si traducono in alcune misure principali: ammortizzatori sociali: vengono potenziati ed estesi gli strumenti a tutela del reddito in caso di sospensione dal lavoro o di disoccupazione; banche: il ministero dell'Economia ha potuto sottoscrivere fino a tutto il 2009 i bond che le banche quotate hanno emesso per rafforzare il loro patrimonio di vigilanza. Si tratta di bond convertibili su richiesta della banca che avrà anche la facoltà di rimborso o riscatto, previo via libera della Banca d'Italia; deduzione dall'IRES della quota di IRAP che insiste sul costo del lavoro e degli interessi; a decorrere dal periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2008 è ammesso in deduzione un importo pari al 10% dell'imposta regionale sulle attività produttive versata; prorogata la detassazione dei premi, proroga della detassazione del salario di produttività, vale a dire premi e incentivi, per redditi fino a 35mila euro l'anno; raddoppia anche la parte di reddito su cui applicare gli sgravi, che passa da 3mila euro l'anno a 6mila euro; versamento dell'IVA solo all'incasso della fattura, l'obbligo di versamento dell'imposta sul valore aggiunto slitta dal momento dell'emissione della fattura a quello dell'incasso. La crisi degli stati sovrani Con l'adesione all'Unione Monetaria Europea, l'equilibrio dei conti pubblici costituisce un preciso impegno assunto nel 1991 con gli accordi di Maastricht e poi con il Patto di stabilità e crescita del 1997. Il Patto costituisce un vincolo alla politica di bilancio , in quanto impone l'osservanza di limiti definiti nella creazione di disavanzi nel convincimento che la stabilità finanziaria è la condizione necessaria dello sviluppo economico. In particolare si tratta di: non avere un deficit pubblico (le uscite dello Stato superano le entrate) del 3% rispetto al PIL; mantenere uno stock di debito pubblico (si intende il debito dello Stato nei confronti di altri soggetti, individui, imprese o banche, che hanno sottoscritto obbligazioni (quali, in Italia, BOT e CCT) destinate a coprire il fabbisogno finanziario statale ovvero coprire l'eventuale deficit pubblico.) in rapporto al PIL al di sotto del 60%. Alla crisi globale degli ultimi tre anni la politica monetaria dell’area ha dato una risposta pronta, decisa. Le aspettative d’inflazione sono rimaste saldamente ancorate anche nel pieno della crisi, permettendo di agire per preservare il funzionamento dei mercati, sostenere il credito, evitare il tracollo dell’economia. I tassi di mercato monetario sono stati portati vicini allo zero; sono state adottate misure eccezionali di creazione di liquidità. Senza l’Unione, il semplice coordinamento di decisioni nazionali non avrebbe prodotto risultati altrettanto rapidi ed efficaci. Alcuni paesi, incluso il nostro, potevano essere travolti dalla crisi. Ma la credibilità che abbiamo raggiunto non è acquisita una volta per tutte; va mantenuta alta la guardia nella tutela della stabilità dei prezzi. La cultura della stabilità deve estendersi anche a campi diversi: alla politica fiscale, all’azione di riforma strutturale, là dove sono emerse fragilità nella costruzione europea, messe in luce con chiarezza dalla recente crisi del debito sovrano. Il caso Grecia In base ai criteri di appartenenza e di adesione all'Unione Monetaria, si può comprendere più facilmente perché scoppia la crisi greca. Alla fine del 2009 il governo di Atene rivela che il suo deficit tocca il 12% e non il 6%, come si pensava. Per l'esattezza si tratta del 12,7%, che rappresenta quattro volte il limite consentito dal Patto di stabilita. C'è di più: lo stock di debito complessivo è destinato ad arrivare al 120% del PIL, il doppio di quanto permesso. Insomma, i dati diffusi dall'ufficio greco di statistica sono non veritieri, dipingendo una situazione più rosea. La bugia è forse necessaria per poter accedere all'euro prima e per non incorrere in procedure di infrazione dopo. La crisi di fiducia, conseguente alle rivelazioni del governo greco, presenta per la prima volta un rischio default nella zona euro. Nella notte del 9 maggio 2010, l'Unione Europea istituisce un fondo salva-stati di 750 miliardi di euro, in parte finanziato dal Fondo Monetario Internazionale (organizzazione composta dai governi di 186 Paesi e ha lo scopo di regolare la convivenza economica e favorire lo sviluppo) e in parte dagli stati aderenti all'euro. A questo punto la fantasia degli operatori si scatena di pari passo ai presunti attacchi degli speculatori e nascono nuove sigle per definire i paesi presi di mira: ai tradizionali “PIGS” (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), si aggiunge un'altra “I” per includere anche Irlanda. Dalle banche, insomma, la crisi si è definitivamente trasferita agli stati. Con un ulteriore aggravante: a finanziare i governi, in fin dei conti, sono in primo luogo quelle stesse banche da loro salvate, che in portafoglio hanno una montagna di titoli di stato; mettendo cosi in dubbio ancora una volta la loro solidità. Il piano di sostegno finanziario alla Grecia concordato all’inizio di maggio 2010 dai paesi dell’area dell’euro, con la Commissione europea e il Fondo Monetario Internazionale (FMI), non eliminava le tensioni, che si trasmettevano anzi ai mercati azionario, obbligazionario, interbancario. Per contenere i rischi di contagio ad altri paesi, il Consiglio della UE istituiva qualche giorno dopo un meccanismo di stabilizzazione finanziaria grazie al quale i paesi dell’area potevano ottenere un prestito a condizioni simili a quelle praticate dall’FMI in analoghe circostanze. Si stabiliva che gran parte delle risorse venissero erogate dalla European Financial Stability Facility (EFSF), un organismo di nuova costituzione abilitato a finanziarsi sul mercato emettendo titoli garantiti dai paesi dell’area dell’euro. Negli stessi giorni diversi paesi adottavano o annunciavano drastici piani di risanamento dei conti pubblici. Sempre nel maggio dello scorso anno, il Consiglio direttivo della BCE valutava che le tensioni sui mercati stessero compromettendo il meccanismo di trasmissione della politica monetaria. Veniva avviato il Securities Markets Programme, un programma di acquisti di titoli pubblici emessi da paesi dell’area a sostegno di segmenti del mercato particolarmente colpiti della crisi. Esso non implicava finanziamento monetario di Stati sovrani né creazione di liquidità; gli interventi erano temporanei e sterilizzati. L’insieme di questi provvedimenti arginava le tensioni, che tornavano tuttavia ad acuirsi nel corso dell’estate e ancor più nell’ultima parte del 2010, investendo nuovamente, oltre ai titoli greci, anche quelli del Portogallo e soprattutto dell’Irlanda, che aveva garantito con il bilancio pubblico tutte le passività bancarie. Alla fine di novembre i Ministri finanziari della UE approvavano un piano di sostegno finanziario all’Irlanda. Anche questo intervento conteneva le tensioni, ma non le annullava, in un contesto di elevata incertezza dei mercati riguardo alle prospettive di stabilizzazione nei paesi colpiti dalla crisi e alle possibili interconnessioni tra rischi sovrani e vulnerabilità di taluni sistemi bancari. Una costruzione da rafforzare Il 21 marzo 2011 Mario Draghi, governatore della Banca d'Italia ha affermato: “La crisi del debito sovrano ha messo in luce almeno due elementi di fragilità nella costruzione europea. 1. In primo luogo, le regole non hanno evitato politiche di bilancio imprudenti in alcuni paesi, che non hanno saputo o voluto sfruttare le fasi favorevoli del ciclo economico (per ciclo economico si intende una sequenza, ove a periodi di prosperità o espansione si alternano periodi di ristagno o recessione). 2. per consolidare i conti pubblici. A ogni paese era dato uno specifico obiettivo di medio termine per il saldo di bilancio, concordato in sede europea: pareggio o avanzo, secondo la specifica reattività al ciclo economico e ai tassi di interesse; l’obiettivo era rivedibile alla luce di fattori di lungo periodo, come l’invecchiamento della popolazione e il livello del debito. Inoltre, i paesi con un debito pubblico superiore al 60 per cento del PIL avrebbero dovuto ridurlo “a un ritmo soddisfacente”. Quando è giunta la crisi globale molti paesi erano ancora lontani da quegli obiettivi. 3. In secondo luogo, il sistema di sorveglianza multilaterale non ha prevenuto forti squilibri macroeconomici: differenziali di produttività, disavanzi delle partite correnti (importazioni maggiori delle esportazioni) ed eccessivo indebitamento del settore privato. Nel 2009 in Grecia e in Portogallo il disavanzo di parte corrente della bilancia dei pagamenti era rispettivamente del 10% e del 7,5% del PIL. In Irlanda, Portogallo e Spagna i debiti finanziari delle famiglie e delle imprese erano fra una volta e mezzo e due volte la media dell’area dell’euro, pari al 170% del PIL (in Italia essi sono pari al 130%). In Irlanda le maggiori banche nazionali erano giunte ad avere attivi di bilancio cinque volte più grandi del PIL; il crollo dei prezzi immobiliari e la recessione hanno loro causato ingenti perdite. Squilibri del genere finiscono col ripercuotersi sui conti pubblici, anche in paesi in cui questi sono inizialmente in ordine; nel caso irlandese i fondi pubblici spesi a sostegno delle banche sono stati pari a oltre il 20 % del PIL. Lo scorso autunno la Commissione europea e il gruppo di lavoro guidato dal Presidente del Consiglio europeo Van Rompuy hanno avanzato proposte su tutti e due gli aspetti: come rendere più cogente il Patto di stabilità e crescita; come estendere la sorveglianza agli andamenti macroeconomici. È stato proposto un rafforzamento del Patto: in fase di prevenzione degli squilibri di bilancio, intensificando il monitoraggio e introducendo tempestive sanzioni monetarie; in fase di correzione, prevedendo in particolare la possibilità di avviare la procedura per i disavanzi eccessivi non solo quando il disavanzo ecceda il 3% del PIL ma anche quando la diminuzione del debito verso il limite del 60% non sia ritenuta soddisfacente. sul terreno macroeconomico, si è previsto un sistema di monitoraggio degli squilibri potenzialmente rilevanti per la stabilità finanziaria dell’area, con indicatori quantitativi e soglie di criticità, sulla cui base il Consiglio europeo possa rivolgere raccomandazioni al paese interessato e, nei casi più gravi, applicare sanzioni finanziarie. infine, si è prospettata la sostituzione dal 2013 della EFSF con un meccanismo stabile di sostegno finanziario, lo European Stability Mechanism (ESM). Soltanto i paesi considerati solvibili avrebbero accesso al finanziamento, peraltro condizionato all’adozione di seri piani di risanamento; agli altri paesi verrebbe richiesto di negoziare con i creditori privati un piano di ristrutturazione del debito che li riporti in una situazione di solvibilità. Il 15 marzo scorso i ministri delle Finanze della UE hanno concordato un “orientamento generale” che dà piena attuazione alle raccomandazioni della Commissione e del gruppo di lavoro Van Rompuy. In particolare, è stata approvata la proposta di introdurre una regola numerica – pari a un ventesimo del divario tra l’incidenza del debito sul PIL e la soglia del 60% – per la riduzione annua del debito. Il Patto per l’euro che comprende tutti questi interventi amplia il fuoco dell’attenzione agli squilibri macroeconomici, rafforza la disciplina di bilancio nell’area, migliora i meccanismi di sostegno ai paesi che entrino in difficoltà finanziarie. Era un passo necessario per non incrinare pericolosamente quello spirito comunitario che è la linfa dell’euro. Riguardo alle politiche strutturali per accrescere il potenziale produttivo e la competitività, il Patto si affida per il momento a procedure di “pressione fra pari”, che nel caso della strategia di Lisbona 1 non hanno funzionato. L’impegno dei governi nazionali resta centrale. Non dobbiamo dimenticare una massima aurea: aumentare il potenziale di crescita dell’economia, consolidare il bilancio pubblico, sono, prima di tutto, priorità nazionali. I governi dovrebbero perseguirle anche indipendentemente dalle regole europee, per il bene dei loro popoli; con particolare impegno nei paesi più distanti da quegli obiettivi. 1 La strategia di Lisbona, adottata dal Consiglio europeo straordinario del marzo 2000, si basa su un obiettivo strategico per l'Unione europea: rafforzare l'occupazione, le riforme economiche e la coesione sociale nel contesto di un'economia fondata sulla conoscenza. Le sue linee programmatiche mirano a fare dell'Unione europea l'economia più competitiva e dinamica al mondo, in grado di coniugare la crescita con nuovi e migliori posti di lavoro. La strategia di Lisbona ha fissato l'obiettivo di raggiungere un tasso medio di crescita economica del 3% circa, di portare il tasso di occupazione al 70% e quello dell'occupazione femminile al 60%, entro il 2010. La situazione dell’Italia In Italia dal 2008 al 2009, nel pieno della crisi globale, il disavanzo pubblico è passato dal 2,7 al 5,4% del PIL; all’aumento non hanno contribuito politiche discrezionali di bilancio . Nella media dell’area dell’euro il disavanzo è più che triplicato, portandosi al 6,3%. Nel 2010 il nostro disavanzo si è ridotto, al 4,6%, mentre quello dell’area, secondo le stime della Commissione europea, è rimasto invariato. Alla tenuta dei conti da parte del Governo ha contribuito il fatto che la solidità del sistema bancario italiano non ha richiesto rilevanti aiuti a carico del bilancio pubblico. Il debito pubblico italiano, già molto alto, è salito ancora; la sua gestione è stata prudente: ne è stata progressivamente allungata la vita media residua, pur in un contesto che rimaneva incerto e volatile. La situazione patrimoniale di imprese e famiglie è nel complesso solida. La propensione dei risparmiatori verso strumenti finanziari ad alto rischio è bassa; l’indebitamento è contenuto, anche se concentrato in passività a tasso variabile (mutui a tasso variabile), intrinsecamente più rischiose. Il problema dell’economia italiana, non è mai superfluo ricordarlo, è la difficoltà strutturale a crescere. Il compito, difficile, della politica economica è cambiare questo stato di cose riducendo al tempo stesso l’incidenza del debito pubblico sul prodotto. Ripristinare rapidamente un solido avanzo primario e non sottrarsi all’esigenza di mettere in campo interventi che sostengano strutturalmente la crescita, questa è la sfida. Aumentare le aliquote fiscali è fuori discussione: comprometterebbe l’obiettivo della crescita, sottoporrebbe i contribuenti onesti a una insopportabile vessazione; le aliquote andrebbero piuttosto diminuite, man mano che si recuperino evasione ed elusione. Non resta che il controllo della spesa, ma un controllo selettivo, orientato innanzitutto dalla distinzione fra ciò che favorisce la crescita e ciò che la ostacola. Scelte politiche sagge non possono che poggiare su una valutazione capillare degli effetti anche macroeconomici di ogni voce di spesa. La più attenta sorveglianza multilaterale sulla sostenibilità dei bilanci pubblici prevista dal nuovo Patto per l’euro non è da temere; può aiutarci. Le riforme già fatte, in particolare quella pensionistica, ci pongono tra i paesi in cui per assicurare la sostenibilità di lungo periodo dei conti pubblici occorre una minore correzione dei saldi di bilancio. La nuova regola europea per la riduzione del debito non costituirebbe per noi un vincolo molto più stringente di quello già imposto dalla vigente regola del pareggio strutturale di bilancio. Si può stimare che il conseguimento di quest’ultimo obiettivo assicurerebbe ipso facto, in favorevoli scenari di crescita economica, anche il rispetto della regola sul debito.” Le due crisi a confronto 3.1 Analogie e differenze Da molti mesi abbondano le disamine sull'attuale situazione economica e finanziaria: ogni esperto ed operatore del settore si cimenta in paralleli e in similitudini tra la attuale crisi finanziaria e quella ben nota del '29. Per ricostruire i punti in comune e le differenze sostanziali tra le due crisi è necessario un lavoro di ricerca meticoloso. Un vecchio detto americano affermava: “Quando gli Stati Uniti starnutiscono, il resto del mondo prende il raffreddore”. Sicuramente, come asserisce Carlo Scognamiglio Pasini, l’economia americana esercita una notevole influenza sulle altre economie, soprattutto su quella europea. In ogni caso, continua l’economista, nel ’29 gli Stati Uniti erano il principale motore dello sviluppo economico, oggi invece, il ruolo di motore dei mercati è diviso equamente con i colossi asiatici, Cina ed India in primis, i quali non presentano segnali di crisi particolarmente gravi. Un’altra differenza molto importante tra le due crisi risiede nel fatto che alla fine degli anni venti la spesa pubblica aveva una valenza nettamente inferiore rispetto alla situazione odierna, basti pensare che negli Stati Uniti toccava appena il 7% del Pil a differenza del 35% attuale. Invece un punto in comune tra le due crisi riguarda la nascita delle stesse. Ieri come oggi la crisi nacque nel settore finanziario e si propagò in maniera dirompente nell’economia reale provocando degli effetti addirittura devastanti. I paesi colpiti incominciarono a proteggere la produzione nazionale introducendo le barriere doganali che ebbe come effetto diretto una riduzione notevole delle esportazioni. Ecco quindi spiegati gli innumerevoli licenziamenti negli anni immediatamente successivi. Tale fenomeno si manifestò sia negli Usa che in Europa. Il tasso di disoccupazione si alzò enormemente cosi come oggi, ma nel ’29 ciò provocò in concomitanza con la flessione della domanda interna, una crisi industriale senza pari e nettamente superiore rispetto a quella odierna. Nel 1932 gli Stati Uniti videro la loro produzione interna diminuire del 56 %, la Germania del 59% e l’Italia addirittura dell’89%. Nel 1929 il sistema industriale ricevette un duro colpo, molto diverso rispetto a quello odierno. Infatti oggigiorno sono le famiglie, e non le imprese, ad essere fortemente indebitate e questo per via della caduta dei prezzi riguardanti il solo settore immobiliare. Andando con ordine si può affermare che oggi il sistema finanziario americano e soprattutto europeo sono stati trascinati nella crisi dei subprimes e dei toxic assets. I mutui subprime sono prestiti concessi dalle banche a soggetti che non si possono permettere gli alti tassi d’interesse del mercato poiché posseggono un reddito basso o instabile. Successivamente l’intero mercato immobiliare dopo aver raggiunto quote molto alte è andato incontro ad una decrescita continua e inesorabile. L’errore risiedeva nell’aver concesso a soggetti senza alcuna garanzia ingenti capitali per finanziare l’acquisto di una casa. Come si può notare l’attuale crisi è nata per via di un improvviso aumento dei prezzi di un preciso settore finanziario, appunto quello immobiliare, il quale successivamente ha coinvolto l’intero sistema. Invece negli anni venti l’intero sistema borsistico ne fu implicato. Infatti dal 1924 al 1929 la borsa statunitense registrò rialzi del 400%, prezzi quindi che non avevano alcun tipo di legame concreto con l’economia reale dell’epoca. La crisi odierna è nata anche per via della “finanziarizzazione dell’economia”. Questo rapporto tra risparmiatore e investitore conferisce ai mercati una gran liquidità che dovrebbe tenere bassi i tassi d’interesse per i prestiti, ma nello stesso tempo si ha un aumento del rischio. Uno dei grandi problemi risiede nel fatto che i gestori fiduciari non hanno alcuna responsabilità nel caso di investimento erroneo, mentre nel caso contrario partecipano ai profitti. Un sistema di tal genere favorisce quindi la speculazione finanziaria, in quanto vi è l’assenza di regole che limitano l’attività degli intermediari finanziari a specifici ambiti funzionali. Assenza di regole che si registra anche nel 1929, la bolla borsistica si formò per l’assenza di norme finanziarie come per esempio il ritiro del titolo azionario nel caso di “ eccesso di rialzo” o nel caso di “eccesso di ribasso”. Quindi si può asserire che tutte le crisi finanziarie cominciano con qualche innovazione ingegneristica o finanziaria che crea grandi profitti e aspettative di profitto e che fa pensare che le vecchie regole di prudenza non valgano più. Una similitudine che si può realizzare riguarda la rivincita delle teorie keynesiane. La crisi del 1929 mise in discussione la “teoria dell’equilibrio economico generale” di Leon Walras e Vilfredo Pareto. Essa ipotizzava che ciascun mercato avrebbe spontaneamente raggiunto una condizione di equilibrio, e infatti in quegli anni il governo americano, sotto la presidenza di Herbert Hoover, e i governi europei non si mossero, vedendo nel fallimento di una impresa un qualcosa di naturale in quanto semplice prassi del sistema economico basato sul libero mercato. Infatti il governo Hoover e la Banca Federale Americana lasciarono che il libero mercato facesse il suo corso. Non immisero nuova moneta nel mercato, lasciarono fallire le banche in crisi, così spingendo sul lastrico milioni di cittadini e imprese, sia negli Usa che in Europa. La crisi economica che ne seguì, contribuì non poco anche alla nascita di regimi totalitari in Europa. Delano Roosevelt, con il New Deal, avviò invece una politica inflazionistica, con ampi interventi statali coniugati, però, ad un forte protezionismo. Furono necessari dieci anni per rilanciare la crescita; i prezzi sociali e politici furono drammatici. Oggi però, dopo decine di anni, le teorie economiche di Keynes ritornano in auge, proponendosi come mezzo per la disintossicazione dei mercati finanziari. Il concetto di spesa pubblica e di disavanzo inteso come specifico strumento da utilizzare in determinate fasi del ciclo economico (quando esso ristagna in presenza di un elevato tasso di disoccupazione) vengono rivisti come possibili e concreti mezzi per la soluzione della crisi. Una differenza sostanziale è anche il periodo storico. La situazione socio-economica dentro la quale la crisi odierna si è sviluppata è ben diversa. L’Europa possiede una moneta unica molto forte che ha dato una maggiore stabilità a tutto il sistema, evitando svalutazioni come per esempio quella che colpì nel 1932 il marco tedesco. BIBLIOGRAFIA: Intervento del Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, “L'euro:dal passato al futuro”, Milano, 21 marzo 2011; Intervento del Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, “Globalizzazione e politiche economiche:lezioni da una crisi, Torino, 13 aprile 2011; Domenico Genovese, “Due crisi economiche a confronto: 1929-2008”,anno accademico 2008/2009; Il Sole 24 Ore, articolo di giornale, “Quel crack sui mutui che ha stravolto i mercati mondiali”, 6 agosto 2010; Il Sole 24 Ore, “Troppa burocrazia: così la rivoluzione rischia il fallimento”, 20 agosto 2010; Gregorio Somma, “L'economia italiana tra le due guerre”, da pag. 35 a pag. 65 ; SITOGRAFIA http://www.ilsole24ore.com, “La crisi del 1929 e le sue false morali”, 20 maggio 2009; http://www.ilsole24ore.com, “Protezionismo? Film anni 30”, 16 ottobre 2010; http://web.tiscali.it/crisi29/newdeal.htm;