La crisi economica mondiale e i problemi dell`Italia - AEEE

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Aurelio Nanni
La crisi economica mondiale e i problemi dell’Italia
(sintesi della lezione tenuta all’ITC “Schiaparelli-Gramsci” di Milano il 13 febbraio 2009)
Non dobbiamo preoccuparci di decidere se il mercato rappresenta
una forza positiva o negativa. Resta ineguagliata la sua capacità di
generare ricchezza e diffondere la libertà, ma l’attuale crisi ci ricorda
che se non si mantiene un occhio vigile, facilmente il mercato può
sfuggire a ogni controllo, e che una nazione non può prosperare
a lungo se favorisce solo i ricchi.
Barack Obama
( dal discorso di insediamento del 20 gennaio 2009 )
La causa prossima della crisi
La situazione di crisi che oggi caratterizza l’economia di molti Paesi viene solitamente collegata,
almeno per quanto riguarda la causa prossima, alla difficoltà finanziaria in cui si sono trovate
diverse banche degli Stati Uniti d’America. Tale difficoltà si è manifestata soprattutto a partire
dal 2007, e derivava dal fatto che le banche avevano concesso una quantità rilevante di prestiti
immobiliari (cioè mutui per l’acquisto della casa) a soggetti che non erano in grado di restituire
in modo regolare le somme dovute.
Un altro aspetto significativo di questi prestiti immobiliari, poi, è la cosiddetta
“cartolarizzazione” dei prestiti stessi per opera delle banche. La cartolarizzazione (dal termine
carta) consiste nella trasformazione di determinati crediti – in questo caso dei crediti delle
banche nei confronti dei mutuatari – in veri e propri titoli: cioè in documenti che incorporano
il diritto alla restituzione delle somme prestate. I titoli così formati vengono poi ceduti
agli investitori del mercato finanziario, e ciò comporta per le banche un duplice vantaggio: in
primo luogo, quello di trasferire ad altri il rischio per l’eventuale insolvenza dei mutuatari e,
in secondo luogo, quello di poter ampliare la propria attività creditizia con le somme ottenute
dalla vendita dei titoli.
Le condizioni che permettono il funzionamento dello schema descritto sono principalmente
due: un tasso di interesse abbastanza moderato, per cui le banche possono ottenere denaro
liquido e poi concederlo in prestito con una certa facilità; un mercato immobiliare con prezzi
sostenuti, tenendo conto che la garanzia più importante dei mutui è costituita dalle abitazioni che
vengono acquistate. Ora, per diversi anni entrambe le condizioni si sono realizzate negli Stati
Uniti: con la conseguenza che le banche hanno svolto con profitto la loro attività di
intermediazione, e molte famiglie americane – anche con redditi bassi – hanno potuto acquistare
la proprietà della casa. In altre parole: l’economia americana si era caratterizzata, specialmente
nel periodo che va dal 1994 al 2004, per una sorta di circolo virtuoso. Nel senso che la politica
del “denaro facile” (sostenuta dalla Riserva Federale) e la crescita della “finanza creativa” (di cui
la cartolarizzazione dei mutui è soltanto un esempio) sembravano circostanze vantaggiose per
tutti.
In realtà la ricchezza che si andava creando, in tal modo, era in larga parte artificiale: il
prezzo delle case aumentava solo in virtù di una domanda che veniva sostenuta dalla concessione di mutui, anche nei casi in cui il rischio di insolvenza da parte dei beneficiari – come
abbiamo accennato sopra – era molto elevato. La situazione non poteva quindi durare per molto
tempo; e infatti, già nel corso degli anni 2007 e 2008 venivano a mancare le due condizioni che
erano alla base del mercato immobiliare negli Stati Uniti: il tasso di interesse moderato e il
prezzo delle abitazioni in continua crescita. Precisamente: la Riserva Federale aveva deciso
l’aumento del tasso di interesse (che in pochi anni era passato dall’1% al 5%), con la
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conseguenza che i prestiti immobiliari non erano più convenienti come prima; e il prezzo delle
abitazioni era diminuito in misura significativa, con la conseguenza che si riduceva il valore
delle garanzie prestate in favore delle banche.
Crisi finanziaria e recessione
In relazione ai fatti sommariamente ricordati, possiamo dire che nel mese di settembre del 2008
esistevano negli Stati Uniti d’America tutti i presupposti per una crisi finanziaria di grande
rilievo. Gli avvenimenti principali di tale crisi finanziaria si possono elencare come segue:
1. il salvataggio pubblico di due grandi imprese (Fannie Mae e Freddie Mac) che operano nel
mercato dei prestiti immobiliari con il sostegno governativo. Per evitare l’insolvenza di queste
imprese, che funzionano come istituti di garanzia per una quantità enorme di mutui, il Governo
federale interviene con un finanziamento di 200 miliardi di dollari;
2. il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers, che provvede a licenziare tredicimila
dipendenti;
3. il salvataggio del gruppo assicurativo AIG (American Insurance Group), che opera
soprattutto nel campo previdenziale e ha molti clienti all’estero (con la conseguenza che una crisi
del gruppo avrebbe ridotto la credibilità internazionale delle istituzioni americane);
4. la proposta del Governo federale di intervenire nella crisi finanziaria con un fondo di 700
miliardi di dollari a carico dei contribuenti, allo scopo di fornire un aiuto concreto alle banche
(liberandole dai titoli “avvelenati”) e, indirettamente, alla massa dei risparmiatori.
Il mondo della finanza (delle banche, delle assicurazioni, dei prestiti immobiliari ecc.) è
collegato strettamente con il mondo dell’economia reale, cioè con le attività produttive in senso
proprio e con le attività di consumo. Un’impresa che produce automobili, calzature o beni alimentari ha bisogno di credito per rinnovare i suoi impianti o per ampliare la sua attività; così pure
una famiglia che deve effettuare un acquisto di un certo rilievo (per esempio comprare una casa o
acquistare i mobili della cucina e del soggiorno) può effettuare l’acquisto solo pagando a rate i
diversi beni, e anche questo è possibile per mezzo del credito. In altre parole: sia gli investimenti
delle imprese sia i consumi delle famiglie dipendono – in misura più o meno rilevante, ma
comunque significativa – dal sistema finanziario, e quindi dal buon funzionamento del sistema
stesso.
Questo vuol dire che se entra in crisi il sistema finanziario (per esempio la banca non concede
più il credito, oppure lo concede a condizioni troppo onerose), le conseguenze negative si trasmettono all’economia nel suo insieme: per cui diminuiscono gli investimenti e le attività produttive, e
diminuiscono i consumi. Il termine recessione, nel campo dell’economia, indica una situazione
come quella descritta: cioè una situazione nella quale diminuiscono i consumi e gli investimenti, e
quindi diminuisce il prodotto interno lordo (PIL) di un determinato Paese. Ed è appunto la
situazione che caratterizza, in questo periodo, il sistema economico degli Stati Uniti d’America.
Ora, poiché gli Stati Uniti rappresentano la maggiore economia del mondo e, in particolare,
costituiscono il mercato di sbocco per le esportazioni di molti Paesi, è facile comprendere come
le difficoltà degli Stati Uniti si trasmettono rapidamente in altre parti del mondo. Infatti: se
diminuisce la domanda di beni all’interno dell’economia americana, è evidente che si riducono
anche le vendite di tutte le imprese (della Germania, dell’Italia, del Giappone, della Cina, del
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Brasile ecc.) che esportano i loro prodotti negli Stati Uniti d’America. E questo è uno dei motivi
fondamentali per cui si prevede una fase di recessione in molti Paesi europei, soprattutto in quei
Paesi – come l’Italia – che vendono all’estero una parte notevole delle loro merci; e si prevede
anche un certo rallentamento nella crescita dei cosiddetti Paesi emergenti (Brasile, India e Cina).
Ciò che avviene nell’economia di uno Stato, in conclusione, comporta una serie di conseguenze non solo all’interno dell’economia stessa, ma anche nella realtà economica di altri Paesi. Nel
caso che stiamo esaminando, questo è particolarmente vero per due motivi: in primo luogo
perché l’economia americana è l’economia maggiormente sviluppata sul piano mondiale
(come già si è detto) e, in secondo luogo, perché i rapporti economici internazionali sono oggi
caratterizzati dal fenomeno della “globalizzazione”. Per cui è opportuno accennare, sia pure
brevemente, a tale ultimo fenomeno.
Aspetti e problemi dell’economia “globale”
Si parla di globalizzazione, in genere, per indicare il fatto che molte attività economiche tendono
a svilupparsi a livello mondiale. E ciò avviene sia per le attività di scambio (come ciascuno di
noi può facilmente vedere dagli oggetti che si possono acquistare in qualunque negozio), sia per
le attività di produzione (in particolare per le scelte organizzative che vengono operate dalle
grandi imprese).
Gli aspetti principali della globalizzazione, che meritano di essere evidenziati in questa sede,
sono tre: il commercio internazionale; gli investimenti esteri; l’organizzazione dei processi
produttivi.
1) Con riferimento al primo aspetto, è importante ricordare che negli ultimi tempi l’aumento
delle esportazioni complessive di tutti i Paesi è sempre stato superiore – almeno di due o tre
punti percentuali – all’incremento della produzione mondiale.
Questo vuol dire, in pratica, una interdipendenza sempre maggiore tra le economie dei vari
Paesi. Infatti, se una quota crescente della produzione di uno Stato viene venduta all’estero, ciò
significa che lo sviluppo dello Stato in questione “dipende” in misura sempre più ampia dalle
condizioni in cui si trovano le economie degli altri Paesi.
2) Gli investimenti esteri, poi, assumono frequentemente la forma dell’investimento finanziario,
cioè dell’acquisto di titoli, in una situazione caratterizzata dalla libera circolazione dei capitali da
uno Stato all’altro.
Per cui il rischio di un aumento della ricchezza solo virtuale e sulla carta (provocato
dall’incremento della domanda speculativa di particolari titoli), è un rischio che tende quasi
sempre a diffondersi in diversi Paesi del mondo. Con la conseguenza che nessuno può escludere,
per esempio, che alcune istituzioni finanziarie dell’Europa o dell’Asia abbiano una certa quantità
di titoli avvelenati (come è già avvenuto, in passato, nel caso dei titoli emessi dall’Argentina o
dalla Parmalat).
3) Per quanto riguarda infine il processo di fabbricazione dei beni, bisogna ricordare che molte
imprese – soprattutto quelle di grandi dimensioni – organizzano i loro procedimenti produttivi
sul piano mondiale. Per cui decidono di sviluppare determinate lavorazioni in un luogo piuttosto
che in un altro tenendo conto di ambiti territoriali molto estesi e, in particolare, tenendo conto dei
luoghi e degli Stati nei quali la produzione è più conveniente (ad esempio perché il costo della
manodopera o delle materie prime è particolarmente basso).
Da questo punto di vista, le decisioni organizzative delle imprese possono comportare la
chiusura di interi complessi aziendali dove la produzione non è ritenuta conveniente. Appunto
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perché la produzione viene trasferita in altri Stati, dove esistono vantaggi ambientali di vario tipo
per lo sviluppo delle attività produttive.
Il fatto che le attività economiche si sviluppano a livello mondiale (come nei casi appena
ricordati del commercio, degli investimenti e dei processi produttivi) determina una serie di
limiti all’azione dello Stato, con particolare riferimento ai suoi poteri di intervento e di controllo
nel campo dell’economia. Il potere dello Stato, infatti, è circoscritto per definizione all’interno
del suo territorio, e comunque i singoli Stati non possono certamente vietare agli operatori
economici di stabilire la sede dei loro affari dove meglio credono. Pertanto, supponendo per
esempio che uno Stato intenda istituire un tributo su certe operazioni finanziarie, in maniera da
contrastare le attività speculative, è chiaro che tali operazioni potranno essere trasferite all’estero,
con un probabile danno per l’economia dello Stato.
Il fenomeno della globalizzazione, dunque, richiede modalità nuove per l’intervento pubblico
nell’economia. Tale intervento, in particolare, può essere efficace solo se viene concordato dalle
autorità dei vari Paesi. Inoltre, è importante che siano potenziate quelle istituzioni – come
l’Unione europea e l’Organizzazione mondiale del commercio – che hanno la possibilità
di condizionare, con finalità di interesse pubblico, lo svolgimento delle attività di produzione
e di scambio. Per esempio, l’esistenza in Europa di un’area monetaria molto vasta e
affidabile – cioè una moneta dotata di un potere di acquisto sufficientemente stabile – è un
fatto sicuramente utile per affrontare la crisi economica mondiale: sia perché una moneta stabile
contribuisce comunque alla crescita delle attività economiche, sia perché le diverse economie
nazionali (l’economia italiana, francese, tedesca ecc.) sono in qualche modo tutelate da eventuali
movimenti speculativi. Basta ricordare, a quest’ultimo proposito, che l’Italia, la Francia, la
Germania ecc. – in una situazione come quella che si è creata nel 2008 – avrebbero incontrato
senz’altro maggiori difficoltà ad affrontare la crisi se ogni Paese avesse avuto una propria
moneta.
L’Europa e l’Italia nella società globalizzata
L’Italia e l’Europa sono coinvolte nella crisi che ha avuto origine negli Stati Uniti, in relazione
al fatto che le economie dei vari Paesi – come abbiamo visto – sono ampiamente collegate tra
loro (per via del commercio internazionale e della finanza globale, e anche per via delle scelte
organizzative effettuate dalle grandi imprese). Perciò la crescita della produzione e del benessere,
almeno per alcuni anni, sarà certamente inferiore a quella di prima.
Ora, volendo ricordare le principali questioni che si pongono nei Paesi europei, possiamo
distinguere da un lato i problemi dell’Europa nel suo insieme – in particolare delle istituzioni
comunitarie – e, dall’altro, i problemi che riguardano il nostro Paese.
* Con riferimento all’Europa, i problemi sono di due tipi: quelli relativi al processo di
integrazione tra i diversi Paesi e quelli relativi alla presenza europea nel campo internazionale.
a) Per quanto riguarda l’integrazione tra i Paesi europei, la crisi economica ha evidenziato la
necessità e l’importanza di un’Europa maggiormente unita al suo interno, tenendo conto che
l’intervento pubblico nell’economia può avere una reale efficacia solo se viene realizzato a
livello comunitario.
Per esempio nel campo della politica fiscale e nel campo della vigilanza sulle banche, è chiaro
che se ogni Stato dovesse procedere per conto suo, difficilmente sarebbe raggiunto l’obiettivo di
un mercato unico sotto ogni profilo; e la stessa posizione della moneta unica europea, in tal caso,
sarebbe inevitabilmente indebolita. Chi detiene una certa quantità di euro, infatti, non avrebbe
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la certezza di poterli investire indifferentemente in uno qualsiasi dei vari Paesi europei, ma
dovrebbe tener conto – per ipotesi – che in Italia e in Germania esistono politiche tributarie o del
credito molto diverse.
b) Per quanto riguarda poi la presenza internazionale dell’Europa, possiamo dire che il
problema da una parte è collegato con quello precedente, poiché l’Europa può “contare”
qualcosa sul piano mondiale solo se è unita al suo interno; dall’altra, il problema stesso è rilevante per la possibilità che dopo la crisi economica si vada formando un nuovo ordine mondiale.
E cioè un ordine mondiale non più caratterizzato dal predominio esclusivo degli Stati Uniti
d’America, ma caratterizzato da una pluralità di centri di potere economico e politico. In tale
contesto, l’Europa potrebbe svolgere un ruolo significativo per definire le regole del nuovo
“mondo multipolare”, accanto ai Paesi emergenti dell’Asia e dell’America latina.
* Con riferimento ai problemi che riguardano il nostro Paese, è importante mettere in evidenza
due fatti: il primo è costituito da una crescita della produzione tendenzialmente bassa, tanto è
vero che per il 2008 si parla addirittura di una crescita zero; il secondo è costituito da un
indebitamento pubblico molto elevato, che supera il 100% del reddito nazionale.
L’uno e l’altro dei fatti indicati pongono l’Italia in una situazione abbastanza difficile, in
genere meno favorevole rispetto ad altri Paesi confrontabili con il nostro. Se guardiamo per
esempio il debito pubblico, è chiaro che esso comporta il pagamento di un certo interesse da
parte dello Stato (così come noi dobbiamo pagare un interesse se facciamo un debito per
acquistare la casa o l’automobile). Ora, poiché lo Stato emette particolari titoli per finanziare il
proprio debito (i cosiddetti Buoni del Tesoro) e i titoli stessi vengono poi negoziati nel mercato
finanziario (come le azioni e le obbligazioni delle società commerciali), bisogna considerare che
l’interesse a carico dello Stato è quasi sempre in proporzione alla solidità della sua economia. Per
cui lo Stato riesce a pagare un interesse modesto (supponiamo il 2 o 3 per cento annuo) soltanto
se la situazione economica che caratterizza lo Stato medesimo è particolarmente solida e
affidabile; in caso contrario, è possibile che lo Stato debba pagare un interesse alto (come il 4
o il 5 per cento), perché diversamente non vi saranno molti soggetti disposti a sottoscrivere i
titoli emessi.
La situazione descritta spiega l’importanza che avrebbe per l’Italia una riduzione del debito
pubblico. Nel senso che lo Stato italiano potrebbe ottenere dei prestiti pagando un interesse più
ridotto di quello attuale; come riesce a fare per esempio la Germania, che pure emette dei titoli
per ottenere determinati finanziamenti, ma è in grado – almeno come regola – di collocare i
titoli medesimi a un interesse inferiore rispetto a quello che paga il nostro Paese. E ciò si spiega,
appunto, con il fatto che la situazione economica in Germania è migliore che in Italia.
D’altra parte, la riduzione del debito pubblico nel nostro Paese è un problema che può essere
affrontato con una certa adeguatezza solo affrontando contestualmente il problema della crescita.
Infatti, soltanto se aumenta la ricchezza prodotta, si può sperare di destinarne una quota per
ridurre i debiti dello Stato; modalità diverse di intervenire sul debito pubblico (per esempio
diminuire le spese, oppure aumentare le tasse e le imposte) sono difficilmente praticabili, per una
serie di ragioni che si possono facilmente comprendere. Il problema più importante dell’Italia,
dunque, è migliorare il proprio sistema economico, cioè renderlo più efficiente e più giusto: in
maniera da favorire la crescita dell’economia, e creare quindi i presupposti per provvedere
meglio ai bisogni della società e delle singole persone.
Quali sono i soggetti che possono contribuire al necessario miglioramento? Non vi è
dubbio che c’è posto per tutti (imprese, forze sociali, organizzazioni non profit ecc.); ma
è evidente che un ruolo decisivo va riconosciuto ai poteri pubblici, e perciò allo Stato. Quel
medesimo Stato che i processi di globalizzazione tendono a indebolire, come abbiamo visto
sopra, rimane comunque l’istituzione fondamentale per sostenere lo sviluppo economico, e
quindi per contribuire in modo efficace al progresso civile della società.
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