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Rassegna
Nothing About Us Without Us
Dall’attivismo all’accademia e ritorno: i disability studies inglesi.
Migliaia di persone, il cui unico crimine è essere fisicamente invalide, sono condannate alla prigione
a vita … Per la più ampia maggioranza non c’è alternativa, nessun appello, nessuna revoca della sentenza
per buona condotta, nessuna possibilità di fuga, eccetto la fuga dalla vita stessa.
UPIAS, Principi fondamentali della disabilità (1976)
Abstract
The paper retraces the development of the cultural interpretation of disability from which stemmed the
theoretical framework known as the “English social model of disability”. From the pioneering works of disabled
theorists like Paul Hunt, Vic Finkelstein and, above all, Mike Oliver, to the most recent production of the
English disability studies, it highlights themes related to the cultural investigation of disability and the shift from
a Marxist approach, tied to the english re-discovery of Gramsci in the early seventies, to an increasing interest
for poststructuralist theorizations, marking a confluence with other fields of cultural enquiry.
Introduzione
Il discorso accademico sulla disabilità, nel nostro paese, è monopolio di medici, educatori e specialisti, le
cui legittime finalità escludono l’apertura dei temi a una più ampia contestualizzazione sociale e culturale. Ciò
che si viene a proporre è un itinerario di ricerca sulla storia che, dal sorgere di una consapevolezza interna alle
avanguardie dell’associazionismo disabile inglese, ha portato allo sviluppo di un discorso critico di alto livello
sulla interpretazione culturale della disabilità. Nella citazione proposta in apertura, tratta dal testo che di fatto ha
aperto lo spazio alla proposta teorica che si viene ad esporre, è evidente la dimensione di engagement che ne
sostiene la ricerca, dai suoi albori, l’articolazione del discorso critico sulla disabilità è merito di ricercatori
disabili, il motto dei disability studies è nothing about us without us, niente su di noi senza di noi.
Come altre forme di affermatività sociale, il tempo dell’emergenza è la fine degli anni Sessanta, e non è
priva di significato la genesi temporale comune con il movimento antipsichiatrico, le rivendicazioni femministe,
Stonewall e l’affermatività radicale del Black Power. Nei termini gramsciani che costituiscono lo sfondo teorico
privilegiato di riferimento degli autori che andremo a proporre, si può affermare che per la prima volta si sono
affacciate sulla ribalta sociale soggettività rimosse che hanno posto una sfida consapevole all’ordine egemonico.
Vedremo come gli autori che hanno creato i disability studies inglesi rimarchino l’omologia tra il proprio lavoro
e le altre teorie emancipative nate dai movimenti e cresciute negli studi culturali sul gender, la sessualità e la
razza.
Dopo avere introdotto i temi attraverso la ricognizione della produzione degli autori disabili pionieri della
disciplina, Paul Hunt e Vic Finkelstein, si analizzerà approfonditamente lo sviluppo di un testo che rappresenta
la sintesi e la sistematizzazione della proposta teorica del modello sociale inglese, The Politics of Disablement di
Mike Oliver. Il libro di Oliver merita un’attenzione particolare in quanto rappresenta una proposta teorica forte
ed articolata, che media i discorsi emersi nei movimenti con gli strumenti critici delle scienze sociali, inoltre
perché costituisce un punto di riferimento per la produzione teorica successiva. Si è accennato come i disability
studies inglesi, almeno fino agli anni Novanta, debbano molto, nell’impianto teorico e nella topica sociale, alla
riscoperta di Gramsci da parte del marxismo inglese; è evidente inoltre, per lo più in forma implicita, una
prossimità teorica con la prima espressione della “svolta culturale” nelle scienze umane, il cultural materialism
inglese, tanto nella versione antropologica di Marvin Harris, quanto nell’elaborazione critica di Raymond
Williams e di Terry Eagleton.
Negli anni successivi si è manifestata una differenziazione tanto dei temi quanto delle referenze teoriche,
nonché un confronto con gli altri ambiti della ricerca culturale e con l’elaborazione sulla disabilità prodotta nel
mondo. Il quadro attuale della disciplina è ampiamente differenziato, tanto nel livello della proposta quanto nel
suo spettro tematico; una ricognizione di alcuni interventi particolarmente significativi permetterà di articolare il
diagramma di una disciplina che si sta individuando come uno degli ambiti più vitali della ricerca sociale
contemporanea.
La genesi del modello sociale inglese della disabilità
Agli anni Sessanta risale la prima antologia di testi di autori disabili, curata da Paul Hunt, dallo stesso
titolo, Stigma (1966), scelto da Erving Goffman per il suo testo sulla gestione delle spoiled identities. Hunt è il
padre fondatore dello studio critico della disabilità in Inghilterra. Disabile fisico internato in istituto, in A
Critical Condition1 ha posto le basi del modello sociale della disabilità, che successivamente diventerà il centro
motore della proposta teorica dei disability studies inglesi. Per Hunt, le persone disabili, ‘sfortunate, inutili,
differenti, oppresse e malate’, pongono una sfida ai valori della società occidentale. Sfortunate perché incapaci di
godere dei benefici materiali e di cittadinanza della società contemporanea, inutili in quanto non in grado di
contribuire alla produzione di beni economici. Pur senza articolare il discorso in termini concettualmente
rigorosi, la sua analisi contiene i germi degli sviluppi ulteriori dello studio della disabilità, per primo ha
interpretato la disabilità come una serie di vincoli imposti alla persona da un’organizzazione coartante del
sociale.
Hunt è stato anche uno dei membri fondatori di UPIAS (Union of the Phisically Impaired Against
Segregation, unione delle persone con invalidità fisica contro la segregazione), associazione di persone disabili
di cui faceva parte anche Vic Finkelstein, sudafricano esule in Inghilterra dopo essere stato incarcerato in
isolamento e torturato, vittima delle persecuzioni del regime razzista dell’apartheid. Come detto, UPIAS ha
prodotto un testo cardine per l’interpretazione della disabilità, Fundamental Principles of Disability, di cui
Michael Oliver, afferma che «ancora oggi sostiene meglio di quanto io possa fare ciò che penso della disabilità»
(Oliver, 1996). Uno dei motivi di interesse dei Principi è il loro tono radicalmente affermativo, una novità
assoluta per il discorso sulla disabilità, da sempre nelle mani di specialisti e filantropi e, fino ad allora, mai in
quelle delle persone disabili stesse. Sul piano teorico, il testo propopone la partizione fondamentale tra
impairment e disability, su cui successivamente si articolerà il modello sociale della disabilità. Impairment,
tradotto generalmente come invalidità o menomazione, è la condizione contingente in cui si trova la persona,
mentre disabilità è il vincolo imposto da un’organizzazione abilista e coartante del sociale: «Dal nostro punto di
vista è la società che disabilita le persone con invalidità fisiche. La disabilità è qualcosa che viene imposto sulle
nostre menomazioni attraverso il modo in siamo senza necessità isolati ed esclusi dalla piena partecipazione alla
vita sociale. Le persone disabili sono pertanto un gruppo sociale oppresso»2.
Vic Finkelstein viene considerato il fondatore del modello sociale della disabilità. Psicologo clinico,
attivista marxista, trotzkista, per questo incarcerato e torturato dal regime sudafricano dell’apartheid, in Attitudes
and Disabled People: Issues for Discussion3, del 1980, mette in questione il “modello individuale/medico”
egemone, secondo cui la disabilità è un problema legato alle sventure private degli individui, per proporre al
contrario l’interpretazione della disabilità come relazione sociale oppressiva. La storia dell’esclusione delle
persone disabili viene analizzata in termini materialisti, indagandone le ragioni strutturali, economiche, e la
relazione ad un’organizzazione del sociale. Questo testo ha articolato per la prima volta i caratteri del modello
sociale della disabilità, cuore della proposta teorica dei disability studies inglesi. Spostare l’attenzione dalla
sventura individuale di un corpo fallato (ciò che Oliver chiamerà il modello della disabilità come “tragedia
1 Testo contenuto nel volume collettivo Stigma, riprodotto in Tom Shakespeare, 1998 e disponibile in linea nell’archivio sui
disability studies dell’Università di Leeds, http://www.leeds.ac.uk/disability-studies/archiveuk/ . L’archivio di Leeds è una
risorsa fondamentale per lo studio della ricerca inglese sulla disabilità, vi si trovano molti materiali che verranno introdotti
in questa rassegna.
2 UPIAS, Fundamental Principles of Disability, 1976, p.14.
3 Victor Finkelstein, Attitudes and Disabled people: Issues for Discussion, New York, World Rehabilitation Fund, 1980,
disponibile Arch. Leeds.
personale”) all’organizzazione del sociale che esclude dalla cittadinanza attiva chi non corrisponde alle sue
aspettative abiliste, significa riconfigurare integralmente il modello interpretativo. Il lavoro di Finkelstein è stato
fondamentale anche per lo sviluppo ulteriore dei disability studies inglesi: in Emancipating Disability Studies
(Leeds arch.), viene ripercorsa un’altra esperienza determinante per la crescita del dibattito inglese sulla
disabilità, l’istituzione del corso sulla condizione disabile presso la Open University. Lo sviluppo della prima
proposta accademica dei discorsi sulla disabilità, dalla sua istituzione nei primi anni Settanta in poi, è stato
segnato dal passaggio da un’impostazione ancora legata alla proposta del mondo professionale medico ed
educativo ad un vero corso in Disability Studies, e ciò si è realizzato in ragione del coinvolgimento nella pratica
didattica di autori disabili, tra cui Michael Oliver. Dopo una vita dedicata alla ricerca sociale sulle prospettive
emancipative per la soggettività disabile (si vedano A Personal Journey into Disability Politics e Whose
History?, Leeds Arch.), Finkelstein si occupa ora del rapporto tra disabilità ed arti, dirigendo la rivista DAIL
(Disability Arts in London).
Mike Oliver è un altro autore cardine dei disability studies inglesi, oltre che rappresentante emblematico
degli ambienti culturali in cui le proposte teoriche e pratiche che hanno generato tali ricerche sono sorte. Figlio
della classe operaia inglese, da adolescente, per un tuffo in piscina mal riuscito durante una vacanza, finì
paraplegico. In gioventù si distinse negli sport per disabili, quindi, laureato, venne coinvolto nell’esperienza
didattica della Open University. Il suo lavoro teorico si inscrive nell’orizzonte del materialismo storico inglese,
legato alla riscoperta del lavoro di Gramsci con la pubblicazione della traduzione dei Quaderni dal carcere e
all’attenzione ai temi althusseriani di Ideologie e apparati ideologici dello stato.
The Politics of Disablement: un manifesto per i disability studies inglesi
In The Politics of Disablement (Oliver, 1990), in particolare, Oliver si è proposto di esporre in termini
sociologicamente adeguati il modello sociale della disabilità. Il testo rappresenta nel modo più organico possibile
gli orizzonti e le prospettive di ricerca dell’interpretazione materialista inglese sulla disabilità, ne è il manifesto e
il punto di riferimento teorico privilegiato. È quindi opportuno presentarlo in modo approfondito, al fine di
illustrare le direttive fondamentali della proposta teorica. The Politics of Disablement si articola su un doppio
registro, per un verso è una decostruzione radicale dell’interpretazione del modello medico-individualista della
disabilità, caratterizzata come “teoria della disabilità come tragedia personale” (Oliver, 1990, 1); inoltre è la
proposta radicale alternativa a tale prospettiva ideologica, che si concreta nel “modello sociale della disabilità”.
Prima di elaborare le direttive per un’impostazione del discorso sulla disabilità in termini sociologicamente
adeguati, Oliver analizza il significato delle definizioni ufficiali della disabilità, in particolare la partizione tra
deficit, disabilità ed handicap proposto dall’OMS (ICIDH, 1980) che, pur cogliendone la natura sociale, non
vedono come questa sorga da cause sociali. A monte delle definizioni ufficiali sta l’assunto teorico
dell’“individualismo metodologico”, che rifiuta ogni riferimento alle forze sociali, all’organizzazione strutturale
della società e a fattori istituzionali come elementi esplicativi, centrando l’attenzione su fatti relativi a individui.
Ciò che è dunque urgente per Oliver è l’elaborazione di una teoria sociale della disabilità come “teoria
dell’oppressione sociale”. Le persone disabili hanno già individuato, nella partizione tra impairment e disability
(Upias, 1976), le direttive per un’analisi alternativa: ciò che muta sostanzialmente è che in questo caso la
disabilità si trova integralmente inscritta nell’orizzonte sociale e mai, come avviene surrettiziamente nelle
definizioni ufficiali, è riducibile alla patologia biologica.
Una delle critiche ricorrenti al lavoro di Oliver e degli autori che sviluppano l’analisi della disabilità dalla
medesima prospettiva è di trascurare il primo termine, il deficit, per totalizzare l’attenzione sulla dimensione
dell’oppressione sociale, sulla disabilità. Certamente una decostruzione del dispositivo handicappante deve
articolarsi in relazione alle dinamiche sociali costitutive della disabilità, ponendo sullo sfondo le singolarità che
danno luogo all’occasione della sua emergenza, non di meno Oliver dedica un capitolo del suo testo all’analisi
della costruzione culturale del deficit, del suo radicamento in peculiari contingenze sociali, economiche, culturali
e istituzionali. Non solo la disabilità è prodotta da contingenze culturali, ma anche il deficit, cosa facilmente
ostensibile analizzando la sua distribuzione su base planetaria: “Le società in cui le persone vivono determinano
le loro condizioni di salute, malattia e morte. Nella misura in cui hanno mezzi per gestire i loro ambienti
economici e sociali, hanno i mezzi per determinare le loro aspettative di vita”4. Così nel terzo mondo i deficit
sorgono da malattie infettive, povertà, ignoranza e carenza di cure e diagnostiche mediche, mentre nelle società
4 Susser M., Watson W., Sociology in Medicine, London, Oxford University Press, 1971, cit Oliver, 1990, p.12.
opulente, in cui sono in declino molti tipi di malattie infettive, si manifesta un’incidenza maggiore di invalidità
per trauma da incidente stradale o sul lavoro o, ad esempio, delle invalidità legate all’invecchiamento della
popolazione. Un altro fattore determinante l’incidenza di alcune tipologie di deficit, come le malattie
degenerative, sono le condizioni socioeconomiche, e ciò è tanto più vero nei paesi poveri, in cui “non solo la
disabilità assicura la povertà alla vittima, ma la povertà stessa è una delle cause principali della disabilità”
(Oliver, 1990, p. 13). Non è sufficiente limitarsi all’analisi quantitativa delle sue incidenze per comprendere la
natura di prodotto culturale dell’invalidità: è bensì necessario considerare come le rappresentazioni legate alla
condizione deficitaria siano integralmente un costrutto culturale. Così in una popolazione dell’Africa occidentale
in cui si registra una forte incidenza di una malformazione congenita al piede, tale condizione non viene
considerata invalidante o significativa, in modo analogo sull’isola di Martha’s Vineyard, in Massachusetts, in cui
la popolazione è per la più parte non udente per la ricorrenza di una variante genetica ed il linguaggio dei segni è
conosciuto da tutti, il deficit auditivo non è correlato ad alcuna disabilità, si così è creata una società
“funzionalmente bilingue”.
L’antropologia, secondo Oliver, ha trascurato in generale il campo dell’analisi culturale dell’invalidità e
quando anche ci si è rapportata lo ha fatto muovendo dall’assunto dell’individualismo metodologico,
precludendosi quindi la possibilità di cogliere la dimensione sociale del fenomeno. Il lavoro di analisi
transculturale della disabilità resta per Oliver ancora da cominciare ed il primo passo è rielaborare il materiale
prodotto dalle ricerche sul campo rianalizzandone i dati alla luce di prospettive e metodologie adeguate alla
contestualizzazione sociale della disabilità. “Persone disabili sono esistite in tutte le società ed in ogni periodo
storico. Comunque, le tipologie di restrizioni disabilitanti e l’esperienza delle persone affette variano da società a
società e da periodo a periodo. Due antropologi che hanno preso sul serio la disabilità come categoria d’analisi,
hanno colto le difficoltà legate al voler fornire adeguati “dati etnologici” relativamente alla disabilità fisica sia in
quanto non esiste una classificazione logica o medica che valga su un piano transculturale ed anche perché le
disabilità sociali degli individui e dei gruppi sono peculiari alle condizioni sociali della società in questione. “Ad
esempio, i capelli color carota sono un tratto fisico da un lato e un handicap in alcune situazioni sociali, ma una
persona con una simile caratteristica non viene considerata disabile. Nemmeno il sintomo è il solo criterio,
perché benché una persona affetta da paralisi infantile possa come conseguenza zoppicare, una calzatura
adeguata può risolvere il problema. Se poi si introducono le categorie di altre culture, la confusione si moltiplica.
Anche assumendo l’esistenza di una simile classe in altre culture, i contenuti cambiano. Lo sfregio sfigurante a
Dallas diviene un segno d’onore a Dahomey””. (Hanks e Hanks, 1980) (Oliver, 1990, 18)
La ricognizione della ricerca empirica sulla disabilità nelle scienze sociali rivela l’inadeguatezza delle
categorie utilizzate nella sua analisi e la loro natura ideologica, vincolate come sono alla prospettiva della
disabilità come tragedia personale. Impostare un’analisi sociologica adeguata richiede come punto di partenza
che si ponga centrale la relazione del soggetto individuale all’ambiente, nel senso più ampio, che muova
dall’essere come essere sociale, secondo le indicazioni marxiane. “Il modo di produzione nella vita materiale
determina il carattere generale del processo della vita sociale, politica e spirituale. Non è la coscienza degli
uomini che determina la loro esistenza ma, al contrario, è la loro esistenza sociale che determina la loro
coscienza” (Marx, Per la critica dell’economia politica, cit. Oliver, 1990, 23)
Affermata la natura strutturale della determinante economica, Oliver sostiene che i due fattori cruciali
nell’analisi sono l’entità del surplus economico generato in una società e la sua redistribuzione. In una società in
cui non esiste sovrapproduzione, i soggetti deboli rischiano di doversi sostentare con le proprie forze, nelle
società occidentali contemporanee, in cui l’economia genera un ingente surplus produttivo, la redistribuzione
delle risorse si articola secondo complessi meccanismi, tra cui è fondamentale il welfare state, l’assistenza
pubblica. Di più, la redistribuzione si compie secondo modalità fortemente condizionate da assunti ideologici. In
Gran Bretagna (nel mondo occidentale) l’ideologia fondamentale che orienta la redistribuzione è la visione della
disabilità come tragedia personale. Per potere comprendere come si sia affermata una simile prospettiva
egemone sulla disabilità è necessario, per Oliver, indagarne la genesi attraverso l’analisi dell’evoluzione storica
della gestione sociale delle problematiche legate alla disabilità.
Porsi nella prospettiva teorica del materialismo storico significa in primo luogo localizzare le relazioni
sociali in una situazione storica, ma anche fornire una prospettiva evolutiva della società. Non sono stati ancora
compiuti tentativi sistematici in tale direzione per quanto riguarda la disabilità, ad eccezione di Finkelstein
(1980), che coglie il passaggio dalla società agricola premoderna, in cui non vi erano preclusioni all’accesso al
lavoro e in cui ogni risorsa era valorizzata, alla società industriale, in cui la richiesta di manodopera altamente
efficiente e capace di reggere l’aumento dei ritmi produttivi esclude dall’accesso al reddito chi non è in grado di
conformarvisi. La costituzione del capitale e l’esplicarsi della sua logica portano quindi all’esclusione
progressiva delle persone disabili dal lavoro e, conseguentemente, dalla partecipazione sociale attiva. Sempre
più tale crescente marginalizzazione porta a considerare le persone disabili come un problema sociale ed
educativo, quindi all’istituzione di laboratori protetti, asili e scuole speciali.
La ricognizione della genesi delle istituzioni di contenimento, asili, workhouses (laboratori protetti
destinati ai disabili e ad altre categorie marginali) e scuole speciali, in relazione all’avvento del metodo di
produzione capitalista, porta Oliver a considerarne il ruolo di apparati ad un tempo repressivi e ideologici 5. “…
Lo sviluppo economico, il mutare delle idee e la necessità di mantenere un ordine hanno influenzato l’esperienza
della disabilità e la risposta sociale ad essa. La nascita dell’istituzione come meccanismo sia di assistenza sia di
controllo sociale ha giocato un ruolo chiave nello strutturare tanto le percezioni quanto l’esperienza della
disabilità e facilitato l’esclusione sociale delle persone disabili. In questo, la dimensione ideologica è stata
importante almeno quanto la reclusione fisica […]. Ciò che bisogna considerare ora è il modo in cui
l’individualizzazione della vita nel capitalismo ha contribuito all’individualizzazione della disabilità e il ruolo
che gruppi potenti, la professione medica, hanno avuto in questo processo”. (Oliver, 1990, 42)
Il capitolo successivo “La costruzione ideologica della disabilità”, si occupa quindi del ruolo che lo
sguardo medico ha assolto nella costituzione del dispositivo della disabilitazione. Il concetto di ideologia è
estremamente problematico, significando di volta in volta “falsa coscienza e coscienza falsa”, visione del
mondo, orientamento di classe o concezione ossificata. Foucault ha proposto in ragione di ciò il suo abbandono,
altri autori come Slavoj Zizek o Ernesto Laclau l’hanno recentemente riabilitato cercando di cogliere e
riarticolare ciò a cui il concetto voleva far segno. Oliver propone la seguente definizione dell’ideologico: “Qui,
l’ideologia sarà caratterizzata come l’insieme di valori o credenze che sostengono le pratiche sociali, quali il
lavoro, l’intervento medico e la fornitura di servizi di assistenza. Ma dire questo non basta, perché
autorizzerebbe a ridurre la coscienza sociale a un insieme di ideologie in competizione. È necessario tornare al
lavoro di Antonio Gramsci, che tentò di fornire un collegamento specifico tra le strutture sociali e le ideologie
distinguendo tra ciò che chiamò ideologie “organiche” e “arbitrarie”. Di più, egli tematizzò la questione del
potere e dell’ideologia dominante attraverso lo sviluppo del concetto di egemonia, che sussume le singole
prospettive ideologiche in quanto “è la natura immediata e innocente dell’egemonia che produce compiutamente
i suoi effetti – la “naturalezza” di un modo di pensare al sociale, all’economico, al politico e ai temi etici 6”.
L’egemonia che definisce la disabilità nella società capitalista è costituita dall’ideologia organica
dell’individualismo, dalle ideologie arbitrarie della medicalizzazione che sostengono l’intervento medico e dalla
teoria della disabilità come tragedia personale che sostiene l’intervento dei servizi di assistenza. Vi sono
incorporate anche le ideologie correlate ai concetti di normalità, abilità fisica e mentale”. (Oliver, 1990, 43-44)
Al fondamento della costituzione del soggetto nel tempo del capitalismo compiuto sta l’ideologia
dell’individuo che “liberamente” vende la propria forza lavoro: la costituzione ideologica dell’individuo è un
presupposto della strutturazione della relazione economica capitalista. “L’ideologia “organica”
dell’individualismo dà luogo alla costruzione dell’individuo disabile in quanto antitesi del corpo e della mente
abile, ed alla medicalizzazione della disabilità in quanto problema particolare”. (Oliver, 1990, 46) Per Oliver, la
disabilità si pone come correlato, resto differente, dell’affermazione del corpo abile al lavoro salariato ed alla
produzione. L’inattitudine al lavoro pone la problematicità e la necessità di una gestione peculiare e differenziata
delle persone disabili. Si innesca in questo modo il processo di esclusione, facilitato dalla centralità posta del
corpo individuale, su cui assume competenza la casta medica. Se è naturale, ovvio e benefico che la medicina
rivolga la propria attenzione alle problematiche specifiche, lo è molto meno la dedizione ad aspetti della gestione
della vita delle persone che nulla hanno a che fare con il suo sapere, come “valutare le abilità alla guida,
prescrivere sedie a rotelle, determinare la compensazione economica, stabilire i percorsi educativi e valutare le
capacità e i potenziali lavorativi” (Oliver, 1990, 48). “Il modello medico della disabilità è radicato in un’enfasi
5 Il riferimento è al saggio di Louis Althusser Ideologia ed apparati ideologici dello stato, in parte edito in Freud e Lacan,
Roma, Editori Riuniti, 1980, testo che ebbe grande influenza nel dibattito teorico marxista inglese. Gli apparati repressivi
dello stato (esercito, polizia, sistema carcerario) agiscono prevalente con la violenza, gli apparati ideologici (sistema
educativo, amministrativo e mediatico) prevalentemente con l’ideologia.
6 Hamilton, prefazione a R. Bocock, Hegemony, London, Tavistock, 1987, cit. Oliver, 1990.
eccessiva sulla diagnosi clinica, la cui specifica natura è destinata a condurre a una visione parziale e inadeguata
del soggetto disabile. Per capire la disabilità come esperienza, come cosa vissuta, abbiamo bisogno di ben più
che di “fatti” medici, per quanto questi siano necessari per determinare una cura. Il problema sorge quando
questi determinano non solo il trattamento (se un trattamento è possibile), ma anche la forma della vita degli
individui cui capita di essere disabili” (Brisenden, 1986).
Oliver sviluppa quindi un’analisi articolata delle dinamiche di potere e delle funzioni ideologiche della
casta medica nel tempo del capitalismo sviluppato, richiamandosi anche alle analisi di Vic Finkelstein, che
coglie il legame tra lo sviluppo del ruolo egemone della medicina e il processo di istituzionalizzazione.
Oltre a ciò deve essere evidenziato come il processo di medicalizzazione della disabilità sia parte di una
strategia più ampia tale da assicurare la partizione tra popolazione produttivamente attiva e popolazione
residuale oggetto della gestione di apparati appositamente predisposti. Al fondo delle pratiche riabilitative sta
l’ideologia della normalizzazione, così come il recupero alla società sta alla base della segregazione carceraria. È
evidente come nei due casi la finalità ideologica serva da paravento ad attività lucrose ed a giustificare
l’esistenza di apparati ideologico-repressivi appositamente istituiti. “Insomma, l’individuo disabile è un
costruzione ideologica collegata all’ideologia organica dell’individualismo ed alle ideologie arbitrarie collegate
alla medicalizzazione ed alla normalità. E l’esperienza individuale della disabilità è strutturata dalle pratiche
discorsive che procedono da queste ideologie”. (Oliver, 1990, 58)
Il capitolo seguente analizza la costituzione sociale dell’identità disabile, che non può essere intesa solo
come risposta psicologica a un trauma o a una condizione, ma deve venire invece collocata nella storia e
nell’ideologia. Ciò significa situare la persona nella cultura che la costituisce. Oliver analizza le immagini della
disabilità nel mondo contemporaneo. La rappresentazione della persona disabile nella nostra società si gioca sul
doppio registro dell’eccedenza e della mancanza, del più che umano o del subumano, tra l’eroe Douglas Bader
asso volante senza gambe della guerra mondiale e Sir Clifford ne L’amante di lady Chatterley; raramente la
rappresentazione corrisponde all’esperienza di vita delle persone disabili. Se è vero che nei tempi più recenti gli
stereotipi hanno cominciato ad essere messi in questione, non di meno esercitano ancora una funzione
condizionante. La rappresentazione della persona disabile come meno che umana influenza ad esempio
l’intervento medico, giustificando l’accanimento alla riabilitazione e il trattamento ad oltranza. Per una
rappresentazione adeguata della condizione disabile è necessario abbandonare l’assunto ideologico
individualista, per analizzare la vita delle persone nelle loro condizioni sociali e materiali di vita. Non supereroi
o reietti sventurati ma persone che si trovano a confrontarsi con situazioni straordinarie7 (nel senso di non
ordinarie). Come si è detto, per gli autori marxisti inglesi, ciò corrisponde all’elaborazione di una teoria della
disabilità come oppressione sociale. “Sostenere che le persone disabili siano oppresse implica … evidenziare
anche altre questioni. Ad un livello empirico, significa sostenere che rispetto a questioni fondamentali, le
persone disabili possono essere viste come un gruppo i cui membri vengono a trovarsi in una posizione di
inferiorità in ragione della loro condizione. Significa inoltre che questi svantaggi sono dialetticamente collegati
ad un’ideologia o ad un gruppo di ideologie che perpetuano e giustificano questa situazione. In più, si tratta di
sostenere che questi svantaggi e le ideologie che li pongono in essere non sono né naturali, né inevitabili. Infine,
implica l’identificazione di chi tragga beneficio da questo stato di cose” (Abberley, 1987, cit. Olver, 1990, 49).
Circa l’oppressione delle persone disabili l’evidenza empirica abbonda: nell’inaccessibilità dei luoghi, nel
lavoro, nei trasporti, nell’educazione, si è visto come questi svantaggi siano correlati all’ideologia organica
dell’individualismo e alle ideologie arbitrarie della medicalizzazione e della teoria della disabilità come tragedia
7 Lo straordinario marca la rappresentazione della disabilità, spesso ciò porta alle connotazioni negative del mostruoso, del
perturbante, del mesmerico e del comico. Extraordinary Bodies, (di Rosemarie Garland Thomson, New York, Columbia
University Press, 1997) è il titolo di un volume decisamente interessante che analizza la rappresentazione della disabilità
nella cultura americana. Sulla fascinazione per le forme eccessive e straordinarie del corpo e sullo sfruttamento torbido che
ne è seguito nei side shows circensi e nelle fiere di provincia fino alla prima metà del secolo scorso si vedano Robert
Bogdan, Freak Show: Presenting Human Oddities for Amusement and Profit, Chicago, University of Chicago Press, 1988 e
Freakery: Cultural Spectacles of the Extraordinary Body, edito da Rosemarie Garland Thomson, New York, New York
University Press, 1996. Un documento eccezionale in relazione a questi temi è Freaks, di Tod Browning, del 1932, film
prodotto come horror movie, ambientato in un circo in cui si esibiscono persone con sindromi tipiche deformanti o
caratteristiche fisiche estreme, nani, donne barbute, gemelle siamesi.
personale. L’analisi transculturale ha mostrato inoltre come non si tratti di invarianti, ma di fenomeni
specificamente collegati a una peculiare organizzazione del sociale. Si tratta di vedere dunque a chi giovi
l’oppressione delle persone disabili.
Il capitalismo stesso si avvantaggia in quanto le persone disabili possono assolvere al ruolo
economico di “esercito di riserva” e al ruolo ideologico, nella loro posizione di inferiorità, di monito a
quanti sono inabili o refrattari al lavoro. È evidente pertanto come, tanto soggettivamente quanto
oggettivamente, la disabilità sia una forma specifica di oppressione. (Oliver, 1990, 70)
La forma propria di oppressione sociale di cui sono oggetto le persone disabili non è comunque da
pensarsi come qualcosa a sé: oltre che in quanto disabile l’individuo può essere oggetto di ulteriori
discriminazioni, in base al genere, alla razza e alla sessualità. Oliver analizza la condizione di oppressione
cumulativa legata a condizioni di svantaggio sociale che si sommano alla disabilità. Donne, neri e omosessuali
disabili vivono sia l’oppressione ideologica e il “razzismo istituzionale” relativo al genere, alla razza e alla
sessualità sia l’oppressione abilista, la disabilità appunto, di cui è satura la società contemporanea. A questo
punto è evidente come l’oppressione non sia di una maggioranza contro una minoranza, ma un sistema
complesso di contrapposizioni reciproche di minoranze oppresse che esclude soltanto l’esigua minoranza della
classe egemone.
Anziché definire ogni minoranza come oppressa e svantaggiata nelle opportunità da una larga
maggioranza, la configurazione di tale discriminazione deve essere vista come vantaggio solo per una
minuscola élite. Una parte assolutamente minoritaria della popolazione beneficia della competizione tra
gruppi svantaggiati. Gli espropriati e i cittadini di serie B, a causa della propria alienazione e senso di
isolamento, accettano di essere individuati in contrapposizione con altri gruppi deprivati dei diritti. I
gruppi minoritari spesso partecipano all’espropriazione degli altri, accettando passivamente il controllo
della minoranza dominante8.
Alcuni interventi teorici nell’ambito dei disability studies centrano esattamente questa questione: il
problema dell’emarginazione nell’emarginazione, l’abilismo imperante nelle comunità di genere, etnia e
sessualità, che porta ad un’esclusione ulteriore da un piano identitario di riferimento.
Tornando al tema della costituzione della disabilità come problema, Oliver coglie il passaggio
dall’ideologia arbitraria della disabilità come tragedia personale a quella della dipendenza e indaga le modalità
della costruzione del disabile come soggetto dipendente. In una società complessa ogni individuo è coinvolto in
dinamiche di interdipendenza con altri individui e istituzioni: se ad essere individuato come dipendente è il solo
disabile non è in ragione del deficit, ma del dispositivo di gestione sociale della disabilità, delle forze
economiche, politiche e sociali che se ne occupano (sistema medico, assistenza pubblica, mediazione politica).
La decostruzione di tale dispositivo della dipendenza attraverso l’affermazione dell’autonomia della soggettività
disabile sostanzia l’ultima parte del libro, centrata sulle strategie di autoaffermazione delle persone disabili nella
storia recente e sulla prefigurazione di nuovi vettori di liberazione.
Dopo aver ripercorso la storia delle organizzazioni e i piani rivendicativi relativi all’autonomia nelle scelte
e all’indipendenza economica attraverso l’affermazione del diritto a un reddito, dalle organizzazioni storiche di
reduci, sordi e non vedenti, fino alle battaglie degli ultimi anni condotte in proprio dalle persone disabili, da
UPIAS all’attuale struttura di coordinamento dei movimenti delle persone disabili inglesi, il BCODP (British
Council of the Organizations of Disabled People), Oliver contestualizza i movimenti per l’affermazione dei
diritti delle persone disabili come forma specifica dei nuovi movimenti sociali che caratterizzano il tempo
presente, epoca del capitalismo compiuto.
Quattro sono le caratteristiche che accomunano i movimenti autoaffermativi delle persone disabili ai nuovi
movimenti: in primo luogo l’essere collocati alla periferia dei tradizionali sistemi di mediazione politica, e
spesso deliberatamente marginalizzati. Questa marginalità non ne inibisce comunque il significato o le
possibilità di un’incidenza reale sul piano politico delle rivendicazioni.
8 Deegan, M., Multiple Minority Groups: a Case Study of Physical Disabled Women, in Deegan, M. e Brooks, N., Women
and Disability, New Brunswick, Transaction Books, 1985, cit. Oliver, 1990, 76.
I nuovi movimenti sono caratterizzati non solo dalla volontà di impiegare un’ampia varietà di forme
di azione politica, ma in più da un orientamento verso valori politici ampiamente radicati. In particolare lo
schema soggiacente di valori sottolinea l’importanza di una partecipazione politica e della personale
attivazione secondo modalità che portano ad incidere sul piano politico9.
Una seconda caratteristica dei nuovi movimenti è il loro rapporto critico rispetto all’organizzazione
sociale. L’esempio è la nascita dei Centri per la Vita Integrata e Indipendente (CILs), sorti come proposta
alternativa alla forma istituzionale di gestione della disabilità. La loro organizzazione riflette l’assunzione della
prospettiva del modello sociale della disabilità e la conseguente visione della disabilità come oppressione
sociale. Sono la concretizzazione di una pratica orientata all’affermazione dell’autonomia. Una caratteristica
comune ai nuovi movimenti è quindi la prefigurazione di alternative all’organizzazione sociale esistente.
Terza caratteristica individuata è il mutamento qualitativo delle rivendicazioni:
Un crescente predominio di … valori “post-materialisti” o “post acquisitivi” rispetto a quelli relativi
al reddito, alla soddisfazione di bisogni materiali e di sicurezza sociale10.
Un’ultima caratteristica che allinea le rivendicazioni della soggettività disabile all’orizzonte delle nuove
affermatività sociali è lo spingersi altre i limiti nazionali per porre la questione dei diritti su un piano globale,
l’essere costitutivamente internazionalista. Questa dimensione si è manifestata progressivamente fino a trovare
compiuta espressione nel secondo congresso della DPI, Disabled Peoples’ International, l’internazionale che
raccoglie le associazioni disabili di tutto il mondo, intorno ai temi dell’empowerment e dell’azione collettiva
delle persone disabili rispetto a finalità condivise. Come ne testimoniano gli atti:
… l’azione politica mirata ai corpi governativi – o a gruppi privati o individui, può più facilmente
produrre risultati che non l’azione legislativa o la via costituzionale. Le nazioni che hanno istituito
legislazioni a favore delle persone disabili, non sempre hanno raggiunto i traguardi sperati, né si è
verificata una maggiore presa di controllo sulla propria esistenza da parte delle persone disabili. Il
prerequisito per un’azione efficace sta nell’adeguata organizzazione dei gruppi delle persone disabili
stesse, e nello sviluppo di una consapevolezza sociale rispetto ai temi della disabilità… Questo non
significa necessariamente che le organizzazioni delle persone disabili siano in relazione antagonista
rispetto alle organizzazioni non controllate dalle persone disabili. Significa invece che le nostre
organizzazioni devono affermare se stesse come la voce vera e valida delle persone disabili e dei nostri
diritti11. (Oliver, 1990, 123)
Il testo di Oliver si conclude analizzando le strategie possibili dei movimenti per l’affermazione dei diritti
delle persone disabili. Il luogo dei nuovi movimenti è la società civile, ambito che nella topica sociale
gramsciana comprende ciò che non appartiene alla sfera della produzione e non rientra negli apparati ideologici e
repressivi dello stato. Si tratta di elaborare strategie controegemoniche capaci di assecondare vettori di
liberazione ampiamente partecipati dalla comunità di riferimento, di trovare modalità concrete per incidere sulla
percezione dei temi emancipativi, in dialogo con le realtà istituzionali ma da una prospettiva affermativa, in
modo da evitare il doppio rischio dell’inglobamento e della esclusione da ogni visibilità.
Come sottolinea Laclau, a cui Oliver fa riferimento in relazione alla caratterizzazione dei nuovi
movimenti, l’egemonico è strutturato in modo contingente e aperto: ciò apre la possibilità al sorgere di
affermatività ulteriori che lo mettano in questione.
Bisogna ammettere che in nessun posto al mondo questi nuovi movimenti sono stati capaci di
9 Weale, A. “New Social Movements and Political Change” Draft initiative proposal prepared for ESRC Society and
Politics Research Development Group, 1988.
10 Offe, C., “The Separation of Form and Content in Liberal Democratic Politics”, Studies in political economy, vol. 3,
1980.
11 Dpi (disabled peoples’ international), “DPI Calling”, European Regional Newsletter n° 1, 1986, p. 21.
ribaltare lo status quo. Il loro significato si situa nel porre nuove questioni sull’agenda politica, nel
presentare vecchie questioni in nuove forme e, indubbiamente, nell’aprire nuove aree e arene per il
discorso politico. È nel loro potenziale controegemonico, non nei loro risultati attuali, che sono
significativi nel tardo capitalismo.
Dire che i nuovi movimenti hanno un potenziale controegemonico significa suggerire che
sono emersi in opposizione (almeno parzialmente) alle ideologie che legittimano le strutture di
potere; la razionalità tecnologica, il nazionalismo, l’individualismo competitivo e, naturalmente,
razzismo e sessismo12.
Forse, dopo la lettura di questo libro, l’abilismo può essere posto in coda alla lista, in quanto il suo
tema principale è che la disabilità merita di essere oggetto dell’analisi sociologica e della demistificazione
esattamente come gli altri ’ismi. Sfortunatamente, fino ad oggi
La sociologia della disabilità è sia teoreticamente arretrata sia una zavorra piuttosto che un
aiuto per le persone disabili. In particolare, ha ignorato gli sviluppi che negli ultimi quindici anni
hanno prodotto gli studi sull’equità razziale e sessuale e riproduce nello studio della disabilità
deficienze parallele a quelle che si ritrovano in ciò che da molti è visto come sociologia razzista e
sessista (Abberley, 1987).
Nell’eradicare le restrizioni sociali e l’oppressione della disabilità, sia i movimenti delle persone
disabili, sia la sociologia non abilista hanno una parte da giocare. (Oliver, 1990, 131)
Lo sviluppo della disciplina e la convergenza con gli altri ambiti della ricerca culturale
Oliver ha sviluppato ulteriormente l’analisi in Understanding disability: from theory to practice (Oliver,
1996), rapportandosi a questioni rilevanti in relazione alla disabilità che non trovavano luogo in un testo di
sociologia come The politics of disablement. Understanding disability riprende i temi dei Fundamental
principles of disability di UPIAS, riportandone ampi stralci nel secondo capitolo, per ricontestualizzare il
modello sociale in relazione alla sua evoluzione. Altri capitoli sono dedicati ai diritti di cittadinanza, ai servizi
per le persone disabili, affermando la necessità di muovere dalla logica dei bisogni a quella dei diritti, e
all’educazione. Oliver sostiene il principio inclusivo in educazione, proponendo un modello alternativo al
sistema segregato dell’educazione speciale che, a partire dal diritto fondamentale di ogni persona ad essere
educata nella propria comunità, afferma la necessità del superamento delle categorizzazioni medicospecialistiche e di ogni altro genere di classificazione tra gli studenti in ragione di appartenenze etniche, culturali
o di genere. La finalità è valorizzare la differenza tra le persone come risorsa didattica ed esperienziale. Il
paradigma inclusivo è stato fortemente promosso in Inghilterra a partire dagli anni Novanta, successivamente
dall’UNESCO nel mondo. Certamente un ruolo primario nella sua genesi ed affermazione è stato svolto dai
movimenti delle persone disabili e dagli autori disabili, attivamente impegnati contro la segregazione
educativa13.
La parte conclusiva del libro torna sui temi dell’egemonia, del ruolo politico degli intellettuali e dei
movimenti, e sulle prospettive dell’affermatività disabile nel mondo globalizzato.
Un testo interessante di Mike Oliver e Jane Campbell è Disability Politics: Understanding Our Past,
Changing Our Future (Oliver, Mike; Campbell, Jane, 1996), in cui viene riepilogata la storia del movimento
disabile inglese attraverso metodologie emancipative capaci di coinvolgere come attori narranti i rappresentanti
disabili dei movimenti. Come afferma l’introduzione, “questo libro è un misto di teoria sociale, storia politica,
ricerca azione, biografia individuale ed esperienza personale”.
Mike Oliver ha recentemente contribuito come curatore, con Colin Barnes e Len Barton14, all’edizione di
12 Boggs, C. Social Movements and Political Power, Philadelphia, Temple University Press, 1986. cit. Oliver, 1990, 130.
13 Ad eccezione degli esponenti della comunità Deaf, che temono di perdere lo specifico culturale che li caratterizza come
comunità linguistica. Propriamente i non udenti attivisti non si considerano disabili ma minoranza linguistica prevaricata
dalla maggioranza fonocentrica.
14 Len Barton è direttore della rivista storica dei disability studies inglesi, Disability and Society. Con articoli importanti
Disability Studies Today (Barnes, Oliver, Barton, 2002), libro importante che si inserisce nel dibattito
contemporaneo tra i diversi orizzonti di ricerca dei disability studies, presentandone le posizioni e i punti di
divergenza: ne seguiremo lo sviluppo tematico, per render conto della varietà delle prospettive e degli ambiti di
ricerca.
Nell’introduzione dei curatori è esplicitato il criterio di selezione degli interventi, scelti tra quanti meglio
rappresentano lo stato attuale della disciplina nelle sue diverse espressioni, ma non solo: «I disability studies,
come gli studi etnici e postcoloniali, gli studi femministi e gay e lesbici, si sono sviluppati da una posizione di
attivismo e coinvolgimento, piuttosto che da una prospettiva distaccata. Così, come curatori, abbiamo cercato
interventi di autori che corrispondessero a tale posizione. Questo perché è nostra ferma convinzione che questo
arricchisca, anziché limitare, la qualità dei loro contributi»(Barnes, Oliver, Barton, 2002, 11). L’introduzione
prosegue riepilogando la storia critica della disciplina e l’articolazione delle diverse prospettive teoriche esposte
negli articoli raccolti.
Gary L. Albrecht (curatore del monumentale Handbook of Disability Studies) in American Pragmatism
and Disability Studies, propone un intervento critico in cui viene individuato il limite della ricerca sociale
americana sulla disabilità, colto nell’incapacità di sviluppare la dimensione storica della ricerca e di rapportarsi
alla produzione critica extranazionale, nelle sue referenze teoriche: il pragmatismo filosofico e l’interazionismo
sociologico.
Alcune proposte si rapportano alla storia dello studio critico della disabilità, collocandone la genesi
consapevole nell’elaborazione del modello sociale e rimarcandone la validità come strumento di
autoaffermazione politica, ma anche i luoghi problematici dell’articolazione. Carol Thomas analizza i modelli
istituzionali e impliciti della disabilità e il sorgere del modello sociale come proposta politica radicale. Disability
and the Body, di Bill Hughes, propone una prospettiva dialettica, per cui alla relazione tra disabilità e corpo
dell’ontologia essenzialista del modello medico (tesi) sarebbe seguita (antitesi) la proposta politica del modello
sociale, per cui «la disabilità non è un problema personale o medico ma un insieme di barriere fisiche e sociali
che vincolano, regolano e discriminano le persone con invalidità fisiche», per giungere (sintesi) all’affermazione
secondo cui «la menomazione (impairment) è sociale e la disabilità incorporata (embodied)». Posizione
esplicitata in riferimento ai temi della analisi biopolitica foucaultiana: nessuna politica passa per i corpi come
quella che passa per i corpi disabilitati.
Il testo di Anne Borsay, History, Power and Identity approfondisce l’analisi della dimensione storica
dell’emergenza della disabilità e le sue implicazioni identitarie, sul piano individuale e collettivo.
Paul Abberley, in Work, Disability, Disabled People and European Social Theory, sostiene che tanto la
prospettiva conservatrice funzionalista quanto quella radicale marxista nello studio della disabilità concordano
nel considerare il lavoro come momento centrale dell’inclusione sociale. In riferimento alla ricerca sociale
europea (Honneth, Offe), Abberley afferma la necessità di svincolarsi dalla subordinazione alla logica della
produzione per ripensare altrimenti i luoghi dell’oppressione sociale delle persone disabili.
Alla dimensione propriamente politica dell’affermatività disabile sono dedicati gli interventi di Phil Lee e
Harlan Hahn. Lee, in Shooting for the Moon: Politics and Disability at the Beginning of the Twenty-firtst
Century, analizzando la storia dei movimenti emancipativi, sostiene la necessità di una maggiore consapevolezza
in termini identitari e strategici, per potere incidere concretamente sull’organizzazione degli apparati di stato,
relativamente alla redistribuzione delle risorse, alla gestione dei servizi e, in senso ampio, ai diritti di
cittadinanza. Hahn volge l’attenzione alla relazione tra le politiche gestionali destinate alle persone disabili, gli
assunti che le orientano e i movimenti emancipativi.
La globalizzazione e quanto ne ricade sulla vita delle persone disabili è oggetto degli studi di Cris Holden
e Peter Beresford (Globalization and Disability) e di Marcia H. Rioux (Disability, Citizenship and Rights in a
Changing World).
Il sociologo Geof Mercer, autore (con Colin Barnes e Tom Shakespeare) di un testo significativo di
inquadramento in termini sociologici della disabilità (Exploring Disability: a Sociological Introdution), dedica
l’intervento conclusivo del testo all’analisi di una delle proposte teoriche più interessanti della produzione dei
disability studies, la ricerca sociale emancipativa (emancipatory disability research). Ipotesi di lavoro proposta
da Oliver (Changing the Social Relations of Research Prodution? 1992) e praticata in Disability Politics:
Understanding our Past, Changing our Future, di Mike Oliver e Jane Campbell, la ricerca emancipativa sulla
della rivista ha pubblicato Disability and Society: Emergine Issues and Insights, Harlow, Longman, 1996.
disabilità asseconda principi tali da porre la centralità della persona disabile, quindi rifiuto del modello
individuale/medico della disabilità a favore di quello sociale, rifiuto di una pretesa oggettività a favore di una
prospettiva di parte funzionale all’elaborazione di strategie autoaffermative, rovesciamento della relazione
ricercatore/oggetto della ricerca e messa in questione delle relazioni materiali nella produzione della ricerca,
nonché pluralismo metodologico.
Disability Studies Today è un testo ricco di spunti e proposte teoriche significative, esempio del livello di
consapevolezza dei discorsi dei disability studies inglesi, non inferiore a quello degli altri piani della ricerca
culturale.
Colin Barnes è autore, con Geof Mercer e Tom Shakespeare di un libro particolarmente interessante in
relazione alla sociologia della disabilità, Exploring Disability: a Sociological Introduction15. Si tratta di una
ricognizione approfondita dei temi di rilevanza sociologica specifici dei disability studies: modelli, teorie,
organizzazione dei servizi, le barriere disabilitanti in educazione, nel lavoro, nei trasporti e nella vita e le
prospettive di emancipazione politica. La parte conclusiva è dedicata alla cultura della disabilità, alle sue
rappresentazioni sociali e culturali.
Tom Shakespeare, uno degli autori del testo precedentemente introdotto, ha contribuito ad allargare gli
orizzonti degli studii inglesi sulla disabilità ed è curatore di un’antologia di riferimento, The Disability Studies
Reader: Social Science Perspectives16, in cui sono raccolti in tre sezioni (1: dall’attivismo all’accademia, 2: la
disciplina in sviluppo, 3: dibattiti e dialoghi) alcuni contributi importanti degli autori storici ed emergenti dei
disability studies inglesi. Gli articoli della prima parte sono di autori storici come Paul Hunt, Vic Finkelstein e
Simon Brisenden ed impostano i discorsi sull’emergenza dello studio culturale della disabilità, nella seconda si
trattano questioni generali o settoriali in relazione alla sociologia della disabilità. Vi si trovano contributi
significativi di autori dei disability studies inglesi come Len Barton, Colin Barnes e Paul Abberley. La parte
conclusiva propone spunti per lo sviluppo della disciplina, con interventi (come Disability Discorse in a
Postmodern World, di Mairiam Corker) che aprono la prospettiva dei disability studies alle teorie critiche
contemporanee di matrice poststrutturale.
Shakespeare ha analizzato l’influenza crescente delle teorie critiche poststrutturaliste sull’analisi culturale
della disabilità in un’opera edita in collaborazione con Mairiam Corker, Disability/Postmodernity17. A differenza
dell’analisi materialista che ha articolato i disability studies inglesi in stato nascente, la dominante non è più il
piano economico, ma la costituzione e la gestione sociale dei discorsi. Molti dei saggi proposti sono di eccellente
livello e raccordano i temi della disabilità ad altri ambiti della ricerca culturale, come gli studi postcoloniali, di
cui è esempio Disability in the Indian Context: Post-colonial Perspectives di Anita Ghai, l’indagine sul corpo
post-umano nelle rappresentazioni culturali, analizzato da Johnson Cheu in De-gene-rates, Replicants and Other
Aliens: (Re)defining Disability in Futuristic Films, o la ricerca estetica, come in The Crooked Timber of
Humanity: Disability, Ideology and Aesthetic di Anita Silvers o Image Politics Without the Real: Simulacra,
Dandysm and Disability Fashion di Petra Kuppers.
L’apertura ai temi della costituzione discorsiva della disabilità ha trovato espressione in un testo curato da
Mairiam Corker e Sally French, Disability Discourse18. La raccolta presenta interventi di autori storici come
Oliver che in Final Accounts and the Parasite People, annunciato come suo ultimo contributo alla teoria della
disabilità, critica radicalmente la ricerca come indagine, “research as investigation”.
Sono giunto alla conclusione che, se dobbiamo sviluppare un paradigma di ricerca veramente
emancipativo, dobbiamo assicurare che il discorso su cui si fonda sia a sua volta emancipativo. A mio
parere ciò implica la creazione di un nuovo discorso fondato sull’idea della ricerca come produzione.
Sono questi ultimi passi del mio viaggio intellettuale ciò che provo a proporre in questo articolo. (183)
Per la prospettiva affermativa della soggettività collettiva disabile, la ricerca è di qualche utilità soltanto se
15 Colin Barnes, Geof Mercer, Tom Shakespeare, Exploring Disability, London, Polity Press, 1999.
16 Tom Shakespeare, (a cura di), The Disability Studies Reader: Social Science Perspectives, London, Continuum, 1998.
Un altro reader importante, meno legato alla prospettiva dei disability studies inglesi e più alla cultura Deaf, è The
Disability Studies Reader, curato da Lennard Davis, London, Routledge, 1997.
17 Tom Shakespeare, Mairiam Corker, Disability/Postmodernity, London, Continuum, 2002.
18 Mairiam Corker, Sally French, Disability Discourse, Buckingham, Open University Press, 1999.
la prospettiva investigativa è subordinata a quella emancipativa. Oliver avanza dubbi circa la possibilità che ciò
possa realizzarsi e volge uno sguardo critico anche al proprio lavoro precedente che, malgrado la volontà e le
premesse, è ancora vincolato alla logica della ricerca come indagine, colonizzazione delle esperienze anziché
strumento di lotta.
Tra gli autori storici è presente anche Tom Shakespeare con un intervento sulle rappresentazioni culturali
della disabilità nel cinema: Art and Lies? Representation of Disability on film, centrato sull’analisi di Breaking
the Waves di Lars von Trier e di Shine. Anche in altri interventi interni ai disability studies (inglesi e americani)
la ricognizione della rappresentazione cinematografica delle disabilità si è rivelato uno strumento di critica
culturale decisamente produttivo, del resto sono molti i registi che hanno fornito materiali per l’analisi di una
estrema potenza espressiva, si pensi a David Lynch, Lars Von Trier, Werner Herzog o Tod Browning. Sul
versante negativo vengono censurate come ricettacoli di pregiudizi e stereotipi le apologetiche pietistiche come
Il mio piede sinistro, Shine appunto, o Rain Man.
Un articolo dell’autrice australiana Judy Singer contenuto in Disability Discourse sembra di particolare
interesse in relazione alla verifica delle teorizzazioni del modello sociale inglese: si tratta di “Why Can’t You be
Normal for Once in Your Life?” From a Problem with no Name to the Emergence of a New Category of
Difference, dedicato alla trasposizione del modello sociale alle patologie relazionali dello spettro autistico, in
particolare alla sindrome di Asperger. In effetti le patologie relazionali hanno luogo esclusivamente in relazione
alla delusione di aspettative sociali: corrispondenza emotiva, aspettativa di discorso, rispetto delle gerarchie,
portano all’evidenza nel modo più compiuto come la disabilità sia integralmente un prodotto sociale. La
sindrome di Asperger, “scoperta” negli anni quaranta, divenuta oggetto di studio negli anni ottanta e canonizzata
dal Manuale Diagnostico e Statistico (DSM4 r3) solo nel 1994, rivela inoltre nella propria emergenza clinica e
nei caratteri il legame con le contingenze storiche e culturali che l’hanno generata. Non è casuale che
l’attenzione per l’inadeguatezza relazionale si sia manifestata nel tempo della tarda modernità, in cui la capacità
di comunicazione è divenuta chiave di cittadinanza. Un interesse ulteriore viene dalle abilità logico-deduttive e
linguistiche di chi ne è segnato: sono stati catalogati aspies anche Alan Turing, Ludwig Wittgenstein, Nikola
Tesla, Glenn Gould e Bill Gates, il “disturbo” viene talvolta individuato come sindrome dei geek o degli
ingegneri. Correlata al deficit nella comunicazione in presenza si manifesta quindi un’abilità particolare in
ambiti del sapere, linguistico e tecnologico, a loro volta specificamente costitutivi dei caratteri della tarda
modernità. Internet si è rivelata una risorsa comunicativa funzionale alla costituzione dell’identità aspie: esistono
mailing lists e rooms IRC in cui, attraverso lo scambio di esperienze di vita, si è creato uno spazio di mutuo
riconoscimento, qualcosa di paradossale come una comunità di solitari, che si individuano aspies in ragione della
comune forma di relazione al mondo, differenziandosi dalla norma dei Neurologically Typicals (NTs).
Forse, se si sentirà più potente la voce dei “neurologically different”, emergerà una visione più
ecologica della società: più rilassata rispetto agli stili di vita, felice di lasciare che ogni individuo coltivi la
sua propria nicchia, basata sulle tipologie di mutuo riconoscimento che possono sorgere solo dal continuo
sviluppo di una autoconsapevolezza sociologica, psicologica ed ora neurologica (Corker, French, 1999,
p.67).
Disability discourse propone altri materiali di particolare interesse distribuiti in tre aree tematiche, 1)
narrative personali, 2) la creazione sociale dell’identità disabile e 3) discorsi culturali.
Il lavoro di apertura tematica dei disability studies promosso da Tom Shakespeare si è concretizzato su un
altro versante in Sexual politics of disability (Shakespeare, Gillespie-Sells, Davies, 1997), indagine sulle barriere
sociali che le persone disabili incontrano nell’espressione della sessualità. Le questioni identitarie, relazionali,
sessuali, le problematiche legate agli abusi ed alla denegazione dei bisogni vengono investigate con riferimento a
narrazioni dirette di persone disabili.
Conclusioni: i disability studies tra teoria critica e pratica emancipativa dei movimenti delle persone
disabili
Lo studio culturale della disabilità è una realtà accademica ormai consolidata nel mondo anglosassone. La
sua proposta è stata in grado di incidere in modo sostanziale sulla percezione sociale della disabilità e
conseguentemente sulle scelte degli organi istituzionali delegati alla sua gestione. Come sostiene Mike Oliver,
l’antidoto per evitare che la spinta propulsiva che ne è stata la genesi si esaurisca nel vaniloquio autoreferenziale
di tanta saggistica accademica, è mantenere vivo il legame con le realtà di base della comunità disabile, cogliere
le urgenze delle persone e le emergenze sociali della disabilità. Solo una relazione simbiotica tra teoria e pratiche
emancipative può mantenere attivo e vitale il dibattito sulla natura culturale della disabilità.
Negli stessi anni, i discorsi dei disability studies si sono configurati in relazione agli ambiti nazionali: negli
Stati Uniti si sono sviluppate ricerche nella stessa direzione, ma con referenze teoriche e paradigmi interpretativi
differenti (prevalentemente di matrice interazionista), così in Francia e nel nord Europa. Solo negli ultimi anni,
in relazione alla comune influenza degli altri ambiti della ricerca culturale, è iniziato un dibattito tra le diverse
elaborazioni. Di tanta produzione teorica non è arrivata alcuna voce nel nostro paese, sembra importante
proporla, per sprovincializzare il dibattito accademico sulla disabilità, per arricchire la ricerca
sull’interpretazione dei fenomeni culturali e per aiutare la soggettività collettiva disabile a pensare in termini
affermativi la propria condizione.
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Enrico Valtellina
Di formazione filosofico teoretica, collabora con la cattedra di Pedagogia Speciale presso l’Università di
Bergamo, occupandosi delle interpretazioni culturali della disabilità. Prossimo alla stampa è il volume Quale
disabilità?, scritto con Roberto Medeghini. Collabora inoltre con Fabio Dovigo, cattedra di Pedagogia
Sperimentale, relativamente all’elearning e agli strumenti per la comunicazione asincrona. Altra sua dedizione
significativa è l’interpretazione culturale delle patologie relazionali dello spettro autistico, trovandocisi egli
stesso.
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