Rassegna Nothing About Us Without Us Dall’attivismo all’accademia e ritorno: i disability studies inglesi. Migliaia di persone, il cui unico crimine è essere fisicamente invalide, sono condannate alla prigione a vita … Per la più ampia maggioranza non c’è alternativa, nessun appello, nessuna revoca della sentenza per buona condotta, nessuna possibilità di fuga, eccetto la fuga dalla vita stessa. UPIAS, Principi fondamentali della disabilità (1976) Abstract The paper retraces the development of the cultural interpretation of disability from which stemmed the theoretical framework known as the “English social model of disability”. From the pioneering works of disabled theorists like Paul Hunt, Vic Finkelstein and, above all, Mike Oliver, to the most recent production of the English disability studies, it highlights themes related to the cultural investigation of disability and the shift from a Marxist approach, tied to the english re-discovery of Gramsci in the early seventies, to an increasing interest for poststructuralist theorizations, marking a confluence with other fields of cultural enquiry. Introduzione Il discorso accademico sulla disabilità, nel nostro paese, è monopolio di medici, educatori e specialisti, le cui legittime finalità escludono l’apertura dei temi a una più ampia contestualizzazione sociale e culturale. Ciò che si viene a proporre è un itinerario di ricerca sulla storia che, dal sorgere di una consapevolezza interna alle avanguardie dell’associazionismo disabile inglese, ha portato allo sviluppo di un discorso critico di alto livello sulla interpretazione culturale della disabilità. Nella citazione proposta in apertura, tratta dal testo che di fatto ha aperto lo spazio alla proposta teorica che si viene ad esporre, è evidente la dimensione di engagement che ne sostiene la ricerca, dai suoi albori, l’articolazione del discorso critico sulla disabilità è merito di ricercatori disabili, il motto dei disability studies è nothing about us without us, niente su di noi senza di noi. Come altre forme di affermatività sociale, il tempo dell’emergenza è la fine degli anni Sessanta, e non è priva di significato la genesi temporale comune con il movimento antipsichiatrico, le rivendicazioni femministe, Stonewall e l’affermatività radicale del Black Power. Nei termini gramsciani che costituiscono lo sfondo teorico privilegiato di riferimento degli autori che andremo a proporre, si può affermare che per la prima volta si sono affacciate sulla ribalta sociale soggettività rimosse che hanno posto una sfida consapevole all’ordine egemonico. Vedremo come gli autori che hanno creato i disability studies inglesi rimarchino l’omologia tra il proprio lavoro e le altre teorie emancipative nate dai movimenti e cresciute negli studi culturali sul gender, la sessualità e la razza. Dopo avere introdotto i temi attraverso la ricognizione della produzione degli autori disabili pionieri della disciplina, Paul Hunt e Vic Finkelstein, si analizzerà approfonditamente lo sviluppo di un testo che rappresenta la sintesi e la sistematizzazione della proposta teorica del modello sociale inglese, The Politics of Disablement di Mike Oliver. Il libro di Oliver merita un’attenzione particolare in quanto rappresenta una proposta teorica forte ed articolata, che media i discorsi emersi nei movimenti con gli strumenti critici delle scienze sociali, inoltre perché costituisce un punto di riferimento per la produzione teorica successiva. Si è accennato come i disability studies inglesi, almeno fino agli anni Novanta, debbano molto, nell’impianto teorico e nella topica sociale, alla riscoperta di Gramsci da parte del marxismo inglese; è evidente inoltre, per lo più in forma implicita, una prossimità teorica con la prima espressione della “svolta culturale” nelle scienze umane, il cultural materialism inglese, tanto nella versione antropologica di Marvin Harris, quanto nell’elaborazione critica di Raymond Williams e di Terry Eagleton. Negli anni successivi si è manifestata una differenziazione tanto dei temi quanto delle referenze teoriche, nonché un confronto con gli altri ambiti della ricerca culturale e con l’elaborazione sulla disabilità prodotta nel mondo. Il quadro attuale della disciplina è ampiamente differenziato, tanto nel livello della proposta quanto nel suo spettro tematico; una ricognizione di alcuni interventi particolarmente significativi permetterà di articolare il diagramma di una disciplina che si sta individuando come uno degli ambiti più vitali della ricerca sociale contemporanea. La genesi del modello sociale inglese della disabilità Agli anni Sessanta risale la prima antologia di testi di autori disabili, curata da Paul Hunt, dallo stesso titolo, Stigma (1966), scelto da Erving Goffman per il suo testo sulla gestione delle spoiled identities. Hunt è il padre fondatore dello studio critico della disabilità in Inghilterra. Disabile fisico internato in istituto, in A Critical Condition1 ha posto le basi del modello sociale della disabilità, che successivamente diventerà il centro motore della proposta teorica dei disability studies inglesi. Per Hunt, le persone disabili, ‘sfortunate, inutili, differenti, oppresse e malate’, pongono una sfida ai valori della società occidentale. Sfortunate perché incapaci di godere dei benefici materiali e di cittadinanza della società contemporanea, inutili in quanto non in grado di contribuire alla produzione di beni economici. Pur senza articolare il discorso in termini concettualmente rigorosi, la sua analisi contiene i germi degli sviluppi ulteriori dello studio della disabilità, per primo ha interpretato la disabilità come una serie di vincoli imposti alla persona da un’organizzazione coartante del sociale. Hunt è stato anche uno dei membri fondatori di UPIAS (Union of the Phisically Impaired Against Segregation, unione delle persone con invalidità fisica contro la segregazione), associazione di persone disabili di cui faceva parte anche Vic Finkelstein, sudafricano esule in Inghilterra dopo essere stato incarcerato in isolamento e torturato, vittima delle persecuzioni del regime razzista dell’apartheid. Come detto, UPIAS ha prodotto un testo cardine per l’interpretazione della disabilità, Fundamental Principles of Disability, di cui Michael Oliver, afferma che «ancora oggi sostiene meglio di quanto io possa fare ciò che penso della disabilità» (Oliver, 1996). Uno dei motivi di interesse dei Principi è il loro tono radicalmente affermativo, una novità assoluta per il discorso sulla disabilità, da sempre nelle mani di specialisti e filantropi e, fino ad allora, mai in quelle delle persone disabili stesse. Sul piano teorico, il testo propopone la partizione fondamentale tra impairment e disability, su cui successivamente si articolerà il modello sociale della disabilità. Impairment, tradotto generalmente come invalidità o menomazione, è la condizione contingente in cui si trova la persona, mentre disabilità è il vincolo imposto da un’organizzazione abilista e coartante del sociale: «Dal nostro punto di vista è la società che disabilita le persone con invalidità fisiche. La disabilità è qualcosa che viene imposto sulle nostre menomazioni attraverso il modo in siamo senza necessità isolati ed esclusi dalla piena partecipazione alla vita sociale. Le persone disabili sono pertanto un gruppo sociale oppresso»2. Vic Finkelstein viene considerato il fondatore del modello sociale della disabilità. Psicologo clinico, attivista marxista, trotzkista, per questo incarcerato e torturato dal regime sudafricano dell’apartheid, in Attitudes and Disabled People: Issues for Discussion3, del 1980, mette in questione il “modello individuale/medico” egemone, secondo cui la disabilità è un problema legato alle sventure private degli individui, per proporre al contrario l’interpretazione della disabilità come relazione sociale oppressiva. La storia dell’esclusione delle persone disabili viene analizzata in termini materialisti, indagandone le ragioni strutturali, economiche, e la relazione ad un’organizzazione del sociale. Questo testo ha articolato per la prima volta i caratteri del modello sociale della disabilità, cuore della proposta teorica dei disability studies inglesi. Spostare l’attenzione dalla sventura individuale di un corpo fallato (ciò che Oliver chiamerà il modello della disabilità come “tragedia 1 Testo contenuto nel volume collettivo Stigma, riprodotto in Tom Shakespeare, 1998 e disponibile in linea nell’archivio sui disability studies dell’Università di Leeds, http://www.leeds.ac.uk/disability-studies/archiveuk/ . L’archivio di Leeds è una risorsa fondamentale per lo studio della ricerca inglese sulla disabilità, vi si trovano molti materiali che verranno introdotti in questa rassegna. 2 UPIAS, Fundamental Principles of Disability, 1976, p.14. 3 Victor Finkelstein, Attitudes and Disabled people: Issues for Discussion, New York, World Rehabilitation Fund, 1980, disponibile Arch. Leeds. personale”) all’organizzazione del sociale che esclude dalla cittadinanza attiva chi non corrisponde alle sue aspettative abiliste, significa riconfigurare integralmente il modello interpretativo. Il lavoro di Finkelstein è stato fondamentale anche per lo sviluppo ulteriore dei disability studies inglesi: in Emancipating Disability Studies (Leeds arch.), viene ripercorsa un’altra esperienza determinante per la crescita del dibattito inglese sulla disabilità, l’istituzione del corso sulla condizione disabile presso la Open University. Lo sviluppo della prima proposta accademica dei discorsi sulla disabilità, dalla sua istituzione nei primi anni Settanta in poi, è stato segnato dal passaggio da un’impostazione ancora legata alla proposta del mondo professionale medico ed educativo ad un vero corso in Disability Studies, e ciò si è realizzato in ragione del coinvolgimento nella pratica didattica di autori disabili, tra cui Michael Oliver. Dopo una vita dedicata alla ricerca sociale sulle prospettive emancipative per la soggettività disabile (si vedano A Personal Journey into Disability Politics e Whose History?, Leeds Arch.), Finkelstein si occupa ora del rapporto tra disabilità ed arti, dirigendo la rivista DAIL (Disability Arts in London). Mike Oliver è un altro autore cardine dei disability studies inglesi, oltre che rappresentante emblematico degli ambienti culturali in cui le proposte teoriche e pratiche che hanno generato tali ricerche sono sorte. Figlio della classe operaia inglese, da adolescente, per un tuffo in piscina mal riuscito durante una vacanza, finì paraplegico. In gioventù si distinse negli sport per disabili, quindi, laureato, venne coinvolto nell’esperienza didattica della Open University. Il suo lavoro teorico si inscrive nell’orizzonte del materialismo storico inglese, legato alla riscoperta del lavoro di Gramsci con la pubblicazione della traduzione dei Quaderni dal carcere e all’attenzione ai temi althusseriani di Ideologie e apparati ideologici dello stato. The Politics of Disablement: un manifesto per i disability studies inglesi In The Politics of Disablement (Oliver, 1990), in particolare, Oliver si è proposto di esporre in termini sociologicamente adeguati il modello sociale della disabilità. Il testo rappresenta nel modo più organico possibile gli orizzonti e le prospettive di ricerca dell’interpretazione materialista inglese sulla disabilità, ne è il manifesto e il punto di riferimento teorico privilegiato. È quindi opportuno presentarlo in modo approfondito, al fine di illustrare le direttive fondamentali della proposta teorica. The Politics of Disablement si articola su un doppio registro, per un verso è una decostruzione radicale dell’interpretazione del modello medico-individualista della disabilità, caratterizzata come “teoria della disabilità come tragedia personale” (Oliver, 1990, 1); inoltre è la proposta radicale alternativa a tale prospettiva ideologica, che si concreta nel “modello sociale della disabilità”. Prima di elaborare le direttive per un’impostazione del discorso sulla disabilità in termini sociologicamente adeguati, Oliver analizza il significato delle definizioni ufficiali della disabilità, in particolare la partizione tra deficit, disabilità ed handicap proposto dall’OMS (ICIDH, 1980) che, pur cogliendone la natura sociale, non vedono come questa sorga da cause sociali. A monte delle definizioni ufficiali sta l’assunto teorico dell’“individualismo metodologico”, che rifiuta ogni riferimento alle forze sociali, all’organizzazione strutturale della società e a fattori istituzionali come elementi esplicativi, centrando l’attenzione su fatti relativi a individui. Ciò che è dunque urgente per Oliver è l’elaborazione di una teoria sociale della disabilità come “teoria dell’oppressione sociale”. Le persone disabili hanno già individuato, nella partizione tra impairment e disability (Upias, 1976), le direttive per un’analisi alternativa: ciò che muta sostanzialmente è che in questo caso la disabilità si trova integralmente inscritta nell’orizzonte sociale e mai, come avviene surrettiziamente nelle definizioni ufficiali, è riducibile alla patologia biologica. Una delle critiche ricorrenti al lavoro di Oliver e degli autori che sviluppano l’analisi della disabilità dalla medesima prospettiva è di trascurare il primo termine, il deficit, per totalizzare l’attenzione sulla dimensione dell’oppressione sociale, sulla disabilità. Certamente una decostruzione del dispositivo handicappante deve articolarsi in relazione alle dinamiche sociali costitutive della disabilità, ponendo sullo sfondo le singolarità che danno luogo all’occasione della sua emergenza, non di meno Oliver dedica un capitolo del suo testo all’analisi della costruzione culturale del deficit, del suo radicamento in peculiari contingenze sociali, economiche, culturali e istituzionali. Non solo la disabilità è prodotta da contingenze culturali, ma anche il deficit, cosa facilmente ostensibile analizzando la sua distribuzione su base planetaria: “Le società in cui le persone vivono determinano le loro condizioni di salute, malattia e morte. Nella misura in cui hanno mezzi per gestire i loro ambienti economici e sociali, hanno i mezzi per determinare le loro aspettative di vita”4. Così nel terzo mondo i deficit sorgono da malattie infettive, povertà, ignoranza e carenza di cure e diagnostiche mediche, mentre nelle società 4 Susser M., Watson W., Sociology in Medicine, London, Oxford University Press, 1971, cit Oliver, 1990, p.12. opulente, in cui sono in declino molti tipi di malattie infettive, si manifesta un’incidenza maggiore di invalidità per trauma da incidente stradale o sul lavoro o, ad esempio, delle invalidità legate all’invecchiamento della popolazione. Un altro fattore determinante l’incidenza di alcune tipologie di deficit, come le malattie degenerative, sono le condizioni socioeconomiche, e ciò è tanto più vero nei paesi poveri, in cui “non solo la disabilità assicura la povertà alla vittima, ma la povertà stessa è una delle cause principali della disabilità” (Oliver, 1990, p. 13). Non è sufficiente limitarsi all’analisi quantitativa delle sue incidenze per comprendere la natura di prodotto culturale dell’invalidità: è bensì necessario considerare come le rappresentazioni legate alla condizione deficitaria siano integralmente un costrutto culturale. Così in una popolazione dell’Africa occidentale in cui si registra una forte incidenza di una malformazione congenita al piede, tale condizione non viene considerata invalidante o significativa, in modo analogo sull’isola di Martha’s Vineyard, in Massachusetts, in cui la popolazione è per la più parte non udente per la ricorrenza di una variante genetica ed il linguaggio dei segni è conosciuto da tutti, il deficit auditivo non è correlato ad alcuna disabilità, si così è creata una società “funzionalmente bilingue”. L’antropologia, secondo Oliver, ha trascurato in generale il campo dell’analisi culturale dell’invalidità e quando anche ci si è rapportata lo ha fatto muovendo dall’assunto dell’individualismo metodologico, precludendosi quindi la possibilità di cogliere la dimensione sociale del fenomeno. Il lavoro di analisi transculturale della disabilità resta per Oliver ancora da cominciare ed il primo passo è rielaborare il materiale prodotto dalle ricerche sul campo rianalizzandone i dati alla luce di prospettive e metodologie adeguate alla contestualizzazione sociale della disabilità. “Persone disabili sono esistite in tutte le società ed in ogni periodo storico. Comunque, le tipologie di restrizioni disabilitanti e l’esperienza delle persone affette variano da società a società e da periodo a periodo. Due antropologi che hanno preso sul serio la disabilità come categoria d’analisi, hanno colto le difficoltà legate al voler fornire adeguati “dati etnologici” relativamente alla disabilità fisica sia in quanto non esiste una classificazione logica o medica che valga su un piano transculturale ed anche perché le disabilità sociali degli individui e dei gruppi sono peculiari alle condizioni sociali della società in questione. “Ad esempio, i capelli color carota sono un tratto fisico da un lato e un handicap in alcune situazioni sociali, ma una persona con una simile caratteristica non viene considerata disabile. Nemmeno il sintomo è il solo criterio, perché benché una persona affetta da paralisi infantile possa come conseguenza zoppicare, una calzatura adeguata può risolvere il problema. Se poi si introducono le categorie di altre culture, la confusione si moltiplica. Anche assumendo l’esistenza di una simile classe in altre culture, i contenuti cambiano. Lo sfregio sfigurante a Dallas diviene un segno d’onore a Dahomey””. (Hanks e Hanks, 1980) (Oliver, 1990, 18) La ricognizione della ricerca empirica sulla disabilità nelle scienze sociali rivela l’inadeguatezza delle categorie utilizzate nella sua analisi e la loro natura ideologica, vincolate come sono alla prospettiva della disabilità come tragedia personale. Impostare un’analisi sociologica adeguata richiede come punto di partenza che si ponga centrale la relazione del soggetto individuale all’ambiente, nel senso più ampio, che muova dall’essere come essere sociale, secondo le indicazioni marxiane. “Il modo di produzione nella vita materiale determina il carattere generale del processo della vita sociale, politica e spirituale. Non è la coscienza degli uomini che determina la loro esistenza ma, al contrario, è la loro esistenza sociale che determina la loro coscienza” (Marx, Per la critica dell’economia politica, cit. Oliver, 1990, 23) Affermata la natura strutturale della determinante economica, Oliver sostiene che i due fattori cruciali nell’analisi sono l’entità del surplus economico generato in una società e la sua redistribuzione. In una società in cui non esiste sovrapproduzione, i soggetti deboli rischiano di doversi sostentare con le proprie forze, nelle società occidentali contemporanee, in cui l’economia genera un ingente surplus produttivo, la redistribuzione delle risorse si articola secondo complessi meccanismi, tra cui è fondamentale il welfare state, l’assistenza pubblica. Di più, la redistribuzione si compie secondo modalità fortemente condizionate da assunti ideologici. In Gran Bretagna (nel mondo occidentale) l’ideologia fondamentale che orienta la redistribuzione è la visione della disabilità come tragedia personale. Per potere comprendere come si sia affermata una simile prospettiva egemone sulla disabilità è necessario, per Oliver, indagarne la genesi attraverso l’analisi dell’evoluzione storica della gestione sociale delle problematiche legate alla disabilità. Porsi nella prospettiva teorica del materialismo storico significa in primo luogo localizzare le relazioni sociali in una situazione storica, ma anche fornire una prospettiva evolutiva della società. Non sono stati ancora compiuti tentativi sistematici in tale direzione per quanto riguarda la disabilità, ad eccezione di Finkelstein (1980), che coglie il passaggio dalla società agricola premoderna, in cui non vi erano preclusioni all’accesso al lavoro e in cui ogni risorsa era valorizzata, alla società industriale, in cui la richiesta di manodopera altamente efficiente e capace di reggere l’aumento dei ritmi produttivi esclude dall’accesso al reddito chi non è in grado di conformarvisi. La costituzione del capitale e l’esplicarsi della sua logica portano quindi all’esclusione progressiva delle persone disabili dal lavoro e, conseguentemente, dalla partecipazione sociale attiva. Sempre più tale crescente marginalizzazione porta a considerare le persone disabili come un problema sociale ed educativo, quindi all’istituzione di laboratori protetti, asili e scuole speciali. La ricognizione della genesi delle istituzioni di contenimento, asili, workhouses (laboratori protetti destinati ai disabili e ad altre categorie marginali) e scuole speciali, in relazione all’avvento del metodo di produzione capitalista, porta Oliver a considerarne il ruolo di apparati ad un tempo repressivi e ideologici 5. “… Lo sviluppo economico, il mutare delle idee e la necessità di mantenere un ordine hanno influenzato l’esperienza della disabilità e la risposta sociale ad essa. La nascita dell’istituzione come meccanismo sia di assistenza sia di controllo sociale ha giocato un ruolo chiave nello strutturare tanto le percezioni quanto l’esperienza della disabilità e facilitato l’esclusione sociale delle persone disabili. In questo, la dimensione ideologica è stata importante almeno quanto la reclusione fisica […]. Ciò che bisogna considerare ora è il modo in cui l’individualizzazione della vita nel capitalismo ha contribuito all’individualizzazione della disabilità e il ruolo che gruppi potenti, la professione medica, hanno avuto in questo processo”. (Oliver, 1990, 42) Il capitolo successivo “La costruzione ideologica della disabilità”, si occupa quindi del ruolo che lo sguardo medico ha assolto nella costituzione del dispositivo della disabilitazione. Il concetto di ideologia è estremamente problematico, significando di volta in volta “falsa coscienza e coscienza falsa”, visione del mondo, orientamento di classe o concezione ossificata. Foucault ha proposto in ragione di ciò il suo abbandono, altri autori come Slavoj Zizek o Ernesto Laclau l’hanno recentemente riabilitato cercando di cogliere e riarticolare ciò a cui il concetto voleva far segno. Oliver propone la seguente definizione dell’ideologico: “Qui, l’ideologia sarà caratterizzata come l’insieme di valori o credenze che sostengono le pratiche sociali, quali il lavoro, l’intervento medico e la fornitura di servizi di assistenza. Ma dire questo non basta, perché autorizzerebbe a ridurre la coscienza sociale a un insieme di ideologie in competizione. È necessario tornare al lavoro di Antonio Gramsci, che tentò di fornire un collegamento specifico tra le strutture sociali e le ideologie distinguendo tra ciò che chiamò ideologie “organiche” e “arbitrarie”. Di più, egli tematizzò la questione del potere e dell’ideologia dominante attraverso lo sviluppo del concetto di egemonia, che sussume le singole prospettive ideologiche in quanto “è la natura immediata e innocente dell’egemonia che produce compiutamente i suoi effetti – la “naturalezza” di un modo di pensare al sociale, all’economico, al politico e ai temi etici 6”. L’egemonia che definisce la disabilità nella società capitalista è costituita dall’ideologia organica dell’individualismo, dalle ideologie arbitrarie della medicalizzazione che sostengono l’intervento medico e dalla teoria della disabilità come tragedia personale che sostiene l’intervento dei servizi di assistenza. Vi sono incorporate anche le ideologie correlate ai concetti di normalità, abilità fisica e mentale”. (Oliver, 1990, 43-44) Al fondamento della costituzione del soggetto nel tempo del capitalismo compiuto sta l’ideologia dell’individuo che “liberamente” vende la propria forza lavoro: la costituzione ideologica dell’individuo è un presupposto della strutturazione della relazione economica capitalista. “L’ideologia “organica” dell’individualismo dà luogo alla costruzione dell’individuo disabile in quanto antitesi del corpo e della mente abile, ed alla medicalizzazione della disabilità in quanto problema particolare”. (Oliver, 1990, 46) Per Oliver, la disabilità si pone come correlato, resto differente, dell’affermazione del corpo abile al lavoro salariato ed alla produzione. L’inattitudine al lavoro pone la problematicità e la necessità di una gestione peculiare e differenziata delle persone disabili. Si innesca in questo modo il processo di esclusione, facilitato dalla centralità posta del corpo individuale, su cui assume competenza la casta medica. Se è naturale, ovvio e benefico che la medicina rivolga la propria attenzione alle problematiche specifiche, lo è molto meno la dedizione ad aspetti della gestione della vita delle persone che nulla hanno a che fare con il suo sapere, come “valutare le abilità alla guida, prescrivere sedie a rotelle, determinare la compensazione economica, stabilire i percorsi educativi e valutare le capacità e i potenziali lavorativi” (Oliver, 1990, 48). “Il modello medico della disabilità è radicato in un’enfasi 5 Il riferimento è al saggio di Louis Althusser Ideologia ed apparati ideologici dello stato, in parte edito in Freud e Lacan, Roma, Editori Riuniti, 1980, testo che ebbe grande influenza nel dibattito teorico marxista inglese. Gli apparati repressivi dello stato (esercito, polizia, sistema carcerario) agiscono prevalente con la violenza, gli apparati ideologici (sistema educativo, amministrativo e mediatico) prevalentemente con l’ideologia. 6 Hamilton, prefazione a R. Bocock, Hegemony, London, Tavistock, 1987, cit. Oliver, 1990. eccessiva sulla diagnosi clinica, la cui specifica natura è destinata a condurre a una visione parziale e inadeguata del soggetto disabile. Per capire la disabilità come esperienza, come cosa vissuta, abbiamo bisogno di ben più che di “fatti” medici, per quanto questi siano necessari per determinare una cura. Il problema sorge quando questi determinano non solo il trattamento (se un trattamento è possibile), ma anche la forma della vita degli individui cui capita di essere disabili” (Brisenden, 1986). Oliver sviluppa quindi un’analisi articolata delle dinamiche di potere e delle funzioni ideologiche della casta medica nel tempo del capitalismo sviluppato, richiamandosi anche alle analisi di Vic Finkelstein, che coglie il legame tra lo sviluppo del ruolo egemone della medicina e il processo di istituzionalizzazione. Oltre a ciò deve essere evidenziato come il processo di medicalizzazione della disabilità sia parte di una strategia più ampia tale da assicurare la partizione tra popolazione produttivamente attiva e popolazione residuale oggetto della gestione di apparati appositamente predisposti. Al fondo delle pratiche riabilitative sta l’ideologia della normalizzazione, così come il recupero alla società sta alla base della segregazione carceraria. È evidente come nei due casi la finalità ideologica serva da paravento ad attività lucrose ed a giustificare l’esistenza di apparati ideologico-repressivi appositamente istituiti. “Insomma, l’individuo disabile è un costruzione ideologica collegata all’ideologia organica dell’individualismo ed alle ideologie arbitrarie collegate alla medicalizzazione ed alla normalità. E l’esperienza individuale della disabilità è strutturata dalle pratiche discorsive che procedono da queste ideologie”. (Oliver, 1990, 58) Il capitolo seguente analizza la costituzione sociale dell’identità disabile, che non può essere intesa solo come risposta psicologica a un trauma o a una condizione, ma deve venire invece collocata nella storia e nell’ideologia. Ciò significa situare la persona nella cultura che la costituisce. Oliver analizza le immagini della disabilità nel mondo contemporaneo. La rappresentazione della persona disabile nella nostra società si gioca sul doppio registro dell’eccedenza e della mancanza, del più che umano o del subumano, tra l’eroe Douglas Bader asso volante senza gambe della guerra mondiale e Sir Clifford ne L’amante di lady Chatterley; raramente la rappresentazione corrisponde all’esperienza di vita delle persone disabili. Se è vero che nei tempi più recenti gli stereotipi hanno cominciato ad essere messi in questione, non di meno esercitano ancora una funzione condizionante. La rappresentazione della persona disabile come meno che umana influenza ad esempio l’intervento medico, giustificando l’accanimento alla riabilitazione e il trattamento ad oltranza. Per una rappresentazione adeguata della condizione disabile è necessario abbandonare l’assunto ideologico individualista, per analizzare la vita delle persone nelle loro condizioni sociali e materiali di vita. Non supereroi o reietti sventurati ma persone che si trovano a confrontarsi con situazioni straordinarie7 (nel senso di non ordinarie). Come si è detto, per gli autori marxisti inglesi, ciò corrisponde all’elaborazione di una teoria della disabilità come oppressione sociale. “Sostenere che le persone disabili siano oppresse implica … evidenziare anche altre questioni. Ad un livello empirico, significa sostenere che rispetto a questioni fondamentali, le persone disabili possono essere viste come un gruppo i cui membri vengono a trovarsi in una posizione di inferiorità in ragione della loro condizione. Significa inoltre che questi svantaggi sono dialetticamente collegati ad un’ideologia o ad un gruppo di ideologie che perpetuano e giustificano questa situazione. In più, si tratta di sostenere che questi svantaggi e le ideologie che li pongono in essere non sono né naturali, né inevitabili. Infine, implica l’identificazione di chi tragga beneficio da questo stato di cose” (Abberley, 1987, cit. Olver, 1990, 49). Circa l’oppressione delle persone disabili l’evidenza empirica abbonda: nell’inaccessibilità dei luoghi, nel lavoro, nei trasporti, nell’educazione, si è visto come questi svantaggi siano correlati all’ideologia organica dell’individualismo e alle ideologie arbitrarie della medicalizzazione e della teoria della disabilità come tragedia 7 Lo straordinario marca la rappresentazione della disabilità, spesso ciò porta alle connotazioni negative del mostruoso, del perturbante, del mesmerico e del comico. Extraordinary Bodies, (di Rosemarie Garland Thomson, New York, Columbia University Press, 1997) è il titolo di un volume decisamente interessante che analizza la rappresentazione della disabilità nella cultura americana. Sulla fascinazione per le forme eccessive e straordinarie del corpo e sullo sfruttamento torbido che ne è seguito nei side shows circensi e nelle fiere di provincia fino alla prima metà del secolo scorso si vedano Robert Bogdan, Freak Show: Presenting Human Oddities for Amusement and Profit, Chicago, University of Chicago Press, 1988 e Freakery: Cultural Spectacles of the Extraordinary Body, edito da Rosemarie Garland Thomson, New York, New York University Press, 1996. Un documento eccezionale in relazione a questi temi è Freaks, di Tod Browning, del 1932, film prodotto come horror movie, ambientato in un circo in cui si esibiscono persone con sindromi tipiche deformanti o caratteristiche fisiche estreme, nani, donne barbute, gemelle siamesi. personale. L’analisi transculturale ha mostrato inoltre come non si tratti di invarianti, ma di fenomeni specificamente collegati a una peculiare organizzazione del sociale. Si tratta di vedere dunque a chi giovi l’oppressione delle persone disabili. Il capitalismo stesso si avvantaggia in quanto le persone disabili possono assolvere al ruolo economico di “esercito di riserva” e al ruolo ideologico, nella loro posizione di inferiorità, di monito a quanti sono inabili o refrattari al lavoro. È evidente pertanto come, tanto soggettivamente quanto oggettivamente, la disabilità sia una forma specifica di oppressione. (Oliver, 1990, 70) La forma propria di oppressione sociale di cui sono oggetto le persone disabili non è comunque da pensarsi come qualcosa a sé: oltre che in quanto disabile l’individuo può essere oggetto di ulteriori discriminazioni, in base al genere, alla razza e alla sessualità. Oliver analizza la condizione di oppressione cumulativa legata a condizioni di svantaggio sociale che si sommano alla disabilità. Donne, neri e omosessuali disabili vivono sia l’oppressione ideologica e il “razzismo istituzionale” relativo al genere, alla razza e alla sessualità sia l’oppressione abilista, la disabilità appunto, di cui è satura la società contemporanea. A questo punto è evidente come l’oppressione non sia di una maggioranza contro una minoranza, ma un sistema complesso di contrapposizioni reciproche di minoranze oppresse che esclude soltanto l’esigua minoranza della classe egemone. Anziché definire ogni minoranza come oppressa e svantaggiata nelle opportunità da una larga maggioranza, la configurazione di tale discriminazione deve essere vista come vantaggio solo per una minuscola élite. Una parte assolutamente minoritaria della popolazione beneficia della competizione tra gruppi svantaggiati. Gli espropriati e i cittadini di serie B, a causa della propria alienazione e senso di isolamento, accettano di essere individuati in contrapposizione con altri gruppi deprivati dei diritti. I gruppi minoritari spesso partecipano all’espropriazione degli altri, accettando passivamente il controllo della minoranza dominante8. Alcuni interventi teorici nell’ambito dei disability studies centrano esattamente questa questione: il problema dell’emarginazione nell’emarginazione, l’abilismo imperante nelle comunità di genere, etnia e sessualità, che porta ad un’esclusione ulteriore da un piano identitario di riferimento. Tornando al tema della costituzione della disabilità come problema, Oliver coglie il passaggio dall’ideologia arbitraria della disabilità come tragedia personale a quella della dipendenza e indaga le modalità della costruzione del disabile come soggetto dipendente. In una società complessa ogni individuo è coinvolto in dinamiche di interdipendenza con altri individui e istituzioni: se ad essere individuato come dipendente è il solo disabile non è in ragione del deficit, ma del dispositivo di gestione sociale della disabilità, delle forze economiche, politiche e sociali che se ne occupano (sistema medico, assistenza pubblica, mediazione politica). La decostruzione di tale dispositivo della dipendenza attraverso l’affermazione dell’autonomia della soggettività disabile sostanzia l’ultima parte del libro, centrata sulle strategie di autoaffermazione delle persone disabili nella storia recente e sulla prefigurazione di nuovi vettori di liberazione. Dopo aver ripercorso la storia delle organizzazioni e i piani rivendicativi relativi all’autonomia nelle scelte e all’indipendenza economica attraverso l’affermazione del diritto a un reddito, dalle organizzazioni storiche di reduci, sordi e non vedenti, fino alle battaglie degli ultimi anni condotte in proprio dalle persone disabili, da UPIAS all’attuale struttura di coordinamento dei movimenti delle persone disabili inglesi, il BCODP (British Council of the Organizations of Disabled People), Oliver contestualizza i movimenti per l’affermazione dei diritti delle persone disabili come forma specifica dei nuovi movimenti sociali che caratterizzano il tempo presente, epoca del capitalismo compiuto. Quattro sono le caratteristiche che accomunano i movimenti autoaffermativi delle persone disabili ai nuovi movimenti: in primo luogo l’essere collocati alla periferia dei tradizionali sistemi di mediazione politica, e spesso deliberatamente marginalizzati. Questa marginalità non ne inibisce comunque il significato o le possibilità di un’incidenza reale sul piano politico delle rivendicazioni. 8 Deegan, M., Multiple Minority Groups: a Case Study of Physical Disabled Women, in Deegan, M. e Brooks, N., Women and Disability, New Brunswick, Transaction Books, 1985, cit. Oliver, 1990, 76. I nuovi movimenti sono caratterizzati non solo dalla volontà di impiegare un’ampia varietà di forme di azione politica, ma in più da un orientamento verso valori politici ampiamente radicati. In particolare lo schema soggiacente di valori sottolinea l’importanza di una partecipazione politica e della personale attivazione secondo modalità che portano ad incidere sul piano politico9. Una seconda caratteristica dei nuovi movimenti è il loro rapporto critico rispetto all’organizzazione sociale. L’esempio è la nascita dei Centri per la Vita Integrata e Indipendente (CILs), sorti come proposta alternativa alla forma istituzionale di gestione della disabilità. La loro organizzazione riflette l’assunzione della prospettiva del modello sociale della disabilità e la conseguente visione della disabilità come oppressione sociale. Sono la concretizzazione di una pratica orientata all’affermazione dell’autonomia. Una caratteristica comune ai nuovi movimenti è quindi la prefigurazione di alternative all’organizzazione sociale esistente. Terza caratteristica individuata è il mutamento qualitativo delle rivendicazioni: Un crescente predominio di … valori “post-materialisti” o “post acquisitivi” rispetto a quelli relativi al reddito, alla soddisfazione di bisogni materiali e di sicurezza sociale10. Un’ultima caratteristica che allinea le rivendicazioni della soggettività disabile all’orizzonte delle nuove affermatività sociali è lo spingersi altre i limiti nazionali per porre la questione dei diritti su un piano globale, l’essere costitutivamente internazionalista. Questa dimensione si è manifestata progressivamente fino a trovare compiuta espressione nel secondo congresso della DPI, Disabled Peoples’ International, l’internazionale che raccoglie le associazioni disabili di tutto il mondo, intorno ai temi dell’empowerment e dell’azione collettiva delle persone disabili rispetto a finalità condivise. Come ne testimoniano gli atti: … l’azione politica mirata ai corpi governativi – o a gruppi privati o individui, può più facilmente produrre risultati che non l’azione legislativa o la via costituzionale. Le nazioni che hanno istituito legislazioni a favore delle persone disabili, non sempre hanno raggiunto i traguardi sperati, né si è verificata una maggiore presa di controllo sulla propria esistenza da parte delle persone disabili. Il prerequisito per un’azione efficace sta nell’adeguata organizzazione dei gruppi delle persone disabili stesse, e nello sviluppo di una consapevolezza sociale rispetto ai temi della disabilità… Questo non significa necessariamente che le organizzazioni delle persone disabili siano in relazione antagonista rispetto alle organizzazioni non controllate dalle persone disabili. Significa invece che le nostre organizzazioni devono affermare se stesse come la voce vera e valida delle persone disabili e dei nostri diritti11. (Oliver, 1990, 123) Il testo di Oliver si conclude analizzando le strategie possibili dei movimenti per l’affermazione dei diritti delle persone disabili. Il luogo dei nuovi movimenti è la società civile, ambito che nella topica sociale gramsciana comprende ciò che non appartiene alla sfera della produzione e non rientra negli apparati ideologici e repressivi dello stato. Si tratta di elaborare strategie controegemoniche capaci di assecondare vettori di liberazione ampiamente partecipati dalla comunità di riferimento, di trovare modalità concrete per incidere sulla percezione dei temi emancipativi, in dialogo con le realtà istituzionali ma da una prospettiva affermativa, in modo da evitare il doppio rischio dell’inglobamento e della esclusione da ogni visibilità. Come sottolinea Laclau, a cui Oliver fa riferimento in relazione alla caratterizzazione dei nuovi movimenti, l’egemonico è strutturato in modo contingente e aperto: ciò apre la possibilità al sorgere di affermatività ulteriori che lo mettano in questione. Bisogna ammettere che in nessun posto al mondo questi nuovi movimenti sono stati capaci di 9 Weale, A. “New Social Movements and Political Change” Draft initiative proposal prepared for ESRC Society and Politics Research Development Group, 1988. 10 Offe, C., “The Separation of Form and Content in Liberal Democratic Politics”, Studies in political economy, vol. 3, 1980. 11 Dpi (disabled peoples’ international), “DPI Calling”, European Regional Newsletter n° 1, 1986, p. 21. ribaltare lo status quo. Il loro significato si situa nel porre nuove questioni sull’agenda politica, nel presentare vecchie questioni in nuove forme e, indubbiamente, nell’aprire nuove aree e arene per il discorso politico. È nel loro potenziale controegemonico, non nei loro risultati attuali, che sono significativi nel tardo capitalismo. Dire che i nuovi movimenti hanno un potenziale controegemonico significa suggerire che sono emersi in opposizione (almeno parzialmente) alle ideologie che legittimano le strutture di potere; la razionalità tecnologica, il nazionalismo, l’individualismo competitivo e, naturalmente, razzismo e sessismo12. Forse, dopo la lettura di questo libro, l’abilismo può essere posto in coda alla lista, in quanto il suo tema principale è che la disabilità merita di essere oggetto dell’analisi sociologica e della demistificazione esattamente come gli altri ’ismi. Sfortunatamente, fino ad oggi La sociologia della disabilità è sia teoreticamente arretrata sia una zavorra piuttosto che un aiuto per le persone disabili. In particolare, ha ignorato gli sviluppi che negli ultimi quindici anni hanno prodotto gli studi sull’equità razziale e sessuale e riproduce nello studio della disabilità deficienze parallele a quelle che si ritrovano in ciò che da molti è visto come sociologia razzista e sessista (Abberley, 1987). Nell’eradicare le restrizioni sociali e l’oppressione della disabilità, sia i movimenti delle persone disabili, sia la sociologia non abilista hanno una parte da giocare. (Oliver, 1990, 131) Lo sviluppo della disciplina e la convergenza con gli altri ambiti della ricerca culturale Oliver ha sviluppato ulteriormente l’analisi in Understanding disability: from theory to practice (Oliver, 1996), rapportandosi a questioni rilevanti in relazione alla disabilità che non trovavano luogo in un testo di sociologia come The politics of disablement. Understanding disability riprende i temi dei Fundamental principles of disability di UPIAS, riportandone ampi stralci nel secondo capitolo, per ricontestualizzare il modello sociale in relazione alla sua evoluzione. Altri capitoli sono dedicati ai diritti di cittadinanza, ai servizi per le persone disabili, affermando la necessità di muovere dalla logica dei bisogni a quella dei diritti, e all’educazione. Oliver sostiene il principio inclusivo in educazione, proponendo un modello alternativo al sistema segregato dell’educazione speciale che, a partire dal diritto fondamentale di ogni persona ad essere educata nella propria comunità, afferma la necessità del superamento delle categorizzazioni medicospecialistiche e di ogni altro genere di classificazione tra gli studenti in ragione di appartenenze etniche, culturali o di genere. La finalità è valorizzare la differenza tra le persone come risorsa didattica ed esperienziale. Il paradigma inclusivo è stato fortemente promosso in Inghilterra a partire dagli anni Novanta, successivamente dall’UNESCO nel mondo. Certamente un ruolo primario nella sua genesi ed affermazione è stato svolto dai movimenti delle persone disabili e dagli autori disabili, attivamente impegnati contro la segregazione educativa13. La parte conclusiva del libro torna sui temi dell’egemonia, del ruolo politico degli intellettuali e dei movimenti, e sulle prospettive dell’affermatività disabile nel mondo globalizzato. Un testo interessante di Mike Oliver e Jane Campbell è Disability Politics: Understanding Our Past, Changing Our Future (Oliver, Mike; Campbell, Jane, 1996), in cui viene riepilogata la storia del movimento disabile inglese attraverso metodologie emancipative capaci di coinvolgere come attori narranti i rappresentanti disabili dei movimenti. Come afferma l’introduzione, “questo libro è un misto di teoria sociale, storia politica, ricerca azione, biografia individuale ed esperienza personale”. Mike Oliver ha recentemente contribuito come curatore, con Colin Barnes e Len Barton14, all’edizione di 12 Boggs, C. Social Movements and Political Power, Philadelphia, Temple University Press, 1986. cit. Oliver, 1990, 130. 13 Ad eccezione degli esponenti della comunità Deaf, che temono di perdere lo specifico culturale che li caratterizza come comunità linguistica. Propriamente i non udenti attivisti non si considerano disabili ma minoranza linguistica prevaricata dalla maggioranza fonocentrica. 14 Len Barton è direttore della rivista storica dei disability studies inglesi, Disability and Society. Con articoli importanti Disability Studies Today (Barnes, Oliver, Barton, 2002), libro importante che si inserisce nel dibattito contemporaneo tra i diversi orizzonti di ricerca dei disability studies, presentandone le posizioni e i punti di divergenza: ne seguiremo lo sviluppo tematico, per render conto della varietà delle prospettive e degli ambiti di ricerca. Nell’introduzione dei curatori è esplicitato il criterio di selezione degli interventi, scelti tra quanti meglio rappresentano lo stato attuale della disciplina nelle sue diverse espressioni, ma non solo: «I disability studies, come gli studi etnici e postcoloniali, gli studi femministi e gay e lesbici, si sono sviluppati da una posizione di attivismo e coinvolgimento, piuttosto che da una prospettiva distaccata. Così, come curatori, abbiamo cercato interventi di autori che corrispondessero a tale posizione. Questo perché è nostra ferma convinzione che questo arricchisca, anziché limitare, la qualità dei loro contributi»(Barnes, Oliver, Barton, 2002, 11). L’introduzione prosegue riepilogando la storia critica della disciplina e l’articolazione delle diverse prospettive teoriche esposte negli articoli raccolti. Gary L. Albrecht (curatore del monumentale Handbook of Disability Studies) in American Pragmatism and Disability Studies, propone un intervento critico in cui viene individuato il limite della ricerca sociale americana sulla disabilità, colto nell’incapacità di sviluppare la dimensione storica della ricerca e di rapportarsi alla produzione critica extranazionale, nelle sue referenze teoriche: il pragmatismo filosofico e l’interazionismo sociologico. Alcune proposte si rapportano alla storia dello studio critico della disabilità, collocandone la genesi consapevole nell’elaborazione del modello sociale e rimarcandone la validità come strumento di autoaffermazione politica, ma anche i luoghi problematici dell’articolazione. Carol Thomas analizza i modelli istituzionali e impliciti della disabilità e il sorgere del modello sociale come proposta politica radicale. Disability and the Body, di Bill Hughes, propone una prospettiva dialettica, per cui alla relazione tra disabilità e corpo dell’ontologia essenzialista del modello medico (tesi) sarebbe seguita (antitesi) la proposta politica del modello sociale, per cui «la disabilità non è un problema personale o medico ma un insieme di barriere fisiche e sociali che vincolano, regolano e discriminano le persone con invalidità fisiche», per giungere (sintesi) all’affermazione secondo cui «la menomazione (impairment) è sociale e la disabilità incorporata (embodied)». Posizione esplicitata in riferimento ai temi della analisi biopolitica foucaultiana: nessuna politica passa per i corpi come quella che passa per i corpi disabilitati. Il testo di Anne Borsay, History, Power and Identity approfondisce l’analisi della dimensione storica dell’emergenza della disabilità e le sue implicazioni identitarie, sul piano individuale e collettivo. Paul Abberley, in Work, Disability, Disabled People and European Social Theory, sostiene che tanto la prospettiva conservatrice funzionalista quanto quella radicale marxista nello studio della disabilità concordano nel considerare il lavoro come momento centrale dell’inclusione sociale. In riferimento alla ricerca sociale europea (Honneth, Offe), Abberley afferma la necessità di svincolarsi dalla subordinazione alla logica della produzione per ripensare altrimenti i luoghi dell’oppressione sociale delle persone disabili. Alla dimensione propriamente politica dell’affermatività disabile sono dedicati gli interventi di Phil Lee e Harlan Hahn. Lee, in Shooting for the Moon: Politics and Disability at the Beginning of the Twenty-firtst Century, analizzando la storia dei movimenti emancipativi, sostiene la necessità di una maggiore consapevolezza in termini identitari e strategici, per potere incidere concretamente sull’organizzazione degli apparati di stato, relativamente alla redistribuzione delle risorse, alla gestione dei servizi e, in senso ampio, ai diritti di cittadinanza. Hahn volge l’attenzione alla relazione tra le politiche gestionali destinate alle persone disabili, gli assunti che le orientano e i movimenti emancipativi. La globalizzazione e quanto ne ricade sulla vita delle persone disabili è oggetto degli studi di Cris Holden e Peter Beresford (Globalization and Disability) e di Marcia H. Rioux (Disability, Citizenship and Rights in a Changing World). Il sociologo Geof Mercer, autore (con Colin Barnes e Tom Shakespeare) di un testo significativo di inquadramento in termini sociologici della disabilità (Exploring Disability: a Sociological Introdution), dedica l’intervento conclusivo del testo all’analisi di una delle proposte teoriche più interessanti della produzione dei disability studies, la ricerca sociale emancipativa (emancipatory disability research). Ipotesi di lavoro proposta da Oliver (Changing the Social Relations of Research Prodution? 1992) e praticata in Disability Politics: Understanding our Past, Changing our Future, di Mike Oliver e Jane Campbell, la ricerca emancipativa sulla della rivista ha pubblicato Disability and Society: Emergine Issues and Insights, Harlow, Longman, 1996. disabilità asseconda principi tali da porre la centralità della persona disabile, quindi rifiuto del modello individuale/medico della disabilità a favore di quello sociale, rifiuto di una pretesa oggettività a favore di una prospettiva di parte funzionale all’elaborazione di strategie autoaffermative, rovesciamento della relazione ricercatore/oggetto della ricerca e messa in questione delle relazioni materiali nella produzione della ricerca, nonché pluralismo metodologico. Disability Studies Today è un testo ricco di spunti e proposte teoriche significative, esempio del livello di consapevolezza dei discorsi dei disability studies inglesi, non inferiore a quello degli altri piani della ricerca culturale. Colin Barnes è autore, con Geof Mercer e Tom Shakespeare di un libro particolarmente interessante in relazione alla sociologia della disabilità, Exploring Disability: a Sociological Introduction15. Si tratta di una ricognizione approfondita dei temi di rilevanza sociologica specifici dei disability studies: modelli, teorie, organizzazione dei servizi, le barriere disabilitanti in educazione, nel lavoro, nei trasporti e nella vita e le prospettive di emancipazione politica. La parte conclusiva è dedicata alla cultura della disabilità, alle sue rappresentazioni sociali e culturali. Tom Shakespeare, uno degli autori del testo precedentemente introdotto, ha contribuito ad allargare gli orizzonti degli studii inglesi sulla disabilità ed è curatore di un’antologia di riferimento, The Disability Studies Reader: Social Science Perspectives16, in cui sono raccolti in tre sezioni (1: dall’attivismo all’accademia, 2: la disciplina in sviluppo, 3: dibattiti e dialoghi) alcuni contributi importanti degli autori storici ed emergenti dei disability studies inglesi. Gli articoli della prima parte sono di autori storici come Paul Hunt, Vic Finkelstein e Simon Brisenden ed impostano i discorsi sull’emergenza dello studio culturale della disabilità, nella seconda si trattano questioni generali o settoriali in relazione alla sociologia della disabilità. Vi si trovano contributi significativi di autori dei disability studies inglesi come Len Barton, Colin Barnes e Paul Abberley. La parte conclusiva propone spunti per lo sviluppo della disciplina, con interventi (come Disability Discorse in a Postmodern World, di Mairiam Corker) che aprono la prospettiva dei disability studies alle teorie critiche contemporanee di matrice poststrutturale. Shakespeare ha analizzato l’influenza crescente delle teorie critiche poststrutturaliste sull’analisi culturale della disabilità in un’opera edita in collaborazione con Mairiam Corker, Disability/Postmodernity17. A differenza dell’analisi materialista che ha articolato i disability studies inglesi in stato nascente, la dominante non è più il piano economico, ma la costituzione e la gestione sociale dei discorsi. Molti dei saggi proposti sono di eccellente livello e raccordano i temi della disabilità ad altri ambiti della ricerca culturale, come gli studi postcoloniali, di cui è esempio Disability in the Indian Context: Post-colonial Perspectives di Anita Ghai, l’indagine sul corpo post-umano nelle rappresentazioni culturali, analizzato da Johnson Cheu in De-gene-rates, Replicants and Other Aliens: (Re)defining Disability in Futuristic Films, o la ricerca estetica, come in The Crooked Timber of Humanity: Disability, Ideology and Aesthetic di Anita Silvers o Image Politics Without the Real: Simulacra, Dandysm and Disability Fashion di Petra Kuppers. L’apertura ai temi della costituzione discorsiva della disabilità ha trovato espressione in un testo curato da Mairiam Corker e Sally French, Disability Discourse18. La raccolta presenta interventi di autori storici come Oliver che in Final Accounts and the Parasite People, annunciato come suo ultimo contributo alla teoria della disabilità, critica radicalmente la ricerca come indagine, “research as investigation”. Sono giunto alla conclusione che, se dobbiamo sviluppare un paradigma di ricerca veramente emancipativo, dobbiamo assicurare che il discorso su cui si fonda sia a sua volta emancipativo. A mio parere ciò implica la creazione di un nuovo discorso fondato sull’idea della ricerca come produzione. Sono questi ultimi passi del mio viaggio intellettuale ciò che provo a proporre in questo articolo. (183) Per la prospettiva affermativa della soggettività collettiva disabile, la ricerca è di qualche utilità soltanto se 15 Colin Barnes, Geof Mercer, Tom Shakespeare, Exploring Disability, London, Polity Press, 1999. 16 Tom Shakespeare, (a cura di), The Disability Studies Reader: Social Science Perspectives, London, Continuum, 1998. Un altro reader importante, meno legato alla prospettiva dei disability studies inglesi e più alla cultura Deaf, è The Disability Studies Reader, curato da Lennard Davis, London, Routledge, 1997. 17 Tom Shakespeare, Mairiam Corker, Disability/Postmodernity, London, Continuum, 2002. 18 Mairiam Corker, Sally French, Disability Discourse, Buckingham, Open University Press, 1999. la prospettiva investigativa è subordinata a quella emancipativa. Oliver avanza dubbi circa la possibilità che ciò possa realizzarsi e volge uno sguardo critico anche al proprio lavoro precedente che, malgrado la volontà e le premesse, è ancora vincolato alla logica della ricerca come indagine, colonizzazione delle esperienze anziché strumento di lotta. Tra gli autori storici è presente anche Tom Shakespeare con un intervento sulle rappresentazioni culturali della disabilità nel cinema: Art and Lies? Representation of Disability on film, centrato sull’analisi di Breaking the Waves di Lars von Trier e di Shine. Anche in altri interventi interni ai disability studies (inglesi e americani) la ricognizione della rappresentazione cinematografica delle disabilità si è rivelato uno strumento di critica culturale decisamente produttivo, del resto sono molti i registi che hanno fornito materiali per l’analisi di una estrema potenza espressiva, si pensi a David Lynch, Lars Von Trier, Werner Herzog o Tod Browning. Sul versante negativo vengono censurate come ricettacoli di pregiudizi e stereotipi le apologetiche pietistiche come Il mio piede sinistro, Shine appunto, o Rain Man. Un articolo dell’autrice australiana Judy Singer contenuto in Disability Discourse sembra di particolare interesse in relazione alla verifica delle teorizzazioni del modello sociale inglese: si tratta di “Why Can’t You be Normal for Once in Your Life?” From a Problem with no Name to the Emergence of a New Category of Difference, dedicato alla trasposizione del modello sociale alle patologie relazionali dello spettro autistico, in particolare alla sindrome di Asperger. In effetti le patologie relazionali hanno luogo esclusivamente in relazione alla delusione di aspettative sociali: corrispondenza emotiva, aspettativa di discorso, rispetto delle gerarchie, portano all’evidenza nel modo più compiuto come la disabilità sia integralmente un prodotto sociale. La sindrome di Asperger, “scoperta” negli anni quaranta, divenuta oggetto di studio negli anni ottanta e canonizzata dal Manuale Diagnostico e Statistico (DSM4 r3) solo nel 1994, rivela inoltre nella propria emergenza clinica e nei caratteri il legame con le contingenze storiche e culturali che l’hanno generata. Non è casuale che l’attenzione per l’inadeguatezza relazionale si sia manifestata nel tempo della tarda modernità, in cui la capacità di comunicazione è divenuta chiave di cittadinanza. Un interesse ulteriore viene dalle abilità logico-deduttive e linguistiche di chi ne è segnato: sono stati catalogati aspies anche Alan Turing, Ludwig Wittgenstein, Nikola Tesla, Glenn Gould e Bill Gates, il “disturbo” viene talvolta individuato come sindrome dei geek o degli ingegneri. Correlata al deficit nella comunicazione in presenza si manifesta quindi un’abilità particolare in ambiti del sapere, linguistico e tecnologico, a loro volta specificamente costitutivi dei caratteri della tarda modernità. Internet si è rivelata una risorsa comunicativa funzionale alla costituzione dell’identità aspie: esistono mailing lists e rooms IRC in cui, attraverso lo scambio di esperienze di vita, si è creato uno spazio di mutuo riconoscimento, qualcosa di paradossale come una comunità di solitari, che si individuano aspies in ragione della comune forma di relazione al mondo, differenziandosi dalla norma dei Neurologically Typicals (NTs). Forse, se si sentirà più potente la voce dei “neurologically different”, emergerà una visione più ecologica della società: più rilassata rispetto agli stili di vita, felice di lasciare che ogni individuo coltivi la sua propria nicchia, basata sulle tipologie di mutuo riconoscimento che possono sorgere solo dal continuo sviluppo di una autoconsapevolezza sociologica, psicologica ed ora neurologica (Corker, French, 1999, p.67). Disability discourse propone altri materiali di particolare interesse distribuiti in tre aree tematiche, 1) narrative personali, 2) la creazione sociale dell’identità disabile e 3) discorsi culturali. Il lavoro di apertura tematica dei disability studies promosso da Tom Shakespeare si è concretizzato su un altro versante in Sexual politics of disability (Shakespeare, Gillespie-Sells, Davies, 1997), indagine sulle barriere sociali che le persone disabili incontrano nell’espressione della sessualità. Le questioni identitarie, relazionali, sessuali, le problematiche legate agli abusi ed alla denegazione dei bisogni vengono investigate con riferimento a narrazioni dirette di persone disabili. Conclusioni: i disability studies tra teoria critica e pratica emancipativa dei movimenti delle persone disabili Lo studio culturale della disabilità è una realtà accademica ormai consolidata nel mondo anglosassone. La sua proposta è stata in grado di incidere in modo sostanziale sulla percezione sociale della disabilità e conseguentemente sulle scelte degli organi istituzionali delegati alla sua gestione. Come sostiene Mike Oliver, l’antidoto per evitare che la spinta propulsiva che ne è stata la genesi si esaurisca nel vaniloquio autoreferenziale di tanta saggistica accademica, è mantenere vivo il legame con le realtà di base della comunità disabile, cogliere le urgenze delle persone e le emergenze sociali della disabilità. Solo una relazione simbiotica tra teoria e pratiche emancipative può mantenere attivo e vitale il dibattito sulla natura culturale della disabilità. Negli stessi anni, i discorsi dei disability studies si sono configurati in relazione agli ambiti nazionali: negli Stati Uniti si sono sviluppate ricerche nella stessa direzione, ma con referenze teoriche e paradigmi interpretativi differenti (prevalentemente di matrice interazionista), così in Francia e nel nord Europa. Solo negli ultimi anni, in relazione alla comune influenza degli altri ambiti della ricerca culturale, è iniziato un dibattito tra le diverse elaborazioni. Di tanta produzione teorica non è arrivata alcuna voce nel nostro paese, sembra importante proporla, per sprovincializzare il dibattito accademico sulla disabilità, per arricchire la ricerca sull’interpretazione dei fenomeni culturali e per aiutare la soggettività collettiva disabile a pensare in termini affermativi la propria condizione. Bibliografia Abberley, Paul 1987, The Concept of Oppression and the Development of a Social Theory of Disability, In “Disability, Handicap and Society”, vol.2, n.1, 5-19. Albrecht, Gary L.; Seelman, Katherine D.; Bury, Michael 2001, Handbook of Disability Studies London, Sage Publications Barnes, Colin; Oliver, Mike; Barton, Len (editors) 2002, Disability Studies Today, Cambridge, Polity Press, 280 p. Barnes, Colin; Mercer, Geof, Shakespeare, Tom (editors) 1999, Exploring Disability, London, Polity Press. Barton, Len 1996, Disability and Society: Emerging Issues and Insights, Harlow, Longman. Bogdan, Robert 1988, Freak Show: Presenting Human Oddities for Amusement and Profit, Chicago, University of Chicago Press. Brisenden, Simon 1986, Indipendent Living and the Medical Model of Disability, (in Shakespeare 1998,) disponibile Arch. Leeds. Corker, Mairiam; French, Sally 1999, Disability Discourse, Buckingham, Open University Press. 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