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gennaio '10
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Gennaio '10
Numero Gennaio '10
EDITORIALE
Passate le feste, e ancora reduci da bagordi assortiti, rieccoci qui per il primo numero del
2010 di “Fuori dal Mucchio”, pronti come e più di sempre a offrirvi il meglio di quanto
propone il panorama discografico indipendente – ma non solo – italiano. E, visto che è il
periodo dei buoni propositi, il nostro è quello di essere ancora più attenti e inflessibili nelle
nostre selezioni, perché è questo a nostro avviso l’unico modo per districarsi in una “selva
selvaggia” di uscite altrimenti inestricabile.
Nell’attesa di scoprire cosa ci riserveranno i prossimi mesi a livello di conferme, delusioni e
(speriamo belle) scoperte, vi lasciamo con un ricco sommario di recensioni e interviste, più
un “Dal basso” che farà scendere una lacrimuccia ai nostalgici della prima ondata dell’emo
tricolore.
Buona lettura, quindi, buoni ascolti e buon 2010 a tutti.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Gennaio '10
Bad Love Experience
Livornesi DOC, i Bad Love Experience sono Valerio Casini (classe 1985, voce e chitarra),
Emanuele Voliani (classe 1985, basso e voce) e Gabriele Bogi (classe 1985, batteria), si è
unito Claudio Laucci (classe 1982, piano, organo e cori). Dopo l'esordio di tre anni fa, che si
guadagnò una nomina al premio “Fuori dal Mucchio” per la stagione 2006-2007, escono con
il nuovo “Rainy Days” (Mabel/Inconsapevole), un concentrato di garage, psichedelia, pop e,
ovviamente, sano e sporco rock’n’roll, e tornano da un rocambolesco tour nei paesi dell'ex
blocco sovietico.
Sono proprio “giorni piovosi” i nostri (o sarebbe meglio dire “uggiosi”)?
Direi che non tira proprio una bella aria in questo periodo. Però mi verrebbe da chiederti
quand’è stata l’ultima volta che hai respirato bene da queste parti. Il 2010 sarà l’anno della
redenzione dai peccati del nostro Presidente che adesso da martire si incammina verso la
beatificazione e con un Papa del genere chissà che non ci scappi davvero.
E Livorno, un posto ancora “rosso” e combattivo, ha qualche àncora di salvezza?
Livorno ha un temperamento polemico-artistico unico nel suo genere. Dobbiamo essere
forzatamente rivoluzionari. Più che di “rosso” o di “nero” si tratta di sangue livornese, di
tradizione ereditata più o meno inconsciamente. I nostri nonni erano dei partigiani, Livorno è
stata popolata a lungo da pirati, puttane e galeotti e questi personaggi sono la storia della
nostra città. È inevitabile che qui ci sia un modo di fare che è a se stante. Dirti che siamo
salvi, beh non me la sento. Però almeno noi ci proviamo.

In “Break Away”, incipit del disco, parlate della fame di celebrità degli artisti.
Spiegateci come si “separa la bellezza dalla gloria”.
La bellezza e la gloria non sono necessariamente due cose nate per essere divise. Non
sono neanche due cose strettamente collegate però, l’una non implica l’altra. Ho conosciuto
gruppi che per avere un po’ di gloria hanno fatto delle schifezze e poi se ne sono andati tra
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la vergogna. Con questa canzone dico solo che ci vedrete sempre a testa alta e non si tratta
di spicciola filosofia punk del non scendere a compromessi. Si tratta di dare un valore ed uno
spessore a quello che fai, per noi la musica è mettere a nudo e presentare noi stessi, è arte
non merce. Dipende tanto dalla stima che hai di te stesso.
Veniamo al suono. Federico Gugliemi nella recensione di “Rainy Days” dice che vi
siete spostati sul power pop. L'ingresso di piano e organo in formazione hanno
aiutato a “ripulire” il suono?
Sicuramente hanno ampliato le nostre possibilità di ricerca. Siamo un gruppo che punta
molto sulle canzoni. Rispetto al primo album in “Rainy Days” c’è meno impeto e molta più
riflessione. Automaticamente ,quindi, anche il suono si ripulisce ma si dilata in tante altre
direzioni. Ecco perché abbiamo messo dentro anche un sacco di strumenti “inusuali” per
noi.
Il disco è prodotto da Justin Perkins e masterizzato in analogico da Trevor Sadler,
uno che ha lavorato con gente del calibro di David Byrne e Peter Gabriel. Com'è
lavorare con dei piccoli (ma neanche tanto) guru americani?
È incredibilmente rilassante, cosa rara quando sei in studio. Justin Perkins è un grande
produttore, molto giovane e quindi attento alle produzioni moderne, ma allo stesso tempo
spassionatamente innamorato dei vecchi suoni e dei vecchi dischi, come noi. Per questo c’è
stata sincronia perfetta tra di noi, fin dall’inizio lui sapeva dove volevamo andare e come
portarci là, è stato tutto molto naturale. Con Trevor Sadler abbiamo lavorato a distanza ma
con ottima comunicazione e ottimi feedback. Non sono io ma il suo curriculum a dire quale
sia il suo livello.
“Rainy Days” esce anche in vinile, un supporto che dà soddisfazione a chi lo crea ma
che ha ancora un mercato abbastanza chiuso, seppur in tiepida risalita. Pensate che
sui banchetti venderà bene?
Vogliamo essere ottimisti. Il CD è andato bene, in due mesi abbiamo esaurito tutta la prima
stampa e ora siamo alla seconda, e nonostante ciò ovunque andiamo a suonare c’è sempre
richiesta di vinile. Gli appassionati crescono e il momento storico è buono, tutti i gruppi
stanno stampando copie del loro album anche in vinile e i prezzi sono più accessibili dei CD
di qualche tempo fa. Noi siamo tutti e quattro grandi fan dell’LP e per questo siamo di parte,
ma come noi ce ne sono molti e ce ne saranno sempre. Il vinile è il futuro! Colgo l’occasione
per dire che il nostro vinile esce il 15 Gennaio per Tannen Records e tutte le info su
acquisto, distribuzione, ecc le trovate su www.tannenrecords.com.
Sempre Guglielmi dice che siete più o meno a metà strada tra Gran Bretagna e Stati
Uniti. Allora vi chiedo: Gran Bretagna o Stati Uniti?
Paradossalmente ti dico che la musica che più ci piace è quella fatta dagli Inglesi che
amano l’America e dagli Americani che amano l’Europa. Pensa a gruppi più o meno attuali
come Neutral Milk Hotel, Beirut, Calexico, Ted Leo & The Pharmacists, tutti artisti Americani
pazzamente innamorati dell’Europa. Nel loro sound senti le radici Americane mescolate ad
una forte componente Europea che li rende unici. Oppure pensa agli stessi Beatles, grandi
fan del rock’n’roll Americano dei 50’s ,così come i Clash, o anche i Rolling Stones, nati quasi
come portavoce del blues nero americano in Inghilterra. Ti direi che ci sentiamo europei dal
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cuore italiano che sognano gli USA meno contaminati dai McDonald’s.
La vostra musica ha (come si dice nel comunicato stampa) “un occhio sempre aperto
sul passato e i piedi ben piantati nel presente”. Il passato è ben riconoscibile nel
vostro sound. Ma qual è il presente, musicalmente parlando, per voi, in Italia e
all'estero?
Il presente italiano ha bisogno di nuovi gruppi, gruppi giovani, incazzati e genuini. Non
sopporto che a raccontare i problemi della mia generazione siano vecchi ripuliti che si
mascherano da giovani. Dovrebbero esserci meno volti rugosi sui nostri palchi. C’è tanta
musica buona giovane nell’underground di oggi, bisogna solo avere voglia di andarla a
cercare e dargli una chance. Abbiamo partecipato ultimamente a una rassegna itinerante
chiamata Rocketta, dentro ci sono una decina di gruppi, la maggior parte non gli avevo mai
sentiti nominare e spaccano di brutto! Sentire per credere.
All'estero siete appena stati in un tour sfiancante tra Estonia, Lettonia e Russia. Ho
letto un tour diary appassionato che ha del tragicomico, soprattutto negli spostamenti
da un luogo all'altro. Insomma, non è da tutti venire attaccati dai lupi della tundra...
Già, sono stati momenti da panico. Quando sei nel mezzo all’assurdo pensi solo a
mantenere i nervi saldi altrimenti impazzisci. È stato al ritorno, poi, a mente fresca, che ho
scritto il tour diary e quasi mi veniva da ridere mentre ci ripensavo... Non so che altro dirti,
credo che quel diario parli meglio di me (lo trovate sul loro MySpace, Ndr)!
Sui palchi dei paesi dell'Est che aria si respira?
Aria genuina, pochi fronzoli, nessun pregiudizio e tanta voglia di divertirsi. Abbiamo fatto dei
concerti incredibili là. È tutto incredibile, nel bene e nel male.
Avete in programma qualche altro espatrio per presentare “Rainy Days” al mondo?
Sai con il discorso del produttore Americano un pensiero ce lo stiamo facendo. Non è facile,
ma vedremo. Sicuramente da Gennaio con l’uscita del vinile parte anche la promozione
all’estero quindi ci sono buone possibilità. Per adesso sappiamo che in estate 2010
dovremmo volare di nuovo in Russia per dei festival a cui ci hanno invitato, non vediamo
l’ora!
Infine, il cinema. Siete stati il gruppo beat Le nuove dimensioni ne “La prima cosa
bella” di Virzì. Raccontateci l'atmosfera sul set. Non è una cosa che capita a tutte le
band indipendenti italiane...
Siamo molto contenti di aver partecipato al nuovo film di Paolo Virzì. Oltre alla presenza
come gruppo beat siamo anche partecipi della colonna sonora con tre brani estratti da
“Rainy Days” e due composizioni originali. È stato tutto molto divertente, abbiamo suonato
dal vivo durante una festa in uno stabilimento balneare livornese nel 1971 e ci siamo fatti
delle gran risate. Dobbiamo un grazie a Virzì che come sempre si dimostra attento e
interessato a quello che succede alla musica livornese.
Il film esce il 15 Gennaio, correte a vederlo!
Contatti: www.myspace.com/badloveexperience
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Marco Manicardi
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Brunori S.A.S.
Dario Brunori, alias Bunori S.A.S., ci accoglie nel suo magnifico studio di registrazione a
Rende, non distante da Cosenza. È spesso in giro, di questi tempi, Brunori, per presentare il
suo “Vol. Uno” (Pippola Music/Audioglobe), che gli è valso un Premio Ciampi quale miglior
debutto discografico, per la ”capacità autoriale di alto livello, una scrittura asciutta ma
elegante, onesta e vicina al cuore della gente”.
Te lo aspettavi, questo “Ciampi”?
Assolutamente no. Non avevo alcuna aspettativa su questo disco. Poi Matteo (Zanobini, di
Pippola, ndr) mi ha comunicato che era opportuno tenermi libero per il 14 novembre... Il
disco è nato in un momento molto speciale e difficile della mia vita, quasi per caso.
Ce lo racconti?
Ero in Toscana dove mi sono laureato. Ho avuto qualche esperienza musicale, le
compilation di Minuta e i Blume. Sono dovuto tornare improvvisamente per la morte di mio
padre, era il 2007. Mi sono occupato dell’azienda di famiglia, la “Brunori S.A.S.” appunto,
perché era necessario farlo, ma nel frattempo ho composto questa manciata di canzoni,
scritte senza che ci fosse un progetto preciso. Sono state la mia valvola di sfogo mentre mi
divertivo a fare l’imprenditore.
Si avverte infatti nelle canzoni di “Vol. Uno” un’urgenza e una necessità non comuni.
Sì, è un disco non meditato, è semplice e privo di sovrastrutture, perché è di questo che
avevo bisogno. In un momento in cui mi sentivo sotto pressione, mi sono detto: “ torno a
imbracciare la chitarra, per delle canzoni dirette”. E infatti ho voluto inserire nel booklet il
“Canzoniere” nello stile del vecchio “Millenote”, con gli accordi scritti in mezzo ai versi.
Volevo liberarmi di certi intellettualismi, avevo bisogno di arrivare subito a una sintesi che
fosse il più possibile diretta. Alle canzoni cantabili, da intonare intorno a un falò.
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Come sei arrivato alla pubblicazione del disco?
Non avevo alcuna pianificazione in merito; semplicemente Matteo Zanobini dopo aver
ascoltato alcuni pezzi, tra cui “L’imprenditore”, che è stato il primo ad trovare la luce, mi ha
convinto a scriverne altri e successivamente a pubblicarli. Così si è messa in moto la ditta.
Ho voluto chiamarla Brunori S.A.S., come l’impresa di famiglia, per sottolinearne
ironicamente la continuità.
Che idea hai della scena cantautorale di debuttanti coeva alla tua? Non so, penso a
Dente.
Tutto il bene possibile. Stimo molto Dente e in futuro mi piacerebbe se possibile collaborare
con lui e con altri artisti della cosiddetta “scena”. Ai tempi delle vecchie scuole come quella
genovese o romana, collaborazioni di questo tipo avvenivano di frequente, e penso siano
state indispensabili per la crescita dei singoli artisti. Oggi vuoi anche per le possibilità dei
nuovi media, le cose accadono e si sviluppano in luoghi differenti e distanti fra di loro, non è
più tutto concentrato nei grandi centri, per cui è difficile parlare di una scena circoscritta ad
un particolare luogo geografico, ed è altrettanto difficile poter mettere in contatto fisico i vari
protagonisti.
Una scena calabrese, o almeno cosentina, invece esiste, e tu adesso ne fai parte,
vero?
Sì, ho rapporti con molti musicisti di qui e in particolare con i Camera 237, che hanno
suonato anche in “Guardia ‘82”, un pezzo del disco. Vorrei che il mio studio “Picicca”
divenisse un punto di aggregazione e che facesse di questa zona un’area di incontro, un
polo anche per musicisti di altre regioni d’Italia.
È solo l’impressione, o in “Italian Dandy” sfotti un po’ i Baustelle?
Mi permetto di canzonare in generale quel tipo di approccio e di immaginario, facendone al
contempo un personale tributo. Quella canzone è venuta fuori mentre viaggiavo tra la
Toscana e la Calabria e non avendo nessun modo per appuntarla l’ho canticchiata per tutto
il viaggio. In verità da ragazzo mi sarebbe piaciuto vivere una vita di boheme, cosa
abbastanza impegnativa per uno chi nasce in un piccolo paese della provincia calabra... La
canzone se vuoi è uno sfottò affettuoso nei confronti di un certo “maledettismo” assai di
moda e nel quale alcune volte sono caduto anch’io.
È bella l’immagine di “Il pugile” nella quale urli “Io sono un fiore”. Dai un’idea di
tenerezza e preziosità ma anche di forza. Chi è il tuo interlocutore?
Non mi è facile spiegare le mie canzoni; dentro “Il pugile” c’è un conflitto, o un dialogo, tra
due parti di me: una che è razionale, forse troppo, che vive di testa e non si fa coinvolgere, e
un’altra parte che reclama a gran voce il suo spazio, ed è “il fiore”.
Perché chiudi il disco con un classico come “Stella d’argento”, unico pezzo non tuo?
È un omaggio a mio padre (al quale è dedicato tutto l’album, Ndr). Proprio in questi periodi
natalizi, quando il tasso alcolico saliva dopo un pranzo o una cenone, lui intonava questa
canzone per mia madre, che si chiama Stella, e io lo accompagnavo alla chitarra. Ho voluto
inserire questo pezzo per ricordare lui, che non c’è più.
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Sei stato accostato a Rino Gaetano. Cosa ne pensi?
Mi lusinga molto, ma credo che quel tipo di scrittura sia parecchi gradini più in alto rispetto
alla mia. Dopo un solo disco non posso aspirare a tanto. Per me, peraltro, Rino Gaetano è
un riferimento in termini di capacità comunicativa e di “umanità”, ma musicalmente ho un
approccio diverso.
Quale?
Per esempio Lucio Battisti. Credo che le massime espressioni musicali siano quelle che
uniscono qualità e popolarità, fruibili a vari livelli di lettura. Pensa a un disco come “La voce
del padrone” di Battiato. Il mio è un disco che piace alle zie così come ai trentenni cresciuti
col rock alternativo, se riesco ad accaparrarmi anche i teen-agers e i metallari è fatta.
E ora?
Ora portiamo in giro il disco, abbiamo molte date. Mi accompagnano Dario Della Rossa
(tastiere), Mirko Onofrio (sax e flauto) Massimo Palermo (batteria) e Simona Marrazzo
(Cori). Ma intanto penso anche a come continuare.
Beh, goditi il momento!
Sì, me lo godo, ma non voglio perdere lo spirito di queste canzoni, l’immediatezza da cui
sono nate. È stato bello sfornare un disco senza pensare al target, a come piacere e a quale
pubblico rivolgermi. Per questo “Volume Uno” mi rappresenta totalmente. Non vorrei perdere
questa prerogativa, anche se mi rendo conto che ciò potrebbe significare sottopormi ad un
altro anno di lavoro come imprenditore...
Contatti: www.myspace.com/brunorisas
Gianluca Veltri
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Frigidaire Tango
Ritornano i Frigidaire Tango dopo vent’anni (a parte un box nel 2007 che raccoglieva tutte le
loro canzoni, più inediti, su CD). Si ripresentano “L’illusione del volo” (La Tempesta/Venus),
un disco di composizioni nuove, tutte cantate in italiano. Storie musicali di tempi trascorsi,
mal di vivere ma anche racconti di speranze. Un lavoro che trasuda il grande background di
chi l’ha composto e arrangiato con ottime nuove soluzioni. Ne parliamo con il cantante Carlo
Casale.
Vi siete formati negli anni 80. Come vivevate allora il vostro essere gruppo?
Più precisamente ci siamo incontrati musicalmente nel ‘77. Poi nell’80 sono nati i Frigidaire
Tango come gruppo, ma in realtà erano già due/tre anni che suonavamo, in tempi che sono
un po’ diversi da quelli di due o tre anni dopo. Al momento dell’esplosione del punk
vivevamo una situazione da ventenni, felicemente incoscienti di quello che stava
succedendo, e chiaramente ben presi da tutta questa voglia di fare musica non
necessariamente legati a qualche etichetta o a qualche mira commerciale. Perciò
sicuramente è stato un momento molto divertente.
La vostra musica e il vostro modo di viverla si può vedere nelle riprese di “Ultimo
concerto”, film di Piergiorgio Gay. Da cosa nasce l’esigenza di raccontarvi attraverso
il video?
Più che una volontà nostra, ci è stato chiesto di fare da gruppo guida per dare un’idea di
come si viveva in quel periodo la musica. Il filmato rende chiaramente l’idea e cioè che ad un
certo punto, non puoi più seguire la tua vena artistica perché devi guadagnarti la pagnotta e
perciò rientrare nei ranghi.
Rispetto alla composizione delle vostre canzoni e pensando ad un legame tra
passato e oggi, il vostro modo di comporre le canzoni com’è rispetto a prima?
In quegli anni le canzoni nascevano da nostre session e ognuno diceva la sua. Questo
disco è un bagaglio di anni di esperienze unito alla tecnologia, messo assieme non proprio
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da tutto il gruppo a livello compositivo. Poi chiaramente il gruppo è stato fondamentale per
suonarlo ed esprimerlo, però è stato scritto quasi più a tavolino che dal vivo.
Siete tornati ufficialmente nel 2007 ad imbracciare le vostre chitarre. Come mai avete
fatto passare venti anni?
L’ultima volta che ci siamo visti alla fine del ‘86, non è che ci siamo detti “ci sciogliamo e
arrivederci”. Semplicemente non ci siamo dati un vero appuntamento per il giorno dopo.
Ognuno ha iniziato a fare le proprie cose. Alcuni sono rimasti agganciati alla musica. Ad
esempio io ho gestito locali, ho fatto delle produzioni e abbiamo registrato altri due dischi
con il nome Vindicators che era un altro gruppo diverso, però eravamo quattro/quinti del
gruppo perciò sempre noi. Poi ho fatto produzioni mie e ho organizzato concerti per anni.
Stefano ha iniziato a vendere strumenti e ha una sala d’incisione, Marco è a Miami che
vende strumentazioni e tecnologia, e anche Franco vende tastiere,.
Dopo avere messo insieme le canzoni migliori in una raccolta, avete deciso di fare
delle canzoni nuove, ma già voi ci pensavate quando avete fatto la reunion nel 2007?
Sinceramente non pensavamo ad una reunion. Doveva esserci solamente l’uscita di questo
box di tutto il nostro materiale inedito e portare i dischi che erano in vinile in CD, però viste le
vendite, siamo stati parecchio lusingati così abbiamo deciso di fare qualche concerto e da lì
ci siamo ritrovati e abbiamo pensato di registrare anche un disco nuovo.
Avete intitolato il disco nuovo “L’illusione del volo”, titolo che richiama una certa
rassegnazione che ho notato in tutte le canzoni, come mai?
Hai detto bene, però più precisamente è auto-spronarsi a non essere rassegnati o
comunque una constatazione di un’illusione che in effetti c’è, perché in pratica il leitmotiv del
disco è il volo come metafora di libertà. Non siamo tutti sicuri di essere propriamente liberi.
C’è poi la canzone “Soffia” che ha un aplomb molto moderno, molto pop.
Pensa che quel pezzo è del 1980! Chiaramente ri-arrangiato, però la sequenza di accordi è
quella di una canzone accantonata dal primo disco. Uno dei due brani che abbiamo ripreso
dall’archivio e mi fa piacere che dici che suona moderno, perché ciò significa che il tempo è
una cosa abbastanza soggettiva.
Il disco è stato prodotto da Giorgio Canali. Com’è avvenuto l’incontro e come mai ha
prodotto lui il disco?
C’eravamo visti e conosciuti già all’epoca, e anche lì è stata la famosa regola dell’attrazione.
Lui è capitato qui da noi perché ha prodotto dei gruppi nel nostro studio e sai, poi parli e
ricordi vecchie cose... Abbiamo ascoltato insieme del materiale e lui a detto, perché no? A
dire il vero non ha fatto la produzione, ma il missaggio, che è una cosa fondamentale. Il
disco in pratica era quasi finito, ma è chiaro che Giorgio ha portato la sua esperienza e il
suo taglio, essendo stato sempre in pista, e ci ha dato dei consigli ottimi.
Ci sono molti ospiti. Come mai?
Anche lì è stata una cosa nata a livello umano, non certo per un bisogno tecnico; sono tutti
nostri amici, concentrati in “New Wave Anthem” un omaggio alla new wave, per cui non
poteva mancare chi l’ha vissuta all’epoca ovvero Miss Xox del Great Complotto di
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Pordenone, Federico e Giorgio stesso. Poi c’è Diego Galeri dei Timoria che è una carissimo
amico di Stefano; c’è addirittura Aldo Tagliapietra de Le Orme. Parliamo quindi di una
generazione addirittura antecedente alla nostra.
La Tempesta ha prodotto il disco. Vi hanno contattato loro o vi siete proposti voi?
Enrico dei Tre Allegri Ragazzi Morti è venuto in studio a produrre un gruppo anche lui,
mentre noi stavamo incidendo. Tra l’altro noi stavamo registrando un disco in inglese, che è
già pronto, e stavamo buttando giù anche dei pezzi in italiano. La Tempesta ha dato l’ultima
spinta all’ago della bilancia per far sì che venisse fuori un album cantato in italiano, come
loro regola, così abbiamo dato l’OK, visto che avevamo questa proposta concreta. Loro
producono gruppi senza una sicurezza di un ritorno commerciale; tanto di cappello, perché
questi erano i sogni della nostra epoca, fare le etichette indipendenti e produrre i gruppi, ma
non c’erano i mezzi.
Quanto è stato emozionante il vostro ritorno sul palco?
Andare sul palco è sempre emozionante perché è il posto dove il musicista sta meglio. Più
emozionante però è stata la reazione della gente, per quella decina di concerti che abbiamo
fatto per presentare il box. Siamo rimasti, anche noi, abbastanza increduli di quanto certe
cose rimangano nel tempo e vengano valutate a volte più di quello che le fa. C’erano anche
molti giovani. Bello.
Contatti: www.myspace.com/frigidairetango
Francesca Ognibene
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Il Disordine delle Cose
Il Disordine delle Cose è una band, un disco, un oggetto imperfetto e prezioso. Cinque
ragazzi di Novara, ciascuno con il suo disordinatissimo curriculum a base di club, indie-rock,
cover band e musica assortita, che si ritrovano per tracciare un percorso inedito nei solchi
della canzone italiana: con un occhio ai cantautori e l’altro alle correnti del rock
anglosassone, molto vintage sia nel look che nei suoni. A fine 2009 hanno pubblicato il loro
primo album omonimo (Tamburi Usati/Venus), prodotto da Gigi Giancursi dei Perturbazione,
farcito di ospiti illustri e presentato in un tour che ha toccato diverse città italiane. Ecco
come, via e-mail e “collettivamente”, il Disordine racconta la sua storia.
Voi arrivate da Novara, profonda provincia, più o meno a metà strada tra il calderone
di Torino e la vetrina di Milano. Come si vive la musica lontano dai centri nevralgici
dell'impero? Si sente la spinta a traslocare, a trasferirsi nella grande città, in cerca di
altro pubblico e altri stimoli, o si riesce a coltivare la propria attività, magari al riparo
dagli eccessi e dalla frenesia metropolitana? Quali sono i pregi (anche creativi), i
difetti, le prospettive?
Novara è sicuramente una città di provincia, un grande dormitorio ordinato (anche troppo)
per persone che di giorno si muovono per lavorare altrove, soprattutto a Milano. Ha tutti i
pregi e tutti i difetti delle città di provincia. Dal punto di vista artistico e musicale non è mai
stata così vivace come in quest’ultimo periodo e, in effetti, questo è decisamente strano
perché non ci sono spazi dove portare tutto questo fermento artistico al pubblico. Ci sono
solo un paio di locali che, saltuariamente, fanno anche suonare dal vivo. Spostarsi da
Novara sembra essere quindi un percorso obbligato, che in effetti percorriamo spesso e
volentieri, ma la solitudine ci affascina e, anzi, la ricerchiamo sovente, soprattutto in fase
compositiva. Indubbiamente la grande città offre maggiori opportunità, ma la provincia può
facilitare un percorso artistico più intimo.
Il vostro album annovera una bella lista di collaboratori: Syria, Paolo Benvegnù,
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Carmelo Pipitone dei Marta sui Tubi, vari componenti dei Perturbazione (anche in
cabina di regia e produzione). Quanto è importante, per una band al primo disco,
essere accompagnata da artisti più esperti? Cosa vi hanno dato queste
collaborazioni, anche dal punto di vista della scrittura della musica?
E' proprio il primo disco del disordine delle cose, anche se ognuno di noi ha già fatto diversi
anni di gavetta in altre esperienze musicali indipendenti. Ma a questo album tenevamo in
modo particolare, come se fosse il frutto di un comune desiderio coltivato in tanti anni di
amicizia. Abbiamo scelto di condividerlo con alcuni degli amici più cari del panorama
musicale italiano, perché durante la scrittura della musica ci siamo accorti di quanto alcune
parti fossero particolarmente adatte per esaltare le doti di ognuno degli ospiti. Le loro
interpretazioni perfette (almeno per quello che noi ci aspettavamo) hanno infatti confermato
le nostre sensazioni, impreziosendo sicuramente l'intero lavoro. D'altra parte il contatto
diretto con artisti più esperti non può far altro che migliorare la buona riuscita di qualsiasi
progetto. L'esperienza è utile in qualunque campo, soprattutto in uno così complicato come
quello artistico/musicale italiano.
A proposito della scrittura, sul booklet dell'album ho visto che i brani sono segnati
come "scritti da il disordine delle cose". Mi potete raccontare come nasce una vostra
canzone? Esiste un processo definito?
Per quanto riguarda i testi cerchiamo di dare il massimo spazio alle emozioni dell'autore
principale, in modo che venga rispettata il più possibile la sua intenzione comunicativa,
anche se comunque , essendo molto legati tra noi, condividiamo diversi momenti che spesso
diventano la nostra maggiore fonte di ispirazione. Per quanto riguarda invece la stesura dei
brani dal punto di vista musicale, non abbiamo un vero e proprio percorso definito. Alcune
volte si parte da un'improvvisazione, altre volte da qualcosa di abbozzato da uno di noi, ma
la verità è che la forma viene plasmata da tutte le dieci mani e dalle cento dita insieme. Per
scrivere e completare quasi tutti i brani del disco abbiamo comunque avuto la necessità di
ritirarci in una piccola casa di montagna, dove siamo riusciti, con la dovuta concentrazione, a
creare l'ambiente ideale e il giusto amalgama, affinché fossero le emozioni pure ad essere
rappresentate nelle nostre canzoni.
Io vi ho visti suonare a Firenze, in un piccolo locale chiamato Caffè Montegrappa,
preceduti da una cover band abbastanza improbabile, con il batterista a mezzo
servizio, eppure ho trovato nel concerto alcuni punti a favore rispetto al disco. La
sensazione che alcune emozioni che sull'album appaiono un po' trattenute, forse
troppo curate e pulite, sul palco riescono ad emergere in tutta la loro forza. In certi
casi, ad esplodere. E questo vale sia per i momenti più vivaci, come “Don Giovanni” e
gli strumentali psichedelici, che per alcuni brani soft. Voi cosa ne pensate? Vi trovate
meglio su un palco o in studio?
Ci troviamo assolutamente meglio su un palco, dove riusciamo a dare sfogo a tutta quella
passione, che ovviamente, in fase di registrazione negli ambienti insonorizzati di uno studio,
fa più fatica ad uscire allo scoperto. Siamo convinti che il concerto sia il momento
fondamentale per poter comunicare con la musica. Quel momento magico in cui davvero si
possono far apprezzare le proprie doti artistiche che si adoperano per esprimere quelle
emozioni pure di cui si parlava prima. I palchi dei concerti sono anche stati il nostro banco di
prova più difficile, che ci ha portati poi alla registrazione del disco. Prima di entrare in studio,
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infatti, abbiamo fatto più di trenta concerti di supporto ad artisti già affermati, proprio per
avere un confronto diretto con il pubblico su quelle che potevano essere le nostre
prospettive musicali. Il risultato è stato confortante, altrimenti non saremmo qui a parlare del
disco...
Anche l'aspetto fisico, da "oggetto", del disco è molto curato. Un bel booklet
rettangolare, un’illustrazione per ogni canzone, l'idea di qualcosa in più rispetto a un
banale CD. Eppure, tanto per cambiare, la prima cosa che ho fatto è stata metterlo nel
PC, estrarre i brani e caricarli sull'iPod. E qui ho avuto un problema di tag: non
sapevo che genere mettere. Folk-rock? Cantautore? Rock? Pop novarese? Voi quale
avreste scelto? E quali sono le vostre maggiori ispirazioni musicali?
Per quanto riguarda il booklet, lo dobbiamo ammettere: siamo feticisti dell'oggetto musicale.
Alcuni di noi sono anche dei veri e propri collezionisti. Come non c'è quadro senza cornice,
non c'è disco senza contenitore. Questo non è un concept album, ma sicuramente affronta
temi vicini tra loro in ogni brano. Abbiamo cercato di creare un contenitore che fosse una
cornice non tanto distante dal suo contenuto; che fosse, se possibile, il quindicesimo brano e
che li contenesse tutti e quattordici. E' sempre difficile autodefinirsi in un genere.
Sicuramente facciamo musica italiana con un'attenzione particolare ai testi, sicuramente
abbiamo un'attitudine molto indipendente e, indubbiamente, abbiamo diverse influenze che
si mischiano e si modellano l'una all'altra. Influenze che contraddistinguono i percorsi
musicali e i gusti di ognuno di noi. Beatles, Nick Drake, Area, Pearl Jam e Sigur Rós
solo per citare alcuni nomi, senza dimenticare i grandi cantautori italiani, Luigi Tenco su tutti.
Anche molti degli ospiti presenti nel disco per noi sono stati prima di tutto fonte di
ispirazione.
Sono rimasto onestamente e felicemente impressionato dal numero di date del vostro
tour e dalla loro distribuzione geografica. Sono dell'idea che una band dovrebbe
suonare il più possibile, ma immagino quanto sia difficile trovare - con tutta questa
concorrenza - dei posti dove suonare, al di là del pub sotto casa. Voi come avete
fatto? E quali sono i progetti per il 2010?
Anche la nostra idea è di suonare il più possibile e, pur essendo consapevoli di quanto sia
difficile, cerchiamo di essere innanzitutto i primi “venditori” di noi stessi, attraverso una
intensa attività di promozione e di diffusione. A questo va aggiunto un lavoro certosino
dell'ufficio stampa, combinato con quello di ben due agenzie di booking (nell'ambiente
indipendente una non basta). Il tutto condito con una serie di contatti personali che ognuno
di noi ha collezionato in quasi dieci anni di esperienze live in Italia. La ricetta dovrebbe
essere questa, ma non sappiamo fornire la quantità esatta degli ingredienti. Nel 2010
ricominceremo a suonare dal vivo il 16 gennaio alla Maison Musique di Rivoli, la città natale
del disco, in provincia di Torino. Tante altre date in giro per lo stivale sono in programma
come nostro progetto principale e poi un altro ritiro in quella casetta di montagna ...
Immagino, ma magari mi sbaglio, che non riusciate ancora a vivere con la musica del
disordine delle cose. Cosa fate nella vita? Altri lavori a tempo pieno? Altre attività
artistiche o comunque legate al settore musicale?
Purtroppo, o per fortuna, ancora non viviamo di sola musica. Ognuno di noi ha la propria
professione e non senza fatica portiamo avanti entrambe. Purtroppo, perché sarebbe
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decisamente stimolante vivere solo di musica. Per fortuna, perché rimane sempre come la
seconda possibilità, quella da inseguire, quella accattivante, quella basata soprattutto sulla
nostra passione. Tra di noi il più vicino al settore musicale è sicuramente Alex (Alessandro
Marchetti, basso), che oltre ad essere un fonico è anche direttore artistico di un'agenzia di
comunicazione e organizzazione eventi. Ema (Emanuele Sarri, chitarre) è un grafico. Marco
(Manzella, voce) è un commerciale, praticamente un impiegato con la barba. Luca
(Schiuma, tastiere) è un autista a noleggio, qualcosa tipo un tassista, ma con i capelli lunghi.
Mentre Vinicio (Vinago) era alle Poste fino a poco fa, mentre ora lavora per una ditta
farmaceutica, ma solo quando non suona la batteria. Tutti comunque sempre a disposizione
della musica...
Contatti: www.ildisordinedelelcose.it
Luca Castelli
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La Fame di Camilla
La Fame di Camilla. Ovvero come far convivere felicemente pop-rock, canzone d'autore,
melodia, in una scrittura già matura al disco d'esordio. Un occhio all'indie e uno ai
palcoscenici più in vista per la formazione barese, perché gli steccati poco si addicono a una
realtà multiculturale come è quella composta da Ermal Meta, Giovanni Colatorti, Dino Rubini,
Lele Diana. Ne abbiamo parlato con i diretti interessati.
Siete un gruppo all'esordio che esce per una major. Come siete entrati in contatto
con la Universal?
Assolutamente per caso. Eravamo al MEI 2008 per ritirare il premio “Best of Demo”, la
trasmissione di Rai Radio 1, e abbiamo lasciato il nostro CD ad una persona che in seguito
abbiamo scoperto operare in ambito discografico. La stessa ci ha introdotto in Universal.
C'è chi vi ha definito una via di mezzo tra i Coldplay e Moltheni. Personalmente mi
trovo d'accordo, anche se aggiungerei qualche riferimento a una canzone d'autore sui
generis (penso, ad esempio, ai Perturbazione, almeno per certe cadenze). Sarei
curioso di sapere, tuttavia, che tipo di ascolti frequentate di solito...
Nessuno dei nomi che hai citato è esattamente l'ultimo arrivato, per cui ci fa un gran piacere
essere accostati in qualche modo ad artisti che stimiamo. Ascoltiamo Radiohead, Kashmir,
Death Cab For Cutie, Sigur Rós, Beatles, Coldplay, Afterhours, Cristina Donà,
Marlene Kuntz, Massive Attack, ecc...(la lista è lunga!!)
Vi siete candidati nella sezione “Nuova Generazione” di Sanremo 2010. Quanto
credete che possa tornare utile a un gruppo emergente una manifestazione come il
Festival?
Il Festival è importante come vetrina. In Italia credo sia la più ampia. L'utilità sta in questo.
Unite orecchiabilità e arrangiamenti equilibrati in un pop-rock che ha il pregio di
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suonare “facile” senza scadere troppo in ammiccamenti o furberie. Una via di mezzo,
insomma, tra certo indie melodico e suoni più ad ampio spettro. Come vi ponete nei
confronti della scena musicale indipendente italiana da una postazione che mi sentirei
di definire “privilegiata”, almeno rispetto alla media degli esordienti?
Noi non possiamo non sentirci "indie". Siamo nati così e lo siamo nel mood. Esordire con
una major non ti rende non-indie tanto quanto esordire con una indie non fa il contrario. Il
nostro spirito musicale è indipendente.
A chiudere il vostro disco pensa un brano cantato in albanese. Un semplice omaggio
ai natali del vostro front-man Ermal Meta o la scoperta di una musicalità che non
sfigura affatto accanto all'italiano o al più canonico inglese?
Questo brano rappresenta molto per noi. È la terra dell'incontro. L'albanese è una lingua
difficile, ma estremamente musicale. Se Birgisson canta in hopelandic allora anche noi
possiamo "snobbare" l'inglese..
In cosa credete che si misuri la credibilità di una band in un epoca in cui la musica –
purtroppo - è diventata un bene di consumo come tutti gli altri?
Il live.
Il video del vostro primo singolo “Storia di una favola” si è aggiudicato un premio per
la categoria “mainstream” al Premio Videoclip Italiano e un premio per il miglior
soggetto al Premio Italiano Videoclip Indipendente del MEI 2009. Eppure l'impressione
è che più che i concorsi e i canali tradizionali per la promozione del formato video,
possano fare internet, YouTube in testa. Cosa ne pensate?
Siamo assolutamente d'accordo. Infatti le votazioni per il PVI si effettuavano in Rete.
Internet è fondamentale per la promozione di una band. A volte un video fatto nella maniera
giusta riesce ad arrivare prima della canzone stessa...
Un'ultima curiosità quasi inevitabile: da dove nasce il nome del gruppo?
Da Feuerbach. "L'uomo è ciò che mangia". Così scriveva questo filosofo dell'800 e noi
abbiamo fatto nostro questo concetto. Fame di emozioni e di sentire. Sempre.
Contatti: www.lafamedicamilla.com
Fabrizio Zampighi
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The Maniacs
Toglietevi dalla testa Michael Sembello e “Flashdance”, qui si suona forte e veloce. Maniaci?
Sì certo, del punk-rock forse. Siamo parlando di un gruppo milanese che in tre anni ha fatto
molta strada, passando velocemente da un demo, a un EP autoprodotto, per arrivare al
primo album, pubblicato per Against’em All Records. Hanno risposto alle nostre domande
Riccardo Danieli, Davide D’Addato e Cisco Molaro, i tre componenti dei The Maniacs, che
per molti anni hanno militato per anni nella scena musicale indipendente del capoluogo
lombardo.
Nella Milano di tre anni fa nascono i “maniaci”. C’è un aneddoto che riassume il
vostro processo di formazione? E cosa mi dite della scelta del nome?
Davide: Proveniamo da diverse esperienze musicali e ci siamo trovati un po' per fortuna e
un po' per volontà. Io e Riccardo suonavano già insieme, Cisco è entrato a far parte del
gruppo tramite un amico in comune e un dopocena a base di biscotti all'uvetta. Prima del
disco ci chiamavamo Maniac Mansion, in onore a un videogioco cult degli anni ‘80, poi la
penalizzante assonanza con Marilyn Manson ci ha convinti ad optare per “The Maniacs”,
nome che peraltro ci rispecchia al 100%.
Riccardo: ...ed è anche più semplice da ricordare!
Che cosa offre il capoluogo lombardo a una band che si affaccia sulla scena
musicale indipendente? Vi caratterizzate per un legame con il territorio, con la città, o
vi sentite più “cittadini del mondo”?
Davide: Il territorio è per noi molto importante ma cerchiamo di guardare sempre al di la dei
confini italiani. Milano tanto dà quanto toglie.
Riccardo: Milano è una città che non è riuscita negli anni a formare un vasto pubblico con
una profonda coscienza critica; provincialismo e clientelismo regnano sovrani. I gusti
musicali e la partecipazione ai live rimangono dettati dalla moda del momento. Una volta le
novità musicali passavano principalmente per i centri sociali, vere fucine artistiche e culturali.
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Oggi le condizioni tecniche dei locali permettono a volte, di godersi degli ottimi live, manca
però un indirizzo politico/culturale che rende difficile la nascita di un rapporto duraturo tra la
richiesta del pubblico e l’offerta artistica di un locale.
Cisco: Vero, ma vero anche che essere nati a Milano ci ha dato l’opportunità di vedere in
azione la maggior parte dei gruppi che hanno formato la nostra cultura musicale. Non credo
sia solo frutto del numero dei suoi abitanti, mi piace pensare al fatto che ci siano ancora
numerose persone disposte ad investire sulla proprie passioni.
Parliamo di genere. Per la vostra vicinanza al punk-rock molti giornalisti vi hanno
accostato a band come The Fire e Rezophonic. Quali sono le band che hanno
influenzato il vostro suono e gli album che si sono rivelati essenziali per la vostra
carriera di musicisti?
Cisco: Avendo la stessa età e ascoltando principalmente musica rock, siamo stati
influenzati tutti e tre dai gruppi degli anni 80 e 90. Per essere “attuali”, in particolare
ultimamente mi sono piaciuti molto gli ultimi lavori di Beatsteaks e (International) Noise
Conspiracy.
Davide: Beh, diciamo che su questo tutti e tre potremmo dare un centinaio di nomi tra
gruppi e album, principalmente si passa dai Queen ai Foo Fighters, attraverso i Queens Of
The Stone Age e mille altri.
Il 2009 è l’anno del debutto. Il primo album si chiama “The Maniacs” e, a quanto pare,
ha riscosso un discreto successo tra critica e pubblico. Come è nato? C’è un tema
conduttore che riassume il disco?
Davide: Il tema conduttore è stato puntare esplicitamente a ritmiche solide condite da
melodie accattivanti. Avevamo una ventina di pezzi embrionali che poi sono stati arrangiati
attraverso delle vere full immersion in sala prove con Olly, il nostro produttore. Da qui il tutto,
minuto dopo minuto, ha preso forma. E' stata un'esperienza formativa, anche perché siamo
riusciti a lavorare con dei professionisti, tra cui il nostro fonico Fabio Intraina, che hanno
cesellato il nostro suono fino a farlo diventare un disco coi contro cazzi!
Riccardo: Abbiamo cercato di lavorare sulla contrapposizione tra la dimensione statica
della forma canzone e la dimensione dinamica della creatività del gruppo. Siamo amanti
della libertà e refrattari a qualsiasi sistema di pensiero, per questo le dodici tracce hanno un
sound ben delineato ma stilemi che abbracciano svariati generi musicali.
A quale brano siete più affezionati? Perché?
Cisco: Beh, io sicuramente sono affezionatissimo a “R.Democracy”, sia per la sua critica
all’omologazione sociale sia perché è stato il primo pezzo che abbiamo composto dopo il
mio arrivo nella band.
Davide: “This Co. Music!” è un pezzo che ha percorso un sacco di momenti della nostra
storia e che ha subito svariate evoluzioni senza mai perdere l'intenzione ironica e
dissacrante.
Riccardo: Eh già! Esistono almeno sette versioni differenti di quel brano! Anche in fase di
registrazione abbiamo apportato delle modifiche, è il nostro nodo Gordiano!
In poche parole, qual è secondo voi, il vero punto di forza di questo disco?
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Riccardo: L’immediatezza. La semplicità della scrittura.
Davide: Il groove.
Cisco: Non mi ha ancora stancato anche se oramai l’ho ascoltato centinaia di volte!
Sono rimasta piacevolmente colpita dalla veste grafica e dall’artwork del CD. Di chi è
il progetto grafico?
Riccardo: Ricordo di essere rimasto sbalordito alla consegna dell’artwok. Stilisticamente mi
ha subito portato alla mente il minimalismo dell’arte Ukiyo-e, che adoro, poi le foto,
abilmente destrutturate e infine il connubio tra fotografia e disegno grafico, il tutto unito da
anarchiche linee bianche astratte che attraversano le pagine della stampa. Uno dei grandi
pregi di certi artisti è proprio quello di riuscire a coniugare più forme d’arte tra loro. Con molta
umiltà, penso che Davide Donoli e Nicola Elia, i due veri e propri esecutori dell’opera grafica,
abbiano dato vita a un feticcio artistico che vale veramente la pena di avere.
“Join the band...be a Maniac!”: questo è il motto dello Street Team nato per
supportare la band The Maniacs. Mi potete raccontare qualcosa in proposito?
Davide: Un gruppo di fan si è unito e ha aperto questa pagina MySpace per creare una
community più unita e calda rispetto al semplice sito o MySpace istituzionale della band.
Ringraziamo in particolare Alessandro, Silvia e Cristina.
Cosa rappresenta per voi l’etichetta Against 'em All Records? Come nasce questo
connubio e che importanza ricopre nella storia della band?
Davide: L'etichetta è un vero e proprio laboratorio di lavoro in cui convergono grafici,
videomaker (a proposito vorremmo citare Paiuk, l'autore del video di “Changing Myself”) e
noi musicisti, più collaboratori che ci aiutano in tutto ciò che concerne l'attività della band.
Riccardo: Ci sono altri progetti in cantiere per il futuro, per ora l’etichetta sta cercando di
canalizzare tutte le sue energie sul progetto The Maniacs. Più in là vedremo.
Un altro punto di riferimento per la vostra attività artistica è Olly, leader dei The Fire...
Davide: È stato un incontro un po' casuale, volevamo fare il disco, cercavamo un
produttore, il nostro fonico lavorava con Olly in quel periodo e gli ha fatto sentire i provini del
disco. Diciamo che è stato subito amore a primo ascolto e tra noi e lui è nata subito una
grande sintonia in fase di arrangiamento tanto che ha prestato la sua voce in “This Co.
Music”.
Riccardo: È un gran lavoratore e un ottimo musicista. Sapeva che la nostra etichetta
metteva a disposizione un budget ridotto all’osso e ci ha messo anima e corpo per tutto il
tempo in cui sono durati i lavori in studio. Un aneddoto? L’ultimo giorno di lavoro in studio,
abbiamo registrato i cori e gli arrangiamenti, lavorando ininterrottamente da mezzogiorno
alle otto del mattino! Poi Olly ha una creatività molto ordinata ed equilibrata che ha tenuto a
bada i nostri impulsi creativi caotici.
Ultima domanda e poi vi lascio andare: leggo che ultimamente siete approdati al
piccolo schermo con la partecipazione al programma televisivo di Music Box “Doll’s
House”. Quali sono le vostre riflessioni in relazione a esperienze di questo tipo?
Cisco: Diciamo che, senza essere ruffiani nei tuoi confronti, ci siamo trovati sicuramente più
a nostro agio e forse con qualcosa in più da dire nel rispondere alle tue domande.
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Davide: La televisione è un canale comunicativo da non sottovalutare al giorno d’oggi.
Avendo un video in rotazione su Music Box, non potevamo sottrarci all'invito di “Doll's
House”. E' sicuramente un modo divertente per proporsi, farsi conoscere e pubblicizzarsi.
Contatti: www.maniacmansionmusic.com
Federica Cardia
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Vegetable G
Dopo due album di elettronica e la svolta pop new wave del terzo disco “Genealogy” (Olivia)
vede ritornare il trio pugliese guidato da Giorgio Spada alla voce e composizione, Luciano
D’Arienzo alla chitarra e basso e Maurizio Indolfi alla batteria. Un concept album dedicato
allo scrittore Italo Calvino che Giorgio ci racconta con la sua trasudante passione,
coinvolgente come la musica che propone.
Con un cognome così importante quale quello di Italo Calvino come titolo per questo
vostro album nuovo ti chiedo: quanto ha a che vedere con le vostre ispirazioni
compositive?
È stato fondamentale perché dopo i primi due dischi, di natura differente, per me è come se
si fosse chiuso un capitolo e se ne fosse aperto un altro da “Genealogy” e proseguendo con
“Calvino”: oggi ho capito che amo darmi delle motivazioni, partire da qualcosa, e sono
affezionato all’idea del concept album. A parte che Calvino è uno dei miei scrittori preferiti,
penso sia anche uno degli scrittori più rappresentativi del nostro panorama. Quello che ha
ispirato questo album è stato un suo libro in particolare, “Le Cosmicomiche”, che io consiglio
di leggere a tutti quanti. È un opera favolosa ed è divisa in piccoli racconti di una fantasia
estrema, così ci siamo chiesti perché non fare qualcosa che rispecchiasse un libro fatto in
quel modo, perché se è vero che un album musicale è fatto di tante piccole canzoni, di tante
storie, bastava lasciarsi ispirare da quei racconti che sono molto stimolanti. Mi si è accesa la
scintilla con “La distanza dalla luna”, racconto che mi tornava in mente di continuo
nell’autunno 2008. Di solito si prende spunto da un libro e si butta giù una sceneggiatura per
un film; farlo per un album poteva essere una cosa abbastanza originale.
Tu adesso componi le canzoni da solo, giusto?
Sì. Nel caso del precedente album, molte canzoni sono nate assieme a Maurizio e Luciano.
In questo caso specifico invece gran parte dell’album è stato composto da me a casa al
pianoforte, ed è infatti leggermente differente, più ragionato e personale rispetto a
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“Genealogy” che è stato registrato in presa diretta e suonato tutti assieme.
Voi vi sentite di appartenere al vostro tempo o potendo scegliere vivreste in un’altra
epoca?
Sinceramente sono abbastanza nostalgico e parlando anche per gli altri, il nostro bagaglio
culturale si riferisce molto al passato e credo questo si senta, ma comunque ti posso
garantire che i nostri ascolti non hanno limiti, ascoltiamo ben volentieri anche moltissima
musica nuova. Abbiamo parecchia attrezzatura vintage, però molte cose le facciamo da soli.
Anzi ti posso dire che tutti gli album li facciamo da soli. Sono io stesso aiutato dal resto della
band che piazzo i microfoni e quant’altro.
Ma la scelta di aggiungere strumenti “in più” da cosa è dettata?
Enzo Moretto degli A Toys Orchestra, che è nostro grande amico, è venuto da noi e siamo
stati insieme un po’ di giorni. Sai quando arrivi alla saturazione massima tanto che dici: “OK
basta adesso devo riposarmi non devo più sentire l’album perché devo capire”. In qui
momenti devi cercare di renderti esterno all’album, però non ci riesci mai, e allora lì è
importante che subentri una persona di cui ti fidi e che ti conosca anche abbastanza bene
che possa darti dei consigli e delle dritte molto importanti. La presenza di Enzo è stata
davvero fondamentale! E poi Leo Gadaleta, che è un ottimo violinista e violista, ci ha aiutati
in alcuni arrangiamenti, mentre in altri casi abbiamo usato archi finti perché ci piace anche
mescolare suoni sintetici. Siamo aperti.
Ma voi come vi approcciate alle canzoni, che nascono da te e si sviluppano assieme
agli altri?
Non è semplice. A volte ci chiedono come facciamo ad essere in tre se la persona che
suona la chitarra suona anche il basso. Dal vivo utilizzo un synth analogico abbastanza
vecchiotto che mi riproduce bene il suono dei bassi, quindi riesco a supplire il basso in alcuni
brani laddove Luciano suona la chitarra. Nell’arrangiamento è un po’ più complesso,
chiediamo subito un appoggio ritmico di base su cui ci si può tessere quello che si vuole con
le chitarre o con quant’altro, però fondamentalmente la prima cosa è l’impianto ritmico con
una voce d’appoggio, in maniera tale che si possa già capire in che direzione andare e se il
pezzo ha il suo giro che funziona. Maurizio anche se è il più giovane di noi tre ha appreso
moltissimo dagli anni 70 ed è uno sperimentatore di nuove ritmiche pur rimanendo nell’ottica
del pop.
Tornando al disco qual è la canzone che lo rappresenta maggiormente?
Sicuramente “American Lesson” che trae ispirazione da un altro libro di Calvino che di
chiama appunto “Lezioni americane”. E abbiamo pensato a tutto il giro che i nostri
compatrioti italiani fecero agli inizi del secolo se non addirittura prima, al viaggio verso
l’America; e Calvino è stato uno che ha esportato la nostra cultura, quella italiana, ma anche
quella europea più in generale partendo anche da quella greca, attraverso questo racconto
che è “Lezioni americane” che parla degli Stati Uniti e vuole essere anche una metafora
rispetto anche al cambiamento politico avvenuto là ultimamente. Non parlo di destra o di
sinistra, ma lo dico a prescindere da tutti quanti quelli che si avvicendano al governo.
Sarebbe bello se vivessimo anche noi un’aria di cambiamento.
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Dove avete registrato il disco?
Il disco l’abbiamo registrato dove proviamo. Abbiamo registrato tutti gli impianti ritmici,
quindi batteria e basso in un garage che abbiamo attrezzato a studio perché è insonorizzato
ma non come si può immaginare. Noi siamo un po’ roots e abbiamo usato dei cassoni che
predisposti in modo “strategico” liberano un’acustica davvero particolare. Ci piace come
vengono i suoni della batteria poi succede che hai una tranquillità di base con i tuoi tempi.
Certo a volte può essere penalizzante. Non lo so. Probabilmente la prossima esperienza
sarà in studio.
Contatti: www.myspace/vegetableg
Francesca Ognibene
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A Spirale
Agaspastik
Fratto9 Under The Sky/Deserted Factory
L'ultimo lavoro dell'ensemble napoletano si muove ancora una volta su un terreno che il trio
non solo conosce molto bene, ma continua a perlustrare con particolare acume e voglia di
sorprender(si): improvvisazione radicale, free jazz, jazz-core, un uso dell'effettistica mai fine
a se stesso e proiettato in avanti, non semplice disturbo sonoro o destabilizzazione ma parte
integrante del tutto. Maurizio Argenziano (chitarra), Mario Gabola (sax) e Massimo
Spezzaferro (batteria) sembrano avere trovato una terza via tra la potenza di fuoco degli Zu
e quell'area sperimentale e difficilmente riconducibile a generi e canoni che attraversa un
parte consistente del catalogo Wallace. Il risultato, visto che è sempre quello che conta al di
là delle intenzioni e del bisogno di battere nuovi sentieri, è eccellente. Ci sono momenti in cui
il ribollio si muove appena sotto la superficie (il tappeto di percussioni sempre sul punto di
esplodere di “Kaluli”, che crea suggestioni orientali e dà una forma credibile all'inquietudine),
altri in cui gli schemi sono più leggibili nell'immediato (il fuoco di fila chitarra-sax-batteria
dell'iniziale, violentissima “Black Crack”, nel mezzo tutte le possibili sfumature. Tirando le
somme, nella innegabile difficoltà di trarre nuovi spunti da certi schemi liberi gli A Spirale
riescono ancora una volta a portare a casa il risultato.
Contatti: www.a-spirale.blogspot.com
Alessandrto Besselva Averame
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Acid Brains
Do It Better
Fridge/Goodfellas
Nati nel lontano 1997, i lucchesi Acid Brains tornano sulle scene con quello che è il loro
terzo album ufficiale, se si escludono alcuni demo registrati tra il 2000 e il 2002: “Do It
Better” è il più che onesto ritratto di una band che ha attraversato gli ultimi quindici anni
assimilando varie gradazioni di rock, dal grunge allo stoner, al noise più robusto e squadrato,
finendo per risputare fuori un rock solido che è forse più alternativo nelle intenzioni che nei
risultati, e che si fa più coraggioso soprattutto quando sperimenta l'utilizzo dell'italiano, pur
risultando al momento più convincente con la lingua inglese (bella, in particolare, “Smoke
Cigarettes”). L'impatto come abbiamo detto è notevole, le canzoni ben registrate.
L'originalità, che comunque non fa parte delle intenzioni di partenza del gruppo, non appare
molto spesso, ma se si è alla ricerca di un rock compatto ed energico quanto basta, con
qualche trascinante e innodico spunto melodico ben piazzato tra una rullata e un riff, allora
gli Acid Brains possono fare al caso vostro. E canzoni come “Again”, con un aroma di
Seattle piuttosto persistente ma non stucchevole, e la autoesplicativa fin nel titolo “Some
Reggae For Rock'n'Roll People”, che parte settantasettina e sfocia in un ritmo in levare
d'obbligo, hanno decisamente un loro perché.
Contatti: www.acidbrains.com
Alessandro Besselva Averame
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Airìn
Il regalo
Adesiva Discografica
Le donne diventano insopportabili quando si innamorano della persona sbagliata, perché
vivono intensamente anche il primo minuto – a differenza degli uomini che hanno i loro tempi
lenti per arrivare all’idillio (quando ci arrivano) –, spendono energie, si danno, si espongono,
cercano nuovi originali rimedi, chiedono consigli alle amiche, mettono i fiori freschi, puliscono
la casa, si annullano per l’uomo e poi, dopo tutto questo, pretendono un sì ma si piangono
addosso perché non arrivano ad ottenere un piffero e restano sole. I meccanismi tra uomini
e donne sono banali visti così, e invece Airìn, ovvero Irene Maggi, è riuscita a lasciare il suo
tocco descrivendo questi piccoli momenti a volte drammatici nell’arco di nove tracce (di cui
l’ultima cantata in inglese) e dispiegando le emozioni dal punto di vista di una donna che
cambia, meritando attenzione per la raffinatezza di queste melodie, anche se forse manca
un po’ di rabbia. È una scelta raccontare la parte oscura della donna “vittima”, ma la donna
che reagisce dov’è? Comunque sia, “Il regalo” è solo il debutto di questa giovane ragazza
milanese alle prese con diversi strumenti, tra cui violini ma anche giocattoli; tuttavia il suo
strumento è la voce che dà espressione alle parole. Questo disco potrebbe diventare un
musical, forse troverebbe la sua giusta collocazione. “Stasera” la vedo già rappresentata con
i suoi personaggi e la luna, la solitudine e le parole che rimangono in bocca e diventano
rimpianti. Parafrandola, “Ti amo da due giorni ma mi sembra già abbastanza per girarti
attorno per anni”. Appunto.
Contatti: www.myspace.com/irenemaggi
Francesca Ognibene
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Akkura
Brucerò la Vucciria col mio piano in fiamme
Flaccovio
Il rock’n’roll arrembante della title track e la sinuosità negroide di “Vicoli vicoli” aprono
piacevolmente il nuovo lavoro degli Akkura, un ambizioso puzzle musical-letterario con libro
accluso di un centinaio di pagine. Non un’analisi sociologica su Palermo, ma un affresco
contemporaneo che racconta il capoluogo siciliano in musica e parole, attraverso dieci
canzoni e altrettanti racconti. Questi ultimi opera di scrittori emergenti o di nomi affermati
come il musicista Cesare Basile, il disegnatore Sergio Algozzino e il drammaturgo Davide
Enia. Registrato in Brasile, lontano dall’Italia per ritrovare la giusta distanza, l’album è una
dichiarazione amorosa per Palermo e i suoi quartieri – la Vucciria, la Kalsa – e un atto
d’accusa verso le “ristrutturazioni” furbe e selvagge che rubano l’anima ai vecchi quartieri,
snaturandone la storia. In alcuni brani si respira un palpito da America latina: una tromba
mariachi in “Kalsamex”, una ritmica vagamente salsa in “Attore meridionale”. Muta il punto di
vista assunto: a volte è quello dei muratori, che sui tetti degli antichi palazzi tutto osservano
dall’alto (“Benefattore”, in un’atmosfera d’anteguerra e circense alla Capossela); altre è
quello di un pittore cieco (“Chiedilo a Nick Cave”). Moreno Veloso è special guest in metà dei
pezzi, alle prese con violoncello, basso e percussioni; Arto Lindsay in due. Insieme, Veloso e
Lindsay collaborano nella ondeggiante e ipnotica “Diquembra”.
Contatti: www.myspace.com/akkura
Gianluca Veltri
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Numero Gennaio '10
Betzy
Romancing The Bone
Lady Lovely/Audioglobe
“Romancing The Bone” ha un percorso particolare alle spalle. Scaturito nel 2006 da
un’intuizione di Fabio Cussigh (voce, chitarra acustica, organo, ukulele e percussioni), il
progetto è stato delineato a New York ed è poi passato nelle mani di Ru Catania (Africa
Unite, Wah Companion), che ha prodotto, registrato e mixato il tutto al Lady Lovely Studio di
Pomaretto, occupandosi al contempo di chitarre assortite, mandolino, synth, basso e
programmazione. La piacevole ricetta è a base di un blues scarno e abbastanza classico,
dal respiro internazionale, arricchito comunque dal contributo di altri musicisti alle prese con
batteria, piano, sax e vari strumenti. Ecco così che “Just A Call” si presenta come un
interessante biglietto da visita, mentre “Suze K” flirta con sonorità british, la waitsiana
“Goldfinger” intraprende binari roots con tanto di archi, “Night Jersey” plasma un fantomatico
jazz da saloon utilizzando tasti e fiati, “Sisters Are Better” opta per l’energia e “Don’t Shit On
My Rainbow” per l’intimismo. Le stramberie arrivano con l’incedere ombroso, moderno di
“Shopgirl”, i toni cantautorali sporcati con handclaps ed effetti sbarazzini di “Little Student” o
lo storytelling schizoide di “Gay Bar”. C’è persino un giocoso sfondo concettuale, se Betzy
sta a rappresentare il diario del “giovane peccatore Frank McKlusky”, che “racconta la storia
di sé e del suo antagonista, il Reverendo Crawford, che ogni giorno cerca di salvargli l’anima
e di bere tutto il suo whiskey”.
Contatti: www.myspace.com/betzybetzy
Elena Raugei
Pagina 30
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Numero Gennaio '10
Claudio Rocchetti
The Carpenter
Wallace/Boring Machines
Claudio Rocchetti è un personaggio difficilmente etichettabile, e questo è quasi sempre un
buon punto di partenza: componente dei 3/4 Have Been Eliminated e da sperimentatore
sonoro in proprio, impegnato nell'accostare e ricomporre fonti sonore varie: vecchi giradischi
mandati in loop, elettricità statica, field recordings, microfoni e fonti sonore difficilmente
classificabili, ma anche strumenti più classici. Una sorta di implementazione dei dettami della
musica concreta, accompagnata da una predilezione dichiarata per tutti quegli spazi in cui la
presenza umana ha lasciato solamente una eco lontana. Un vago riverbero che viene colto
perfettamente da questo “The Carpenter”, l'ultimo lavoro a suo nome, otto composizioni alle
quali prendono parte ospiti come Jukka Reverberi (Giardini di Mirò) alla chitarra, Stefano
Pilia (Massimo Volume) al contrabbasso, la cantante Margareth Kammerer: elementi,
costoro, che aiutano a concretizzare una idea di musica apparentemente evanescente ed
estemporanea (con qualche traccia sonora a cui aggrapparsi, di tanto in tanto: una chitarra,
un violoncello, un'arpa, una voce), in realtà organica e capace di creare forti suggestioni.
Cosa che avviene, ad esempio, nella meditativa “Anna”, in una “Northern Esposure” che
getta ponti in direzione di certo post-rock scheletrico ed isolazionista, nella brevissima e
spettrale “Altopiano”, il commento sonoro perfetto per un horror metafisico, e nella
impressionante “Mendellshon”, con le note di un pianoforte e di una chitarra sparse per
l'etere e ricondotte da una ragnatela invisibile ad una qualche forma di ordine.
Contatti: www.myspace.com/claudiorocchetti
Alessandro Besselva Averame
Pagina 31
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Numero Gennaio '10
Collettivo Dedalus
Mari
Zone di Musica/Egea
Attivi da oltre un ventennio, i Dedalus hanno cambiato vita e pelle più di una volta,
attraversando incarnazioni folk traditional per poi approdare a un maturo etno-world
contaminato. Una rielaborazione sperimentale delle radici, che non deroga mai alla pienezza
lirica. Il nuovo lavoro è il primo ad apparire dopo la scomparsa del poeta-giornalista Enzo
Costabile, autore dei versi in dialetto calabrese. Il Collettivo Dedalus riporta oggi tutto a
casa, riprendendo anche composizioni dei precedenti lavori ”Dedalus” e “Baghdad” e
musicando versi del compianto paroliere. È ancora la chitarra battente di Mario Artese – è
ancora la sua voce dolente e orgogliosa – il marchio di fabbrica dei Dedalus. I versi secchi,
arcaici, sanguigni sono sostenuti da un impianto etno-fusion consapevole, un crossover che
copre un range vasto, dal jazz al progressive alla musica da camera. Sulla formazione-base
dell’attuale organico – un settetto – si innestano contributi di valore, tra i quali il sax soprano
di Nicola Pisani, il taman di Baba Sissoko, la chitarra fretless di Lutte Berg. Alta è l’intensità
che l’ensemble riesce a raggiungere, nell’ipnotico sovrapporsi di corde del canto d’assenza
“Nun vuogli escia” – Checco Pallone alle chitarre – come nel mesmerico sussurro che parla
al dormiente nel madrigale “Lu sonnu”. Mare che strema, risacca, un senso di estremo
arcano che però è sempre presente; terra e argilla, riscatto e carezza, amarezza. Di questo
è fatto il mondo dei Dedalus. Il controllo degli ingredienti è rigoroso, eccellente la cura dei
particolari e degli arrangiamenti.
Contatti: www.collettivodedalus.com
Gianluca Veltri
Pagina 32
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Numero Gennaio '10
Dario Antonetti
Il ritorno del figlio dell’estetica del cane
UdU
Di norma in questo spazio non ci occupiamo di ristampe, men che meno di lavori usciti da
appena un paio d’anni. Però ci sono casi per i quali si mandano volentieri al diavolo le
regole. Ecco, il ritorno – con titolo ampliato e scaletta rimpinguata di tre inediti registrati tra il
1995 e il 2004 – de “L’estetica del cane”, il primo lavoro in proprio del “cantautore
psichedelico” Dario Antonetti, merita tutta l’attenzione possibile. Già membro di formazioni di
culto come Kryptasthesie, Acidi Tonanti ed Effetto Doppler, nonché animatore del
“Vegetable Man Project”, Antonetti è artista quanto mai originale e personale, pur
appoggiandosi a stilemi tutto sommato classici. Le sue sono ballate (sovente dal retrogusto
barrettiano) costruite sulla chitarra acustica, con sezione ritmica e un tocco di calda elettricità
ad abbellirle e solidificarle, ma sempre con qualcosa al loro interno a renderle insolite,
speciali, uniche. A volte si tratta di un improvviso scarto strumentale o di una scelta di
arrangiamento imprevedibile; più spesso la differenza la fanno i testi, introspettivi ma con
ironia, a tratti un poco surreali, altre sferzanti (specie quando l’argomento è la scena
musicale nostrana, come nel caso de “L’artista indipendente” o “Ho smesso la distro”). Canta
anche d’amore, Antonetti, tenendosi lontanissimo da qualsivoglia luogo comune, e già
questo basterebbe a far capire lo spessore del personaggio. Chi ancora non lo conoscesse
ha l’occasione giusta per rimediare.
Contatti: www.myspace.com/darioantonetti
Aurelio Pasini
Pagina 33
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Numero Gennaio '10
Die Transfer
Plastic Machine EP
Garage Studio
I Die Transfer nascono dalle costole e dalle ceneri di Wetfinger Operation e Moofloni, gente
già avvezza a sonorità revival new wave e post-punk. Mancava giusto quel pizzico di
shoegaze per completare l'opera, ma nel “Plastic Machine EP” il quartetto trevigiano impasta
gli ingredienti ed esce appena un po' dalla nostalgia per tentare lo stato dell'arte. Le
atmosfere si dilatano in maniera quasi epica nell'incipit di “Dark Place”, una sorta di
cavalcata shoegaze suonata dagli Interpol, e la successiva “The Villain” rincara la dose
rendendo l'aria più cadenzata. C'è un bel po' di Joy Division nel disco, molta di quella rabbia
opulenta e suburbana che sfocia nelle litanie à la Ian Curtis, come in “Sunrise”, che a
dispetto del nome è quasi uno scivolare melanconico verso l'oscurità di un basso tenebroso
e uno sferragliare di chitarre sempre più carico di tensione. Poi arrivano “Changing Our
Ways” e “Love You Shave You Loose You”, e tornano gli Interpol, accompagnati da quello
sguardo appena posato sulle scarpe e una ridda di tastiere prese di peso dagli anni ottanta e
appoggiate su un tappeto di chitarre effettate, una batteria diligente e una voce che nel
riverbero trova la sua dimensione. Sebbene la tentazione sia forte, non prenderei sotto
gamba i Die Transfer bollandoli come semplici emuli della nuova schiera revivalistica dagli
Interpol agli Editors. Li prenderei sul serio, invece, e attenderei un album vero e proprio.
Almeno prima che i tempi cambino ancora, prima che arrivi un revival del revival.
Contatti: www.myspace.com/dietransfer
Marco Manicardi
Pagina 34
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Numero Gennaio '10
Erica’s Fall
The Art Of Noise
Badchili Records
Album d’esordio per gli Erica’s Fall, gruppo di Piacenza formatosi nel corso del 2006 e
composto da Davide Magnani (voce), Tommaso Tabaglio e Paolo Bassi (chitarre), Davide
Confalonieri (basso) e Federico Merli (batteria). Come si può facilmente intuire a partire dal
programmatico titolo, “The Art Of Noise” punta su sonorità elettriche decisamente robuste,
ma l’altra faccia della medaglia parla di melodie non di rado orecchiabili. Non è un caso se il
comunicato stampa cataloga il lavoro all’indicativa voce pop hard rock, sebbene i generi
lambiti vadano dal crossover al funk. Co-prodotto insieme a Marco Gandolfi e Giancarlo
Boselli, il disco risulta compatto e vigoroso, ben suonato in virtù della formazione
classica/accademica dei cinque musicisti. Le note dolenti arrivano su due fronti: da una parte
abbiamo a che fare con una formula derivativa che per adesso non controbilancia con
sufficiente personalità, dall’altra con un incrocio a tratti non esattamente esaltante fra Foo
Fighters e power-punk alla Blink 182. Se i pezzi trascinanti (“Vertical Space”, primo singolo
con videoclip curato da Marco Sgorbati, oppure “Never Turn Back”) convincono in media più
delle semi-ballate, il conclusivo esperimento “Questione di scelte”, in compagnia del duo
ET3 che rappa in italiano, risulta davvero imbarazzante e oltretutto stona con il resto del
programma. Le energie non mancano, ma andrebbero affinate, incanalate in composizioni
maggiormente originali e incisive. Restiamo in attesa.
Contatti: www.myspace.com/ericasfall
Elena Raugei
Pagina 35
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Numero Gennaio '10
Fjieri
Endless
Forward Music Italy/Goodfellas
Pronunciamola subito, la parolaccia, così non dovremo più farlo nel corso della recensione:
progressive. È quello l'imprinting dei romani Fjieri, progetto nato da Nicola Lori (chitarre),
Stefano Panunzi (tastiere), Angelo Strizzi (batteria e percussioni) ed Elio Lori (basso), del
quale è entrato a far parte in pianta stabile anche un nome di un certo peso, Richard
Barbieri. L'ex tastierista dei Japan, attualmente in forza ai Porcupine Tree, si è appassionato
agli strumentali della band, inserendosi perfettamente in un impianto musicale che si muove
sui binari di una comune sensibilità: sonorità sofisticate ad un passo dal patinato ma
elegantemente essenziali, un’attenzione non comune per il dettaglio d'atmosfera, una abilità
strumentale a tratti forse un po' esibita ma, come abbiamo detto, abbondantemente entro il
limiti del buon gusto, la volontà di arricchire le proprie tessiture con gli spunti forniti dagli
ospiti. Uno, in particolare, lascia una traccia memorabile: Andrea Chimenti, felice come un
topo nel formaggio di abitare le atmosfere alla David Sylvian (quello pre-svolta glitch
ovviamente) di un brano sofisticato come “Ad occhi chiusi”. Il resto del disco è di buon livello,
tra ambient, spezie etniche, chitarre sottili e proiettate verso spazi infiniti, basso e batteria
magari lievemente datati (certi suoni da tardi anni 80 sfuggono tra le maglie qua e là) ma
capaci di ancorare con una certa solidità le trame a tratti (volutamente) sfuggenti degli
strumenti.
Contatti: www.forwardmusicitaly.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 36
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Numero Gennaio '10
Fukstar
Io e te col petrolio in gola
Top Faiv
Sandro Palazzo è uno che la musica ce l’ha nel sangue. Altrimenti non avrebbe continuato
a scrivere canzoni, suonare dal vivo e fare dischi per tutto questo tempo. Lo ricordiamo,
infatti, giovane chitarrista e primo motore dei Lova, titolari di un unico album – “21 giorni
lunghi 21 anni” – uscito una decina d’anni fa per la Gina Dischi e quindi di una serie di
demo/autoproduzioni interessanti ma purtroppo scarsamente visibili. Lo ritroviamo ora alla
guida dei Fukstar, ragione sociale che condivide con il batterista Marcello Semeraro,
anch’egli con un passato nei Lova (a registrazioni ultimate si è aggiunto alla formazione il
bassista Mimmo Putignano), e la grinta e l’entusiasmo sembrano quelli di allora. Anzi, lo
sono, filtrati ma non certo mitigati da un decennio di esperienza (e di vita) in più. Il primo
punto di riferimento, ancora una volta, potrebbero essere i Diaframma, tanto nella ricerca di
linee melodiche non consuete quanto nel ricorso a stilemi compositivi non necessariamente
aderenti ai canoni della forma-canzone tradizionale, mescolati a un’estetica vicina a certe
ruvidezze tipiche della scena alternative statunitense degli anni 80. Partendo da qui, il duo
brindisino costruisce un percorso personale all’insegna di un rock d’autore nervoso, in cui la
grinta guizzante e gli arpeggi circolari delle elettriche si intrecciano col suono delle chitarre
acustiche per dar vita a scenari in cui urgenza e maturità vanno di pari passo. Composizioni
brevi, di durata talvolta inferiore ai due minuti, che dicono quel che devono dire senza tanti
fronzoli: una raffica di istantanee sentimentali e personali, che si esaurisce nel giro di
appena venticinque minuti; e, appena terminata, si ha la sensazione che neanche un
secondo sia andato sprecato.
Contatti: www.myspace.com/fukstar
Aurelio Pasini
Pagina 37
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Numero Gennaio '10
I Got A Violet
Backwash
New Model Label/Audioglobe
Se la Via Emilia è la spina dorsale della Pianura Padana, allora il Po è il collettore dei suoi
scarti, una specie di discarica mobile che prende i resti della società post-industriale e li
porta al mare, così come porta al mare le influenze anglosassoni che corrono per l'Emilia, la
quale, dicono, è un po' come il far west. Proprio lì, nel delta sterminato del grande fiume, si
forma la risacca (“backwash”) e lì arriva ogni sorta di manufatto umido e macilento per il
lungo viaggio. Sempre lì, tra cumuli di oggetti melmosi, nasce il trio degli I Got A Violet, che
di quegli oggetti si nutre, come di garage, punk, rock cattivo degli albori e psichedelia.
Chitarre che tagliano e non disdegnano distorsioni vintage, feedback sui finali e flanger,
batterie scatenate, gole ora tirate ora rilassate, come nel primo singolo “Swing Swang” e
nella finale “Junk Elevator”. Ma nella risacca si trovano anche oggetti graziosi e pop, e così
le melodie quasi britanniche – che per via della melma rimangono inevitabilmente sporche –
di “Brand New Dance”, “Glitter Hairspray” e “First Moon”. Il tutto è corredato da un artwork
suggestivo, che è appunto una piccola collezione di attimi e di oggetti trascinati dalla
corrente del fiume e depositati così alla rinfusa sulle spiagge del delta. I Got A Violet sono il
risultato di più di cinquant'anni di sonorità anglosassoni esportate in tutto il globo e di millenni
di erosione tranquilla e inesorabilmente distorta dalle abitudini parassitarie del nostro tempo.
Se dal letame nascono i fior, dal pattume il rock'n'roll.
Contatti: www.myspace.com/igotaviolet
Marco Manicardi
Pagina 38
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Numero Gennaio '10
Icydawn
A Personal Choice Of Demo(n)s
Revenge
Icydawn è il progetto del multistrumentista ticinese Sacha Rovelli il quale, dopo dieci anni di
attività più o meno sotterranea parallela a quella di chitarrista per una lunga sfilza di band
rock che non hanno lasciato molte tracce, ha deciso di radunare in questa antologia di brani
in proprio usciti su vari formati (cassetta, CD-R) o rimasti nei cassetti. Lo fa grazie al
contributo di una etichetta italiana impegnata a muovere i primi passi, la Revenge Records,
e con la collaborazione non solo limitata alla parte grafica della varesina Aimaproject. Le
radici di questi brani vanno in profondità nella scena new wave e industrial di trent'anni fa,
ma con una certa versatilità di forme e suggestioni. Dalle desolate e plumbee lande
ambient-isolazioniste di una lovecraftianamente intitolata “Shguorrubwaegammoh”, suoni
fluttuanti e un basso iperdistorto a fornire una minima cadenza, alla cassa dritta di “An Icy
Dawn 2009”, alla sfacciata cavalcata electro-punk “Trends”, al noise lievitante della
lancinante “Death By Overdose”, tutto riconduce ad una visione claustrofobica ma aperta al
mondo esterno (che si infiltra sotto la porta attraverso voci umane, suoni, campioni assortiti).
Nel suo genere, un'ottima carrellata, meritevole di attenzione.
Contatti: www.myspace.com/anicydawn
Alessandro Besselva Averame
Pagina 39
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Numero Gennaio '10
Kalweit And The Spokes
Around The Edges
Irma
Artista americana che ha instaurato un duraturo rapporto con l'Italia (non solo vocalist ma
anche pittrice), Georgeanne Kalweit frequenta la nostra scena musicale da un po' di anni.
Presenza versatile (ha inciso un po' di dischi con i Delta V, tra le altre cose), la cantante
statunitense dà ora vita ad un interessante progetto, coinvolgendo un altro nome noto, il
batterista (e organista) Leziero Rescigno, già con La Crus e Amor Fou tra gli altri, e il
chitarrista Giovanni Calella. Un trio che interpreta al meglio le influenze dichiarate:
alt-country, post-punk, blues. Non ce la possiamo cavare con così poco, però. Se della vena
un po' noir che attraversa i generi citati e inzuppa il progetto ci fa fare un viaggio mnemonico
tra le discografie di Nick Cave, Gun Club e Hugo Race, è la scrittura attenta e personale a
spiccare, la capacità di generare atmosfere nutrite da idee di una certa sostanza. La line-up
ridotta aiuta a scremare qualsiasi nota di troppo già in partenza, e qualche idea ispirata fa il
resto: la lenta e minacciosa “Curtains” è tormentata da una struggente linea melodica che
arriva quasi a tradimento facendo capitolare eventuali resistenze dell'ascoltatore, “Ice Man”
si inventa uno splendido numero Sixties, tra Phil Spector e Stuart Murdoch, e basterebbero
queste due vette per invogliare ad una escursione sull'altipiano attiguo.
Contatti: www.myspace.com/kalweitandthespokes
Alessandro Besselva Averame
Pagina 40
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Numero Gennaio '10
Magpie
Noir Or Several Murders In Sleepless Nights
DeAmbula/I Dischi del Minollo
Più che un mero side-project, i Magpie sono a tutti gli effetti “l’altra band” di Daniele Carretti
degli Offlaga Disco Pax, mente e motore di questo progetto dal 1998. Un percorso
sotterraneo, quello dell’ensemble – dopo una serie di cambi di formazione, ad affiancare il
leader, qui anche in veste di cantante, troviamo Valentina Foroni al basso, sostituita dal vivo
da Francesca dei FuckVegas – che dopo alcune autoproduzioni sfocia finalmente nel
debutto discografico vero e proprio. Come suggerito dal titolo, “Noir Or Several Murders In
Sleepless Nights” non è esattamente un disco solare, ma neppure completamente plumbeo,
visto che, in un contesto sonoro liquido in cui le tonalità sono comunque abbastanza fosche,
le melodie risplendono purissime nella loro eterea fragilità. Stilisticamente siamo dalle parti
dello shoegaze meno urticante, con la voce sognante di Carretti (o dell’ospite DJ Donut dei
Fou in “Empty Places”) ad appoggiarsi a languidi tappeti di tastiere e chitarre, a volte pulite e
altre opportunamente sporcate dalle distorsioni, mentre a scandire il ritmo ci pensano battiti
sintetici e ad abbellire ulteriormente il tutto ci sono gli archi di Nicola “Bologna Violenta”
Manzan. Guardano a istanze passate queste canzoni – frutto prevalentemente di
registrazioni domestiche – ma riescono a collocarsi in un limbo lunare fuori dal tempo e
quindi sempre attuale. Senza sussulti, ma anche senza reali punti deboli, un disco
all’insegna di un indie-pop raffinato, dilatato e suggestivamente evocativo. A partire da una
“Now You Leave Me?” in grado di struggere i più duri dei cuori.
Contatti: www.myspace.com/magpienoir
Aurelio Pasini
Pagina 41
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Numero Gennaio '10
Micol Martinez
Copenhagen
Discipline/Venus
Micol Martinez giunge all’esordio discografico con “Copenhagen”, realizzato nel corso degli
ultimi due anni e impreziosito dai disegni di Robert Herzig. Dopo essersi cimentata con
pittura e recitazione (a teatro, nel film “Tagliare le parti in grigio” di Vittorio Rifranti e nei
videoclip di La Crus o Negrita), l’eclettica artista passa dall’essere una DJ a una cantautrice,
che si occupa così di musica e testi cimentandosi con esiti convincenti al microfono, forte
delle precedenti collaborazioni con Cesare Basile, Dave Muldoon e Garbo. Prodotto dallo
stesso Basile, che imbraccia tutte le chitarre, con la partecipazione di Luca Recchia, che
suona invece basso, tastiere e pianoforte, l’album miscela dissonanze rock (la title track,
“L’ultima notte”), suggestioni filo-folkie (“Mercanti di parole”), intimismi cesellati con eleganza
(“Il vino dei ciliegi”, “A guado” e “Donna di fiori”), ballate avvolgenti (“Stupore”, la jazzy
“Testamento biologico”) e parole ricercate (la movimentata “Il cielo” racchiude una citazione
di Nazim Hikmet). Una prova senz’altro apprezzabile e di pregevole fattura, anche perché
rivolta a una forma-canzone tutt’altro che immediata e banale. L’eccellenza esecutiva è
garantita dalla presenza di Enrico Gabrielli ai fiati e Rodrigo D’Erasmo ai violini, ma sono
stati chiamati a contribuire anche Roberto Dell’Era, Fabio Rondinini, Alessio Russo e Alberto
Turra. La prima tappa di un viaggio che in futuro potrebbe condurre a destinazioni ancora più
affascinanti.
Contatti: www.myspace.com/micolmartinez
Elena Raugei
Pagina 42
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Numero Gennaio '10
Primochef
Bouganville
autoprodotto
Secondo album per la band di Cagliari che si presenta senza la seconda parte del nome
“del cosmo” che rimarrà un ricordo per chi ha avuto modo di conoscerli sin dall’esordio
omonimo, pubblicato per Desvelos nel 2008, seguito di un primo singolo rimasto tra i loro
pezzi migliori, ovvero “Per rispondermi”. “Bouganville” porta con sé un fondamentale
cambiamento: il luogo della composizione e registrazione delle canzoni, avvenuta al N.H.Q.
di Ferrara, dove, lontano da casa, in un mese intenso di prove, il quintetto si è riavvicinato
alla bellezza delle liriche di quella sua primissima prova, il singolo e che nel primo disco non
avevo trovato pienamente colta. I Primochef hanno condotto a briglie strette questo percorso
artistico che sembra averli esauditi per le loro esigenze stilistiche, rispetto alla
forma-canzone utilizzata e rispetto a una scrittura viva che comunica bene. Il disco si apre
con “Mani”, che sembra già iniziata da qualche secondo e questo porta immediatamente a
entrare nell’atmosfera del lavoro come trascinati. “Spegni la luce” con la voce morbida e
fascinosa di Pasquale Demis Posadinu, rientra si muove nella scia dei già citato primo
singolo, e infatti ne ha tutti i tratti. “Niente da fare” descrive l’artista che si riappropria del suo
ruolo; “Bouganville” che intitola il disco, è ispirata dalla poesia di Pasolini; “Siamo seduti qui”
ospita Giorgio Canali, che con la sua voce ruvida e forte annerisce bene i contorni di rabbia
sociale perché siano più evidenti; una versione di “Suggestionabili” di Paolo Benvegnù per
tenere a mente, uno dei riferimenti più toccanti di questi ultimi anni per il rock cantato in
italiano. Bentornati.
Contatti: www.myspace.com/primochefdelcosmo
Francesca Ognibene
Pagina 43
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Numero Gennaio '10
Simplemen Think
Rapid Act In Modern Trash
Upupa Produzioni
Pubblicare il nuovo album dei Simplemen Think è il biglietto da visita della neonata etichetta
Upupa Produzioni, e forse non si poteva trovare modo migliore per esordire nel panorama
indipendente nostrano. Otto tracce post-punk senza mezzi termini, urla sguaiate a due voci,
chitarre sfregate e arpeggiate che si compenetrano a velocità in continua modulazione, piatti
e pelli che battono senza sosta e un synth che accompagna l'incalzare violento e rende
l'effetto esplosivo. Riff macinati come si deve su pause e riprese col botto tipiche di un
genere che dalle nostre parti è tenuto vivo e vegeto da gente come Red Worm's Farm, Hell
Demonio, Gazebo Penguins, The Death Of Anna Karina e così via. Proprio Pier Canali e
Marco Martin, le due chitarre psicotiche dei Red Worm's Farm, prestano le voci nella
devastante “Architect Of The Imaginable Things”, quinta traccia del disco, ma è inutile
analizzare ogni singolo pezzo, dato che “Rapid Act In Modern Trash” ci arriva come un'unica
composizione che per poco meno di mezz'ora tiene il corpo dell'ascoltatore in continuo
movimento, con la testa che sussulta sui colpi di batteria e le bordate a dodici corde, il synth
infilato con precisione e le ugole tirate al massimo. Produzione, mixaggio e masterizzazione
sono frutto delle mani sapienti di Giorgio Borgatti (chitarra dei Three In One Gentleman Suit),
che infila anche qualche splettrata di prima mano qua e là nel disco. Per gli amanti del
post-punk tagliente sono due i nomi da appuntare sull'agenda: Simplemen Think e Upupa
Produzioni. Giramento di testa garantito.
contatti: www.myspace.com/simplementhink
Marco Manicardi
Pagina 44
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Numero Gennaio '10
Susanna Parigi
L’insulto delle parole
Promo Music/Edel
Difficile trovare una spiegazione del perché Susanna Parigi, non sia ancora riuscita a
scardinare quella parete di vetro che la tiene lontana dalla popolarità. Difficile o meglio
impossibile, semplicemente perché non c’è una ragione, in quanto qualsiasi paese
culturalmente adeguato avrebbe tributato il giusto omaggio ad un’artista semplicemente
straordinaria, capace di guardare al passato proiettandosi nel futuro, in grado di scrutare
nell’anima e contemporaneamente di sentirsi giocosa e vivace. Ma siamo in Italia, e tanto
basta. Dopo i rintocchi emozionanti del precedente “In differenze”, per questo quarto album
Susanna Parigi, affronta un tema a lei caro, la parola. E sceglie la strada più complessa e
tortuosa: lo scontro frontale fatto di passione, sfida, disarmante arrendevolezza e poetica
sussurrata e urlata, dove l’artista fiorentina veste i panni di strega e principessa, carnefice e
vittima, amante e moglie, in un intrecciarsi di bellezza, euforia e malinconia. Ad
accompagnarla Kaballà con cui divide la scrittura e l’Arke String Quartet che addobba le
canzoni di un’estetica che sembra non avere riferimenti temporali. Il brano che apre e intitola
l’album è un’autentica dichiarazione d’intenti “mi colpirete, mi calpesterete, mi
distruggerete...” e si continua con “Non chiedermi parole d’amore” dove l’artista curva sul
suo pianoforte si mette a totalmente a nudo, senza generare imbarazzo. Come un
burattinaio che da vita a più personaggi, Susanna racconta storie diverse e intersecanti in
“Fa niente”, “L’attenzione” e “La fiorista” introdotta con “In un fiore”, scardinata da un vecchio
grammofono, mentre l’omaggio a Jacques Brel nella rilettura di “La canzone dei vecchi
amanti” è aperta dalla madre/amica che intona con voce antica “Sempre” e rivive l’emozione
della Gabriella Ferri che fu. Basterebbe “Ho bisogno di tempo” (per invecchiare, per fare
tutto l’amore che serve, per capire che di tempo non ce n’è) per rivelare la dimensione di
questa artista che in “Il raro movimento” trova in Umberto Galimberti un animoso
collaboratore. Per non dire dell’audacia emotiva di “Una basta”e poi in chiusura “L’applauso
(la parola che uccide)”, dove basterebbe l’incedere di piano con il verso “miei signori salite
sul palco è il vostro momento...” per asserire che oggi Susanna Parigi non può non restare
nascosta negli angoli della scena musicale italiana. L’ultima traccia è un videoclip sul tema
dell’album con gli interventi di Corrado Augias, Lella Costa, Leonardo e molti altri, che sul
sito di Susanna Parigi viene continuamente aggiornato da nuovi commenti. Per me,
semplicemente, artista e disco dell’anno appena concluso.
Contatti: www.susannaparigi.it
Gianni Della Cioppa
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Gennaio '10
Upon This Dawning
On Your Glory We Build Our Empire
Slakeless Heart
Uno dei nuovi trend del fermento discografico di ambientazione metal, un movimento
sempre energico e pieno di entusiasmo, è il metal-core, una sorta di incrocio spericolato tra il
death metal, l’emocore e l’hardcore più intransigente. Da questa miscela prende forma un
susseguirsi di riff spettacolari, che poggiano su geometrie ritmiche, amplificate da parti vocali
che alternano situazioni urlate, le cosiddette “scream vocals”, e altre melodiche, prese a
prestito dall’emo. In questo esordio a sorprendere quindi non è la tipologia stilistica, ben
definita entro canoni già noti, ma la qualità del suono, della produzione e l’abilità
compositiva. Il quintetto bresciano esordisce con una sfrontatezza che coglie nel segno,
soprattutto considerando la giovane età dei protagonisti. Nei dieci pezzi di questo album, dal
titolo pieno di enfasi, tutto funziona e gli echi di Shadows Fall, Lamb Of God e Norma Jean,
band di cui gli appassionati di metal-core, saprebbero dirvi vita, morte e miracoli, hanno solo
il compito di rendere più accessibili le corsie preferenziali per addentrarsi all’interno del
cuore di questi Upon This Dawning, il cui unico limite è quello di aver cercato solo certezze e
nessun rischio. Ciò non toglie che “Silence, As I’m Falling Down’, ‘Scott G. At The
Millionaire” e “Entering Hi-Towell” siano davvero grandi canzoni, che colpiranno l’(emo)tività
di chi ama questo genere.
Contatti: www.myspace.com/uponthisdawning
Gianni Della Cioppa
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Numero Gennaio '10
Vishu Flama
Vishu Flama
autoprodotto
Dalla biografia della band: il nome Vishu Flama è la trascrizione in chiave rock-psichedelica
del grido “Vižu Plamja” (“vedo fiamme”), lanciato da Ludmila, un’astronauta sovietica, prima
che la sua navicella esplodesse nello spazio, missione antecedente al 1961, momento del
primo lancio umano, sempre smentita dall’URSS. Ma Vishu Flama è anche una rock band
veronese, composta da quattro amici che dopo decenni trascorsi in veste di ascoltatori,
hanno deciso di tramutare in musica propria, la loro enorme passione. Ambiziosamente
hanno detto di aver scritto l’album che non riescono a trovare nei negozi da anni e
puntellano le loro preferenze con nomi altisonanti come Beatles, Jefferson Airplane, Led
Zeppelin, Pink Floyd, Jimi Hendrix, la Motown, Stevie Wonder e i Rolling Stones, ma solo
fino al 1971! Gli idoli citati rimangono lontani, ma i brani del CD (grafica che ricalca il logo
originale dell’Atlantic) emanano una freschezza ed un’ariosa godibilità non facilmente
reperibile in Italia, con quegli spunti tra beat e rock’n’roll, un po’ come se i Byrds, richiamati
nelle parti vocali, giocassero al gatto e al topo con entità più underground, e citiamo Seeds e
HP Lovecraft per dirne altre cento. Chitarre agili e svelte che si incuneano in una ritmica
semplice, tipicamente Sixities e parti vocali (divise tra i chitarristi Martino Valbusa e Matteo
Mazzi) sempre allegre e brillanti. Ascoltando “Qualcosa tra noi”, “Scudi”, “Aliceye”, “Luoghi
della memoria”, “A tu per tu”, si ha davvero la sensazione che in concerto i Vishu Flama
siano uno spasso, e anche se di tanto in tanto affiora una punta di malinconia (“Marea dopo
marea” per esempio) o di stravagante inutilità (la techno music nascosta alla fine dell’album),
è innegabile che la sfacciata e provocatoria “Fighe in SUV” sia un possibile hit, capace di
scatenare quelle polemiche che l’accomodante rock degli ultimi anni sembra aver
accantonato.
Contatti: www.myspace.com/vishuflama
Gianni Della Cioppa
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Numero Gennaio '10
Fargo
Un disco che non è mai stato fatto. Proprio così, perché i Fargo – se avete appena
sobbalzato sulla sedia siete sicuramente trentenni o più – i Fargo un disco vero non
l'avevano mai pubblicato. Una storia breve e mitologica, la loro. Nati e sciolti in una manciata
d'anni a cavallo del millennio, un sette pollici che è ormai un piccolo culto, e bordate emo
negli anni dell'apice dell'emo, quello vero, quello dei Get Up Kids, non quello
frangetta-“Twilight”-bimbominkia, per intenderci.
“A Record That Was Never Made”, invece, è stato fatto. Uno sfregare di chitarre a occhi
chiusi e gambe spalancate, con il basso dietro, la batteria col charleston aperto e una voce
che è della tonalità propria dell'emo, una specie di emanazione adolescenziale dei latrati di J
Mascis ma avanti di un decennio; insomma, cose che ai trentenni o poco più fanno
scoppiare il cuore dalla nostalgia. Era il tempo, dicevamo, dei Get Up Kids – e i Fargo, con
loro, ci hanno pure suonato – e dei Jimmy Eat World, poco prima di Fine Before You Came e
dei degni successori Sprinzi.
Un disco che non è mai stato fatto e che poi è stato fatto, otto pezzi registrati tra il 2000 e il
2001, “Canzoni mai completamente finite, consideratele un regalo fragile” come recita la
presentazione, ma soprattutto un disco scaricabile gratuitamente. Preparate i fazzoletti.
Contatti: fargo.bandcamp.com
Marco Manicardi
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