Edward Gordon Craig, Il mio teatro. Introduzione e cura di Ferruccio

Edward Gordon Craig, Il mio teatro.
Introduzione e cura di Ferruccio Marotti
Feltrinelli, Milano, 1971
Introduzione
Il mondo di Craig è un mondo scomparso. E in esso Craig si era ritagliato un mondo a
parte, dai confini rigorosamente tracciati e presidiati dall'Inefficacia e dall'Afasia.
Inefficacia di un artista radicale, che progetta in solitudine e vuole realizzare ogni cosa in
modo perfetto, talmente teso all'assoluto da preferire l’inazione ad ogni sia pur minimo cedimento
alle esigenze della “pratica”, da temere in forma quasi maniacale che altri si appropri (e tradisca)
ciò che egli ha faticosamente elaborato. “The enemies” erano gli altri, per Craig, coloro che
volevano spingerlo al compromesso, coloro che non volevano sapere, che andavano respinti, ai
quali si doveva parlare un linguaggio criptico, il linguaggio esoterico di chi si pone come oggetto
di persecuzione.
Afasia, anche, di colui che non nutre sufficiente fede nella parola e che, impossibilitato a
comunicare attraverso segni teatrali assoluti, si serve di emblemi letterari: le forme precostituite
del dialogo filosofico, della visione profetica, dell’excursus storico e filologico (dotte esercitazioni
su improbabili fenomeni di anni o regioni lontane), della pagina ironica, dell'enfasi satirica.
Chi non tenesse presente la fondamentale artificialità del linguaggio craighiano quale si
manifesta negli scritti che qui pubblichiamo, difficilmente potrebbe ritrovare in essi la vivacità e la
disponibilità di un'idea di teatro per molti versi ancor oggi feconda. Quando parla della sua
poetica, Craig allontana il lettore, cerca di porlo nella scomoda posizione di chi legge un testo
sacro, la buona novella di un teatro venturo.
Posizione tanto più scomoda oggi, quando non solo rischiano di sembrarci inattuali (e
inutilizzabili) le immagini di una prosa che risente di un gusto che dal nostro è troppo lontano
senza esserlo tanto da assumere il sapore delle cose - un po' ingenue e un po' paludate - di un buon
tempo andato; ma quando l’oggetto stesso di quelle immagini e di quella prosa - il concetto di
regia, il linguaggio teatrale da Craig elaborati e definiti - sembra non più pertinente al dibattito
teatrale contemporaneo, degno, invece, dell'attenzione dello storico per un'avventura estetica in sé
conclusa ed esaurita.
Partendo dalla consapevolezza del valore riduttivo che acquisterebbe una lettura
craighiana volta esclusivamente a un recupero filologico e a una ricostruzione storica - dalla
consapevolezza, cioè, che pubblicare oggi, in Italia, gli scritti di Craig (che solo la cultura
anglo-americana, e in parte quella mitteleuropea, hanno in certa misura assimilato, mentre, ad
esempio, anche in Francia essi sono stati trasmessi in maniera incompleta e non di rado
fuorviante) acquista un valore che va al di là dell'interesse che essi possono suscitare presso gli
addetti ai lavori solo se nel pubblicarli li si immette nel dibattito contemporaneo sul teatro abbiamo assunto l’idea di teatro di Craig come uno dei poli di tensione cui ancora si riferisce - sia
pure, a volte, come alternativa da negare, in base alla quale definirsi opponendosi - la vita dello
spettacolo dei nostri giorni.
È una scelta motivata anche dal fatto che il valore nodale delle teoriche e dell'opera
craighiana per la storia del teatro moderno sono un dato ormai largamente acquisito e su cui non
fa conto tornare, così come ci sembra inutile ripercorrere una volta ancora l'arco della
problematica artistica fra Ottocento e Novecento inserendo in esso lo svolgersi del pensiero
craighiano, la sua utopia di teatro, che costituisce anche il primo tentativo organico di inserire la
fenomenologia dell’evento scenico nella problematica estetica.
In prima istanza, quindi, leggere Craig oggi può significare porsi il problema della regia.
Regia non intesa come prassi empirica, irriflessa, di subordinazione degli interpreti a un direttore,
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ma come principio estetico di unità degli elementi dello spettacolo e della sua autonomia in quanto
fatto artistico.
Questa ricerca dell'autonomia linguistica dello spettacolo va certo correlata alle ricerche
estetiche che in diversi campi si andavano conducendo sullo scorcio del secolo anche come
conseguenza della mutata funzione delle arti nella società. Ma mentre potremmo dire,
schematizzando, e ovviamente generalizzando, che la direzione della problematica intorno ad arti
come la pittura, la scultura, l'architettura, la musica o la poesia è dettata univocamente dai loro
rispettivi sistemi semiologici, l’ambito semiologico che delimitiamo con la parola “teatro" può
comportare un duplice orientarsi della riflessione estetica.
L'espressione "arte del teatro" (theatre, non drama) indica, infatti, l’organizzarsi dei segni
in due diversi sistemi che spesso tendono a sovrapporsi, ma che permettono di separare
teoricamente due differenti domini estetici. Da un lato il dominio dell'elaborazione artistica
dell'attore, un'arte dell'uomo sull'uomo, il risultato, cioè, del formalizzarsi (se possibile) di un
materiale che - sia pure comunicandosi attraverso segni fisici - è in ultima analisi costituito dagli
impulsi psichici; dall'altro il dominio estetico dello spettacolo nel suo insieme, assunto come
prodotto artistico unitario ed autonomo.
Nel primo caso - radicalizzando i due termini dell'alternativa che abbiamo tracciato - la
struttura dello spettacolo appare come una struttura sintattica attraversata perpendicolarmente dai
sistemi di segni elaborati dagli attori, segni ad essa non omogenei e che essa serve soltanto a
rendere leggibili (una struttura che tende per così dire ad atrofizzarsi e della quale, quindi, si
potrebbe persino fare a meno); nel secondo caso, evidentemente, il linguaggio dell’attore va reso
omogeneo con quello che si esprime dagli altri elementi lessicali che compongono l’unità dello
spettacolo, deve risultare dalla pura gestualità, dalla negazione di ogni materiale che rimandi
all'orizzonte psicologico: i segni di cui si serve l’attore si pongono accanto, cioè, a quelli costituiti
dalle luci, dalle scene, dai costumi, dalle parole del testo, acquistano il loro senso solo in quanto
sono ad essi correlati, vengono progettati in base alle intenzioni che fondono in unità gli elementi
visivi e sonori dello spettacolo.
Più avanti ci riallacceremo a questo ambito problematico, ma va notato fin d'ora che
identificare l’arte del teatro nell'arte dell’attore (secondo la migliore tradizione del teatro
ottocentesco, rivendicando l’autonomia del fatto teatrale di fronte a quello letterario) sembrò
significare un precludersi la via per l’individuazione di un linguaggio artistico in senso stretto,
nella misura in cui il linguaggio dell'attore sembrava rimanere un linguaggio "naturale": natura
come opposto ad arte.
Non si pensi subito alle teorizzazioni craighiane sulla Übermarionette: fin dal sorgere della
piena consapevolezza dell'autonomia dell'arte dell'attore, dal suo inquadrarsi fra le "arti
maggiori", sorse la parallela coscienza dell'impossibilità del linguaggio attorico ad esprimersi in
segni "puri" come quelli che caratterizzavano le altre arti. L’arte dell'attore sembrava così
destinata o a vivere in regioni totalmente separate da quelle in cui fiorivano l'arte del poeta, del
pittore e del musicista, o a ritrovarsi continuamente bloccata dai limiti, imposti dalla fisicità
dell'uomo usato come materiale artistico. Da qui l’alternativa della marionetta già in Kleist o nel
dialogo di Hoffmann. Singolari pene di un direttore di teatro (il vecchio capocomico mostra la
perfetta compagnia per un teatro ideale nella cassa che racchiude le marionette); da qui
l’inquietudine di Stanislavskij di fronte ai quadri di Vrubel; da qui la frase della Duse, almeno nel
senso in cui viene epigraficamente riutilizzata da Craig: “Per salvare il teatro bisogna distruggere
il teatro: gli attori e le attrici devono tutti morire di peste”.
Negare l'arte dell'attore così come si era definita nello spettacolo ottocentesco appariva
veramente come una distruzione del teatro, era il confrontarsi con la tradizione non per operare un
rinnovamento innestandosi in essa, ma per negarla e quindi inventare un linguaggio nuovo.
L'isolamento e l’atteggiamento distruttivo degli “inventori” della regia - che troppo spesso
si è ascritto a colpa o a riprova di una carenza di impegno sociale - appaiono così come il risultato
necessario della logica del discorso: basta tener presenti i valori della civiltà teatrale del Grande
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Attore per comprendere come, con la regia, non si trattasse, in realtà, di riformare l’Arte del
teatro, ma di fondare una nuova arte.
La regia si conferma, anche da questo punto di vista, come un fenomeno affatto diverso da
quell'unitarietà e dignità formale predicate dalla messa in scena, che cercava di tradurre nello
spettacolo l’unità poetica del testo rappresentato; diverso anche dalla messa in scena verista e
naturalista (i Meininger, Antoine...) che, applicando a tutti gli elementi dello spettacolo il carattere
mimetico della realtà proprio dell'attore, restavano forzatamente al di qua (malgrado la
somiglianza di certi atteggiamenti, e fermo restando l’interesse che riveste una progettazione dello
spettacolo condotta sulla base di precise categorie culturali) della ricerca dell'autonomia del
linguaggio teatrale.
E ancora: la nuova arte dello spettacolo si contrappone allo spettacolo delle arti. Essa, dice in
primo luogo Craig, non può essere il risultato di un'accumulazione e fusione di diverse modalità
espressive, deve derivare dallo strutturarsi in un autonomo linguaggio teatrale dei singoli elementi
linguistici che possono essere estrapolati dai sistemi delle diverse arti. Con l’esigenza di
circoscrivere, diremmo oggi, un ambito semiologico esclusivo del teatro, quest'ultimo si precisa
fondamentalmente come fatto visivo cinetico, come arte della visione del movimento.
Tutti gli elementi che convergono sul palcoscenico subiscono, cioè, un processo che li scioglie
da ogni riferimento esterno all'insieme autosufficiente dello spettacolo, che abolisce ogni
significazione realistica, e li fonda come puri segni il cui significato deriva esclusivamente
dall'intrecciarsi e dallo svolgersi dei loro mutui rapporti.
Le modalità di un tale processo mostrano come l’autonomia del linguaggio teatrale che sta alla
base delle ricerche craighiane si traduca in progettazioni concrete. Su ciò occorre insistere onde
evitare che il discorso intorno a Craig si stemperi (come d'uso) da un lato nell’individuazione delle
linee di una vaga e astratta idea di teatro, dall'altro nella descrizione di singole realizzazioni che,
private del loro valore di indicazioni programmatiche, apparirebbero come i frutti isolati, come
tali fin troppo facilmente assimilabili, dell'estro di un grande artista.
È noto come il segno teatrale potesse assumere, nei piani craighiani, un valore simbolico; ma
ciò che più importa è che un tale valore viene ottenuto solo come punto culminante di un processo
per cui un determinato segno dotato di un significato mimetico, “rappresentazione di una cosa”,
perde questo suo originario significato per assumerne uno letterale nel sistema dello spettacolo.
L'autonomia del linguaggio teatrale non appare come il presupposto su cui si elabora la
rappresentazione (che allora potrebbe risultare immediatamente da pure forme, luci, colori in
movimento) ma è, in qualche modo, l’oggetto stesso dello spettacolo. Il movimento interno di
questo è dettato dall'alternarsi di momenti di diastole e momenti di sistole attraverso i quali i segni
scenici si chiudono, per così dire, su se stessi, negando i riferimenti - dianzi appena accennati alla realtà, per poi aprirsi a una significazione simbolica per via di autonomi procedimenti teatrali.
È il ritmo che scandisce la prima vera regia di Craig (Dido and Aeneas di Purcell), salutata, fin dal
suo apparire, come un fatto rivoluzionario nella storia del teatro inglese.
Si individua, così, veramente una semiologia propria del teatro nella misura in cui non ci si
limita a superare l’atteggiamento mimetico trapiantando sul palcoscenico simboli letterari o
figurativi. A questo proposito è particolarmente indicativo l’elemento scenico che dominava l’inizio
dell'Hamlet nella regia craighiana: il manto di porpora e oro che scendeva dalle spalle del re e
della regina e si espandeva - fino a coprire metà della scena - in larghe onde da cui emergevano
teste di cortigiani. Si trattava, evidentemente, di dar corpo a un'immagine precisa del potere
regale, della corte come propaggine del re, organismo unitario che si opponeva al principe Amleto.
A prima vista il procedimento di Craig sembrerebbe consistere semplicemente nell'aver
visualizzato l’espressione metaforica secondo cui la corte è tutta raccolta sotto il mantello del re,
nell'aver portato in primo piano, cioè, un elemento (il mantello regale) carico di significati
simbolici. In realtà accade esattamente l’opposto: lungi dall'avanzare in primo piano, il mantello
perdeva il suo valore di oggetto, non appariva come un mantello più grande che quindi deve
significare qualcosa di più, si presentava come puro colore e volume, e acquistava un significato
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simbolico attraverso i rapporti intercorrenti fra quel colore e quel volume e gli altri elementi che
organizzavano lo spazio scenico: la piramide di broccato d'oro da cui lame di luce traevano
baluginii si opponeva ai toni grigi della parte avanzata della scena dominata da linee orizzontali,
dove giaceva Amleto.
Il simbolismo, risultante non da un sovrappiù di significato aggiunto al valore mimetico
dell'oggetto scenico, ma funzione della crisi dell'oggetto stesso, del suo risolversi nel puro colore e
nella pura spazialità, spiega il senso delle affermazioni craighiane secondo cui quella teatrale e
l'arte del movimento. Il “movimento” è, innanzitutto, come si diceva, il risultato del procedere
dell'oggetto da una "connotazione" realistica ad una connotazione esclusivamente teatrale, ma non
si risolve in pura figuratività, nella pura presentazione di “modulazioni visive", frutto di un
estetismo fine a se stesso. La visione scenica, cioè, non viene semplicemente “vista”, ma coinvolge
ogni livello percettivo.
S. A. Luciani, nel descrivere gli esperimenti di Craig con gli screens del Model stage,
notava: “Così la scena, manovrata da un artista, diventa come uno strumento nelle mani di un
abile improvvisatore. Non più cosa meccanica ed immobile, ma una cosa viva come l’attore, come
la faccia umana, capace, pur restando sempre la stessa, di espressioni innumerevoli”.
Il richiamo all'espressione umana, all'espressione attorica, è sintomatico: il regista,
nell'idea di teatro di Craig, è l'artista che visualizza un ritmo organico, fisiologico ed interiore,
traduce nei segni scanditi dell'arte la globalità della percezione psichica.
È questo un aspetto fondamentale della poetica craighiana, che - proprio per la sua
radicalità - non ha trovato un adeguato sviluppo nella storia della regia moderna (ci si è spesso
fermati a una concezione della regia come fatto visivo, o come semplice subordinazione dei diversi
elementi dello spettacolo ad un “regista comandante”), e che ha visto forse le sue più interessanti
estensioni nelle teorie cinematografiche di Eisenstein.
A ben guardare, il superamento della teoria "ortodossa" del montaggio cinematografico
fondato sulla dominante in favore di una formulazione del montaggio basata sulla stimolazione
totale dei vari organi sensori degli spettatori attraverso la totalità, cioè, degli stimoli - che trovano
la loro unità nel fatto di essere dei riflessi fisiologici percepiti psichicamente - può essere vista
come un'acuta applicazione al fatto cinematografico di un principio, che Eisenstein individua nel
kabuki (o nella qualità “fisiologica” della musica di Debussy e Skrjabin opposta al "classicismo"
di Beethoven), ma che è altresì inerente al concetto di regia di Gordon Craig.
Anche il rifiuto eisensteiniano di una predeterminata definizione spaziale dell’immagine
cinematografica, in favore di uno schermo circolare nel quale possano iscriversi le diverse
inquadrature in figure corrispondenti ai loro interni caratteri, trova un'anticipazione teorica
nell'uso craighiano degli screens che rifiutano il palcoscenico come “spazio dato” entro cui
muovere o fare accadere qualcosa, e che rendono le stesse coordinate spaziali funzioni metrodome
dello scandirsi profondo dello spettacolo.
Lo spazio scenico non appare, così, spazio nel quale si vede, ma spazio visto, che ingloba lo
sguardo da cui è determinato.
Su questa linea è agevole precisare il valore della concezione della Übermarionette e della
sostituzione del volto dell'attore con la maschera: la figura umana non è più la superficie su cui si
esprimono degli stati d'animo, essa deve rappresentarli, è già il risultato di una visione, un tertium
quid rispetto all'attore e al personaggio, implica - da parte dello spettatore - uno sguardo che veda
“non con gli occhi ma attraverso gli occhi”. E al riguardo va rilevato come la ricerca craighiana
sul linguaggio teatrale fosse - proprio in quanto ricerca linguistica - assimilabile anche nell'ambito
di poetiche teatrali volte in direzioni affatto diverse da quella di Craig: pensiamo sia al predigra, il
pregioco, e alla biomeccanica dell'attore mejercholdiano, sia al Verfremdungseffekt dell'attore
epico brechtiano.
L'apporto, al livello tecnico linguistico, della visione craighiana dell'attore sulle esperienze
operative e sulle ipotesi teoriche sia di Mejerchol'd che di Brecht è storicamente comprovato da un
lato dal lavoro che il primo condusse, come traduttore, intorno ai testi di Craig; dall'altro dai
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colloqui sulla problematica dell'attore che Craig ebbe con Brecht subito dopo la messinscena della
Dreigroschenoper e che furono ripresi successivamente a Mosca nel 1935. Sono apporti che
meriterebbero una più approfondita indagine attraverso l’esame delle carte private sia di Craig sia
dei suoi interlocutori.
Ma, prima di concludere queste indicazioni sulle modalità di presenza dell'attore nello
spazio e nel tempo scenico teorizzati da Craig, non sarà inutile notare come, ad essere coerenti,
solo il mezzo cinematografico possa integralmente tradurre l’espressività della figura umana nella
rappresentazione, nella dimostrazione dell’Übermarionette (che non è semplicemente Marionette
perché ad essa ineriscono tutti i segni propri dell'espressione corporea). E ciò non soltanto perché
il cinema fissa immutabilmente, su di un mezzo di riproduzione meccanico, l’espressione
selezionata dell'attore, i tempi e i modi della "maschera mobile", ma anche perché esso permette di
formalizzare il processo secondo cui la figura umana si mostra come risultato, come pre-vista
(anche, quindi, come il risultato di un giudizio che svela l’interna dialettica della realtà c'è da
chiedersi, a questo proposito, se il mezzo privilegiato per realizzare il progetto brechtiano di attore
non sia, oggi, il cinema piuttosto che il teatro).
Non è un caso se il discorso sulle implicazioni ultime delle ricerche craighiane tende
ripetutamente a sboccare in riferimenti alle possibilità del linguaggio cinematografico: ciò che
rende necessario un tale percorso della riflessione critica su Craig è anche ciò che spiega la
relativa sterilità, per quanto si riferisce alla problematica teatrale contemporanea, dell'idea
craighiana di regia.
Per fare un solo esempio: quando oggi un uomo di teatro come Grotowski pone all'origine
delle sue ricerche la domanda stessa che si poneva Craig (l’individuazione di un autonomo
linguaggio teatrale capace quindi di fondare la “funzione” del teatro), e l'esigenza - anche questa
craighiana, come si diceva - di superare la concezione dello spettacolo come unione più o meno
armonica di differenti mezzi d'espressione, i risultati cui egli giunge costituiscono per molti aspetti
l’esatto opposto di quelli cui giungeva Craig.
Un esame anche superficiale dell'opera di Grotowski mostra immediatamente come in essa
vengano rifiutati precisamente quegli elementi lessicali costituenti il linguaggio teatrale così come
si era definito dall'analisi di Craig.
Il fatto è tanto più sintomatico in quanto il rifiuto non viene nemmeno esplicitato: non si
tratta di una contrapposizione di “poetiche”, ma del sostituirsi di una problematica che esamina il
teatro nel contesto del sistema degli spettacoli, a quella che esaminava lo spettacolo teatrale in
rapporto al più vasto sistema delle arti.
Ciò che qui importa notare, infatti, è l’incomparabilità del discorso craighiano sul teatro
con quello - assunto a titolo esemplificativo e in ragione della somiglianza almeno apparente dei
punti di partenza - di Grotowski; così come non si può dimenticare che usando il termine "teatro"
indichiamo fenomeni non omogenei, che non possono essere racchiusi nel giro di un'unica
riflessione generale, a seconda che ci riferiamo al diciannovesimo o al ventesimo secolo, o, per
essere più precisi, a quegli anni del nostro secolo che seguono il definitivo affermarsi - come mezzo
di comunicazione di massa e come autonoma espressione artistica - del cinema. Sia al livello
sociologico sia a quello semiologico, infatti, gran parte dei fenomeni che nel secolo scorso
costituivano l’insieme che indichiamo con la parola teatro andrebbero oggi individuati nell'insieme
costituito dalla serie spettacolo teatrale, cinematografico e televisivo.
Se, quindi, il concetto craighiano di regia nasceva dalla ricerca di un sistema di segni
teatrali e soltanto teatrali equivalente, per autonomia, a quello delle altre arti (musica, pittura,
architettura ecc.), la ricerca odierna è volta a reperire ciò che distingue il teatro dagli altri mezzi
di espressione quando gli siano stati tolti quegli elementi che, nel sistema complessivo dei
mass-media e delle arti dello spettacolo (cinema, televisione ecc.), si trovano in una zona di
sovrapposizione.
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Nel primo caso si trattava di reperire la necessità del teatro in un contesto che potremmo
indicare come quello dell'estetica idealistica, nel secondo caso il problema della necessità si pone
nei termini concreti di un problema sociologico; quello, cioè, di individuare - quando ciò sia
possibile - le ragioni di una sopravvivenza che non sia semplicemente il frutto della viscosità delle
moeurs.
Allo spettacolo della regia, che si realizzava come unitario ed autosufficiente sistema di
segni, si contrappone, ora, lo spettacolo che è frutto di un processo di spoliazione (che è povero), e
che, necessariamente, finisce con l’identificarsi nell'attore, nella comunicazione per mezzo del
sistema psicofisico umano, quel sistema che Craig rifiutava come non dominabile e strutturabile
artisticamente. E proprio nella ricerca di un superamento delle ragioni che determinavano un tale
rifiuto gli indirizzi del teatro contemporaneo cui prima accennavamo si sono ricollegati alle
scienze antropologiche e psicologiche e - nell'ambito della riflessione teatrale - alla tradizione
stanislavskijana, attraverso l’eliminazione di tutto ciò che in quella tradizione vi è di mimetico, e
quindi innestando su di essa suggestioni da Artaud (o da Witkiewicz). Anche senza voler
confrontare la problematica craighiana con l’“opposto estremismo” delle ricerche contemporanee
sull'attore, occorre notare che nel momento in cui oggi si esamina lo spettacolo teatrale è proprio
il suo carattere di perfezione (di sistema artistico autosufficiente) a venir posto in questione. Il
teatro è chiamato a trarre ogni conseguenza dal fatto di porsi come spettacolo che avviene hic et
nunc (spettacolo che non dura) in contrapposizione allo spettacolo costruito una volta per tutte
(spettacolo che dura, che si riproduce identico), che è quello cinematografico. Anche quando non si
giunge, cioè, alla scelta radicale del teatro povero, è il teatro rozzo, immediato, che ancora una
volta sembra palesare l’inattualità dell'idea di teatro craighiana.
Ma quella di Craig è un'idea di teatro che non può essere chiusa definitivamente nell'ambito
storico del problema registico. L’angustia di una tale prospettiva appare evidente non appena si
pensi a come la regia sia per lui un momento che media il passaggio dal teatro inautentico al
teatro come esperienza totale.
Gli scritti di Craig sono, per molti aspetti, scritti esoterici. Pensando ad almeno un lettore
attento egli scriveva: “Quell’uno capirà che io scrivo qui di cose che hanno a che fare col
presente, col domani e coll'avvenire, e starà attento a non confondere questi tre differenti periodi”.
Dagli strati meno superficiali delle pagine craighiane emerge un'immagine del teatro che non si
limita a rinnovare la struttura dell'evento artistico, ma che cerca di immetterlo in maniera nuova
nel circuito dell'esperienza. L'immagine di un teatro sistolico, per così dire, una sorta di Nô
occidentale che - piuttosto di aprirsi verso il pubblico - accentri il pubblico su di sé; non un
improbabile “teatro rituale”, ma un teatro, forse, dell'autocoscienza raggiunta per mezzo della
precisione tecnica, dell'artificio del velare e dello svelare.
È una proposta che si immette nel dibattito contemporaneo, quando gli uomini di teatro
sentono l’esigenza di inventariare le possibilità del linguaggio teatrale prima di progettare i modi e
gli scopi dell’intervento del teatro nella società, e quando non si vuole più correre il rischio di
lastricare di buone intenzioni un edificio inabitato, che sopravvive sempre più inutilmente nel
tessuto della metropoli.
Craig, spogliato della veste liberty, ci appare come la prima proposta in termini mitici (e
non ancora direttamente antropologici) di recupero di una cultura "altra" e di un significato
“altro” per l’evento spettacolo.
FERRUCCIO MAROTTI
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L’itinerario di Gordon Craig
Edward Gordon Craig nacque a Stevenage, in Inghilterra, nel 1872, da Edward William
Godwin, famoso architetto (e appassionato di teatro) e da Ellen Terry, giovane sconosciuta attrice,
moglie separata del pittore vittoriano G. F. Watts. Godwin, che rimase accanto ad Ellen Terry solo
pochi anni, morì quattordici anni più tardi. Ellen Terry divenne la più grande attrice dell’età
vittoriana.
Craig debuttò in scena nel 1878, a sei anni, facendo una breve apparizione in Olivia, al Court
Theatre. Il 28 dicembre dello stesso anno Ellen Terry iniziò la sua collaborazione artistica con
Henry Irving, il maggior attore e capocomico inglese dell’Ottocento, recitando con lui, nell’Hamlet,
al teatro Lyceum di Londra. Durante la seconda tournée americana di Ellen Terry ed Henry Irving,
nel 1885, Teddy (Edward Wardell, per la legge, essendo questo il cognome del nuovo marito della
madre) sostenne una piccola parte, quella del ragazzo del giardiniere, nel primo atto di Eugene
Aram, a Chicago. Poi recitò saltuariamente - a volte soltanto come comparsa - nell’Hamlet, in Much
Ado About Nothing e in Twelfth Night.
Solo quando ebbe compiuto sedici anni Ellen Terry decise di farne un attore. Ma, ha notato in
seguito Craig, egli ormai era troppo autocosciente: avrebbe potuto diventare attore solo se avesse
cominciato a recitare in modo sistematico da piccolo, per riuscire ad acquistare tutta l’esperienza
necessaria prima di giungere all’età della ragione. Nel 1889 venne scritturato con salario, da Irving,
al Lyceum, e nel cast del melodramma di Watt Phillips, The Dead Heart, apparve per la prima volta
il nuovo nome d’arte di Teddy: Edward Gordon Craig.
Lo stesso anno iniziò a studiare recitazione sotto la guida di Walter Lacy, un vecchio attore, e
ad istruirsi metodicamente nei vari “mestieri” del teatro. Al Lyceum si rese conto poco per volta di
venir sempre additato come figlio di Ellen Terry, e di non poter quindi lavorare senza essere notato,
di non poter perdersi fra gli altri, farsi strada da sé ed emergere al momento opportuno con le
proprie forze. Quest’idea lo perseguitava e gli impediva anche di apprezzare il privilegio di avere
due maestri come sua madre ed Henry Irving.
L’esempio e la guida di Irving, mentre in un primo tempo indussero Craig a tentarne
un’imitazione che da esteriore divenne sempre più intima, determinarono poi in lui a poco a poco col progressivo formarsi della sua personalità - un senso di insoddisfazione sempre più acuto,
poiché, scrisse egli stesso, “osservando Irving nell’ultimo atto di The Lyons Mail e di The Bells,
sentii che era impossibile andar oltre quel punto e mi dissi che o dovevo contentarmi per il resto
della mia vita di seguire Irving e diventare una sua pallida imitazione, o scoprire chi ero realmente
io, ed essere me stesso”.
Durante l’estate del ‘92, mentre il Lyceum rimaneva chiuso, Craig recitò in provincia la parte
di Petruchio in The Taming of the Shrew, quella di Charles Surface in The School for Scandal e
quella di Modus in The Hunchback.
Nel 1893 incontrò William Nicholson e James Pride, due giovani artisti grafici, tramite i quali
scoprì il disegno e la xilografia, che divennero presto le sue passioni dominanti.
Nello stesso anno, essendosi sposato e non potendo quindi seguire Irving ed Ellen Terry nella
nuova tournée americana, Craig mise in scena a Uxbridge, per uno spettacolo di beneficenza, On ne
badine pas avec l’amour di de Musset. È il suo primo “tentativo” registico: la preparazione del
lavoro gli richiese circa due mesi e mezzo; egli stesso disegnò le scene, aiutò i falegnami a
costruirle, le dipinse e diresse le prove degli attori. Lo spettacolo fu replicato due sere, il 13 e il 14
dicembre.
Nel cast degli attori, oltre a lui che sosteneva la parte di Perdicano, c’erano Italia Conti
(Camilla) e Tom Heslewood.
I documenti al riguardo sono molto scarsi: la stampa non si interessò a questo spettacolo di
beneficenza. Una nota al programma stampato in quell’occasione dice che “i costumi sono un’esatta
riproduzione degli abiti usati nel secolo XIV, e sono fatti su disegni di Viollet le Duc”.
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L’estate seguente recitò in provincia con la compagnia W. S. Hardy come protagonista in
Hamlet, sostenendo anche altri ruoli: Cassio nell’Othello e Gratiano in The Merchant of Venice.
Dopo altre tournées in cui recitò la parte di Cavaradossi nella Tosca e fu protagonista in Hamlet e in
Macbeth, Craig tornò a lavorare, nel 1896, nella compagnia di Irving, e nel mese di luglio recitò
con una propria compagnia al teatro Parkhurst di Londra, come protagonista in Hamlet e in Romeo
and Juliet. Con Irving ebbe parti in Cymbeline e in Richard III. L’anno seguente fu di nuovo
protagonista di Hamlet per sei repliche serali e due diurne al teatro Olympic, chiamato a sostituire
un attore malato.
La stampa londinese comincia a notare questo giovane attore pieno di talento. A proposito
delle recite al teatro Parkhurst, il giornale “The Era” del 25 luglio 1896 scriveva di Craig nel ruolo
di Amleto: “Ha dei tratti fini, espressivi e si muove con grazia e disinvoltura. È chiaro che ha
studiato la parte con grande cura e ne dà un’interpretazione al tempo stesso intelligente, penetrante
e sapiente. Gordon Craig è un serio rappresentante della nuova scuola di recitazione che si
contrappone all’eloquio pomposo e declamatorio e ai procedimenti spesso meccanici della scuola
tradizionale”.
Su “The People”, più conservatore, il giorno seguente usciva un trafiletto di critica che gli
rimproverara il suo stile “decisamente moderno” e lo metteva in guardia sui pericoli dell’uscir fuori
dalla tradizione. Clement Scott - uno fra i più influenti critici teatrali dell’epoca - scriveva sulle
“Illustrated London News” del 1° agosto 1895 che, pur notandosi ancora in lui il forte influsso della
scuola di Irving, Gordon Craig aveva dimostrato di avere “delle idee nuove e interessanti per quel
che riguarda i particolari dell’interpretazione e il movimento scenico”. Anni dopo Gilbert Coleridge
(“Sunday Times”, 19 agosto 1923) ricordava ancora la sua interpretazione di Amleto come la più
intelligente e la più nuova fra le tante da lui viste in Inghilterra.
Del tutto inaspettatamente, allorché gli scadde la scrittura con il teatro Lyceum, nel dicembre
del 1897 Craig pose fine alla sua carriera di attore a neppur ventisei anni, quando aveva cominciato
ad affrontare con successo i ruoli più impegnativi.
In questi anni di crisi Craig si diede a disegnare e a incidere su legno sempre più
appassionatamente e iniziò anche a pubblicare una rivistina, “The Page”, di cui, a cominciare dal
1898, uscirono quattro annate, con una frequenza prima mensile, poi trimestrale. Ormai si
guadagnava da vivere disegnando o incidendo per giornali e riviste. Nel 1900 pubblicò il volume di
xilografie The Gordon Craig Book of Oenny Toys.
Il numero finale di “The Page” per l’anno 1899 riportava una notizia importante: si era
formata The Purcell Operatic Society, una società artistica che intendeva riproporre al pubblico le
opere non più eseguite di Purcell, Arne, Händel, Gluck e altri compositori. Il numero dei membri
era limitato a duecentocinquanta persone; costo annuale per gli iscritti: una ghinea. Direttore
musicale: Martin Fallas Shaw. Direttore di scena: Edward Gordon Craig. La prima opera in
programma era Dido and Aeneas di Purcell.
Gordon Craig aveva conosciuto Martin Fallas Shaw, un giovane musicista, nel ‘97, poco
prima di ritirarsi dalla sua attività di attore, ed erano divenuti molto amici.
Nel suo Index to the Story of My Days, Craig ricorda: “Non avevamo un soldo - e questa era
una seccatura minima. Non avevamo un teatro - ma non era niente di insuperabile. Non avevamo
una compagnia di attori-cantanti, né potevamo ingaggiarne una perché ci sarebbe voluto un capitale
di parecchie migliaia di sterline. Decidemmo subito di provare e riprovare finché tutto non fosse
stato pronto - nessun limite di due settimane al massimo per le prove. Niente denaro - niente teatro niente compagnia. Aggiungete a questo: niente personale”.
L’orchestra aveva una struttura identica a quella usata da Purcell nel 1680; nel programma per
la rappresentazione ad Hampstead si avverte che “nel disegnare la scena e i costumi di Dido and
Aeneas il direttore di scena si è preoccupato in particolar modo di essere assolutamente scorretto in
tutto ciò che riguarda i particolari”. È evidente l’intenzione polemica con cui il regista desiderava
presentare il suo spettacolo, in una Inghilterra dominata in quegli anni dall’influsso dei Meininger e
della scuola realistica.
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Le prove, che durarono circa sette mesi, iniziarono verso la fine del 1899, nei vari locali che
si trovarono disponibili ad Hampstead, dove vivevano i componenti della troupe, tutti dilettanti, se
si eccettuano i due cantanti che impersonarono Didone ed Enea, i quali d’altronde provarono solo
poche volte prima della rappresentazione. La sala, sulla cui piattaforma Craig costruì il proscenio e
le scene del dramma, era quella del Conservatorio musicale di Hampstead. La piattaforma “era
rialzata di circa un metro e venti dal livello del pavimento e si estendeva per tutta la larghezza della
sala; sul fondo di questa lunga scena si elevavano più file di ripiani a gradinata, come nella maggior
parte delle sale da concerto dell’epoca” (Craig, Index). Il regista, quindi, si dovette adattare alle
proporzioni della scena già esistente; fece costruire, con travi da impalcature, un proscenio, che
venne in tal modo a formare una cornice di color grigio alla scena, la quale si presentava
particolarmente larga, contrariamente allo sviluppo verticale che hanno in genere i disegni
successivi di Craig, e piuttosto bassa. Martin Shaw ricorda nel suo libro come ogni sera, durante le
tre repliche dello spettacolo (17, 18 e 19 maggio 1900), le travi orizzontali che formavano la parte
superiore del proscenio, su cui erano i due operatori delle luci e tutto l’impianto d’illuminazione (il
ponte-luce), si piegavano sempre di più, tanto da far temere che si spezzassero da un momento
all’altro. Craig si servì dunque fin da questa prima volta di luci provenienti dall’alto, eliminando
ogni luce di ribalta. La cosa, da un punto di vista tecnico, era a quel tempo inusitata; ma c’era anche
un’altra significante innovazione tecnica, a quanto risulta da una rivista dell’epoca:
“L’illuminazione era eccellente; due potenti riflettori erano adoperati dal fondo della sala, sopra le
teste del pubblico; ad essi si aggiungevano delle luci dall’alto del proscenio, ma le luci laterali e
quelle di ribalta erano del tutto assenti; i costumi e coloro che li indossavano venivano a
guadagnare moltissimo da quest’innovazione”.
Per ottenere un effetto di profondità infinita alla scena, Craig aveva inoltre messo a un paio
di metri dal fondale blu uno schermo grigio di garza, illuminato lateralmente con luci rosa, che
producevano un colorismo cangiante, in cui la terza dimensione si vanificava nella profondità
oscura.
La prima scena, che secondo il libretto doveva rappresentare dapprima il palazzo di Didone,
poi il porto, fu realizzata da Craig con in primo piano “un traliccio molto lungo coperto da
rampicanti verdi e da fiori. Il traliccio, era interrotto al centro da un trono - quattro alti, esili pilastri
che sorreggevano un baldacchino, e sotto di esso il trono, ampio e ricco di molti cuscini. Subito
dietro una grande tela di fondo blu, blu porpora. Questo fondale si elevava oltre il limite di visibilità
degli spettatori... così si provava (la gente diceva - per la prima volta) una sensazione di spazialità
sulla scena” (Craig, Index). Per rappresentare il porto veniva semplicemente tolto il trono con i suoi
cuscini rosso scarlatto e i due tratti di traliccio venivano congiunti.
Nella seconda scena, che rappresentava il concilio delle streghe, con in primo piano le
sagome scure di navi naufragate, Craig si servì di tutta la profondità del palcoscenico, comprese le
gradinate di fondo, coperte di grigio, su cui agivano i personaggi del coro - parte dinanzi e parte
dietro lo schermo di garza, su cui si proiettavano luci blu e verdi - veri protagonisti di questo
spettacolo, con un’unità e una continuità di movimento che destò meraviglia.
Il fine ultimo di Craig - come egli stesso dice - era “non di creare una sensazione di varietà bensì di creare una sensazione di unità”, e questo fu il principio che lo guidò in tutta la
realizzazione scenica: a tal fine il proscenio, il sipario, il pavimento del palcoscenico e le gradinate
sul fondo erano “di un caldo grigio neutro... L’effetto era quello di elevare e mettere a fuoco al
massimo il quadro scenico, sicché ogni minimo pezzo di colore aveva un suo preciso significato...
Vi era poi un chiaro intento artistico nell’inseparabilità dei costumi degli attori da quel che li
circondava; essi erano essenzialmente parte del disegno d’insieme di ciascuna scena, e tutto questo
portava ad una complessità armoniosa che è rara a teatro; i direttori dimenticano con facilità che un
certo numero di costumi isolati, anche se belli, non creano un bel quadro” (M. Cox, Dress, in “The
Artist”, luglio 1900, XXVII, pp. 130-132).
I costumi delle fanciulle al seguito di Didone erano composti di due colori: un fondo verde,
coperto da veli di mussola color porpora scuro. Anche il costume della regina si basava
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sull’accostamento di questi due colori. I colori cupi che caratterizzavano la regina e le ancelle
avevano un preciso significato simbolico - quasi presagio di sventura - e si accordavano alla musica
e all’azione, che era lenta e misurata. Enea aveva due toni fondamentali: il rosso porpora e il nero; i
suoi attendenti portavano vasi rossi e oro, rami d’olivo verdi ed ancore, che dovevano produrre un
effetto coloristico molto vivo nelle scene d’insieme.
Per il secondo atto, che avrebbe dovuto rappresentare un boschetto sotto il chiaro di luna scena troppo costosa quindi, e difficile a realizzarsi sul palco di una sala da concerti - Craig ricorse
al semplice fondale grigio, con luci verdi sullo schermo di garza. Su di esso producevano un fine
effetto tonale i costumi delle fanciulle del seguito, avvolte ora in veli grigi. Gli uomini qui
indossavano mantelli di un grigio scuro. Tutta la scena, cioè, era impostata sulle gradazioni di tono
di un unico colore, e creava come un’oasi di pace, di rinnovato idillio fra i due amanti, dopo un
primo atto ricco di colori violenti e cupi che evocavano l’addensarsi del dramma sul capo della
regina.
Il terzo atto comprendeva tre scene: la prima rappresentava la partenza di Enea e dei suoi
uomini; per la seconda - che si doveva svolgere sotto terra fra le streghe - Craig si servì ancora una
volta del semplice fondale; - e per la terza riprese lo schema della prima scena del primo atto,
modificando - con un’idea geniale - tutti i toni dei colori mediante l’applicazione di filtri gialli alle
luci poste sul proscenio. “Sotto il gioco di questa luce”, scrive ancora la Cox, “lo sfondo diviene di
un blu cupo, luccicante, quasi traslucido all’apparenza, su cui il verde e la porpora producono
un’armonia di grande bellezza, mentre i cuscini scarlatti del trono di Didone sono stati
misericordiosamente sostituiti con cuscini neri”.
Le scene che più colpirono il pubblico furono le due in cui comparivano le streghe. Qui Craig
fece uno studio del chiaroscuro che sconcertò molti per l’arditezza con cui era concepito, ma non da
tutti fu apprezzato nel suo giusto valore. Partendo dall’idea che la realtà, lo spazio, non preesistono
alla rappresentazione, ma si vengono a configurare in rapporto all’azione e al movimento
drammatico, immerse la scena nel buio, privandola di ogni indicazione spaziale e lasciando vedere
solo delle forme nere che si muovono in un fermento continuo, ma smisurato. “Qua e là una
maschera orribile, o un volto di cadavere colpivano l’occhio con un forte effetto. Queste maschere
sono ciò che c’è di più orribile e spaventoso; sono un incubo, la personificazione di orrende
emozioni”, scriveva la Cox. Craig, infatti, adoperò in questa sua prima regia delle maschere che egli
stesso costruì, e di cui ci rimangono alcuni notevoli studi preparatori in acquerello, oltre alla
trasposizione xilografica - che ne rispetta i tratti fondamentali, ma ne annulla gli effetti coloristici da lui stesso curata per 14 pubblicazione del programma. Le maschere erano in parte costruite, in
parte direttamente dipinte sul volto dei coreuti. Il lavoro giunse a un così alto grado di unità perché
Craig si occupò personalmente di ogni cosa, dalla scena all’illuminazione, ai costumi, ai movimenti
dei coreuti e dei protagonisti, fino alla pubblicazione del programma.
Nel 1901 Dido and Aeneas fu portato per una settimana, a partire dal 26 marzo, al teatro
Coronet di Londra. Un’importante testimonianza di questa ripresa è data da Haldane Mac Fall che
sottolinea la qualità innovatrice e antirealistica della messa in scena: “...il primo passo di un nuovo
movimento che è destinato a rivoluzionare la messa in scena del dramma poetico... Lo spirito di
ogni scena... era reso in uno schema coloristico, che cercava di accentrare il significato emotivo di
quella scena”.
L’unica differenza tra questa e la precedente edizione dell’opera fu l’abolizione delle gradinate
di fondo. Lo spettacolo questa volta era più lungo, poiché oltre Dido and Aeneas comprendeva
brani da Nance Oldfield che Ellen Terry, per richiamare pubblico allo spettacolo del figlio, recitò
con gli attori della sua compagnia, e The Masque of Love su musica di Purcell, tratto
dall’adattamento di Betterton da Prophetess, or Tbe History of Dioclesian di Fletcher.
Questo intermezzo drammatico, The Masque of Love, fu la seconda breve messa in scena
rivoluzionaria di Craig. “La scena”, dice il programma a stampa, “è una sala in un maniero. Cupido
manda fuori i fanciulli a prendere le maschere, dal che comprendiamo, che essi stanno giocando a
fare gli Dei e le Dee - Flora, Comus e gli altri. I tre gruppi, che rappresentano la Nobiltà, la
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Ricchezza e la Povertà, entrano, da parti diverse; hanno i polsi legati e vengono trascinati a forza, a
rappresentare il rigido dominio di Amore. Le catene vengono sciolte. Il palo della prigionia diviene
l’asta intorno a cui si festeggia la gioia, con un solenne movimento. ‘Odi, possente Amore!’. Alla
fine di questo coro, si sente fuori scena un fruscio e un rumore di passi, che suscitano timore e
attesa insieme. I sacerdoti di Bacco entrano, le maschere fuggono come cerbiatti in allarme. Segue
un inno a Bacco, con vivaci movimenti delle mani e del corpi, e una danza intrecciata. Mentre gli
occhi si beano, una gaia danza campagnola incanta l’orecchio, e il trionfo si chiude con la
processione d’uso”.
La scena fu realizzata in modo lineare: “tre ampi teloni (uno di fondo e due laterali), un
grande fondale sul pavimento, e una tela tagliata sul davanti, tutto fu dipinto in un solo grigio, di
tono uniforme” (Craig, Index). Craig ritiene che questa sia stata la cosa migliore da lui realizzata
sulla scena; dalla ricerca spaziale e coloristica sulla scena era pervenuto qui al puro studio del
movimento, del valore figurativo allegorico e ritmico del corpo umano. Anche in questa seconda
regia Craig adoperò delle maschere, che riprodusse in disegni acquarellati comparsi in un Souvenir
del 1902. È un uso indicativo della teorizzazione della maschera che Craig fece anni dopo nella
figura mitica della Übermarionette, la Supermarionetta. Il fatto di utilizzare attori non professionisti
ha esso pure un suo valore; lungi dal mettere in risalto alcuna loro dote di estemporaneità veristica,
Craig li fece provare tanto a lungo da renderli dei veri e propri burattini dai movimenti ritmati in
modo perfetto (cosa che un giovane regista mai avrebbe ottenuto da attori professionisti).
Dopo circa un anno di studio e di prove, Craig inscenò insieme con Martin Shaw al Great
Queen Street Theatre il terzo spettacolo della Purcell Operatic Society, Acis and Galatea di Händel
su testo di John Gay, e una ripresa di The Masque of Love. Dopo sei sere soltanto, a partire dal 10
marzo 1902, si dovettero però interrompere le recite per mancanza di pubblico, nonostante i
commenti favorevoli della stampa più qualificata.
Anche in Acis and Galatea Craig semplificò al massimo la scena. Nel primo atto sostituì al
“paesaggio campestre con rocce, fontane e grotte” del libretto, una semplice “tenda bianca”
composta di sottili strisce verticali, su cui spiccavano i costumi di gusto geometrico degli
attori-cantanti, mentre fra gli spiragli che si aprivano nella tenda a strisce si intravedeva un fondale
bianco alla base, che attraverso una serie di graduazioni tonali diveniva rosa poi blu e infine, in alto,
color indaco. Ma l’interesse coloristico nel primo atto era incentrato soprattutto sui costumi corali:
quelli di Galatea e delle fanciulle constavano di una semplice tunica dalle cui maniche e dalla cui
scollatura scendevano dei lunghi fitti nastri chiari, che producevano un forte accentuarsi del valore
ritmico di ogni singolo movimento e portavano con sé un elemento di pura linearità che era in
relazione con quella della scena; dal ginocchio in giù i loro vestiti erano disegnati a scacchi bianchi
e scuri. I costumi dei fanciulli erano in tutto simili ai precedenti, tranne che per la minor lunghezza
della tunica; vi erano poi i personaggi con “costumi di giunchi”, cioè di strisce verdi verticali
aderenti al corpo e fermate alle giunture.
La prima scena del secondo atto, una delle più belle pagine musicali dell’opera, in cui il coro
cantava fuori scena l’aria Wretched lovers, mentre l’ombra di Polifemo con le braccia spalancate si
proiettava sempre più gigantesca, fino ad avviluppare i due amanti abbracciati al centro della scena
nuda, era preludio all’altra scena, che indusse W. B. Yeats a scrivere: “La scena in cui Polifemo
uccide Acis appartiene ad un’arte che è stata sepolta sotto le basi delle piramidi per diecimila anni
tanto è solenne”; qui Craig suggerì il senso del terrore mediante le luci rosse - che illuminavano il
covo del gigante, seduto su di un alto trono che le vesti coprivano in parte, in modo da ingrandire la
sua figura - e con ombre profonde. La scena seguente, la “tenda grigia”, trovava la sua nota
fondamentale nell’impronta di tristezza per la morte di Acis, che la pervadeva. L’opera si
concludeva con l’assunzione del pastore a dio dell’acqua e la sua trasformazione in fonte:
lentamente la tenda a strisce si apriva sulla tela di fondo blu, in cui si illuminavano brevi linee
perforate salenti verso l’alto con movimento curvilineo sempre più ampio. Qui l’illuminazione era
duplice, davanti e dietro il telone, e davanti ai proiettori posteriori venivano fatti ruotare dei dischi
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perforati, che proiettando una luce stroboscopica attraverso i fori del telone, creavano l’effetto di
uno zampillo d’acqua in movimento.
Con questa terza messa in scena ebbe fine l’attività della Purcell Operatic Society, per
motivi di carattere economico: all’ultimo spettacolo assistettero gli agenti venuti a requisire da parte
dei numerosi creditori quanto era in scena.
Un epigono della Purcell Operatic Society si può considerare anche la messa in scena di
Bethlehem di Laurence Housman, all’Imperial Institute dell’Università di Londra. Craig dedicò
circa sei mesi di preparazione a questo dramma sacro, che venne recitato alcune sere, a partire dal
17 dicembre 1902. Gli attori erano in parte gli stessi dell’opera di Purcell e di quella di Händel. Lo
sfondo della prima scena era di un blu scuro, cosparso di stelle (cristalli di lampadario, sospesi in
aria a diverse altezze): il palcoscenico era recintato da una staccionata; in esso stavano, disposti a
gruppi, i pastori, vestiti di ampi mantelli tutti uguali di stoffa ruvida, con lunghi bastoni in mano,
che durante lo svolgersi dell’azione valorizzavano i movimenti dando loro un’euritmia strumentale;
in alcuni punti della piattaforma tele di sacco raggruppate per terra servivano a indicare il gregge.
Ancora una volta al centro dello spettacolo era uno studio del rapporto di luci e movimento, in un
complesso gioco chiaroscurale; ed anche questa volta Craig si servì di pochi elementi ripetuti (i
costumi dei pastori, il cielo scuro e le stelle, lo steccato) per dare un’impronta di armonica
uniformità allo spettacolo.
Con questa messa in scena si conclude l’attività registica di Craig al di fuori del teatro più
propriamente professionale. I consensi che aveva riscosso erano stati più che lusinghieri:
specialmente gli artisti vedevano in lui chi avrebbe portato il teatro al livello delle arti superiori,
traendolo fuori dagli schemi della fastosità tradizionale e del realismo positivistico.
Si trattava di inserire questa reazione idealistica, questo che Craig definiva ritorno alle
tradizioni più antiche della semplificazione e dell’unità, nell’ambito della routine teatrale londinese.
Un primo esperimento in tal senso egli lo fece disegnando tre scene per il dramma musicale For
Sword or Song di Legge e Rose, che suo zio Fred Terry presentò il 21 gennaio 1903 allo
Shaftesbury Theatre. Nella prima scena Craig fece uso degli alti letti che aveva visto al palazzo di
Hampton Court tante volte. Un’altra scena, con un vasto fondo blu, rappresentava una foresta che
sorgeva da una collinetta ampia quanto l’intero palcoscenico. Il critico drammatico di “The Stage”,
il 22 gennaio 1903, scrisse che in tutto lo spettacolo si notava “l’ispirato giudizio di Gordon Craig”.
Lo stesso anno Ellen Terry decise di formare una propria compagnia indipendente, con
Gordon Craig metteur en scène ed Edith, l’altra sua figlia, costumista. Il 15 aprile la formazione
debuttò all’lmperial Theatre, un teatro periferico affittato da Ellen Terry, con I guerrieri a
Helgeland, un dramma giovanile di Ibsen, il cui titolo inglese era The Vikings. Con questo
spettacolo, oltre che proporre un criterio direttivo nuovo (che oggi si definisce registico) ad una
formazione completamente professionale, Craig si cimentava in una tragedia di Ibsen (il dramma è
del 1858).
Nei Guerrieri a Helgeland c’è un romanticismo di impronta schiettamente nordica: è una
saga norvegese, pervasa da una foga barbarica, da un maestoso crescendo tragico che, pur nelle
incertezze di un autore ancora inesperto, è sconvolgente e richiama il Wagner dell’Anello dei
Nibelunghi. C’è una tensione nei dialoghi dei protagonisti, che Craig tradusse visivamente in campi
di forze musicali, trascendendo del tutto ogni aggancio realistico.
Egli - nonostante Ibsen avesse scritto delle indicazioni sceniche precise per ogni atto trascurò le didascalie e, nel lavoro di mesi per disegnare le scene e i costumi, si fece guidare
soltanto dalle reazioni della sua fantasia di fronte al semplice dialogo dei personaggi. Era questo un
fondamentale principio che avrebbe teorizzato più tardi in un saggio di On the Art of the Theatre.
Un rapido confronto fra le didascalie del dramma di Ibsen e i caratteri della scenografia di
Craig è sufficiente a fare un quadro degli intenti d’arte perseguiti dal giovane regista inglese.
La scena del primo atto dei Guerrieri a Helgeland è così descritta da Ibsen: “Un’alta costa,
che in fondo scende ripida al mare. A sinistra un capanno di legno, a destra rocce e boschi di
conifere. Giù nella baia si vedono gli alberi di due navi da guerra; a destra in lontananza isolotti
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scogliosi; il mare è molto agitato. È inverno; nevischio e bufera”. Craig ci vide in primo piano una
roccia praticabile grigia, più indietro una costa, anch’essa grigia, che si levava altissima a sinistra e
degradava fin oltre il mezzo del palcoscenico. Qui si svolgeva un duello barbarico, simile a quelli
dei Samurai: movimenti lenti, misurati, carichi di tensione; poi bagliori improvvisi di spade.
L’esatto opposto dei duelli teatrali di quegli anni. Ad indicare il cielo, il nevischio e la bufera Craig
fece un fondale che avvolgeva tutta la scena, blu scuro, opaco. Naturalmente i critici notarono che
l’azione si dovrebbe svolgere di giorno e all’aperto, non in una tenda gigantesca. Qui si
intrecciavano le fila della tragedia.
Con lo sfondo monotono, evanescente, Craig tendeva a creare uno spazio indefinito, che
assumesse di volta in volta le dimensioni drammatiche dei personaggi. Dapprima vasto, quando la
scena si popolava di guerrieri; poi opprimente, cupo, quando Sigurd presentiva l’imminente
catastrofe.
Il secondo atto si svolge nella sala delle feste in casa di Gunnar, dove sono convenuti tutti,
tranne Örnulf, che ha promesso di giungere presto. La didascalia dice: “La sala delle feste in casa di
Gunnar. La porta principale è nel fondo, porte più piccole alle pareti laterali. In primo piano, a
sinistra, il grande seggio d’onore, di fronte a questo, a destra, un secondo seggio meno elevato. In
mezzo alla sala, su un focolare in muratura, arde un fuoco di sterpi. In fondo ai due lati della porta,
due tribune per le donne. Lungo i muri laterali, due lunghe tavole, con panche dalle due parti, che
vanno dai seggi d’onore alla parete di fondo. Fuori è buio; il fuoco di sarmenti illumina la sala”.
Nel creare l’atmosfera di questa che dovrebbe essere la festa di riconciliazione, Craig costruì
una scena circolare le cui pareti erano costituite da tante strisce verticali di stoffa di differenti
tonalità del grigio, eliminando qualunque porta; gli attori potevano entrare e uscire da ogni dove. I
loro vestiti erano sgargianti, di seta, simili al colore delle pareti - non più i costumi barbarici di
pelliccia e di ferro del primo atto. Al centro della scena un’ampia pedana rotonda, lungo i cui bordi
si estendeva una tavola circolare, mentre al centro erano i seggi d’onore per i personaggi principali,
dietro a un tavolo più piccolo. Una gradinata frontale congiungeva l’alto centro della scena al
proscenio. I ventiquattro guerrieri che partecipavano al banchetto entravano dal fondo disponendosi
intorno alla tavola circolare volgendo le spalle all’esterno, con i loro mantelli da festa tutti uguali.
Un anello amplissimo incorniciava dall’alto, come un baldacchino, la piattaforma rotonda; fanciulle
dai costumi bruni e dorati con cesti di frutta e portatori di torce vestiti di nero davano con i loro
movimenti un senso di festosità al convito.
L’atto terzo, secondo la didascalia di Ibsen, si svolge nella stessa sala del banchetto. Ma
Craig ritenne che quest’atto, in cui Hiördis prepara, secondo magici riti, con i suoi capelli, la corda
dell’arco con cui si vendicherà di Sigurd, non potesse svolgersi nello stesso ambiente in cui alla
festa era succeduta la morte, alla gioia il dolore. Fece perciò una scena nella quale al valore
simbolico del cerchio - la vita ora infranta - succedeva quella di una duplicità di piani paralleli,
allegoria della vendetta e del perdono.
Questi valori extrateatrali non procedono da un proposito intellettuale aprioristico, ma sono,
direi, quasi delle verifiche a posteriori di un impulso spettacolare e artistico.
Il luogo immaginato da Craig constava di un grande vano scuro che occupava tutta la parete
di fondo, era velato da una tenda purpurea e delimitato in basso da un muretto, dal quale si
accedeva con degli scalini - che scendevano da destra a sinistra - nello spazio del proscenio. Per
rendere l’ambiente più raccolto, Craig ridusse in questo quadro l’ampiezza e l’altezza del proscenio,
e fece svolgere la recitazione degli attori sui gradini e sul due piani, quello arretrato più alto e
quello avanzato più basso.
L’ultimo atto del dramma è così descritto da Ibsen: “Sulla costa. È sera; ogni tanto la luna
appare fra le nubi temporalesche. In fondo un tumulo scuro, scavato di fresco”.
Craig diede un semplice fondale di veli neri alla scena, costruendo in primo piano una
collinetta grigia che degradava verso i lati ed il fondo, in modo da porte i personaggi su di
un’infinità di piani differenti.
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La nota dominante era l’oscurità, in cui - grazie a una duplice illuminazione dall’alto,
anteriore e posteriore - si stagliavano di tanto in tanto le figure, ora evidenti, ora evanescenti quasi
alla vista. “...Solo per un istante, quando Hiördis sta in piedi per prendere di mira e colpire Sigurd,
si scorge un lampo del cuoio verde e dell’acciaio lucente del costume che essa portava nel primo
atto”. Nell’oscurità la sensazione di uno spazio preesistente si annullava, nell’ultimo atto come nel
primo, e ogni momento del dramma, con una notazione di luci, assumeva la dimensione spaziale
che più gli era propria.
Il sistema perseguito da Craig nel primo e nell’ultimo atto dei Guerrieri a Helgeland,
dell’oscurità tragica, vide la critica in posizioni contrastanti. Entusiasmò però al solito gli artisti,
che ritrovarono in tutto ciò un carattere tipico dell’arte nordica, da Dürer a Rembrandt; la realtà,
cioè, e lo spazio come determinati dal movimento drammatico, sorti insieme ad esso e non
preesistenti come fattori oggettivi esterni alla rappresentazione.
L’unico appunto mosso a Craig, da G. B. Shaw - in relazione al sistema dell’oscurità tragica
- fu che non si vedevano in viso gli attori, e a questo si ribellavano per primi gli attori stessi.
The Wikings, nonostante la grande validità artistica della messa in scena, finanziariamente si
risolse in un fallimento. In pochi giorni, per rimettere in sesto le precarie finanze della compagnia,
si dovette preparare una ripresa di Much Ado Ahout Nothing di Shakespeare, in cui Ellen Terry,
nella parte di Beatrice, si era rivelata già anni prima la migliore interprete teatrale inglese. Craig
disegnò per questo lavoro le scene in tutta fretta, e si valse di tutto il suo “mestiere” per far risaltare
l’interpretazione di Ellen Terry. Il suo lavoro non era sorretto però dall’ispirazione e dallo studio
profondo che avevano caratterizzato I guerrieri a Helgeland e le regie precedenti.
Nel complesso, anche se da un punto di vista formale può apparire che le tende e le strutture
cubiche adoperate qui da Craig preludano agli screens, questa messa in scena fu più una
“digressione” nello svolgimento artistico del regista inglese che non un contributo determinante alle
linee strutturali della sua arte; naturalmente non si vuol dire che sia mancato un valore e uno stile
teatrale.
Ancora una volta il pubblico, però, non mostrò di seguire lo spettacolo, tanto che pochi
giorni dopo la compagnia si dovette sciogliere.
Fu l’ultima regia fatta da Craig in Inghilterra.
L’interesse suscitato fuori d’Inghilterra dal suo nuovo modo di concepire il teatro, insieme
con le difficoltà incontrate nel proporlo all’ambiente conservatore britannico, indussero Craig ad
accogliere nel 1904 l’invito, fattogli dal famoso mecenate il conte Harry Kessler, di trasferirsi in
Germania. A Berlino Craig disegnò progetti scenici per Otto Brahm (Venezia salvata), per Eleonora
Duse (Elettra) e per Max Reinhardt (The Tempest, Macbeth, Caesar and Cleopatra di Shaw), ma
nessuno dei tre progetti fu realizzato in palcoscenico, perché troppo lontani dalla concezione
realistica allora dominante (Brahm), o per ragioni di carattere pratico, stante la difficoltà economica
di proporre certe soluzioni d’avanguardia nelle strutture commerciali del teatro (Duse), o perché
Craig voleva avocare a sé non solo il diritto di progettare le scene, ma anche quello di dirigere gli
attori (Reinhardt).
Sempre a Berlino, nel dicembre 1904, Craig tenne la prima mostra dei bozzetti per scene
teatrali e costumi; e nel 1905 pubblicò un dialogo intitolato The Art of the Theatre, in cui affermava
la sua idea di teatro. Il libro venne subito tradotto in tedesco, in olandese e in russo, divenendo il
punto di riferimento per l’avanguardia teatrale di tutta l’Europa, da Mejerchol’d a Reinhardt, da
Rouché a Copeau, da Vachtangov a Tairov.
È di questi anni l’incontro con Isadora Duncan e il suo sodalizio con la famosa danzatrice,
che lo portò a girare l’intera Europa. Tramite la Duncan, Craig conobbe a Berlino Eleonora Duse;
per lei, abbiamo detto, disegnò le scene e i costumi per Elettra di Hofmannsthal, che però la Duse
non ebbe modo di rappresentare. Lo invitò invece a disegnare le scene di Rosmerholm di Ibsen, da
mettere in scena a Firenze.
Questo spettacolo rimane ancor oggi uno dei “miti” del teatro italiano, cui ci si riferisce
spesso per sentito dire, ricordando di più alcune circostanze di sapore scandalistico che non il
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livello della rappresentazione in sé. Sarà bene pertanto chiarirne la storia. Un singolare documento
al riguardo è costituito dal diario di un attore della compagnia di Eleonora Duse, Guido Noccioli.
Scriveva il Noccioli:
“Firenze, 4 Dicembre 1906. Giornata terribile. La prova della nuova scena per il
Rosmersholm, il dramma di Ibsen. La signora adora questo lavoro. La scena nuova di cui parlo è
ideata da un giovane pittore inglese: Gordon Craig, figlio naturale del grande attore Irving. È una
scena strana tutta verde e illuminata da 10 riflettori. I mobili sono verdi, di tela uguale la scena: in
fondo una gran porta a vetri dà su un paesaggio che ricorda stranamente quello dell’Isola dei Morti.
L’altra porta grande è coperta da un velo bleu. Altri veli sono ai fianchi. Un sogno! Piacerà al
pubblico? La signora è entusiasta”.
In soli dieci giorni di intenso lavoro Craig aveva creato per Rosmersholm un’ampia scena
unica, di tinta uniforme, color dell’indaco, molto alta, con due sole quinte laterali, con alla base le
sagome dipinte rispettivamente di un secrétaire e di un altro mobile. Al centro della scena un
tappeto, un ampio tavolo con sedie, un divano ed una lampada, sotto il cerchio della cui luce si
svolgeva la vita della casa. Nella parete di fondo due enormi aperture, chiuse alternativamente da
una tenda, anch’essa color dell’indaco, attraverso l’una delle quali - quella di sinistra - si vedeva,
dipinta su di una tela di fondo, una strada in un parco, e attraverso l’altra una lunga scalea. Le luci
cadevano dall’alto, discrete, lasciando la scena in leggera penombra. Solo quando si apriva l’ampio
vano a sinistra della parete di fondo, la stanza si inondava di luce, di sole.
Lo spettacolo andò in scena al Teatro della Pergola, il 5 dicembre 1906. Enrico Corradini
scrisse: “...il palcoscenico appariva trasformato, veramente trasfigurato, altissimo, con una
architettura nuova, senza più quinte, di un solo colore fra il verde e il cilestrino, semplice,
misterioso e affascinante, degno insomma di accogliere la vita profonda di Rosmer e di Rebecca
West... La scena è la rappresentazione di uno stato d’animo”.
Anche in questo caso, come già era accaduto per gli spettacoli di Craig a Londra, il pubblico
nell’insieme rimase del tutto insensibile di fronte alla scena, tanto che l’amministratore della
compagnia decise di non replicare più lo spettacolo a Firenze.
Non è a dire d’altra parte che la Duse provasse per l’arte di Craig un entusiasmo
semplicistico, non critico; c’è infatti un biglietto, in cui ella gli scrisse: “Prière! N’oubliez pas que
le 2nd et 3me acte doit être jour. 1er soir - et 4 me nuit. N’oubliez pas - et pardonnez le travail fait sans
tout le nécessaire! E. D. Merci, merci”. Dove si vede come anche Eleonora Duse stentasse ad
accettare la luce psicologica, atemporale, posta solo in funzione degli stati d’animo dei protagonisti,
che Craig aveva già dalle sue prime regie sostituito alla luce-tempo: ma su di un testo come questo
di Ibsen la cosa era ben più rivoluzionaria.
Eleonora Duse, che Craig volle vestita di bianco in iscena, istintivamente comprese, o
meglio rimase suggestionata dalla potenza emotiva, “di natura musicale”, come acutamente la
definì Corradini, che emanava la scena, e l’indomani, prima che Craig lasciasse Firenze, gli scrisse:
“Merci. C’est ma première parole ce matin. J’ai travaillé hier soir dans le rêve - et lointaine.
“Vous avez travaillé dans des conditions très penibles - et d’autant plus je vous dis: Merci.
“J’ai compris hier soir votre aide - et votre force.
“ Encore: Merci.
“J’espère que nous travaillerons encore, et avec Liberté et joie. E.”.
La Duse chiese a Craig di disegnarle ancora altre scene per i drammi di Ibsen, divenuto ora
la sua “buona forza”. Secondo gli accordi presi, si incontrarono il febbraio dell’anno seguente a
Nizza, dove la Duse avrebbe dovuto replicare Rosmersholm.
Craig portò con sé i bozzetti per La donna del mare; alla Duse piacquero molto, ma non fu
presa alcuna decisione al riguardo per motivi di carattere economico; pregò soltanto l’artista di
vedere come erano state montate le sue scene nel teatro cittadino. Qui Craig si trovò di fronte ad
uno spettacolo che lo fece andare su tutte le furie: la scena era parsa troppo alta per il palcoscenico
di quel teatro, così ne erano stati tagliati circa settanta centimetri lungo tutta la base, in modo che il
secrétaire disegnato sulla quinta di sinistra ed il mobile su quella di destra risultavano l’uno
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completamente senza gambe, e l’altro tagliato a metà nel senso dell’altezza; inoltre le proporzioni
delle due aperture di fondo erano state alterate, e i due sfondi, del viale nel parco, e della scalea,
anch’essi malamente decurtati, avevano perduto ogni valore prospettico.
Craig, ferito nel suo orgoglio d’artista, scrisse furente a Eleonora Duse:
“Se un uomo rinunciasse all’intera sua vita (quasi fosse un niente) per il lavoro - volentieri -,
solo questo potrebbe far rinascere l’Amore per il teatro. Null’altro potrà farlo.
“Noi siamo tutti tutti troppo egoisti, vani ed egoisti. Ed è questo che uccide il lavoro. Voi
forse siete la più egoista. Penso bene a quel che dico. Vi dico ciò con sempre tutto l’affetto,
l’ammirazione ed il rispetto, però sono furioso oltre ogni dire”.
La Duse stessa, pur offesa, non gli seppe dar torto, e rispose dolorosamente con parole
sibilline: “Ce qu’on a fait avec votre décor, on le fait depuis des années pour mon art”.
Ma egli non volle più collaborare con lei, ritenendo che la sua opera non fosse stata affatto
compresa.
Pure, l’esperienza di Rosmersholm aprì un periodo di importanza capitale nella vita artistica
di Craig. Qui egli aveva portato all’apice le intense possibilità emotive insite nelle forme figurative
più semplici, nel dualismo esistenziale (vita-morte) riportato su scala cromatica (cupo o chiaro, sole
o luna). La sua posizione antidemocratica derivava dal fatto che egli era riuscito a cogliere
l’essenza spaziale attraverso uno studio rigoroso delle proporzione e della prospettiva scenica.
Questo era ormai per Craig un punto di arrivo nella sua ricerca dell’equilibrio, di una nuova
intelligenza spaziale, di una sostituzione dello spazio vuoto, libero, a quello affollato da masse di
oggetti; ed era al tempo stesso punto di partenza per quella ricerca dell’intera realtà poetica e
spaziale dell’oggetto al di là delle leggi temporali, che sarebbe stata - di lì a poco - una sua scoperta
fondamentale nel campo del teatro.
Nel 1907 Craig, trasferitosi a Firenze, iniziò a disegnare una serie di acqueforti, che
illustravano una nuova idea di scenografia totalmente rivoluzionaria: gli screens, le “mille scene in
una”, una scena tridimensionale dalle infinite possibilità di movimento: visioni di rigorose strutture
monolitiche mutevoli, un continuo misurato movimento di forme verticali e di luci, immagini
astratte di stati d’animo, ricordi, miti; in questo scenario irreale si muoveva l’utopia dell’attore
perfetto, disincantano, la Supermarionetta.
Da Firenze nel 1908 Craig cominciò a pubblicare una rivista dedicata totalmente all’arte del
teatro, “The Mask”, attraverso cui diffuse il suo credo per oltre 20 anni.
Nello stesso anno fu invitato da Stanislavskij per realizzare la messa in scena di Hamlet al
Teatro d’Arte di Mosca: fra alterne vicende, in tre anni di lavoro, fu costruito uno spettacolo pieno
di intuizioni geniali, che rifletteva nel dramma di Amleto il dramma di Craig, l’afasia,
l’impossibilità di comunicare al mondo il proprio messaggio.
Craig giunse a Mosca l’1 novembre 1908 per prendere i primi contatti con l’ambiente del
Teatro d’Arte e per definire gli accordi circa la regia. Qui strinse subito amicizia con Suler*ickij,
assistente e grande amico di Stanislavskij, e spiegò come vedeva l’arte del teatro e in particolare la
tragedia di Amleto.
“In Hamlet quel che noi vogliamo rivelare al pubblico non è il carattere o la psicologia dei
personaggi; noi siamo qui per interpretare un Poema più che un Dramma. Hamlet è un Poema
drammatico più che un Dramma poetico.
“Se mi è permesso adoperare una parola che ha diversi significati, Hamlet non è un dramma
‘naturale’, è essenzialmente un dramma ‘non naturale’, se lo paragoniamo agli ultimi drammi di
Ibsen e a quelli del vostro maestro Cechov.
“I fatti e i personaggi della storia si muovono secondo linee non naturali. All’inizio del
dramma - o meglio, del poema - siamo condotti proprio in presenza del ‘non naturale’, del
‘soprannaturale’. La storia è narrata in modo ‘non naturale’; i versi prendono il posto della prosa,
cioè il modo di parlare non naturale prende il posto di quello di ogni giorno. Io lo definirei un
parlare sopra naturale... è la Poesia.
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“E per questo sarebbe assurdo pensare di tradurla in prosa. Sarebbe un errore recitare i versi
con l’intenzione di rivelare í pensieri della vostra mente, o i pensieri della mente di Amleto o di
Orazio. lo penso invece che voi dobbiate recitarli con l’unico intento di rivelare la bellezza
dell’anima di Shakespeare”.
Le linee generali dell’interpretazione craighiana dell’Hamlet sono riassunte dallo stesso
Stanislavskij nel suo libro di memorie La mia vita nell’arte.
“Craig ampliava moltissimo il contenuto spirituale di Amleto. Per Craig, Amleto era il
migliore degli uomini che passava come un capro espiatorio attraverso il mondo.
“Amleto non era un nevrastenico e ancor meno un pazzo, ma era divenuto diverso dagli altri
uomini per aver spinto lo sguardo un solo momento al di là del muro della vita entro il mondo
futuro, dove suo padre soffriva.
“Nella mente di Amleto la realtà della vita subiva una trasformazione. Egli scrutava a fondo
nella vita terrena per risolvere il mistero ed il significato dell’esistenza; amore e odio, i
convenzionalismi della vita di corte, cominciavano ad assumere per lui significati del tutto diversi e
i problemi che gli venivano prospettati dal padre assassinato - troppo ardui per un semplice mortale
- lo portavano alla confusione della mente ed alla disperazione. Se si fosse potuto risolvere tutto con
l’assassinio del nuovo Re, Amleto non avrebbe esitato un momento, ma la questione non si fermava
solo all’assassinio del Re. Per alleviare le sofferenze di suo padre, era necessario purificare dal male
tutta la corte, era necessario passare a ferro e fuoco tutto il regno, distruggere il peccato, respingere
i vecchi amici dall’anima corrotta, come Rosencrantz e Guildenstern, salvare i puri di cuore come
Ofelia dalla rovina terrena.
“Queste torture inumane facevano di Amleto una specie di superuomo, agli occhi dei
semplici mortali che vivevano la loto monotona vita di corte in mezzo alle piccole preoccupazioni
quotidiane; un uomo diverso da tutti gli altri, e perciò pazzo. Allo sguardo miope dei piccoli uomini
che non solo sono incapaci di riconoscere il mondo dell’al di là, ma che non sono neppure in grado
di vedere oltre gli stretti confini delle mura del palazzo, Amleto appare naturalmente anormale.
Parlando della corte, Craig alludeva a tutto il mondo”.
Amleto, diceva Craig, “è riuscito semplicemente a portare a termine in due mesi un’impresa
che si è tentato di realizzare per secoli in tutte le corti d’Europa: ha deciso di purificare la vita
sociale e pubblica dall’oscurità morale e dalla degenerazione. Si è messo al lavoro con un fine
preciso e con l’entusiasmo di un uomo giovane, virile, crudelmente ferito. Le sue idee sono logiche,
egli ha ragionato e meditato ogni movimento e ogni atto, in quel breve momento di tempesta e di
tensione che finisce nella tragedia. Questa è la mia idea di Amleto”.
Craig sin dal primo momento aveva deciso di adoperare per la messa in scena a Mosca i suoi
screens, con pezzi aggiunti, scale, cubi, parallelepipedi, in rigorosa proporzione.
All’inizio dello spettacolo gli screens dovevano formare come una parete, una continuazione
architettonica alla platea. Poi, nella semioscurità, dovevano muoversi, assumendo posizioni
determinate. Delle luci, provenienti dall’alto, avrebbero illuminato la scena, secondo un sistema di
illuminazione a “raggi e macchie”. Tale sistema era stato studiato da Craig proprio per il Teatro
d’Arte, e tendeva ad ottenere risultati simili, ma non ugualmente perfetti, a quelli che egli raggiunse
in seguito con il suo Model Stage.
I “raggi” erano prodotti da proiettori mobili, che nella quasi totale oscurità facevano scorrere
una luce diretta, radente, sugli angoli degli screens o sui personaggi, creando ombre e guizzi
improvvisi. Le “macchie” erano invece un’illuminazione diffusa, con più filtri di colore di varia
tonalità, che permettevano di produrre zone di colore o zone scure.
L’artista inglese voleva creare nella rappresentazione uno stridente contrasto fra i due
mondi, quello di Amleto e quello della corte. Egli vedeva quest’ultimo, nella seconda scena del
primo atto, attraverso gli occhi del Principe Danese: era tutto dorato, dagli screens ai costumi, fino
ai volti dei cortigiani e del Re. Amleto sedeva in primo piano, vestito di nero, ma più che seduto era
disteso, con le braccia aperte, la testa reclinata sulla spalla, simile al Cristo deposto dalla croce. E
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qui aveva la visione torturante della corte: alle sue spalle, in una marca di broccato color oro, si
svolgeva, con la sua chiara impronta di corrotta ingenuità, la vita lussuosa del re.
Il lavoro in comune di Craig e Stanislavskij sulla tragedia di Shakespeare ebbe inizio con una
serie di colloqui a tavolino in cui Craig, col testo del dramma alla mano, spiegava a Stanislavskij e
Sulel*ickij, che gli facevano da assistenti, qual era la sua interpretazione di Hamlet. Erano lunghi
monologhi di Craig, che spesso si trasformavano in dialoghi o addirittura in battibecchi.
L’interpretazione dell’Hamlet che Craig delineava a Stanislavskij era senza dubbio alquanto
personale. E vorremmo notare come molte delle sue idee realmente precorrevano i tempi. La calma
nella recitazione - per dirlo in termini tecnici: la recitazione sdiaframmata, priva di tensione - è, ad
esempio, uno del cardini del teatro epico di Brecht. E al teatro epico ci richiamano anche le
inserzioni di elementi dimostrativi di straniamento nel dramma, quale l’operaio nella scena di
Polonio, Laerte e Ofelia; l’idea craighiana di rendere il pubblico cosciente di trovarsi a teatro è poi
tipica delle forme più avanzate di teatro oggi esistenti: il pubblico dev’essere libero di giudicare e di
gustare ciò che vede, e non deve abbandonarsi passivamente allo spettacolo. Il simbolismo
dell’interpretazione craighiana della tragedia si tramuta poi spesso in presentimenti espressionistici,
tanto esasperata è la carica espressiva che ha in sé.
In modo particolarmente originale è svolta da Craig l’idea base del dualismo di spirito e
materia, di vita e morte della dialettica non risolta nella tragedia.
“Fin qui abbiamo visto due mondi, uno di fronte all’altro: quello di Amleto e quello della
corte. In primo piano Amleto disteso su due cuscini grigi, neri; sembrano quasi una tomba aperta.
Un velo enorme, trasparente, ampio quanto tutto il palcoscenico, lo separa dal mondo della corte. Il
mondo della tirannia e dello splendore è tutto d’oro, con degli sprazzi di colori violenti, diabolici. È
una scalea, una piramide che ha al vertice il re e la regina. Un enorme mantello d’oro e di porpora
scende dalle spalle del re, dell’usurpatore, e copre tutta la scena, formando tante onde dorate. Dalle
creste delle onde emergeranno le teste dei cortigiani rivolte in su, verso il trono. La corte noi la
vediamo attraverso gli occhi di Amleto, e la ascoltiamo attraverso la maschera delle parole. Ma quel
che sentiamo è falso, quel che vediamo è vero.
“Fra le luci offuscate di nero guizzeranno i raggi del proiettori, e l’oro luccicherà con riflessi
paurosi; il presagio della sventura; si sentiranno musiche stridenti, piene di dissonanze.
“Questa scelleratezza, questa tirannia, questo splendore si deve sentire, è fondamentale!
“Poi, quando si passa al monologo di Amleto, tutto quel che è dietro le sue spalle diventa a
poco a poco più scuro; la corte a poco a poco scompare e si perde in una calda oscurità; le musiche
stridenti e i rumori si attenuano e svaniscono.
“Poi di nuovo si sentirà il suono delle campane, bello, triste, rotto come un singhiozzo
lontano. Il monologo di Amleto non è fatto di riflessioni; Amleto è sull’orlo della disperazione,
tutto gli danza davanti agli occhi, i pensieri gli sfuggono dalle labbra per la pena che sente...”.
Il violento, stridente contrasto fra il mondo della corte e il mondo di Amleto veniva
evidenziato da Craig anche nei singoli personaggi. Ogni cosa era vista attraverso gli occhi del
principe danese: per questo il re Claudio è trasformato in un bull-dog, oppure in un essere gonfio, a
metà fra il serpente e la testuggine.
Lo stesso accade agli altri cortigiani: Rosencrantz e Guildenstern, nella visione paradossale
dell’artista inglese, sono due serpenti; quindi vanno vestiti di lunghissimi abiti verde screziato, con
uno strascico e un piccolo turbante che fascia loro la testa, privandoli di ogni caratteristica umana.
La loro posa abituale è con le braccia conserte, le mani nelle maniche, come i cinesi; così appaiono
simili a due serpenti rizzati all’impiedi.
Di questo passo, il cortigiano Osric è un camaleonte o un pavone, le guardie di Claudio
degli orsi, Polonio un rospo...
Solo Orazio è un uomo, vicino ad Amleto.
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Poesia, fantasia, divagazione da un lato, e dall’altro realtà, psicologia, razionalità, si
scontravano in modo sempre più insofferente e clamoroso.
Da un lato Stanislavskij era proteso nella ricerca dei sentimenti, delle azioni da leggere fra le
righe del dramma; dall’altro Craig insisteva nella sua idea di non fare altro che visualizzare la
poesia.
Ormai Stanislavskij vedeva svanire la sua speranza di convincere Craig a studiare Amleto
dal suo punto di vista.
Una volta scartato il criterio di interpretare il dramma secondo i criteri di un naturalismo
psicologico, pressoché tutte le obiezioni del direttore del Teatro d’Arte venivano a cadere, e Craig
poteva finalmente sognare in piena libertà il suo Amleto ideale.
Finché Craig è a Mosca Stanislavskij si limiterà ad accogliere tutte le sue idee registiche.
Non appena sarà partito però sull’impostazione idealistica craighiana cercherà di sovrapporre
l’analisi psicologica dei personaggi, nel suo lavoro con gli interpreti dell’Hamlet, ottenendo
naturalmente dei risultati assai poco unitari.
Uno dei tratti più singolari dell’impostazione registica di Craig era l’idea di visualizzare, di
drammatizzare scenicamente i monologhi di Amleto. Craig aspirava a creare un luogo ideale,
avulso da ogni realtà contingente, in cui le riflessioni solitarie del principe danese trovassero una
dimensione spaziale dinamica loro propria.
Musica, poesia, luce, architetture essenziali, rigorose, ispirate al primo rinascimento
fiorentino, tutto doveva contribuire a creare un’atmosfera di sogno.
A volte, la sua fervida fantasia portava Craig a concepire soluzioni scenografiche fin troppo
ardite che, in gara con le parole stesse di Shakespeare, avrebbero dovuto suggerire quei pensieri,
quelle intuizioni che non sono traducibili in parole. Tale, ad esempio, era il caso del monologo
“Essere o non essere”, per il quale il regista inglese proponeva un’interpretazione degna d’interesse,
anche se - ai nostri occhi - viziata dal gusto per un simbolismo assai acceso, che la faceva apparire
addirittura bizzarra.
“Al centro il lungo, enorme corridoio della reggia, che si perde in lontananza, sul fondo.
Non è più luccicante d’oro, ma è opaco, grigio: agli occhi di Amleto ha perduto tutto il suo inutile
splendore. Sul davanti, ai lati, gli screens formano come due nicchie. Una, che si vede in
trasparenza, dietro un velo di garza, è illuminata: è qui che il Re parla con Polonio, Ofelia e la
Regina. Egli ha in viso una maschera e le sue mani sembrano artigli. Nell’altra nicchia, dal lato
opposto, si rifugia Ofelia, mentre dal fondo del corridoio, nell’oscurità, viene Amleto.
“Tutti, tranne Ofelia che è al buio, escono.
“Vediamo attraverso un grande velo di garza Amleto che viene dal fondo. Nell’aria si sente
una musica, una musica come quella di Bach, una musica grave, che d’ora innanzi deve fare sempre
da sottofondo, piano e forte in alternanza.
“Amleto sente la musica e sorride, ride con lei come in un duetto. Nella parete a sinistra, in
un fascio di luce d’oro, appare a tratti e scompare una figura femminile, simile al sole. Ma, sulla
parete opposta ora si intravvedono appena delle ombre oscure: le ombre della vita terrena;
strisciano, odiose, dal basso, dall’inferno. Amleto le guarda con terrore: vivere ancora significa
soffrire, torturarsi...
“La figura dorata, splendente, lo chiama dall’altra parte, lo chiama a sé lontano da tutto... È
la Morte. Amleto è sorpreso e felice. Sorride, sente nell’aria la musica e vede l’immagine luminosa
della Morte. La musica è la voce della Morte, che sgorga come una fontana tra le parole di
Amleto...”.
Amleto e i commedianti: queste, per Craig, erano le due “forze”, i due elementi positivi che
agiscono nel dramma. E l’azione congiunta di queste due forze attive aveva luogo nella famosa
“mouse trap scene”, in cui il re Claudio assiste alla rappresentazione dei comici. Dinanzi ai suoi
occhi gli attori raffigurano l’assassinio del duca Gonzago, avvelenato dal nipote, che poi sposa la
sua vedova.
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Il turbamento di re Claudio di fronte a questa che Amleto chiama “la trappola per topi”
conferma definitivamente al principe danese l’assassinio del padre.
È Stanislavskij stesso che, nelle sue memorie, ricorda la realizzazione di questa scena:
“Craig qui aveva creato un grande quadro, trasformando il proscenio del teatro in palcoscenico per
lo spettacolo di corte. La parte posteriore della scena, in fondo, rappresentava la platea dei
cortigiani. I commedianti e il pubblico della corte erano divisi dalla enorme botola che avevamo nel
nostro palcoscenico del Teatro d’Arte.
“Due alti pilastri delimitavano ai lati il boccascena.
“Dalla scena preparata dai commedianti c’era una discesa, che dava nella botola, mentre sul
lato opposto la scala risaliva più ampia fino all’alto trono, dove sedevano il re e la regina. Accanto a
loro, in più file, sedevano i cortigiani, vestiti anch’essi con costumi dorati e mantelli, che li
rendevano simili a statue di bronzo.
“I commedianti, in costumi di gala, dovevano rappresentare il loro dramma volgendo la
schiena agli spettatori del Teatro d’Arte, con il viso rivolto verso re Claudio, che è immerso,
insieme con la corte, nell’oscurità, rotta di tanto in tanto da sprazzi di luce sinistra sugli abiti d’oro.
“I costumi dei commedianti sono affatto realistici. Dodici musicisti si esercitano, a sinistra.
“In sottofondo, accordi di strumenti musicali”.
Per chiarire a Stanislavskij le idee che aveva dei personaggi, Craig disegnò numerosi
bozzetti, dapprima studiando la singola figura, poi collocandola nella scena. A un solo personaggio,
che nella sua concezione aveva un ruolo determinante nella vita più intima di Amleto - cioè lo
spettro del padre ucciso - egli non riusciva a dare una fisionomia scenica definita.
Per Craig lo spettro del padre di Amleto deve apparire soprannaturale, ma deve avere delle
sembianze reali. Mi spiego: al pubblico il re morto deve apparire vero, il pubblico deve credere
realmente nella sua esistenza, però lo spettro al tempo stesso deve essere un’astrazione.
In realtà non era facile comprendere Craig. Questo accostamento di due concezioni in
antitesi esasperata era il motivo fondamentale della concezione craighiana dell’Amleto; tutta
l’impostazione della tragedia per lui era basata sul concetto di dissonanza, di plurivalenza, di
tensione poetica.
E questa impostazione per dissonanza può essere definita soltanto con la figura chiave
dell’Oxymoron, cioè con una figura del discorso poetico classico che indica l’accostamento di ciò
che è normalmente inconciliabile. Qui l’accostamento era quello di semplicità e complessità, di
intellettualismo e misticismo, di reale e simbolico, di naturale e soprannaturale...
Non ci è possibile narrare come Craig voleva realizzare ciascuna scena del dramma, sia
perché la cosa richiederebbe molto tempo, sia perché spesso il regista inglese affidava le sue
intuizioni, le sue fervide immaginazioni, più ai disegni, agli schizzi, che non alle parole.
È il caso di alcune fra le scene risolte in modo più originale da Craig - ad esempio quelle
sugli spalti del castello di Elsinore, fra Amleto e lo spettro del padre.
In un’atmosfera fredda, livida, l’ombra del padre di Amleto appariva e scompariva
nell’oscurità dinanzi agli occhi atterriti dei soldati, sdoppiandosi, dissolvendosi e ricomparendo
altrove, quando questi la inseguivano. Poi, nel colloquio con il figlio, il fantasma si tramutava in
un’immagine di danza macabra delle pitture medioevali. Infine l’alba e il suono lontano di campane
che si rispondono a distanza faceva svanire quest’immagine di morte, mentre Amleto prendeva su
di sé le pene del padre.
Le scene di morte, le scene in cui domina la presenza della Morte, erano agli occhi di Craig
le più suggestive, le più pregne di una dolente poesia. E i disegni per la scena del camposanto e i
funerali di Ofelia sono certo fra i più belli che egli fece per l’Hamlet. Assai suggestiva, ad esempio,
è l’immagine che egli dà dei due becchini: sono due clown, coi capelli rossi, il naso a patata, la
bocca enorme; poi, quando i clown escono, mentre si avvicina la processione funebre per Ofelia,
l’atmosfera diviene triste, elegiaca, carica di misticismo.
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La scena dei funerali di Ofelia rappresenta una cripta nel cimitero, con altari bianchi alla
morte. È bassa, poco profonda, lunga.
Sugli altari c’è incenso che brucia, vicino agli altari, in alto, sono appese delle lanterne.
In primo piano dei parallelepipedi alternati - le tombe - interrotti al centro da una fossa
aperta - la tomba di Ofelia.
Dietro di essi, lungo le lesene, i pilastri e gli altari del fondo, si svolge lenta la processione
funebre.
Tutti hanno in mano una campanella e di tanto in tanto la fanno tintinnare, come per caso. Ci
sono tre preti giovani, uno grasso, quattro ragazzi con gli incensieri, e una folla di cortigiani, che
riempie tutta la scena.
C’è un coro di ragazzi, è un coro semplice, di poche voci. Ma quando è giunto sul posto
della sepoltura, smette di cantare.
Tutti, uomini e donne, sono a lutto.
Rammentiamo ancora una scena, che in genere, nel rappresentare Hamlet, pochi interpreti
sottolineano: la scena fra Amleto e Orazio, poco prima del duello finale del principe con Laerte.
Anche qui è l’idea della morte, del fato, che colpì la fantasia creatrice di Craig: e fin
dall’inizio egli volle giocare tutta la scena, anche l’incontro col cortigiano Osric, sulle variazioni di
un unico tema, il destino di morte.
Questa, per Craig, è la scena più struggente, più profondamente umana del dramma: è la
scena della fatalità che incombe, la scena dell’affetto fra Orazio e Amleto.
Il leitmotiv sta nelle parole di Amleto a Orazio: “Tu non puoi credere come mi senta male
qui intorno al cuore, ma non importa”.
Quando si leva il sipario Amleto è seduto. È sereno. È la calma prima della tempesta. Orazio
gli è accanto, in piedi, con un ginocchio appoggiato alla sua sedia.
Il colloquio fra Amleto e Orazio non è una semplice conversazione: è la confessione di un
uomo che sta per essere assassinato. Il tono di Amleto è distaccato, quasi monotono.
“Ora entra Osric, il cortigiano: è profumato molto abbondantemente. Il suo profumo si
dovrebbe sentire per tutto il teatro. Fa un giro intorno a un pilastro... senza un perché... Si accorge
che Amleto e Orazio stanno conversando; rimane un po’ in disparte, guarda attraverso l’occhialino ne ha diversi, che gli penzolano addosso - si aggiusta il vestito, si carezza i capelli. Rimette il
fazzoletto profumato nella manica. Tutt’intorno gli penzolano forbici da unghie, scatole portacipria,
calze piene di dolci. Spesso si bacia la punta delle dita...”.
“Amleto non ha sospetti precisi, tuttavia sente dentro di sé che la fine è vicina. Egli intuisce
che qualcosa deve accadere durante il duello ed è per questo che evita di parlare dei dettagli con
quel camaleonte. Poco dopo l’uscita del camaleonte, entra un altro cortigiano: al contrario di Osric,
questo è una persona simpatica, dal portamento nobile e sereno. Amleto e Orazio si alzano al suo
arrivo.
“Shakespeare fa spesso così: per bilanciare le impressioni sgradevoli che ha prodotto, a
volte usa contrapporre un personaggio positivo a uno negativo. Lo strano è che nella prima
redazione dell’Hamlet questo personaggio non esiste; è stato introdotto solo nell’edizione in folio.
“Ma come si spiega, da un punto di vista logico, l’ingresso di questo secondo cortigiano? In
fin dei conti non fa altro che ripetere quel che ha già detto Osric.
“Le alternative sono due: o Osric, tornato dal re Claudio, lo ha riempito a tal punto di
chiacchiere da costringerlo a mandare a parlare con Amleto un cortigiano più bravo, oppure lo ha
mandato la Regina.
“Dal punto di vista drammatico quest’idea è molto suggestiva: la Regina sospetta qualche
inganno nel duello con Laerte, perciò manda ad Amleto un suo cortigiano fidato per invitarlo a
prender tempo, a far pace con Laerte. Infatti il cortigiano dice: ‘Sua maestà manda a chiedere se vi è
sempre in piacere di battervi con Laerte, o se volete prendere più tempo’.
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“E quando Amleto gli risponde: ‘Io sono fedele ai miei propositi’, il cortigiano, prima di
uscire, gli sussurra: ‘La Regina desidera che voi usiate qualche cortesia a Laerte, prima di
cominciare a battervi’.
“La Regina vuole che suo figlio e Laerte facciano pace, perché ha paura.
“Ma Amleto è troppo assorto nei suoi pensieri per avvertire quel che sta succedendo intorno
a lui. È Orazio invece che comincia a sospettare qualcosa: forse nel duello c’è un inganno. Ma
quest’idea è così tremenda, così difficile a dirsi, che Orazio parla come se scherzasse, seduto sul
bracciolo di una poltrona.
“Orazio è pronto a fare qualsiasi cosa per Amleto; è incapace di disobbedirgli. Perciò accetta
la sua rinuncia, il suo abbandono alla fatalità che si sente nell’aria.
“Amleto lo guarda a lungo negli occhi - ora sono seduti sui due braccioli della stessa
poltrona: con uno sguardo si dicono tutti quei terribili pensieri che non hanno espresso a parole poi escono insieme, ognuno con un braccio intorno alla spalla dell’altro”.
Per la scena finale Craig aveva disposto una combinazione degli screens che gli valse poi il
titolo di plagiario da parte di Simonson, poiché - più nel modello da lui fatto a Firenze che non nel
disegno corrispondente e nella scena adoperata a Mosca - è simile ad un disegno pubblicato nel
volume di Sabbatini: Pratica di fabricar scene e machine ne’ teatri, che invece - a quanto afferma
Craig - egli vide per la prima volta nel 1914.
Craig, dopo aver terminato di spiegare a Stanislavskij le sue idee di messa in scena, ripartì
per Firenze, nel luglio del 1909.
Giunto a Firenze Craig, che aveva assunto l’impegno di lavorare alle scene dell’Hamlet fino
alla fine dell’anno, le disegnò e ne fece i modelli al completo all’Arena Goldoni; ma intanto l’idea
di fondare una scuola, dove poter studiare egli stesso senza dover più lavorare su drammi altrui, si
radicava sempre più nella sua mente e gli faceva sentire una sorda insofferenza per la preparazione
dello spettacolo per Mosca.
Il 20 febbraio 1910 Craig era nuovamente a Mosca, dove era stata costruita su sua richiesta
una scena modello avente le medesime caratteristiche tecniche del Teatro d’Arte, con lo stesso
sistema d’illuminazione. Qui furono disposti gli screens e le figure di legno e cartone,
rappresentanti i vari personaggi del dramma.
Cominciarono così le prove con gli attori e Stanislavskij. Craig, con l’aiuto di un lungo
bastone, mostrava agli attori scena per scena quali movimenti essi avrebbero dovuto fare, spostando
sul Model Stage le figure in legno e cartone.
La cosa si rivelava difficile, perché tutti questi colloqui si svolgevano sempre a mezzo
dell’interprete. Dopo aver spiegato i movimenti di ogni screen ai tecnici del Teatro d’Arte, il 4
maggio Gordon Craig ripartì per Firenze. Ormai il suo lavoro sull’Hamlet era terminato: aveva
consegnato a Stanislavskij e Suler*ickij i modelli e i disegni di ogni scena, aveva definito
l’illuminazione degli screens, aveva spiegato a Il’já Sac come dovevano essere le musiche di fondo,
aveva disegnato tutti i costumi ed aveva impostato la recitazione degli attori. Per la parte di Ofelia
però Stanislavskij non aveva aderito alla sua proposta di affidarla a Lilina, la moglie del regista
russo, o ad Alice Koorien, ed aveva scelto una giovane attrice. Poco dopo la partenza di Craig,
Stanislavskij si ammalò seriamente di tifo, e i preparativi per lo spettacolo furono interrotti.
Da questo momento la storia di questa messa in scena fu storia interna del Teatro d’Arte. Ma
è bene seguirla per spiegare il perché dell’insoddisfazione che generò la rappresentazione nei suoi
autori.
Stanislavskij dedicò gran parte del 1911 alle prove dell’Hamlet, poiché intendeva creare una
recitazione psicologicamente valida, pur rimanendo fedele alle precise indicazioni dei movimenti
fornite da Craig.
In tal modo l’idea di Craig di creare uno spettacolo essenziale, di un simbolismo puro,
veniva contaminata dalle ricerche psicologiche di Stanislavskij. Da un lato il regista inglese aveva
impostato una recitazione dura, fredda, puramente esteriore - simile alla recitazione che poi teorizzò
Bertolt Brecht, la recitazione epica - che contribuisse a dare allo spettacolo un ritmo
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antinaturalistico, musicale e poetico insieme. Dall’altro il regista russo, pur mantenendo intatte le
posizioni degli interpreti, le intonazioni di voce, i movimenti fondamentali voluti da Craig, cercava
di ottenere dai suoi attori che studiassero le loro parti basandosi sull’introspezione pisologica dei
personaggi e sul pere*ivanie, cioè su di un sistema per vivere i sentimenti che ciascun personaggio
avrebbe provato durante lo svolgersi dell’azione drammatica. È chiaro che il sistema di
Stanislavskij, se applicato ed un dramma di Cechov o comunque di un autore realistico, poteva dare
dei risultati interessanti; ma in un dramma come quello di Shakespeare in cui i sentimenti dei
personaggi - secondo l’interpretazione craighiana - erano mantenuti su di un piano affatto estraneo
al sentire quotidiano, naturale, degli interpreti, andava incontro a difficoltà enormi.
Quando si dovettero costruire gli screens in grandezza naturale per lo spettacolo si
presentarono le prime difficoltà: Craig li avrebbe voluti in ferro o in legno o in rame o in sughero,
ma sarebbero risultati eccessivamente pesanti; così di comune accordo si decise di fabbricarli in tela
non dipinta con chassis di legno.
Una scena dopo l’altra, inevitabilmente, più volte Stanislavskij e Suler*ickij si vedevano
costretti a modificare le soluzioni indicate da Craig. Al primo atto vennero modificate la scena della
famiglia di Polonio e due scene dell’incontro di Amleto con lo spettro del padre. Negli altri atti
vennero soppresse - sempre per motivi di ordine tecnico - altre sei soluzioni scenografiche
craighiane, e ancora quattro scene furono modificate, fra cui quella dei funerali d’Ofelia.
In tutto, dunque, tredici scene erano state adulterate rispetto ai progetti di Craig.
Il 21 dicembre 1911 Craig tornò a Mosca per sovraintendere alle ultime prove di Hamlet.
Qui si trovò di fronte alle numerose modifiche apportate al suoi piani di regia. Scena per scena
ripercorse tutto lo spettacolo, fremendo di fronte ai cambiamenti operati nella realizzazione delle
sue idee. E alla scena dei funerali d’Ofelia non poté più trattenersi...
Di fronte alla violenta reazione di Craig, Suler*ickij - che era il maggior responsabile delle
modifiche - si sentì offeso. Nella sua esaltazione inoltre Craig - ritenendolo responsabile di aver
rovinato lo spettacolo - chiese di non firmare più la regia, se accanto al suo nome doveva apparire
quello del suo amico di un tempo, divenuto ora - come egli diceva - “l’assassino del mio Amleto”.
Così - ultima peripezia di questo travagliato spettacolo - Suler*ickij abbandonò il teatro il
giorno prima della prova generale.
Era una conclusione amara, spiacevole. Ma, nonostante tutto ciò, 1’8 gennaio 1912 il
pubblicò applaudì a lungo la prima di Hamlet. Nemiròvi# Dàn#enko disse poi a Craig in un
discorso, riportato dai giornali: “Siete venuto con nuovi metodi per la nostra arte e avete posto in
essi tutto il vostro genio poetico... aspettiamo ancora dell’altro lavoro da voi per la perfezione della
nostra arte”.
Lo spettacolo si presentò agli occhi del pubblico con una grandiosità non priva di sfarzo,
non corrispondente alla semplicità voluta da Craig. Di essa Stanislavskij scrisse: “Avevamo voluto
dare alla messa in scena una forma quanto più possibile semplice e modesta, eppure essa si era
rivelata straordinariamente sontuosa, elevata e piena d’effetto - addirittura in modo che la sua
bellezza saltava agli occhi, si spingeva in primo piano e copriva col suo splendore gli attori. In
questa maniera si dimostrò che quanto più ci si sforza a mantenere semplici le decorazioni, tanto
più chiassose esse diventano, tanto più appaiono pretenziose e sembrano pavoneggiarsi di una
premeditata primitività.
“La rappresentazione ebbe grande successo: alcuni erano entusiasti, altri criticavano, ma
tutti erano eccitati ed emozionati, contrastavano, tenevano dibattiti, scrivevano articoli, e alcuni
teatri si appropriarono segretamente delle idee di Craig, spacciandole per proprie”.
La stampa inglese recensì ampiamente l’avvenimento.
Nel 1911 e nel 1913 Craig aveva proposto al pubblico il suo ideale di teatro in due libri
fondamentali: On the Art of the Theatre e Towards a New Theatre.
23
Nel 1913 aveva dato vita a un laboratorio di ricerche di arte teatrale, la Scuola di Arte del
Teatro, a Firenze. Ma ben presto la guerra lo costrinse a rinunciare alla realizzazione del suo sogno.
Fu una cesura fondamentale nella sua vita artistica. Rinchiuso in un volontario isolamento, sulla
riviera ligure, si dedicò soprattutto a scrivere, sotto 64 pseudonimi diversi, drammi per marionette,
articoli per “The Mask”, e vari libri: The Theatre Advancing (1919), Scene (1923), in cui proietta in
una dimensione storica l’esperienza mitica della Supermarionetta e delle mille scene in una,
rivelandone egli stesso il valore di utopia assoluta; Woodcuts and Some Words (1924), Nothing or
the Bookplate (1924) e Books and Theatres (1925), tutti in parte autobiografici.
Nel 1926 disegnò le scene de I pretendenti alla corona di Ibsen per Johannes Poulsen al
Teatro Reale di Copenaghen. Nel 1929, dopo anni di lavoro, apparve per la Cranach Press di
Weimar l’edizione inglese e quella tedesca di Hamlet, illustrata con xilografie di Craig. Nel 1930
pubblicò il libro sul suo maestro Henry Irving. L’anno successivo dedicò un libro a sua madre:
Ellen Terry and Her Secret Self.
Trasferitosi poi dall’Italia in Francia, vicino a Parigi, cessò di pubblicare “The Mask” e si
dedicò sempre più alla storia del teatro e alla Gordon Craig Collection, una vastissima collezione
teatrale, che voleva lasciare ai futuri studenti dell’arte del teatro.
Dopo la seconda guerra mondiale - che lo vide anche internato in campo di concentramento,
durante l’occupazione tedesca - passò sulla Costa Azzurra, a Vence, dove iniziò la sua
autobiografia incompiuta, Index to the Story of My Days, pubblicata nel 1957.
Mori nel 1966 a novantaquattro anni: fino all’ultimo la sua fantasia era fertile, originale,
ricca d’inventiva, e molti artisti, da Laurence Olivier a Peter Brook a Jean-Louis Barrault, andavano
a trovarlo per sentirlo parlare di teatro.
F. M.
24
L’arte del Teatro
Al genio sempre vivente
del più grande tra gli artisti inglesi
WILLIAM BLAKE
e alla chiara memoria
di sua moglie
questo libro è dedicato
25
Gli artisti del teatro dell’avvenire
Saggio dedicato alla giovane stirpe di atletici lavoratori di
tutti i teatri.
A pensarci bene, dedico queste pagine alla singola,
coraggiosa personalità, che si impadronirà un giorno del
mondo teatrale e lo riplasmerà.
Si dice che ripensarci sia un’ottima cosa. Si dice pure che è bene trarre il miglior partito
possibile da un’impresa disperata; ed è proprio per questo, che son costretto a sostituire la prima
dedica, più ottimistica, con la seconda. Ripensarci, dunque, è proprio un’ottima cosa.
Ma com’è triste doverlo ammettere! La giovane stirpe di atletici lavoratori, nel teatro d’oggi,
non esiste: intorno a noi c’è solo degenerazione, fisica e mentale. E come potrebbe essere
altrimenti? Il sintomo più sicuro, forse, è dato proprio dalle continue dichiarazioni, da parte di
coloro che nel teatro lavorano, che tutto va per il meglio e che il teatro è oggi al vertice del suo
sviluppo.
Ma se tutto andasse bene, non sorgerebbe, istintivo, e continuo come ora, un desiderio di
cambiamento in tutti coloro che frequentano il teatro moderno o riflettono su di esso; proprio
perché il teatro versa in una condizione miserevole è necessario che qualcuno parli come faccio io:
ma quando mi guardo intorno e cerco qualcuno a cui parlare, qualcuno che mi ascolti e mi
comprenda, non vedo che schiene voltate, le schiene di una stirpe di lavoratori senza nerbo. Eppure
il singolo, il giovane o l’uomo coraggioso, si volge verso di me. A lui io guardo, e in lui ravviso la
forza che creerà la stirpe a venire. Perciò parlo a lui solo ed è sufficiente che lui mi comprenda.
Egli, come dice Blake, “lascerà padre, madre, casa e terre se ostacolano il cammino della sua arte”1;
rinuncerà all’ambizione personale e al successo effimero, non tenderà al guadagno facile e
piacevole, e chiederà in cambio solo che si ricostituisca la sua famiglia, e la libertà, il benessere, il
potere che le erano propri. È a lui che parlo.
Sei giovane, sei già stato per alcuni anni in teatro, oppure sei figlio di gente di teatro; o hai
fatto il pittore per qualche tempo, ma poi hai sentito il desiderio del movimento; oppure sei un
operaio. Forse hai bisticciato coi genitori a diciott’anni, perché volevi darti al teatro ed essi erano
contrari. Forse ti hanno chiesto perché volevi darti al teatro, e tu non hai potuto fornire una risposta
ragionevole, poiché ciò che volevi fare nessuna risposta ragionevole può spiegarlo: volevi volare.
Forse avresti fatto meglio a dire “Voglio volare”, anziché pronunciare quelle parole spaventose:
“Voglio darmi al teatro”.
Milioni di persone hanno provato lo stesso desiderio, questo desiderio di movimento, questo
desiderio di volare, di confondere se stessi nell’esistenza di un’altra creatura; e alcuni senza
rendersi conto che il loro non era che il desiderio di vivere nell’immaginazione, hanno risposto ai
genitori: “Voglio fare l’attore; voglio darmi al teatro”.
Ma non è questo quel che essi vogliono; e comincia la tragedia. Penso a quando un giovane
si sente turbato da questa inquietudine che da poco si è destata in lui e dice tra sé “forse voglio fare
l’attore”, ma soltanto in presenza dei genitori corrucciati, spinto dalla disperazione, cambia il
“forse” nel definitivo “voglio”.
1
“Chang Fa-Shou, il generoso fondatore di questo Tempio, Wu Shêng Ssu, fu capace sotto la molteplice rete di una
quintupla copertura, di rompere i vincoli dell’affetto familiare e delle cure mondane, ecc.”. Inciso su di una stele del
535 a. C. (Cina), ora al South Kensington Museurn.
26
Probabilmente questo è anche il tuo caso. Vuoi volare, vuoi un altro modo di essere, vuoi
inebriarti di aria e suscitare negli altri le stesse sensazioni.
Cerca ora di toglierti di mente l’idea che tu voglia realmente “darti al teatro”. Se per
disgrazia sei già sul palcoscenico, evita di pensare che vuoi fare l’attore e che questa è la tua
suprema aspirazione. Poniamo che tu sia già un attore, da quattro o cinque anni, e che qualche
strano dubbio, si sia insinuato in te. Non vorrai ammetterlo con nessuno significherebbe ammettere
che i tuoi genitori avevano ragione, non vorrà ammetterlo neppure con te stesso, perché non hai
altra via per farti animo. Ma io cercherò in tutti i modi di darti coraggio, così potrai gettare all’aria
con disinvoltura ed entusiasmo quello che vuoi, pur senza perdere nulla di ciò a cui tenevi
all’inizio. Potrai rimanere sulla scena, oppure esserle al di sopra.
Ti darò la mia esperienza per quel che vale, e forse ti sarà utile. Cercherò di distinguere
attentamente ciò che è importante da ciò che non lo è; e se, mentre parlo, vuoi che ti chiarisca
qualche dubbio o che ti precisi meglio qualche concetto o dei particolari, non hai che da chiederlo e
verrò subito in tuo aiuto.
Tanto per cominciare, sei stato scritturato dal direttore del teatro. Lo devi servire fedelmente,
non perché ti dà uno stipendio ma perché lavori ai suoi ordini. E con l’obbedienza al tuo direttore
ecco venire il primo e più grande problema che incontrerai in tutta la carriera.
Perché non devi semplicemente obbedire alle sue parole, ma anche alle sue intenzioni: senza
però perdere te stesso. Ciò che intendo non è che tu debba salvaguardare la tua personalità - e
probabile infatti che non si sia ancora pienamente formata -: è che non devi perdere di vista quello
di cui sei in cerca, non devi smarrire quella prima sensazione che provasti quando ti sembrò che i
tuoi passi ti spingessero verso l’alto.
Durante questo primo tirocinio, sta’ attento a tutto quel che il direttore ti dice o ti mostra
riguardo al teatro e al mestiere dell’attore, e approfondisci da solo quello che lui non ti fa vedere.
Va’ a guardare come dipingono le scene, va’ dove lavorano gli elettricisti, va’ nel sottopalco e
osserva quelle complicate costruzioni, va’ in palcoscenico e chiedi come funzionano i tiri
contrappesati e i rocchetti; ma mentre impari tutte queste cose sul teatro e sul mestiere ricorda bene
che è fuori del mondo del teatro che troverai la più grande ispirazione, e non dentro di esso: intendo
dire nella natura. Le altre fonti d’ispirazione sono la musica e l’architettura.
Ti do questi suggerimenti, perché so che il tuo direttore non te li darà mai. Nel teatro ci si basa
solo sul teatro. Si prende il teatro come fonte d’ispirazione, e se di tanto in tanto un attore cerca
aiuto nella natura, si rivolge soltanto a una parte di essa, a quella che si manifesta nell’essere
umano.
Con Henry Irving non accadeva così, ma ora non posso fermarmi a parlare di lui;
occorrerebbero interi volumi per farti capire davvero la sua arte. Ti basti sapere che come attore
aveva un intuito infallibile e che studiava tutta la natura per trovare simboli adatti a esprimere i suoi
pensieri.
Probabilmente ti avranno raccontato che quest’uomo, di cui ti parlo come di un attore
impareggiabile, faceva così e così, in questo e quest’altro modo; e tu dubiterai delle mie parole; ma
con tutto il rispetto per il tuo attuale direttore, devi stare bene attento al valore da dare a quel che ti
dice e a quel che ti fa vedere, perché è proprio basandosi su una simile tradizione che il teatro è
vissuto ed ha degenerato.
Quel che fece Henry Irving è una cosa, quello che ti racconteranno di lui un’altra. Io stesso
ho fatto qualche esperienza in proposito. Ho recitato nel Macbeth con la compagnia di Irving; e più
tardi mi è capitato di sostenere la parte del protagonista in un teatro di provincia. Mi venne allora il
desiderio di conoscere le impressioni ricevute nel vedere la sua interpretazione da un attore
coscienzioso ed esatto, con i soliti quindici anni di esperienza, e che per di più era ammiratore
entusiasta di Henry Irving.
Gli chiesi di mostrarmi come Irving aveva risolto questo o quel passo, cosa aveva fatto e
quale effetto aveva ottenuto, perché mi era uscito di mente. Quel bravo attore mi mostrò allora, con
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mio grande stupore, qualcosa di così banale, di così goffo e privo di classe, che cominciai a
comprendere quale valore abbia la tradizione; e di esperienze del genere ne ho fatte parecchie.
Un’attrice capace e degna di stima mi mostrò una volta come la Siddons recitava la parte di
Lady Macbeth. Avanzando verso il centro della scena cominciava a fare dei movimenti e a lanciare
delle esclamazioni che, secondo lei, erano la riproduzione esatta di quel che faceva la Siddons.
Ritengo che avesse davvero ricevuto queste informazioni da qualcuno che la Siddons l’aveva vista.
Ma ciò che mi mostrò era completamente privo di valore, perché non aveva la minima unita,
sebbene un’azione qua e là avesse uno sprazzo riflesso del valore originale; fu così che cominciai a
toccare con mano l’inutilità di questo genere d’istruzione, e poiché per natura mi ribello contro
chiunque cerchi d’impormi qualcosa che a me pare non intelligente, non volli aver più nulla a che
fare con questo tipo d’insegnamento.
Non ti consiglio di fare altrettanto, ma tu probabilmente ignorerai quel che ti dico e farai
come ho fatto io, se hai un temperamento vulcanico; però faresti meglio ad ascoltare, accettare e
assimilare quel che ti dicono, ricordando che questo tuo tirocinio d’attore non è che l’inizio di un
tirocinio estremamente lungo di artigiano in tutte quelle attività che contribuiscono a formare l’arte.
Quando le avrai studiate tutte a fondo, ti accorgerai che talune sono di grande importanza e
certamente ti renderai conto che l’esperienza di attore era necessaria. È raro che il pioniere
imbrocchi una strada facile, e siccome il tuo cammino non si esaurisce nel diventare un attore
famoso, ma prosegue non battuto, molto più a lungo e tende a una meta ben diversa, avrai tutti i
vantaggi e gli svantaggi del pioniere. Perciò tieni bene a mente quel che ti ho detto: il tuo intento
non è di diventare un attore famoso, o direttore di una cosiddetta compagnia di successo o “metteur
en scène" di commedie complesse di-cui-si-parla-tanto; ma è di diventare un artista del teatro; e, lo
ripeto, è fondamentale che tu porti a compimento il tirocinio di attore, con fede e bravura. Se dopo
cinque anni di teatro sei convinto di sapere quale sarà il tuo avvenire, se, di fatto, hai successo,
considerati pure perduto. A questo mondo le scorciatoie non portano da nessuna parte. Quando ne
sentisti l’impulso e dicesti a casa che dovevi darti al teatro, pensavi che un desiderio così grande
potesse venir soddisfatto tanto presto? Basta così poco a farti contento? Il desiderio è dunque una
cosa da nulla, se una ricerca di soli cinque anni basta a parodiarlo? No, di certo. L’intera tua vita
non è troppo, lunga per questo, e solo alla fine un piccolo atomo di quel che hai tanto desiderato
verrà a te. E così sarà sempre giovane, anche quando sarai carico d’anni.
L’attore
È un uomo di gran classe, generoso e pieno di spirito di cameratismo: mi viene in mente un
attore di mia conoscenza, che può essere un esempio tipico. Compagno simpatico, che diffonde in
teatro il senso della comunità, generoso nel dare aiuto agli attori più giovani e meno dotati, parla
continuamente di lavoro, vivace nei modi, abile nel farsi valere in scena anche quando è di lato
invece che al centro, dotato di una voce che richiama l’attenzione, munito, per finire, di una
conoscenza dell’arte pari a quella che un matto può avere delle cose serie. Tutto ciò che va fatto
secondo o piani o disegni prestabiliti è estraneo alla sua natura; ma la sua bontà gli dice che
esistono, oltre a lui, altre persone in scena, e che ci deve essere un certo collegamento fra i loro
pensieri e i suoi; a questo egli arriva grazie a una specie di istinto, non attraverso la riflessione,
perciò non produce nulla di positivo. L’istinto e l’esperienza gli hanno insegnato alcune cose (non
voglio chiamarli trucchi), che ripete in continuazione. Per esempio ha imparato che l’improvvisa
caduta della voce dal forte al piano ha il potere di sottolineare il discorso e di emozionare il
pubblico proprio come il crescendo dal piano al forte. Sa pure che la risata può avere parecchi
suoni, e non soltanto “ah, ah, ah...”. Sa che la mitezza è cosa rara in scena e che l’impulsività è
sempre benvenuta. Ma quel che ignora è che la stessa impulsività e tutte le qualità istintive
raddoppiano o triplicano di efficacia quando sono guidate da una conoscenza scientifica, cioè
dall’arte. Se mi sentisse dir questo adesso, rimarrebbe assai stupito e giudicherebbe le mie parole
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pedanti, aride e niente affatto importanti per un artista. Egli pensa infatti che emozione crea
emozione, ed odia tutto ciò che ha a che fare col calcolo. Non mi pare necessario far notare che
ogni arte ha a che fare col calcolo, e che l’uomo che ignora ciò può essere soltanto un mezzo attore.
La natura non fornirà mai da sola tutto ciò che da vita a un’opera d’arte; non è privilegio degli
alberi, delle montagne o dei ruscelli creare opere d’arte, o altrimenti ogni cosa che essi toccano
dovrebbe assumere una forma compiuta e bella. Questo speciale potere appartiene all’uomo
soltanto, e solo in virtù della sua intelligenza e della sua volontà. L’amico di cui parlo pensa
probabilmente che Shakespeare scrisse Otello in una vampata di gelosia e che dovette solo buttar
giù le prime parole che gli venivano alle labbra; a parer mio, invece - e altri la pensano come me quelle parole dovettero prima passare per la testa del nostro autore, e proprio mediante tale
processo, grazie alla qualità della sua immaginazione, alla forza e alla calma della sua mente, la
ricchezza della sua natura fu in grado di esprimere se stessa in modo chiaro e completo: né l’autore
poteva arrivare a ciò se non attraverso questo procedimento.
Di conseguenza, l’attore che vuole fare la parte di Otello, diciamo, deve possedere non
soltanto le risorse naturali di cui servirsi, ma anche la capacità di immaginare che cosa produrre, e
quella di concepire il modo in cui manifestare ciò che ha creato. Pertanto sarà un attore ideale colui
che possiede allo stesso tempo risorse naturali e una grande intelligenza. Quanto alle risorse naturali
non occorre parlarne: esse conterranno ogni cosa. Riguardo all’intelligenza, invece possiamo dire
che quanto più è fine, tanto meno potrà sentirsi libera, ricordando fino a che punto dipende dalla sua
compagna di lavoro, l’Emozione; e tanto meno lascerà libera quest’ultima, sapendo quanto è
importante esercitare su di lei il controllo più rigoroso. L’intelligenza infine dovrebbe portare se
stessa e le proprie emozioni a un tal punto di razionalità, da non giungere mai all’ebollizione - con
la relativa, inquieta esibizione di attività - e da costituire al contrario quel calore perfettamente
moderato che essa sa come regolare. Attore perfetto è l’uomo la cui mente è in grado di immaginare
e di mostrare i perfetti simboli di tutto ciò che contiene la sua natura: in Otello, non darà in smanie
e non monterà su tutte le furie, roteando gli occhi e stringendo i pugni, per dar l’impressione della
gelosia, ma chiederà alla mente di indagare nelle profondità più recondite, di scoprire quel che vi si
trova, e poi di portarsi su di un’altra sfera, la sfera dell’immaginazione, in cui dar vita a simboli che,
senza svelare le nude passioni, nondimeno ce ne parlino con chiarezza.
E l’attore perfetto che agisca in tal modo si accorgerà subito che i simboli vanno creati per
lo più come materiale che si trova al di fuori della sua persona. Ma su questo argomento mi
soffermerò più avanti, quando ti farò vedere che l’attore di oggi dovrà finalmente pervenire a
qualcosa di diverso, se si vuole che un giorno nel nostro regno del teatro compaiano delle opere
d’arte2.
Intanto non dimenticare che chi si è avvicinato più di ogni altro al tipo dell’attore ideale, con un
perfetto dominio della mente sulla natura, è stato Henry Irving. Su di lui ci sono molti libri, ma il
migliore di tutti resta il suo volto. Procurati tutti i suoi ritratti, le fotografie, i disegni che riesci a
trovare, e prova ad esaminarli. Innanzitutto ti troverai di fronte una maschera, e ciò ha un
significato molto importante: non potrai certo dire guardandola che da essa traspaiano, ad esempio,
delle debolezze di carattere. Immagina quel volto in movimento - un movimento sempre controllato
dall’intelligenza. Non vedi allora la bocca muoversi dietro il comando della mente, e
l’“espressione” creare un pensiero nitido come una linea tracciata su di un foglio di carta o un
accordo musicale? Non vedi il lento volgere di quegli occhi e il loro dilatarsi? Questi due
movimenti contengono da soli una lezione così grande per l’avvenire dell’arte teatrale, mettono
talmente in risalto l’uso esatto dell’espressione in contrasto con quello errato, che mi sorprende che
nessuno si sia reso conto di ciò che accadrà in avvenire. Vorrei aggiungere che il volto di Henry
Irving era la linea di passaggio fra l’espressione spasmodica e ridicola del volto umano, quale era
usato a teatro in questi ultimi secoli, e le maschere che prenderanno il suo posto in un prossimo
futuro.
2
Cfr. L’attore e la Supermarionetta, p. 33.
29
Prova a pensare a tutto ciò quando disperi di riuscire a controllare sufficientemente
l’espressione del viso e della persona. E ricorda: c’è dell’altro, oltre il viso e il corpo, che puoi
usare e controllare con maggiore facilità. Sappilo, ma almeno per ora non cercare di scoprirlo.
Continua a fare l’attore, continua a imparare tutto ciò che è necessario - i primi elementi per
dominare l’espressione del volto, ad esempio - e alla fine imparerai che non è possibile giungere a
un controllo totale. Ti do questa speranza, così quando verrà il momento, non farai come gli altri
attori, che trovandosi di fronte a una simile difficoltà l’hanno aggirata, son scesi a un compromesso,
e non hanno osato affrontare la conclusione cui un artista coerente con se stesso deve giungere: che
l’unico mezzo adatto a rappresentare l’espressione dell’anima mediante l’espressione del volto è la
maschera.
Il direttore di scena
Dopo essere stato attore, diventerai direttore di scena - titolo alquanto inesatto, perché in
realtà non ti sarà permesso di dirigere la scena. È un’esperienza tutta particolare, e non potrai che
trarne beneficio, sebbene essa non possa recare a te grandi gioie né grandi risultati al teatro nel
quale lavori. Come suona bene questo titolo: Direttore di scena! - vuol dire “Maestro della scienza
della scena”.
Ogni teatro ha un direttore di scena, però temo che maestri nella scienza della scena non ne
esistano. Forse sei già assistente del direttore di scena. Ricorderai allora la gioia mista a orgoglio
che provasti quando ti mandarono a chiamare e, con parole solenni, ti informarono che il direttore
aveva deciso di elevarti al grado di direttore di scena, richiamando la tua attenzione sull’importanza
del posto e sui due centesimi di aumento che la nuova posizione comportava. Avrai pensato,
immagino, di essere arrivato al più bel giorno del tuo sogno, e per una settimana ti sarai anche dato
delle arie, guardando dall’alto il vasto mondo che sembrava aprirsi dinanzi a te.
Ma poi, cosa è successo? Non ti sei accorto forse che la tua nuova posizione si riduceva solo ad
alzarsi presto la mattina per andare a teatro a sorvegliare i macchinisti e badare se i chiodi erano
messi in ordine e i biglietti coi nomi fissati alle porte dei camerini? Sbaglio se dico che sei dovuto
andare in palcoscenico e hai dovuto aspettare lì in giro per vedere se tutto era pronto e se le scene
erano state montate in tempo? La sarta non è venuta a dirti piangendo che qualcuno aveva preso un
abito dal suo posto e l’aveva sostituito con un altro? - allora le hai chiesto di portarti davanti il
colpevole in persona; e poi: non hai dovuto destreggiarti con molto tatto per non offendere nessuno
dei due, pur cercando di mettere a posto la cosa? E ci sei riuscito, oppure i due se ne sono andati via
covando un odio profondo nei tuoi riguardi? Nella migliore delle ipotesi, a uno sei andato a genio,
ma l’altro ha cominciato subito a tramare contro di te. Non ti trovavi ancora in palcoscenico, alle
dieci e mezzo passate, quando sono arrivati gli attori, con quell’aria di non sapere affatto che tu eri
lì già da quattro ore, convinti al contrario che le porte del teatro si erano aperte proprio allora, per il
loro arrivo? In capo a un quarto d’ora almeno sei di loro non sono venuti da te e con un “Senti un
po’, vecchio mio” oppure “Guarda qui, carissimo” e non hanno cominciato a chiederti di fare
qualcosa per render un po’ più facile la loro parte? E le richieste non erano contrastanti al punto che
aiutare un attore sarebbe equivalso a offendere gli altri cinque? Mentre stavi dicendo loro che
avresti fatto del tuo meglio ti è venuto in aiuto, arrivando all’improvviso, il direttore del teatro (che
di solito è il primo attore); gli sei andato subito incontro con le varie richieste che ti erano state
fatte, sperando che lui, il capo, si sarebbe assunto la responsabilità di risolvere ogni cosa. Ma lui per
tutta risposta ti ha detto: “Non starmi a seccare con queste minuzie; fa’ quello che ti pare”. Non ti
sei reso conto, allora, che era solo una farsa, il tuo titolo, la posizione, e tutto il resto?
Poi cominciano le prove. Si recitano le prime battute; si presentano le prime difficoltà. La
commedia si apre con un dialogo tra due signori seduti a un tavolo. Dopo neppure cinque minuti il
direttore interrompe con una gentile domanda. Chiede se non sia esatto - gli sembra di ricordare che alle prove di ieri Brown si era alzato a questa o quella battuta, scostando la sedia con un
30
movimento improvviso. L’attore, un po’ seccato di aver causato il primo ritardo nell’ordine del
giorno, ma non volendo addossarsene la responsabilità, chiede con identica cortesia: “Sono queste
le sedie che useremo per lo spettacolo?” E il direttore, rivolgendosi al direttore di scena, di
rimando: “Sono queste le sedie che adoperiamo la sera?” “No, commendatore”, risponde costui. Un
fugace sguardo di disapprovazione, anche se superficiale, passa negli occhi del direttore e si riflette
sul viso dei due attori, e per il teatro passa un brivido d’inquietudine, appena percettibile. È il
primo, piccolo intoppo. “Credo che sarebbe meglio usare per le prove le stesse sedie che
adopereremo la sera”. “Certamente, commendatore”. Il direttore di scena batte le mani e chiama:
“Isherwood”. Un ometto smilzo, dall’aria triste, con una maschera impenetrabile di infinita
malinconia, si presenta davanti al seggio dei giudici. Aspetta esitante. “Nelle prove dobbiamo usare
le sedie ordinate per questa scena”. “Non sono state ordinate sedie per questa scena, signore”.
Si alza il vento. Un lampo severo passa sulla faccia del direttore e un’improvvisa minaccia di
tuoni oscura la fronte degli attori. Il direttore di scena chiede di vedere la lista degli accessori.
Isherwood guarda pateticamente in giro per il deserto del palcoscenico in cerca della Prima Attrice,
che però, essendo la moglie del direttore, non ha ritenuto ci fosse motivo di arrivare in tempo.
Quando arriverà farà la faccia di chi ha dovuto sbrigare cose ben più importanti. Isherwood
risponde: “Mi è stato ordinato, commendatore, di mettere queste due sedie nella scena seconda,
perché sono di broccato rosa e rosso”. Gran momento per il direttore. Fragore di tuono. “Chi ti ha
dato questi ordini?” “La signorina Jones”. (La suddetta signorina e la figlia della prima attrice, che
a sua volta è la moglie del direttore. La sua posizione in teatro non è ben definita: possiamo dire che
“assiste sua madre”). Di qui la mancanza delle sedie, l’irritazione di tutta la compagnia, lo spreco di
tempo in tanti teatri, e di qui la perdita dell’arte.
Questo non è che un primo assaggio per il direttore di scena, la cui parte è quella del cerchio
piuttosto che quella dell’asse nella ruota. Le prove continuano. Il direttore di scena deve star lì tutto
il tempo: con possibilità minime di controllo, con scarsa voce in capitolo, ma in compenso con la
responsabilità di tutti gli errori; e quando, terminate le prove, gli attori se ne vanno a pranzo, c’è
ancora da andare nel magazzino degli attrezzi, nel laboratorio scenografico, in quello dei
macchinisti - e lì ascoltare un sacco di lamentele e constatare che nulla è pronto. Quando poi la
compagnia torna in teatro fresca e riposata dopo una pausa di un’ora o giù di lì, si aspetta di
trovarlo fresco e di buon umore anche se non ha avuto un solo minuto di riposo. Tutto ciò sarebbe
facile e piacevole, se egli avesse l’autorità propria del suo titolo, cioè se nel contratto ci fosse scritto
che ha “il completo e assoluto controllo del palcoscenico e di tutto ciò che ha attinenza con la
scena”.
Ciò non di meno questa è una buona esperienza, anche se strana, perché insegna a chi si
assume queste terribili responsabilità quanto sia importante studiare la scienza della scena; così
quando a sua volta diventerà direttore del teatro, potrà fare a meno dei servizi del cosiddetto
“direttore di scena” ed essere lui stesso il vero direttore. Farai bene dunque, dopo essere stato attore
per cinque anni, ad assumerti questo difficile compito per un anno o due, in vista degli sviluppi che
potrà avere.
Sul direttore di scena ideale ho scritto altrove, nel mio libretto L’Arte del Teatro3, e ho
mostrato come la natura stessa della sua posizione debba fare di lui la figura più importante di tutto
il mondo del teatro. Cerca dunque di diventare un uomo del genere, capace di scegliere un lavoro e
di metterlo in scena da te, dirigendo le prove degli attori e spiegando loro ogni movimento, ogni
situazione, disegnando le scene e i costumi, e spiegando a quelli che li devono eseguire cosa vuoi
ottenere, lavorando con gli elettricisti e dicendo loro con esattezza quel che desideri.
Ora, se non avessi niente di meglio da suggerirti, se non avessi da rivelarti un altro ideale,
un’altra verità riguardo alla scena e al tuo avvenire, dovrei concludere che non ho assolutamente
nulla da darti e ti esorterei a non pensare più al teatro. Ma, come ti avevo detto all’inizio di questa
mia lettera, mi son ripromesso di incoraggiarti in ogni modo, perché tu possa avere la fede più
3
Questo libretto è riportato a p. ?? del presente volume.
31
assoluta nella grandezza del compito che hai deciso di adempiere, e te lo ricordo ora, perché, una
volta divenuto il direttore ideale di cui ti ho detto, tu non creda di aver raggiunto la meta ultima.
Non è così. Leggi quello che ho scritto ne L’Arte del Teatro, e per ora ti basti; ma sta’ sicuro che ho
di più, molto di più da aggiungere, e che per l’uomo di teatro c’è una speranza così alta, che al
confronto neppure quella dei poeti o dei sacerdoti può essere più grande.
Ma torniamo ai doveri del direttore di scena: da quel che ti ho spiegato, o da ciò che hai
sperimentato di persona, sappiamo che per questo genere di lavoro occorre molto tatto ma poco
talento. Devi stare attento, però, che il “tatto” non ti porti a divenire un piccolo diplomatico, perché
sarebbe veramente dannoso. Non esaurire mai il desiderio di superare la posizione che hai
raggiunto, e a tal fine studia in che modo riuscire a dominare i vari materiali con cui dovrai lavorare
in seguito, quando sarai divenuto un direttore di scena ideale. Allora avrai un teatro tuo, e quello
che metterai in scena sarà opera del tuo cervello, e in buona parte lavoro delle tue mani; non c’è
tempo da perdere, dunque.
La scena e il movimento
È tempo ormai di dirti in che modo potrai diventare un buon disegnatore di scene e di
costumi, e come potrai imparare a usare le luci e riuscire ad affiatare gli attori, a porli in armonia
con la scena e, soprattutto, con le idee dell’autore. Hai già studiato, e continuerai a studiare i testi
che vuoi mettere in scena. Limitiamoci a parlare soltanto delle quattro grandi tragedie di
Shakespeare. Nel momento in cui ti accingi a prepararle per la scena le devi già conoscere
perfettamente e il lavoro di preparazione ti prenderà uno o due anni per dramma; non devi avere più
alcun dubbio sull’impressione che vuoi creare: e sarà tuo compito studiare il modo migliore per
suscitare tale impressione.
Sappi fin dall’inizio che la grande, irresistibile impressione prodotta mediante la scena e il
movimento delle figure è senza dubbio il mezzo più valido a tua disposizione. Sono in grado di
affermarlo soltanto dopo moltissimi dubbi e molte esperienze; tieni sempre presente che io parlo per
mia esperienza personale, e che offrirti quest’esperienza è il massimo che posso fare. Sebbene sia
noto che non condivido più l’opinione comune secondo cui il testo scritto ha un valore profondo e
duraturo per l’Arte del Teatro, per il momento non andremo così lontano da farne a meno. Se
dunque ammettiamo che il testo scritto abbia ancora valore, il nostro fine non è di annullarlo, ma di
esaltarlo. Perciò sarà mediante il vasto effetto d’insieme, offerto alla vista dello spettatore, che
aggiungeremo valore a ciò che è già valido per opera del grande poeta.
Innanzitutto c’è la scena. È inutile parlare della distrazione costituita dalla scenografia,
perché qui non si tratta di costruire uno scenario che distragga, ma di creare un ambiente che
armonizzi coi pensieri del poeta.
Prendiamo il Macbeth. Conosciamo bene il testo. In che luogo si svolge il dramma? Come
deve apparire, alla fantasia innanzi tutto, e poi agli occhi?
Io vedo due cose: vedo una rupe alta e scoscesa, e l’umida nube che ne avvolge la sommità.
Un posto per uomini crudeli e amanti della guerra, un luogo dove si annidano fantasmi. Alla fine la
nube distruggerà la rupe, gli spiriti distruggeranno gli uomini. Va tutto bene, mi dirai, ma come
rendere, come tradurre sulla scena quest’idea? Così: mettici una rupe! Falla salire in alto. Da’
l’impressione che una nebbia ne circondi la sommità. Mi sono forse allontanato di un millimetro
dalla mia immagine fantastica?
Ma tu mi chiedi che forma e che colore avrà la rupe. Quali sono le linee che danno
l’impressione dell’altezza, presenti in ogni alto dirupo? Va’ a guardarle; poi fa’ uno schizzo: delle
linee e delle loro direzioni, non del dirupo. Non temere di lasciarle andare troppo in su; non sarà
mai troppo; e ricorda che se su di un foglio di cinque centimetri puoi fare una linea che sembra
elevarsi in aria migliaia di metri, puoi fare lo stesso in scena, perché quel che conta sono le
proporzioni, che non hanno niente a che fare con la realtà.
32
E i colori? Quali sono i colori che Shakespeare ci ha indicato? Non guardare alla Natura, ma
al dramma del poeta. Sono due: uno per la roccia, l’uomo; uno per la nebbia, lo spirito. Non toccare
nessun altro colore, all’infuori di questi due, quando fai i bozzetti della scena e dei costumi, ma non
dimenticare che ogni colore ha varie gradazioni. Se anche solo per un momento ti sorgono dubbi, se
perdi la fiducia in te stesso o nelle mie parole, quando la scena sarà terminata non vedrai l’effetto
che avevi costruito nella tua fantasia, guardando l’immagine che Shakespeare ti aveva indicato.
È questa mancanza di coraggio, questa sfiducia nel valore insito nei limiti spaziali, nelle
proporzioni, che rovina tutte le idee buone degli scenografi. Essi vogliono dirci venti cose insieme:
non si accontentano di parlarci della rupe e della nebbia che la circonda e l’opprime, ma vogliono
far vedere il muschio della Scozia del Nord o la pioggia particolare del mese di agosto. Non
possono fare a meno di mostrarci che conoscono la forma delle felci scozzesi e che le loro ricerche
archeologiche su tutto ciò che riguarda i castelli di Glamis e di Cawdor sono perfette. Così, per
cercare di raccontarci troppo, finiscono col non dirci niente; tutto è confuso:
Il più sacrilego assassinio ha violato
il tempio sacrato del Signore, e vi ha rubato
la vita del santuario4.
Perciò fa’ come dico. Fa’ degli schizzi in scala ridotta e su grande scala, esercitati coi colori
sulla tela, così potrai constatare che quel che ti dico è vero - e se sei inglese, affrettati: altrimenti
all’estero chi leggerà i miei scritti potrà trovarci delle verità tecniche e ti sorpasserà prima che te ne
renda conto.
Ma la rupe e la nebbia non sono le sole cose da considerare. Tieni presente che alla base di
questa rupe si affollano strane forze terrene e nella nebbia si librano spiriti innumerevoli; per dirla
in modo più tecnico, devi tener conto dei sessanta o settanta attori che devono muoversi alla base
della scena, e delle altre figure che evidentemente non possono stare sospese a un filo, eppure
devono risultare nettamente separate dagli esseri umani e corporei.
Bisogna quindi creare in scena questa strana sensazione di una linea che divida i due mondi,
così lo spettatore, anche se guarda soltanto con gli occhi e non con la fantasia, si convincerà che
sono due cose realmente distinte. Ti dirò come fare. Come le linee e le proporzioni hanno suggerito
la sostanza materiale a mo’ di rupe, così il tono e il colore (un solo colore) daranno un’impronta
eterea al vuoto simile a nebbia. Fa’ scendere questo tono, questo colore, giù, fin quasi a raggiungere
il livello del pavimento, stando attento però a far avvenire questo moto discendente lontano dalla
sostanza materiale che simula la rupe.
Vuoi che ti spieghi cosa voglio dire tecnicamente? Occupa con la rupe quasi la metà
dell’ampiezza del boccascena: è il fianco di un’altura scoscesa, attorno a cui serpeggiano molti
sentieri, che si riuniscono in una spianata estesa per metà o forse tre quarti della scena. Qui ci sarà
spazio sufficiente per tutti, uomini e donne. Ora apri la scena da ogni lato; lascia uno spazio vuoto,
di sotto e di sopra; e in questo spazio fa’ calare la nebbia, lasciando poi che svanisca a poco a poco;
e da questa nebbia fa’ apparire le figure che hai foggiato e che rappresentano gli spiriti. Capisco che
non sei perfettamente convinto a proposito della rupe e della nebbia e che pensi agli “interni” che
interverranno poco dopo nel corso del dramma. Ma, che Dio ti benedica, non te la prendere!
Ricordati che gli interni di un castello son fatti di pietre estratte dalle cave. Non hanno forse lo
stesso colore della rupe? I colpi di piccone che le ruppero non hanno forse dato loro una struttura
simile a quella che assume la roccia per effetto della pioggia, dei fulmini, del gelo? Perciò nel corso
del dramma non dovrai cambiare idea o impressione, basterà operare delle variazioni sullo stesso
tema, il bruno della rupe, il grigio della nebbia; e così, meraviglia delle meraviglie, sarai riuscito a
mantenere un’unità. Tutto dipenderà dalla tua capacità di giocare su questi due temi; ma ricordati di
non allontanarti mai dal nucleo principale del dramma, in cerca di variazioni sceniche.
4
Macbeth, atto II, scena 3.
33
Coi mezzi offerti dalla scena potrai studiare i movimenti degli attori e, senza aggiungere un
solo uomo ai quaranta o cinquanta che hai, dovrai creare l’impressione di una folla più numerosa.
Dovrai quindi disporli in modo da non sprecare nemmeno un individuo o da diminuirne l’efficacia
scenica anche di poco. Lo spazio in cui un attore cammina va perciò studiato con la massima
attenzione; ma quando ti dico di sfruttare integralmente la presenza scenica di ciascun uomo, non
intendo dire che devi mostrarlo al pubblico a palmo a palmo.
Per mezzo della suggestione puoi rendere sulla scena il senso di ogni cosa: la pioggia, il
sole, il vento, la neve, la grandine, il caldo canicolare; ma non cercherai di farlo lottando con la
Natura, per impadronirti dei suoi tesori e deporli dinanzi agli occhi del pubblico. Mediante il
movimento puoi restituire il senso delle passioni e i pensieri di un gran numero di persone, e aiutare
anche l’attore a esprimere le idee e le emozioni del personaggio che interpreta. Il realismo, la
precisione dei dettagli sono inutili in scena.
Vuoi ancora qualche consiglio su come diventare disegnatore di scene belle e - diciamolo
nell’interesse della causa - pratiche e poco costose? Ma temo che per esporre il mio sistema dovrei
scrivere delle cose che si rivelerebbero più dannose che utili: infatti sarebbe molto pericoloso
imitare il mio metodo. Sarebbe ben diverso se tu potessi studiare con me, mettendo in pratica per
qualche anno ciò che diciamo. Col tempo impareresti a rifiutare quel che non è consono alla tua
natura e, con una paziente, diuturna iniziazione, riterresti soltanto la parte più importante e più
valida del mio insegnamento. Per ora posso darti alcune idee generali su ciò che potrai fare con
profitto e su ciò che farai bene a lasciare da parte. Ad esempio, per cominciare, non ti affliggere,
non tormentarti l’anima, e - per amor del cielo! - non stare a pensare che l’importante è fare
qualcosa, soprattutto qualcosa di ingegnoso.
Mi ricordo quanta fatica mi è costato, quando ero un ragazzo di ventun anni, fare dei disegni
che fossero in carattere con la tradizione, pur senza provare alcuna simpatia per ciò che è
tradizionale; lo considero tempo buttato via. Mi ricordo quando facevo i bozzetti per le scene
dell’Enrico IV. Allora lavoravo sotto la direzione di un attore-direttore, in un teatro in cui le sedie, i
tavoli e gli altri oggetti di contorno giocavano un ruolo importante, di tipo fotografico; e io, non
conoscendo nulla di meglio, prendevo tutto per buono. La storia di Enrico IV perciò, a parer mio,
consisteva in un ruolo bellissimo, quello del Principe Hal, e in trenta o quaranta altri personaggi
secondari, di contorno. C’era il solito tavolino con le sedie, sulla destra; sul fondo c’era la solita
porta, e io pensavo che era assolutamente originale e audace per quell’epoca, l’aver messo questa
porta appena un po’ fuori centro; c’era la finestra con la spranga e il catenaccio, e le tendine
spiegazzate, per farle sembrare già un po’ logore per l’uso, e all’esterno lo scorcio di un panorama
inglese. C’erano dei gran boccali; e naturalmente, al levarsi del sipario, ci doveva essere un bel
trambusto di “bravacci” che entravano e uscivano, con relativa chiassata di gioviali beoni nella
stanza accanto. C’era pure la musichetta allegra per l’apertura di sipario, quel motivetto di giga che
ci è tanto familiare, e c’erano le tre ragazze che passavano dietro la finestra, ridendo. Una si
affacciava con un sorriso e una parolina per il cocchiere; poi la risata si allontanava e l’orchestra
calava di tono all’ingresso dei primi personaggi dopo le comparse, e così via.
Tutto il mio lavoro, a quell’epoca, era basato su questi stupidi e fastidiosi dettagli, di cui mi avevano indotto a credere - poteva esser fatto uno spettacolo; fu solo quando bandii tutto questo
dai miei pensieri, e rinunciai a guardare attraverso gli occhi dei capocomici dell’età di Charles
Kean, che cominciai a trovare qualcosa di nuovo, qualcosa di valido per il dramma. Perciò mi è
quasi impossibile dirti come fare le tue scene; ti porterebbe senz’altro a dei fraintendimenti terribili.
Ho veduto qualche scenario che - dicono - è realizzato secondo i miei insegnamenti, ed è da buttar
via.
Le mie scene non nascono soltanto sulla base del testo da rappresentare ma muovono da un
ampio procedere di pensieri che il testo stesso, o anche altre opere del medesimo autore, hanno evocato in me. Per esempio, v’è un’evidente relazione fra Amleto e Macbeth, e l’un testo può
influenzare l’altro. Tante volte delle persone desiderose di ottenere in fretta un po’ di successo e un
po’ di denaro mi hanno chiesto di spiegar loro per benino come faccio le mie scene; perché - mi
34
hanno confidato con il più grande candore – “così potrei farne qualcuna anch’io”. Non ci crederai,
ma mi hanno parlato così le persone più insospettabili; e se potessi esser loro utile senza tradire me
stesso come artista e l’arte in sé, lo farei volentieri. Ma tu vedi quanto sarebbe inutile! Spiegar loro
in cinque minuti o in cinque ore o anche in un giorno una cosa per intravedere la quale soltanto ho
impiegato tutta la vita, sarebbe impossibile. Eppure, quando non mi son sentito di ridurre a pezzi
quel che ho imparato, per darlo a questa gente, se la sono presa a morte, e talvolta mi hanno fatto
del male.
Come vedi, non è che io voglia spiegarti qual è l’ampiezza e la forma dei miei “fondali”, il
colore che ho adoperato, come son fatti gli spezzati e in che modo si debbano maneggiare, come
sono le luci che li illuminano dall’alto, e tutto il resto; è solo che, se te lo dicessi, questo potrebbe, e
vero, esserti utile per i prossimi due o tre anni - perché poi saresti in grado di inscenare parecchi
lavori con “effetti” a sufficienza, soddisfacendo con ciò la curiosità di un certo pubblico - ma,
nonostante questi benefici, ci verresti comunque a perdere, e l’arte avrebbe in me un perfido
traditore. Le scorciatoie non ci interessano, e neppure ci interessano i lavori d’effetto e il denaro:
noi vogliamo solo andare a fondo della cosa, riuscire ad amarla e a comprenderla. Perciò è a questo
che devi tendere in ogni modo, senza lasciarti fuorviare dall’idea della scena, dei costumi, o della
messinscena come fine a se stessa; non perdere di vista l’obiettivo finale di giungere ad afferrare il
segreto, segreto che consiste nel creare un’altra bellezza, e allora tutto andrà bene.
Nel preparare un lavoro, mentre stai pensando alla scenografia, passa di colpo a un altro
argomento: la recitazione, il movimento, o la voce. Non prendere ancora nessuna decisione e torna
a pensare a un’altra parte di quest’insieme unitario. Considera il movimento indipendentemente
dalla scena e dai costumi, il movimento in sé. Integra in qualche modo il movimento singolo al
movimento che con la fantasia vedi nella scena. Ora riversa sull’insieme tutti i tuoi colori. Poi
toglili. È il momento di ricominciare daccapo. Considera soltanto le parole, inseriscile in un quadro
ampio, utopistico, e tirale fuori: poi rendi possibile il quadro attraverso le parole. Comprendi quel
che voglio dire? Guarda al dramma da ogni punto di vista, servendoti di ogni mezzo, e non aver
furia di cominciare il lavoro vero e proprio finché uno di tali mezzi non si sia imposto e ti abbia
costretto a cominciare. È meglio fidarsi di altri influssi che agiscano sulla tua volontà o anche sulla
tua mano, che non sul solo tuo piccolo cervello di uomo. Il mio non potrebbe certo essere un
metodo d’insegnamento adatto per le scuole, perché i risultati che si raggiungono nelle scuole sono
entrati nella tradizione; e la tradizione non è cosa da menar vanto. Se un insegnamento rigoroso, che
si attenga ai fatti, meccanico, può essere ottimo per una classe, può non esserlo altrettanto per il
singolo individuo; quando mi rivolgerò a una classe, allora userò più dimostrazioni pratiche e meno
parole.
Intanto posso dirti una o due cose che farai bene a evitare. Per esempio, non tener conto dei
libri di costumi. Quando ti trovi in difficoltà, consultane pure uno, e vedrai quanto poco ti aiuterà a
trarti d’impaccio; ma è meglio non crearti mai delle complicazioni con tutti questi dettagli. Rimani
semplice e spontaneo. Se studi come tracciare una figura, in che modo adattarle una giacca, o
qualcosa per coprire le gambe o la testa, e cerchi di vestirla in fogge diverse, interessanti, belle o
divertenti, otterrai molto di più che non a deliziarti la vista e confonderti le idee consultando
Racinet, Planchet, Hottenroth eccetera. I costumi a colori sono i peggiori; sta’ attento a non farti
influenzare, quando cominci a pensare a quel che hai già visto nei libri, e diffidane in modo
assoluto. Se poi, in un secondo tempo, ti accorgerai che contengono delle cose buone, potrai anche
aver ragione, ma se li accetti di primo acchito, perderai qualsiasi idea e l’estro di costumista; saprai
solo disegnare un costume Racinet o Planchet ed essere un esperto su queste autorità storicamente
precise e false al tempo stesso.
Migliore di quelli che ho citato è Viollet le Duc, il quale ha molto amore per le piccole
verità che sono alla base del costume e le nota facilmente. Ma anche il suo è un libro più adatto a
uno scrittore di novelle d’argomento storico, mentre un libro sul costume d’immaginazione attende
ancora chi lo scriva.
35
Mettiti a disegnare una serie di costumi di fantasia; per esempio, inventa un costume
barbarico; un costume barbarico per un personaggio astuto, che non abbia nulla che si possa dire
storico, e tuttavia indichi l’astuzia e la barbarie. Ora disegna un altro costume barbarico, per un
uomo ardito ma sensibile. Fanne un terzo per un personaggio laido e vendicativo. Sarà un buon
esercizio. Da principio forse combinerai dei pasticci, perché non è una cosa facile, ma se perseveri
abbastanza a lungo, son sicuro che ci riuscirai. Continua, cerca di disegnare le vesti di una figura
angelica e di una demoniaca: naturalmente saranno studi di costumi individuali, ma la forza
maggiore di questo tipo di lavoro sta nel costume di massa. Considerare singolarmente i costumi
delle masse è un errore comune a tutti gli uomini di teatro.
Lo stesso accade a proposito dei movimenti collettivi, i movimenti di masse. Sta’ attento a
non seguire la maniera tradizionale. Spesso sentiamo dire che ogni attore che formava, nella
Compagnia del Duca di Meininger, la grande folla del Giulio Cesare recitava una vera e propria
parte. La cosa può essere divertente come curiosità e attrarre il pubblico sciocco, che naturalmente
dirà: “Oh com’è interessante guardare una comparsa che recita in un angolo un’autentica parte! Che
bello! È proprio come nella vita!”.
Se questo è il tuo fine e la tua massima aspirazione non ne parliamo più. Ma sappiamo che
non è così: le masse vanno trattate come tali, come hanno fatto un Rembrandt in pittura e un Bach o
un Beethoven in musica, e il particolare non ha nulla a che fare con la massa. Non darai certo
l’impressione di una massa mettendo, insieme un’accozzaglia di particolari; questo è il metodo
seguito da coloro che amano le cose elaborate; e d’altra parte è molto più facile accozzare una
quantità di dettagli che non creare una massa suggestiva e interessante. Quando si vuole creare una
struttura complicata, allora si ricorre immediatamente all’esempio della natura. Cento uomini per
formare una folla o, addirittura, tutta Roma, come nel Giulio Cesare: cento uomini e ognuno deve
recitare una sua piccola parte. Ognuno recita da sé, gridando per conto suo; ognuno grida in modo
diverso sennonché molti di loro copiano le grida di maggior effetto, e così in capo a venti sere tutti
gridano allo stesso modo. Ognuno ha la sua azione particolare, che sempre in capo a venti sere si
muta in quella di maggior effetto e di successo più sicuro; così si può comporre un gruppo
abbastanza decente di uomini che si agitano e schiamazzano, e a qualcuno potrà anche fare
l’impressione di una gran folla. Ad altri darà piuttosto l’impressione della folla che si accalca alla
stazione.
Evita cose di tal genere, evita il cosiddetto “naturalismo”, sia nel movimento sia nella scena
e nei costumi. Il naturalismo ha preso piede sulla scena perché l’artificiosità era divenuta pedante,
insipida; ma non dimenticare che c’è anche l’artificiosità nobile.
Qualcuno scrivendo sul movimento e il gesto naturale ha detto: “Già, da tempo Wagner ha
messo in pratica il sistema dell’azione naturale in scena, sperimentato negli anni passati al ‘Théatre
Libre’ di Parigi da un attore francese; e questo metodo, per fortuna, tende a essere universalmente
adottato”. È per evitare che si scrivano cose del genere, che tu sei al mondo.
Questa tendenza al naturalismo non ha niente a che fare con l’arte, ed è altrettanto
abominevole nell’arte, quanto lo è l’artificialità nella vita quotidiana. Dobbiamo finalmente capire
che le due cose sono distinte, e bisogna usarle ciascuna a suo luogo; non possiamo certo pretendere
di sbarazzarci in un momento di questa tendenza al “naturale”, di questa aspirazione alle scene
“naturali”, e alle voci “naturale”; ma possiamo combatterla efficacemente studiando le altre arti5.
Perciò dobbiamo abbandonare l’idea che esistono azioni naturali o innaturali, e suddividere
invece le azioni in necessarie e inutili. Se un’azione è necessaria a un certo punto, si può dire che in
quel momento è l’azione naturale, e se per “naturale” si intende questo, tutto va bene. In quanto è
giusta, in tanto è naturale, d’altronde non dobbiamo metterci in testa che ogni azione casuale, ma
naturale, sia giusta. In realtà è difficile che vi sia un’azione giusta, un’azione naturale. L’azione,
dice Rimbaud, è un mezzo di distruzione.
5
“Il teatro moderno è rovinato dallo sfoggio realistico della messa in scena che è contraria all’arte pura”. John Ruskin.
[Nota aggiunta dall’Autore per l’edizione francese]
36
Istruire una compagnia d’attori a riprodurre in scena le azioni che si vedono in un salotto, in
un club, in un’osteria o in una soffitta, è né più né meno che roba da matti. Il fatto, ben noto, che vi
siano compagnie istruite a questo modo, appare quasi incredibile per la sua puerilità. Come ti ho
detto di inventare costumi significativi, così devi trovare una serie di azioni significative, tenendo
però a mente la netta divisione che esiste fra azione di massa e azione individuale, e ricordando che
non c’è nulla di meglio che un’azione misurata.
Ti ho suggerito di disegnare tre costumi di epoca barbarica, ciascuno con un suo particolare
carattere. Fa’ agire le figure che hai creato; immagina per loro azioni significative, limitandoti alle
tre indicazioni che t’ho dato: la scaltrezza, la temerarietà ardimentosa, la laidezza e il desiderio di
vendetta. Mettiti a studiarle, porta con te dei quaderni d’appunti o dei pezzi di carta e inventa in
continuazione degli schizzi di forme e di facce, che diano queste tre impressioni; quando ne hai
messo insieme qualche dozzina, scegli i più belli. Ancora una precisazione: non ho usato a bella
posta la parola “d’effetto”, ma la parola “bello”, come fanno gli artisti, e non come è d’uso fra la
gente di teatro.
Non ti aspetterai certo che ti spieghi tutto quel che l’artista intende con la parola “bello”;
essa indica ciò che ha il massimo equilibrio, che è più giusto e che suona in modo completo e
perfetto. Il bello non sempre coincide con ciò che è grazioso o semplice o superbo, o ricco, di rado
poi con “ciò che fa effetto” come lo conosciamo in teatro. Il Bello è, al contrario, un concetto
enormemente vasto e contiene in sé quasi tutto: perfino il brutto, che a volte trascende l’accezione
comune; contiene anche cose rozze, ma mai incomplete.
Facciamo che per una volta il significato di questa parola, il Bello, torni ad essere ancora
sentito profondamente in teatro, e potremo dire che il giorno del risveglio è vicino. Cancelliamo per
una volta la parola d’effetto dalla nostra bocca, e saremo pronti a pronunciare la parola Bellezza.
In teatro, quando si parla di effetto s’intende un qualcosa che giunga alla ribalta. Il vecchio
attore dice al principiante di alzare la voce, di “sputarla fuori” - “Sputala fuori, ragazzo mio, falla
volare fino in fondo alla galleria”. Non è un cattivo consiglio, in se stesso; ma l’idea che negli
ultimi cinque o seicento anni non si sia ancora riusciti a impararlo, l’idea che non siamo andati
oltre, fa realmente cadere le braccia! È ovvio che ogni azione e ogni parola in scena debbono
innanzitutto farsi vedere e farsi sentire chiaramente, ed è naturale che ogni azione e ogni discorso
importante debbono avere una forma chiara e distinta, in modo da esser compresi senza difficoltà.
Su tutto questo siamo d’accordo. È lo stesso per tutte le arti, e, come per le altre arti, è un fatto
ovvio; ma non è la sola cosa essenziale, al punto che i vecchi debbono continuamente strombazzarla
nelle orecchie alla nuova generazione che muove i primi passi sul palcoscenico. Così si insegna
subito al giovane attore a diventare un maestro nei trucchi del mestiere, ed è ovvio che poi questi
prenda d’istinto la scorciatoia: sono proprio questi trucchi del mestiere che hanno degradato il
valore della parola “teatrale”. Ma bisogna chiarire perché il giovane attore quando comincia la sua
esperienza scenica si trova in questa posizione di svantaggio: è perché prima non ha avuto modo di
studiare e di fare il suo tirocinio.
Non sono il tipo che ha tanta fiducia nelle scuole: però ho molta fiducia nella scuola della vita,
ma fra il “mondo” che è scuola per l’attore e il “mondo” che è scuola per gli altri artisti, che non
frequentano le accademie, c’è una bella differenza! Un giovane pittore, un giovane musicista, poeta,
architetto, o scultore può non mettere mai piede in un’accademia vita natural durante e può
gironzolare per il mondo una decina d’anni - imparando qua e là, sperimentando e lavorando senza
esser veduto e senza che nessuno si accorga dei suoi esperimenti. Il giovane attore invece può anche
fare a meno di frequentare un’accademia, e può pure girare il mondo per dieci anni, e fare i suoi
esperimenti come gli altri, ma - qui sta la differenza sostanziale - tutti i suoi esperimenti li deve fare
di fronte al pubblico. Ogni atomo del suo lavoro, dal giorno in cui “passa” in scena fino all’ultimo,
quando ha già un “ruolo”, è esposto e sottoposto al fuoco di fila della critica. Ad un uomo che ha
dieci anni di esperienza in qualsiasi campo, passare attraverso il fuoco della critica non potrà che
recare giovamento, a lui e al suo lavoro; perché si è preparato; ha forza, sa quello a cui va incontro.
Ma che un ragazzo o una ragazza siano sottoposti a questo, dal primo anno in cui timidamente si
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accingono a sostenere un compito così pesante, non solo è sleale, ma è anche deleterio per l’arte
della scena.
Immaginiamo di essere del tutto nuovi a questo tipo di lavoro: non stiamo nella pelle per il
desiderio di incominciare; con entusiasmo e con grande coraggio accettiamo una particina - sono
solo otto righe, e stiamo in scena sì e no dieci minuti, - siamo felicissimi, anche se in preda al
panico. Un’altra volta sono venti righe. Credi che diremo di no? Dobbiamo entrare in scena sei
volte, pensi che scapperemo via? Può darsi che non siamo degli dei, però non siamo neppure tanto
stupidi da non saper fare un’“entrata”. Ci sembra il paradiso. Andiamo. La mattina seguente leggi:
“è un vero peccato che il direttore abbia affidato a un giovane incapace una parte così importante”.
Non sto a biasimare il critico per aver scritto così; non dico che in questo modo uccide un
grande artista o ci spezza il cuore; dico soltanto che la cosa è talmente sleale che poi è naturale
rendere la pariglia abusando in modo scorretto dell’arte che avevamo cominciato ad amare,
cercando l’“effetto” a ogni costo. Abbiamo ricevuto questa critica; avevamo fatto del nostro
meglio; gli altri hanno avuto una critica migliore: noi non ne possiamo più e facciamo come loro,
cerchiamo l’effetto. Per la maggior parte dei giovani, cinque anni di acute sofferenze sono
sufficienti a farli diventare attori “d’effetto”, teatrali. Una critica prematura rovina il giovane attore
che avrebbe voluto divenire un artista; e lo costringe a divenire un traditore dell’arte che ama.
Stacci ben attento, rinuncia all’effetto; accogli le critiche negative con buona grazia, tenendo a
mente che con la pazienza e l’orgoglio potrai sopravvivere e passare oltre a quelli che ti sono
intorno. La critica ha ragione a dire che non sei stato “d’effetto”, o che hai recitato male la parte,
anche se la verità è che lavori in scena solo da tre, quattro o cinque anni, e stai ancora cercando
lentamente la tua strada, invece di ricorrere ai trucchi del mestiere. È giusto che i critici parlino così
- dicono la verità -, dovresti esserne lieto; ma inconsciamente svelano una verità ben più grande:
che quanto più vale l’artista, tanto più scadente è l’attore.
Perciò prendi tutto il coraggio e continua, come ti ho detto all’inizio, a fare l’attore finché
non ne puoi più, finché non senti che sei sul punto di cedere; allora salta l’ostacolo e fa’ il direttore
di scena. Qui, ti ho detto, sarai in una situazione migliore, anche se non molto, perché ti vai
avvicinando al punto in cui si trova (sonnecchia, è vero) la musa del teatro. Le tue scene,
l’allestimento, i costumi eccetera, che faranno più effetto, saranno naturalmente quelli più teatrali.
Ma qui non c’è una tradizione così forte, e nel tuo nuovo mestiere troverai qualcosa su cui fare
affidamento.
Il critico non è più indulgente verso chi mette in scena i lavori, però in un modo o nell’altro
è meno propenso a parlare di “effetto”, e sembra avere una conoscenza più ampia del bello e del
brutto in questo genere di cose. Può darsi che ciò sia dovuto a una tradizione professionale; “la
messa in scena”, come s’intende oggi, non è che un più moderno sviluppo del teatro, e il critico ha
più libertà di dire quel che vuole. In ogni modo, come direttore di scena non dovrai più comparire di
persona sul palcoscenico ogni sera e perciò tutto quel che scrivono sul tuo lavoro puoi non ritenerlo
come una critica diretta a te personalmente.
Pensavo adesso di dirti qualche cosa sull’uso delle luci artificiali; ma è meglio che tu
applichi da solo quel che ti ho detto a proposito, delle scene e dei costumi a quest’altra branca.
Qualcosa si può adattare. Non sarebbe affatto pratico parlarti degli strumenti che usano e di come li
adoperano per ottenere buoni risultati. Se hai testa per inventare le scene e i costumi di cui ti ho
parlato, avrai anche la capacità di trovare da solo il sistema di usare le luci artificiali di cui il teatro
dispone ormai da anni.
Infine, prima di lasciare il teatro per qualche altro argomento di maggiore importanza, ti
faccio un’ultima raccomandazione: quando hai qualche dubbio, ascolta i consigli di un uomo di
teatro, anche se è soltanto un vestiarista, piuttosto che dar retta ad un dilettante. Un certo numero di
pittori, scrittori e musicisti hanno fatto del nostro teatro una specie di “secondo lavoro”.
Attenzione a non badare a quel che dicono o fanno. Un qualunque macchinista sa molto di
più sulla nostra arte che non questi dilettanti. Il pittore da un po’ di tempo a questa parte ha pensato
di fare piccole, graziose incursioni proprio sui confini del palcoscenico. Spesso è un uomo di grandi
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capacità intellettuali e pieno di molte eccellenti teorie, l’antica e bella teoria dell’arte che ognuno sa
coltivare meglio sul proprio pezzo di terra; e queste teorie le ha applicate nel suo ramo particolare
d’arte. In teatro diventano pura affettazione: è infatti ragionevole supporre che un uomo dedito da
quindici o venti anni a dipingere ad olio su delle superfici piane, a incidere su rame o in legno, in
teatro farà un’opera di carattere pittorico, con qualità pittoriche, non altro. Il musicista comporrà
qualcosa di musicale. Il poeta a sua volta creerà una cosa letteraria. Tutto questo può essere
pittoresco e carino, ma sfortunatamente non ha niente a che fare con l’Arte del Teatro. Guardati da
tali uomini: puoi farne a meno. Praticandoli, finirai col diventare anche tu un dilettante. Se uno di
loro desidera parlare con te del teatro, chiedigli subito per quanto tempo ha effettivamente lavorato
in un teatro, prima di perdere dell’altro tempo ad ascoltare le sue teorie irrealizzabili.
E poiché per concludere abbiamo parlato degli artisti, le ultime parole dedichiamole al loro
lavoro. La loro opera è cosi bella, essi hanno trovato delle leggi talmente valide e le hanno seguite
così bene, rinunziando ad ogni ambizione mondana per cercare la bellezza, che quando la Natura ti
sembrerà indecifrabile, devi ricorrere immediatamente a questi amici - alla loro opera, intendo dire e ciò ti aiuterà a superare le tue difficoltà, perché le loro opere sono le più belle e le più sagge di
tutto il mondo.
L’avvenire-una speranza
Ora che ti ho parlato dei compiti del direttore scenico, andiamo oltre: ti svelerò le più vaste
possibilità che penso siano in serbo per te.
Ti ho detto come stanno le cose, e spero che supererai questi anni come attore, direttore,
scenografo e allestitore, senza grandi difficoltà. Per riuscirci con successo, pur conservando durante
il periodo di apprendistato le tue convinzioni personali, non devi parlarne che con te stesso; e
ricordati che non mi aspetto che tu parteggi per la mia opinione o la difenda pubblicamente. Farlo
non porterebbe ad altro che a sminuire il credito che hai, infirmando il valore di tutto questo
periodo di preparazione. Non mi importa che la gente sia convinta che tu credi nella validità delle
mie affermazioni, delle mie teorie e delle mie esperienze: per me è molto più importante che tu ne
sia convinto. E perché niente ci metta il bastone fra le ruote vorrei che tu non corressi rischi; perciò
teniamoci per noi le nostre convinzioni. Non cercare di trovarmi dei sostenitori. Non correre il
rischio di dover affrontare l’alternativa di essere licenziato o di smentire le nostre comuni credenze.
Tanto più che non ce n’è alcun bisogno. Mi son preso già una caterva di rimproveri per aver
proclamato ad alta voce la mia fede nella verità della nostra causa, e son pronto a prendermene altri
solo che tu scatti in avanti e ti assicuri un vantaggio, servendoti di me come di un pretesto.
Apprezzerò l’umorismo, perché c’è un po’ di umorismo in tutta la faccenda, e questa sarà la mia
ricompensa. Ricordati che stiamo attaccando un mostro, un nemico potente ed astuto; e quando vuoi
comunicare con me, fallo con mezzi più invisibili del telegrafo senza fili. Io comprenderò
ugualmente.
Quando avrai finito di fare l’apprendistato, cioè dopo sei o dieci anni, non ci sarà più
bisogno di mantenere il segreto: sarai pronto allora a uscire allo scoperto a tua volta, e a spiegare il
tuo stendardo; perché sarai sulla frontiera del tuo regno; ed è di questo regno che voglio parlare
adesso.
Uso la parola “Regno” istintivamente quando parlo del territorio del teatro, perché rende
bene quel che voglio dire. Forse nei prossimi tre o quattromila anni la parola Regno scomparirà, e
con essa anche Regalità, Re - ma ne dubito; e se così fosse qualcos’altro di ugualmente bello
prenderebbe il suo posto. Sarebbe l’identica cosa in abiti differenti. Non si può inventare niente di
più bello della Regalità, dell’idea del Re. Non è che un modo per indicare l’individualità, la
personalità calma, sagace; e finché dura i1 mondo, la personalità più calma e più sagace sarà
sempre quella del Re. A volte è chiamato Presidente, o anche Papa, e talvolta Generale; ma è la
stessa cosa, è inutile negarlo: è il Re. All’artista questo pensiero è molto caro. C’è in esso la
sensazione del perfetto equilibrio. Il Re (per l’artista) è quella parte delicata della bilancia che gli
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antichi artigiani facevano in oro e a volte adornavano di gemme preziose; quel congegno finemente
lavorato senza i1 quale la bilancia non potrebbe esistere, e su cui si affissa lo sguardo del
misuratore. Perciò ho preso queste bilance come insegna della nostra nuova arte, perché la nostra
arte è basata sull’idea del perfetto equilibrio, il risultato del movimento.
Ecco, questa è la cosa che avevo promesso di darti, all’inizio. Dopo aver trascorso il periodo
d’apprendistato senza lasciarti sommergere dalla professione, ora sei degno di riceverla. Altrimenti
non saresti in grado di vederla. Non ho paura che quel che ti lancio venga afferrato da altre mani,
perché è visibile e tangibile solo per chi è passato attraverso un apprendistato come il tuo. Per te
all’inizio il fulcro della cosa era la Personificazione; poi sei passato al concetto di
Rappresentazione, e ora giungi all’idea di Rivelazione. Quando impersonavi una parte o la
rappresentavi, ti servivi di quei materiali di cui si è sempre fatto uso: la figura umana come è
esemplificata nell’attore, i1 discorso come è esemplificato nel poeta per mezzo dell’attore, il mondo
visibile quale è mostrato mediante la Scena. Ora potrai rivelare col movimento le cose invisibili,
quelle che si vedono dentro - non “con” gli occhi, per mezzo del potere meraviglioso e divino del
Movimento.
C’è una cosa che l’uomo non ha ancora appreso a padroneggiare, che non immaginava
neanche stesse ad attenderlo, che le si accostasse con amore; era invisibile e pur sempre presente a
lui. Una cosa magnifica, che lo seduceva e si ritraeva fugace, aspettando solo che le si avvicinasse
l’uomo giusto, pronto ad innalzarsi a volo con lei per il cielo, lontano dalla terra - è il Movimento.
È in qualche modo opinione comune che solo mediante le parole si può rivelare la verità.
Anche la sapienza della Cina ha detto: “La verità spirituale è profonda e vasta, di eccellenza
infinita, ma di difficile comprensione. Senza parole sarebbe impossibile spiegarne la dottrina; senza
immagini la sua forma non potrebbe essere rivelata. Le parole spiegano la legge del due e del sei,
l’immagine delinea la relazione fra il quattro e l’otto. Non è profondo, infinito come lo spazio,
amabile al di là di ogni confronto?”
Ma che dire di quella infinita e stupenda cosa che dimora nello spazio: il Movimento? Dal
suono è derivata quella meraviglia delle meraviglie che ha nome Musica. La Musica - si può parlare
di lei come San Paolo parla dell’amore; perché è tutta amore, tutto ciò che - egli dice - dovrebbe
essere il vero amore. Tollera ogni cosa, ed è gentile; non è vana, non assume atteggiamenti
indecorosi, crede in ogni cosa, spera in ogni cosa - quanto è infinitamente nobile!
E come una sfera è simile ad un’altra, così il Movimento è simile alla Musica. Mi piace
ricordare che ogni cosa scaturisce dal Movimento, anche la Musica; mi piace pensare che sarà
nostro supremo onore essere i ministri della forza suprema - il Movimento. Perché tu vedi il
rapporto che c’è tra il teatro (anche il teatro d’oggi, povero, smarrito, desolato) e questo compito. I
teatri d’ogni terra, oriente ed occidente, si sono evoluti (anche se il loro sviluppo è degenere) dai
movimento, i1 movimento della forma umana. Sappiamo molto in proposito, perché c’è la
testimonianza della tradizione: e prima che l’essere umano si addossasse la grave responsabilità
d’usare la propria persona come strumento attraverso il quale rendere la bellezza, c’era un’altra
razza più saggia, che usava altri strumenti.
Nei primissimi tempi il danzatore era un sacerdote o una sacerdotessa, e in ogni modo non
un personaggio melanconico; presto è degenerato in qualcosa di più simile all’acrobata, e si è giunti
infine alla distinzione danzatore-ballerino. Per associazione col menestrello è apparso l’attore. Non
sostengo che con la rinascita della danza verrà la rinascita dell’antica arte del teatro, perché non
penso che il danzatore ideale sia lo strumento perfetto per esprimere quanto c’è di più perfetto nel
movimento. Il danzatore ideale, uomo o donna che sia, è in grado di esprimere con la forza o la
grazia del corpo molta della forza e della grazia che è nella natura umana, ma non la può esprimere
tutta, e neanche la millesima parte. Perché al danzatore si applica la stessa verità valida per tutti
coloro che usano la propria persona come strumento. Ahimé! Il corpo umano si rifiuta di essere uno
strumento, sia pure della mente che abita nel corpo stesso. I figli di Los6 si ribellarono ed ancor
6
I sensi, secondo la poetica di William Blake. [N.d.T.]
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oggi si ribellano al loro padre. L’antica, divina unità, i1 divino quadrato; l’incomparabile circolo
della nostra natura è stato crudelmente rotto dai nostri umori, e non più per istinto si disegna il
quadrato o si traccia il circolo sul muro grigio dinanzi a noi. Ma con gesto significativo
costringiamo una volta ancora la nostra anima trepidante ad avanzare, priva del corpo, su di una
nuova strada e a riconquistarla. È una verità che non ammette discussione, una verità che non
sminuisce la bellezza che emana dal cantante o dal danzatore, a noi carissimi, di ogni età.
A me sembra che l’uomo faccia un qualcosa di più consono alla sua condizione umana
quando inventa uno strumento al di fuori della sua persona, e attraverso questo strumento comunica
il suo messaggio. Ho un’ammirazione maggiore per l’organo, per il flauto e il liuto che non per la
voce umana, quando essa è usata come strumento. Sento che è tanto più ammirevole e più
conveniente una macchina fatta per volare che non un uomo il quale applichi a se stesso le ali di un
uccello. Perché un uomo mediante la propria persona non può conquistare che piccole cose, ma con
la mente può concepire e inventare gli strumenti per raggiungere ogni traguardo.
Io non credo assolutamente nella magia personale dell’uomo, credo soltanto nella sua magia
impersonale7. Credo che non dovremo mai dimenticare che apparteniamo al periodo che vien dopo,
non prima della Caduta. Io riesco almeno a trarre un sia pur minimo insegnamento dall’antica
storia. Ed anche se, forse, è soltanto una leggenda, sento che è proprio la storia vera per un artista.
Nel grande periodo anteriore a quest’evento vediamo, con gli occhi della mente, l’uomo in uno
stato così perfetto che il solo desiderio di volare era già per lui poter volare, il solo volere ciò che
noi chiamiamo impossibile era già un possederlo. Ce lo immaginiamo che vola nell’aria o che
precipita nel profondo, senza farsi alcun male. Non vediamo stupide vesti, non conosciamo fame e
sete. Ma ora siamo consci che questo “quadrato divino” delle origini è stato rotto, e dobbiamo
quindi renderci conto che l’uomo non potrà mai più pretendere o proclamare che la sua persona è il
mezzo degno e compiuto per esprimere il pensiero perfetto.
Dobbiamo bandire dalla nostra mente qualsiasi intenzione di usare la forma umana come
strumento adatto a tradurre quello che noi chiamiamo il Movimento. Allora saremo più forti. Non
perderemo più tempo e coraggio in una speranza vana. Il nome preciso che porterà quest’arte non
può essere ancora stabilito, ma sarebbe un errore tornare indietro e cercarlo in Cina, in India o in
Grecia. Abbiamo parole a sufficienza nella nostra lingua, facciamo che una parola della nostra
lingua diventi familiare agli idiomi di tutte nazioni. Ho scritto altrove e continuerò a scrivere ogni
cosa, su questo argomento, a misura che si precisa in me, e tu, di volta in volta, leggerai quel che
scriverò. Ma non ti eviterò le difficoltà, perché proprio da queste potrai trarre piacere: voglio
lasciare tutto aperto, senza creare delle regole che definiscano come e con che mezzi verranno
mostrati tali movimenti. Lasciati dire soltanto questo: ho riflettuto e ho cominciato a fare il mio
strumento, e per mezzo di esso intendo avventurarmi presto nella ricerca della bellezza. Come
posso sapere se giungerò un giorno a possederla? E perciò come posso fissare definitivamente le
prime regole che dovrai apprendere? Solo e senza aiuto non posso raggiungere risultati definitivi.
Occorrerebbe la forza dell’intera razza umana per tutte le bellezze presenti in questa grande
sorgente, in questa nuova razza di artisti a cui tu appartieni. Quando avrò costruito il mio strumento,
e avrò potuto iniziare a provarlo, cercherò che altri ne facciano di simili. Lentamente, dai principi
che li regolano si formerà uno strumento migliore.
Sono guidato, nel costruire il mio, solo dalle idee primigenie e più semplici che riesco a
distinguere nel movimento. Le sottigliezze e le bellezze complicate, contenute nel movimento quale
si trova nella Natura, io non le considero; penso che non potrò mai sperare di avvicinarmi ad esse.
Pure, questo non mi distoglie dal cercare di accostarmi ad alcuni movimenti più piani, più nudi, più
semplici; voglio dire a quelli che a me sembrano i più semplici, quelli che io posso capire. Dopo
7
Questa mia asserzione richiede dei chiarimenti precisi: ad esempio, se è vero che ciò che c’è di impersonale
nell’essere umano sia la parte migliore di lui; quello che è personale viene soltanto in secondo piano. A prima vista,
sembra che sia l’elemento personale insito nelle cose a conferir loro un carattere peculiare e a costituirne l’identità; ma,
a pensarci più ponderatamente, vedremo che perdendo la nostra personalità, ci guadagniamo, poiché siamo immersi in
una forza nuova, distinta da ogni altre, superiore ad ogni altra. [Nota aggiunta dall’Autore per 1’edizione francese.]
41
averli messi in atto, ritengo che potrò passare ad altri simili; ma sono perfettamente conscio che essi
implicheranno solo i ritmi più semplici; i grandi movimenti non possono ancora essere catturati, no,
no, per migliaia d’anni. Ma quando questo accadrà, porterà un gran bene, perché saremo più vicini
all’equilibrio di quanto non lo siamo mai stati prima.
Penso che si possano individuare due tipi distinti di movimento: il movimento del due e del
quattro, che è il quadrato, il movimento dell’uno e del tre, che è il circolo. Nel quadrato c’è
qualcosa di eminentemente virile, nel circolo qualcosa di eminentemente femminile. Mi sembra
quindi che non si scoprirà mai il movimento perfetto prima che lo spirito femminile non rinunci a se
stesso per cercare insieme con lo spirito virile questo grande tesoro; almeno mi piace immaginare
che sia così.
E mi piace supporre che quest’arte che sorgerà dal movimento sarà la prima e ultima fede
del mondo; e mi piace sognare che per la prima volta nel mondo uomini e donne raggiungeranno
questo risultato insieme8. Come sarebbe nuovo e bello! E poiché questa è una strada nuova, essa
s’apre dinanzi agli uomini e alle donne dei secoli a venire come una possibilità sconfinata. Negli
uomini e nelle donne il senso di movimento è molto più sviluppato che quello della musica. Può
essere che quest’idea venuta a me ora fiorirà, in un futuro, grazie all’aiuto della donna? - O sarà,
come sempre, l’uomo a dominare tutto ciò da solo? Il musicista, il costruttore, il pittore, il poeta
sono uomini.
Ora ecco, si presenta l’occasione di cambiare tutto. Ma non posso qui insistere ancora su
quest’idea, tu non mi seguiresti.
Pensa a come inventare uno strumento con il quale portare il movimento dinanzi ai nostri
occhi. Quando avrai raggiunto questo grado di sviluppo non avrai più bisogno di nascondere
timorosamente i tuoi sentimenti e le tue opinioni, ma potrai farti avanti e unirti a me nella ricerca.
Non sarai un rivoluzionario nei riguardi del teatro, perché ti sarai levato più in alto del teatro stesso,
sarai penetrato in qualche cosa che lo supera. Forse proseguirai nella tua ricerca con un metodo
scientifico e ciò ti porterà a risultati molto validi. Ci saranno un centinaio di strade che conducono a
questo punto - non una soltanto; e una dimostrazione scientifica di tutto quel che scoprirai non potrà
certo nuocere.
Bene. Trovi qualche valore in ciò che ti ho dato? Se non a prima vista, certamente lo
riconoscerai a poco a poco. Non mi aspetto che cento individui mi comprendano oppure cinquanta,
no, neanche dieci. Ma uno? È possibile. E quell’uno capirà che io scrivo qui di cose che hanno a
che fare col presente, col domani e coll’avvenire, e starà attento a non confondere questi tre differenti periodi.
Io credo in ciascun periodo e nella necessità di sottostare all’esperienza che ognuno di essi
può offrirci.
Io credo nel tempo in cui saremo in grado di creare opere d’arte a teatro senza l’uso di testi
scritti, senza servirci di attori; ma credo pure nella necessità del lavoro quotidiano, nelle condizioni
che ci sono offerte oggi.
La parola OGGI è bella, e la parola DOMANI è bella, e la parola AVVENIRE è divina - ma la
parola più perfetta che le unisce e le armonizza tutte è la parola E.
Firenze 1907.
8
Mi piace sognarlo ancora oggi, benché siano trascorsi ormai sei anni dal giorno in cui decisi dentro di me che l’uomo
e la donna devono collaborare insieme alle cose più belle, che anche la donna debba conoscere le nostre ore più alte.
Ma che nessuna di loro si sogni neppure per un istante che il suo ruolo consista nel fare la sciocca - e nello
scimmiottare l’uomo. Qualsiasi donna volesse arrogarsi il diritto di sputare sentenze, credendo che io l’abbia
autorizzata qui a discutere con gli uomini - alla cui tutela io affido l’idea di quest’arte nuova - prenderebbe un bel
granchio. Il potere della donna consiste nella perseveranza ad assecondare l’uomo, a seguirlo perfino quando pensa che
egli trascini ambedue alla rovina. Se lui sbaglia, sbaglierà anche lei. La più grande saggezza della donna è obbedire.
[Nota aggiunta dall’Autore per l’edizione francese.]
42
L’Attore e la Supermarionetta9
Dedicato con tutto l’affetto ai miei buoni amici
De Vos e Alexander Hevesi.
“Per salvare il Teatro, bisogna distruggere il
Teatro, gli attori e le attrici devono tutti morire
di peste... Essi rendono l’arte impossibile.”
Eleonora Duse
(Arthur Symons, Studies in Seven Arts,
Constable, 1900)
È sempre stato argomento di discussione se recitare sia un’arte o no, e quindi se l’attore sia
un Artista o qualcosa di ben diverso. Non abbiamo prove per affermare che questo problema abbia
angustiato le menti dei maggiori pensatori di ogni epoca, comunque è ragionevole pensare che, se
l’avessero ritenuto degno di seria considerazione, vi avrebbero applicato lo stesso metodo di ricerca
usato nell’esaminare le altre arti, come la Musica e la Poesia, l’Architettura, la Scultura e la Pittura.
D’altronde, in certi ambienti si sono avute accanite discussioni su questo argomento.
Raramente vi han preso parte degli attori, ancor più raramente dei veri uomini di teatro, ma tutti
hanno fatto mostra di una grande foga, peraltro ingiustificata, e in compenso di una scarsissima
conoscenza della materia. Le argomentazioni di chi sostiene che recitare non è un’arte e che perciò
l’attore non è un artista sono così irragionevoli e personali nella loro prevenzione contro l’attore,
che forse proprio per questa ragione gli attori non si son dati pena di intervenire nella controversia.
Così ora, regolarmente, ad ogni stagione giunge l’attacco settimanale contro l’attore e il suo
piacevole mestiere, attacco che finisce di solito con la ritirata del nemico. Di regola quelli che
vanno a ingrossare le file della parte avversa sono dei letterati o dei semplici privati: forti di essere
andati a teatro tutta la vita, oppure di non esserci andati mai, neppure una volta, muovono
all’attacco per ragioni note solo a loro. Ho seguito questi puntuali attacchi, di stagione in stagione, e
mi è parso che per lo più abbiano origine da suscettibilità, inimicizie personali o presunzione. Sono
illogici dal principio alla fine: attacchi simili contro l’attore e il suo mestiere non hanno ragione
d’esistere. Non è mia intenzione di prendere partito, vorrei soltanto esporvi quella che mi sembra la
logica di un fatto strano, e che non credo possa esser messa in discussione.
Recitare non è un’arte; è quindi inesatto parlare dell’attore come di un artista. Perché tutto
ciò che è accidentale è nemico dell’artista, l’arte è in antitesi assoluta con il caos, e il caos è creato
dall’accozzaglia di molti fatti accidentali. All’arte si giunge unicamente di proposito. Quindi è
chiaro che per produrre un’opera d’arte qualsiasi, possiamo lavorare soltanto con quei materiali che
siamo in grado di controllare. L’uomo non è uno di questi materiali.
Tutta la natura umana tende verso la libertà, perciò 1’uomo reca nella sua stessa persona la
prova che, come materiale per il teatro, egli è inutilizzabile. Nel teatro moderno, poiché ci si serve
come materiale del corpo di uomini e donne, tutto quel che si rappresenta è di natura accidentale: le
azioni fisiche dell’attore, l’espressione del suo volto, il suono della voce, tutto è in balia dei venti
delle sue emozioni, e se è vero che questi venti spirano in continuazione attorno all’artista
eccitandolo, non ne turbano mai 1’equilibrio. L’attore invece diviene succubo dell’emozione; essa
gli invade le membra, le scuote come vuole. Egli è completamente in suo potere, si muove come
uno in preda al delirio, o come un pazzo, barcollando qua e là; la testa, le braccia, i piedi, se pure
non sono del tutto al di fuori del controllo, oppongono così poca resistenza al torrente delle
passioni, che possono cedere e fargli fare un passo falso da un momento all’altro. È inutile che
9
Mi faccio poche illusioni che questo saggio riesca gradito alle donne del nostro tempo; non spero assolutamente che
possa mai essere di loro gusto. Quanto ad amarne l’idea fondamentale, la cosa per il momento non è loro possibile.
[Nota aggiunta dall’Autore per l’edizione francese.]
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cerchi di ragionare; le chiare raccomandazioni di Amleto agli attori10 (raccomandazioni da
sognatore - sia detto per inciso - non da logico) sono parole al vento: spesso le membra si rifiutano
di obbedire alla mente quando 1’emozione si accende, mentre la ragione non fa che alimentare il
fuoco delle emozioni. Come per il movimento, così succede per le espressioni del volto: la mente
lottando riesce per un momento a far muovere gli occhi o i muscoli del volto secondo la propria
volontà; ma appena riesce per pochi istanti a tenere il volto in perfetta soggezione, subito viene
sopraffatta dall’emozione, che si è infiammata per azione della mente stessa. In un attimo, come un
lampo, prima che la mente abbia il tempo di gridare e di protestare, la passione ardente si è
impadronita dell’espressione dell’attore. Essa si distorce, varia, oscilla e si agita, è spinta
dall’emozione giù per la fronte dell’attore, fra gli occhi, fino alla bocca; ora egli è completamente
alla mercé dell’emozione, e le grida: “Fa’ di me quello che vuoi!”. La sua espressione si perde in un
tumulto pazzo, ed ecco! “Nulla nasce dal nulla”. Alla voce dell’attore accade lo stesso che ai suoi
movimenti. L’emozione gliela soffoca, la costringe a cospirare anch’essa contro la ragione, la altera
in modo tale che l’attore dà l’impressione di un’emotività discordante. È inutile che mi veniate a
dire che 1’emozione è l’anima degli dèi e che è proprio ciò che l’artista aspira a produrre; prima di
tutto non è vero, e poi, anche se lo fosse, ogni emozione disordinata, ogni sentimento accidentale,
non può avere alcun valore. Abbiamo visto dunque che la mente dell’attore ha minor potere della
sua emozione, perché 1’emozione è capace di indurre la mente a collaborare alla distruzione di ciò
che essa stessa vorrebbe produrre; e, dal momento che la mente diviene schiava dell’emozione, ne
consegue che all’attore debbano capitare continui inconvenienti. Così siamo arrivati a questo punto:
che 1’emozione è la causa che prima crea, poi distrugge. L’arte, come l’abbiamo definita, non può
ammettere dei fatti accidentali; quindi, quel che l’attore ci dà non è un’opera d’arte, ma una serie di
confessioni fortuite11. Nei tempi antichi il corpo umano non era adoperato come materiale nell’Arte
del Teatro: allora le emozioni degli uomini e delle donne non erano considerate uno spettacolo
adatto per la moltitudine. Un elefante e una tigre in un’arena soddisfacevano meglio i gusti degli
spettatori, quando si voleva eccitarli. La lotta furiosa fra l’elefante e la tigre dava tutta 1’eccitazione
che oggi possiamo ricevere dalla scena moderna, e allo stato puro. Uno spettacolo del genere non
era più brutale, anzi era più delicato e umano: poiché non c’è nulla di più disgustoso che esporre su
di un palco uomini e donne, facendogli esibire quel che gli artisti si rifiutano di mostrare, se non
velatamente e in una forma da essi predisposta. Come mai 1’uomo abbia deciso di prendere il posto
che fino a quel momento era riservato agli animali, non è difficile arguirlo.
L’uomo “di cultura” s’incontra con 1’uomo “di temperamento” e gli si rivolge press’a poco
in questi termini: “Hai un aspetto davvero superbo: come ti muovi bene! La tua voce è simile al
canto degli uccelli, e come risplendono i tuoi occhi! Fai proprio una figura magnifica! Somigli
quasi a un dio! Secondo me bisognerebbe mostrare a tutti la tua bellezza. Scriverò poche righe, e tu
le dirai rivolgendoti alla folla. Ti dovrai mettere in piedi dinanzi a loro e pronuncerai i miei versi
come meglio ti piacerà. Certamente sarà una cosa perfetta”.
E l’uomo di temperamento risponde: “Ma dici sul serio? Veramente il mio aspetto ti sembra
simile a quello di un dio? Non ci avevo mai pensato. E credi proprio che mostrandomi alla folla
potrei farle una bella impressione e la riempirei di entusiasmo?”. “No, no, no”, dice l’uomo
intelligente, “se ti fai solo vedere, no; ma se tu hai qualcosa da dire, susciterai davvero una grande
impressione”.
L’altro risponde: “Credo che avrò qualche difficoltà a pronunciare le tue parole. Mi sarebbe
più facile mostrarmi soltanto e dire qualcosa di spontaneo, come: ‘Salute a tutti!’ Sento che facendo
così forse riuscirei meglio a essere me stesso”. “Ottima idea”, risponde il tentatore, “questa del
‘Salute a tutti!’. Su questo tema comporrò, diciamo così, cento o duecento versi su misura per
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Amleto, atto III, scena 2.
“Il bimbo che danza per suo piacere, l’agnello che ruzza, o il cerbiatto che gioca, sono degli esseri felici e benedetti,
ma non sono degli artisti. L’artista è colui che si attiene a una regola dura, al fine di dispensarci una gioia deliziosa”.
John Ruskin [Nota aggiunta dall’Autore per 1’edizione francese.]
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essere declamati. Me l’hai suggerito tu stesso. Salute! Siamo d’accordo, allora, che farai così?”. “Se
vuoi”, risponde l’altro con una ottusità bonaria, lusingato oltre ogni dire.
E così comincia la commedia dell’autore e dell’attore. Il giovane mostrandosi alla folla,
declamando i versi, fa una magnifica pubblicità all’arte delle lettere. Dopo l’applauso il giovane è
presto dimenticato; dimenticato perfino il modo in cui ha pronunciato i versi, ma l’idea è nuova e
originale, per quei tempi, e l’autore pensa bene di approfittarne, seguito ben presto da altri autori
accortisi che utilizzare come strumenti uomini avvenenti e fatui è davvero un’ottima trovata. Che
poi lo strumento sia un essere umano non ha per loro la minima importanza. Pur non conoscendone
i registri, riescono a trarne dei suoni, anche se rudimentali, e trovano comunque che tutto ciò è
veramente utile.
È così che oggi assistiamo allo strano spettacolo di un uomo contento di enunciare i pensieri
a cui un altro ha dato forma, mostrando la propria persona al pubblico. Fa questo perché è
lusingato; e la vanità... non ragiona. Ma sempre finché esisterà il mondo la natura umana
combatterà per la libertà, e si ribellerà all’essere fatta schiava, semplice veicolo per l’espressione
dei pensieri di un altro. Si tratta di un problema molto grave, e non lo si può eludere affermando che
se l’attore è il mezzo di espressione dei pensieri di un altro, è lui che dà vita alle parole morte di un
autore. Anche se ciò fosse vero (il che è escluso), anche se l’attore presentasse solo idee proprie, la
sua natura rimarrebbe pur sempre in condizione di schiavitù; il suo corpo dovrebbe divenire lo
schiavo della mente; e questo, come ho dimostrato, un corpo sano si rifiuta assolutamente di farlo.
Quindi il corpo umano, per le ragioni che ho detto, è per sua natura assolutamente inutilizzabile
come materiale artistico. Mi rendo pienamente conto del carattere generico di quest’affermazione;
e, poiché concerne uomini e donne che sono in vita, e che come classe di persone son degni di ogni
stima, devo aggiungere qualcosa, per non recar loro un’offesa involontaria. So benissimo che quel
che ho detto non provocherà ancora l’esodo in massa degli attori da tutti i teatri del mondo, non li
spingerà a rinchiudersi entro monasteri, dove irrideranno per il resto della loro vita l’arte del teatro,
divenuta argomento capitale di piacevoli conversazioni. Come ho già scritto altrove, il teatro
continuerà a svilupparsi e gli attori continueranno per alcuni anni a intralciare la sua evoluzione.
Ma vedo uno spiraglio attraverso il quale gli attori potranno evadere in tempo dal servaggio in cui si
trovano. Essi devono creare per se stessi una nuova forma di recitazione, consistente essenzialmente
in gesti simbolici. Oggi essi impersonano e interpretano; domani dovranno rappresentare e
interpretare; e dopodomani dovranno creare. In questo modo potrà aversi nuovamente uno stile.
Oggi l’attore impersona. Egli grida al pubblico: “State attenti; ora fingo di essere così e così, ed ora
simulo questa e quest’altra azione” e poi si mette a imitare quanto più esattamente possibile quello
che ha annunziato che indicherà. Supponiamo ad esempio che sia Romeo. Dice al pubblico che è
innamorato, quindi prende a mostrarlo, baciando Giulietta. Questa, si afferma, è un’opera d’arte: si
pretende che tutto ciò sia un modo intelligente di suggerire un pensiero. Ma perché, perché? È
proprio come se un pittore disegnasse su di un muro un animale con le orecchie lunghe, e poi ci
scrivesse sotto: “Questo è un asino”. Già è abbastanza chiaro, penseremo noi, anche senza
1’iscrizione: qualunque ragazzo di dieci anni sa fare altrettanto. La differenza fra il ragazzo di dieci
anni e l’artista è questa: l’artista è colui che tracciando certi segni e certe forme crea l’impressione
di un asino ed è tanto più grande se riesce a suscitare l’impressione del genere “asino”, della sua
“essenza”.
L’attore invece guarda alla vita come una macchina fotografica, e cerca di fare un ritratto
che competa con una fotografia. Non immagina neppure che la sua arte sia simile, ad esempio,
all’arte della musica. Egli si sforza di riprodurre la Natura; raramente pensa di inventare con l’aiuto
della Natura, e non aspira mai a creare. Come ho detto, il meglio che può fare, quando vuole
cogliere e rendere la poesia di un bacio, la foga di un combattimento, o la quiete della morte, è
copiare fedelmente, fotograficamente - bacia - combatte - giace supino e fa la mimica della morte ma, se ci pensate, tutto questo non è pura idiozia? Misera arte e abilità da quattro soldi se non può
offrire al pubblico lo spirito, l’essenza di un’idea, se è in grado soltanto di esibire una copia priva
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d’arte, un fac-simile della copia stessa! Questo si chiama essere un imitatore, non un artista. Questo
è un proclamarsi parente del ventriloquo12.
Secondo un modo di dire del gergo teatrale, l’attore “entra nella pelle del suo personaggio”.
Meglio sarebbe dire che “esce del tutto fuori della pelle del suo personaggio”. “E che”, grida il
brillante attore di sangue caldo, “allora non ci deve essere né carne né sangue in questa monotona
arte del vostro teatro? Non ci deve essere vita?”. Dipende da quel che voi chiamate vita, signor mio,
quando usate questa parola in rapporto all’idea di arte. Il pittore intende qualcosa di molto
differente dalla realtà immediata quando parla di vita, ed anche gli altri artisti in genere fanno lo
stesso: si riferiscono a qualcosa di essenzialmente spirituale; soltanto l’attore, il ventriloquo, o
l’impagliatore d’animali, affermando di immettere la vita nel loro lavoro, intendono parlare di
riproduzione materiale e fedele, di qualcosa che ha un aspetto vistoso e piacevole; per questo io
dico che sarebbe meglio se l’attore cercasse di uscire completamente dalla pelle del suo
personaggio. Se qualche attore leggerà il mio scritto, è possibile che io non riesca a fargli intendere
l’enorme assurdità del suo comportamento, di questa sua convinzione circa la necessità di fare una
vera copia, una riproduzione? Supponiamo adesso che un tale attore sia qui con me, mentre parlo.
Inviterò un musicista e un pittore a unirsi a noi. Ora lasciamoli parlare. Quanto a me ne ho
abbastanza di fare la parte di colui che per motivi banali denigra il lavoro dell’attore. Se ho parlato
in questo modo, l’ho fatto per amore del teatro, perché spero e ho fiducia che fra non molto uno
straordinario rivolgimento farà sorgere a nuova vita ciò che nel teatro è in decadenza, perche sono
convinto che l’attore darà l’apporto del suo coraggio a questa rinascita. Il mio atteggiamento circa
l’intera questione è frainteso da molti, nel teatro. È considerato come un mio atteggiamento, esclusivamente mio, ai loro occhi io sembro uno stravagante attaccabrighe, un pessimista, un brontolone:
uno che è stanco di una cosa e cerca di mandarla in pezzi. Perciò lasciamo parlare gli altri artisti
insieme con l’attore, e lasciamo che sia quest’ultimo a fare il difensore della sua causa, in base
all’opinione degli altri in materia d’arte. Sediamo qui a conversare, l’attore, il musicista, il pittore
ed io. Io, dato che rappresento un’arte distinta da tutte queste, me ne starò in silenzio.
Mentre ce ne stiamo seduti, il discorso verte dapprima sulla Natura. Siamo circondati da
belle colline declinanti, da alberi, da vaste montagne che si ergono in lontananza, coperte di neve;
intorno a noi scorrono le innumerevoli, delicate voci della Natura... la Vita. “Come è bello”, dice il
pittore, “come e bella la sensazione che tutto questo ci procura!”. Insegue l’impossibile sogno di
portare integralmente sulla tela il valore materiale e spirituale di quello che lo circonda; eppure il
suo atteggiamento è quello che in generale si assume davanti a una cosa molto pericolosa. Il
musicista guarda fisso a terra. Quello dell’attore è uno sguardo interiore e personale, rivolto a se
stesso. Inconsciamente egli assapora la sensazione di se stesso in atto di rappresentare la figura
primaria e centrale in una scena realmente buona. Percorre a gran passi lo spazio fra noi e il
panorama, girando in semicerchio, e guarda lo stupendo sfondo senza vederlo, conscio di una cosa
soltanto: di se stesso e del suo atteggiamento. Naturalmente un’attrice se ne starebbe lì, umile in
presenza della Natura. Essa non è che una piccola cosa, una piccola, pittoresca particella; poiché
questo è l’atteggiamento, la parte, che le conosciamo: quando sospira, pressoché non udita,
comunicando al pubblico e a se stessa che essa è lì, piccolo “ohimé” in presenza del Dio che la
creò, e tutte le altre sfumature del nonsenso sentimentale. In tal modo noi siamo tutti riuniti qui, e
dopo aver preso gli atteggiamenti a noi naturali, seguitiamo a interrogarci a vicenda. Immaginiamo
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“Perciò quando qualcuno di questi pantomimi, che sono così abili ad imitare qualunque cosa, venisse da noi e ci
proponesse di far mostra di sé e della sua poesia, noi cadremmo in ginocchio e l’adoreremmo, come un essere santo,
meraviglioso e soave; dovremmo però anche informarlo che nel nostro Stato agli esseri come lui non è permesso di
esistere: le leggi non lo consentono. E così, dopo averlo unto di mirra ed incoronato con una ghirlanda di lana, lo
dovremmo inviare in un’altra città. Perché intendiamo impiegare per la salute della nostra anima i più aspri e severi
poeti e cantori di storie, che imiteranno lo stile dei virtuosi soltanto, e seguiranno quei modelli che prescrivemmo da
principio, quando cominciammo 1’educazione dei nostri soldati”. Platone. (Per il brano completo, troppo lungo per
essere riportato qui, rimandiamo il lettore a La Repubblica, libro III, p. 395.)
[la citazione di Craig non è esatta: il passo corrisponde a La Repubblica, libro III, p. 398, A-B. (N.d.T.)]
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pure che, una volta tanto, prendiamo realmente interesse a scoprire tutto ciò che riguarda gli altri ed
il loro lavoro. (Vi garantisco che la cosa è del tutto inconsueta e che l’egoismo mentale, la più alta
forma di stupidaggine, rinchiude più di un artista riconosciuto, in un piccolo involucro
impermeabile). Ma ammettiamo che qui regni un generale interesse: che l’attore e il musicista
desiderino imparare qualcosa sull’arte della pittura; e che il pittore e il musicista vogliano sapere
dall’attore in che cosa consiste il suo lavoro, e se e per quale motivo egli lo consideri un’arte.
Poiché qui essi non racconteranno le cose per metà, ma diranno quello che pensano. Dal momento
che non hanno di mira altro che la verità, non hanno nulla da temere; sono tutti buoni compagni,
tutti buoni amici; non hanno la pelle delicata e possono dar colpi e riceverne. “Dicci un po’”,
domanda il pittore, “è vero che prima di poter recitare bene una parte devi sentire le emozioni del
personaggio che rappresenti?”. “Ebbene, sì e no; dipende da quello che vuoi dire”, risponde l’altro.
“In un primo momento dobbiamo essere in grado di sentire le emozioni di un personaggio, di
entrare in simpatia con esse e perfino di criticarle; osserviamo il personaggio da una certa distanza,
prima di identificarci con lui: cerchiamo, utilizzando quanto più possibile il testo, di richiamare alla
mente tutte le forme di emozioni atte ad esser evidenziate in questo personaggio. Dopo aver più
volte riordinate e selezionate le emozioni che riteniamo più importanti, ci esercitiamo a riprodurle
dinanzi al pubblico; e per far questo dobbiamo sentire solo quel poco che è necessario: meno
sentiamo, infatti, più saldo sarà il controllo che avremo sull’espressione facciale e su quella del
corpo”. Col gesto d’impazienza tipico del genio, l’artista si alza e comincia a camminare su e giù.
Non l’ha sorpreso sentir dire dal suo amico che le emozioni non hanno eccessiva importanza, e che
egli è in grado di controllare il volto, i tratti, la voce e così via, proprio come se il suo corpo fosse
uno strumento. Il musicista si sprofonda sempre più nella sua poltrona. “Ma c’è mai stato un
attore”, chiede l’artista, “che abbia educato il suo corpo dalla testa ai piedi al punto da ottenere una
totale sottomissione al lavoro della mente senza il benché minimo intervento delle emozioni? Senza
dubbio, ci deve essere stato un attore, diciamo uno su dieci milioni, che l’ha fatto...”. “No”, dice
con enfasi l’attore, “mai, mai; non c’è mai stato un attore che abbia raggiunto un tale stato di
perfezione meccanica da rendere il suo corpo schiavo assoluto della mente. Edmund Kean in
Inghilterra, Salvini in Italia, la Rachel, Eleonora Duse, li ho tutti presenti; eppure ripeto che non è
mai esistito un attore o un’attrice come tu immagini”. E qui l’artista domanda: “Allora tu ammetti
che ci potrebbe essere uno stato di perfezione?”. “Perché no? naturalmente. Ma è irrealizzabile, sarà
sempre irrealizzabile”, grida l’attore; e si alza, quasi con un senso di sollievo. “È come dire che non
c’è mai stato un attore perfetto, che non c’è mai stato un attore che non abbia rovinato la sua parte
una, due, dieci volte, talora cento volte in una serata? Che non c’è mai stato un brano di recitazione
che si possa dire almeno quasi perfetto, e che non ci sarà mai?”. Per tutta risposta l’attore chiede
prontamente: “Ma c’è mai stato un dipinto, o un pezzo di architettura, o un brano di musica che si
possa chiamare perfetto?”. “Senza dubbio”, rispondono gli altri. “Le leggi che governano le nostre
arti consentono una tale possibilità”. “Un quadro, per esempio”, continua l’artista, “può consistere
di quattro linee, o di quattrocento linee, tirate in certe direzioni; può essere elementare, ma è
possibile farlo perfetto. Vale a dire, io posso innanzitutto scegliere gli strumenti per disegnare le
linee, posso scegliere il materiale su cui disporle, posso, meditare per tutto il tempo che voglio,
posso cambiare; poi, in uno stato comunque libero da commozione, da fretta, da disagi e da nervosismo - praticamente in uno stato scelto da me (perché io preparo, aspetto e scelgo anche questo)
- posso buttar giù queste linee d’un tratto - così - tutto è a posto. Essendo padrone del mio
materiale, nulla eccetto la mia volontà può muoverle o mutarle; e, come ho detto, la mia volontà è
interamente sotto il mio controllo. La linea può essere diritta od ondulata; o, se voglio, può essere
curva, e non c’è rischio che se l’intenzione è fare una linea retta mi riesca curva, e se è di farne una
curva, mi venga piena di angoli. E quando tutto è pronto - finito - non è suscettibile di cambiamenti,
tranne quelli che vorrà apportare il tempo, il quale alla fine lo distruggerà”. “La cosa è piuttosto
fuori del comune”, risponde l’attore, “vorrei che fosse possibile nel mio lavoro”. “Sì”, risponde
l’artista, “è una cosa davvero straordinaria, ed è questo, io sostengo, che fa la differenza fra
un’affermazione intelligente e una casuale o accidentale. L’affermazione per eccellenza intelligente
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è opera d’arte. L’affermazione accidentale è opera del caso. Quando le affermazioni intelligenti
giungono alle forme più elevate divengono opera d’arte superiore. E per questo ho sempre
sostenuto, sebbene possa anche sbagliarmi, che il lavoro di voi attori non ha i caratteri dell’arte.
Vale a dire (e anche tu l’hai detto) che ogni affermazione fatta nel vostro lavoro è soggetta a tutte le
possibili deformazioni che 1’emozione vuole apportarvi. Quel che immaginate col pensiero, il
corpo non riesce a realizzarlo a causa della Natura. Praticamente, il corpo, prendendo il sopravvento
sull’intelligenza, ed è successo spesso sul palcoscenico, ne ha completamente travisato gli intenti.
Alcuni attori sembrano dire: ‘Che vantaggio c’è ad avere belle idee? A che scopo concepire una
bella idea, un bel pensiero, se poi il corpo, che è completamente fuori di ogni controllo, rovinerà
tutto? Tanto vale buttare a mare l’intelligenza, e lasciare che il corpo porti avanti me e lo
spettacolo’. A me sembra che ci sia della saggezza nel punto di vista di un tale attore; non sta a
gingillarsi fra le due cose che lottano in lui, una contro l’altra. Non ha il minimo timore del
risultato. Lo affronta da uomo, a volte un tantino troppo come un centauro; butta via ogni scienza,
ogni cautela, ogni ragione, ed il risultato è il buon umore degli spettatori, che per questo pagano
volentieri. Ma noi qui stiamo parlando di altre cose, non di buon umore, e benché applaudiamo
l’attore che mette in mostra una personalità di questo genere, non dobbiamo dimenticare che stiamo
applaudendo la sua personalità: è lui che acclamiamo, non quel che sta facendo o il modo in cui lo
fa: assolutamente niente a che fare con l’arte, con l’ordine o col proposito”. “Sei proprio una cara
creatura, un amico”, dice l’attore ridendo allegramente “quando mi dici che la mia attività non è
un’arte! Ma credo di capire quello che intendi. Vuoi dire che prima che io appaia sulla scena, prima
che il mio corpo cominci a entrare in gioco, io sono un artista”. “Ebbene, sì, tu lo sei, tu per caso lo
sei, perché sei un pessimo attore; sulla scena sei abominevole, ma hai idee, hai immaginazione; sei
piuttosto un’eccezione, dovrei dire. Ti ho ascoltato mentre mi dicevi come vorresti rappresentare il
Riccardo III: cosa vorresti fare, che strana atmosfera vorresti creare su tutto l’insieme; e quello che
tu hai veduto in questo lavoro, e quel che hai inventato, le aggiunte che hai apportato, sono così
notevoli, così coerenti nella concezione, così distinte e chiare nella forma, che, se potessi fare del
tuo corpo una macchina o un pezzo di materia inerte come l’argilla, e se esso ti potesse obbedire in
ogni movimento per tutto il tempo che è davanti al pubblico, e se potessi mettere da parte il poema
di Shakespeare - saresti in grado di creare un’opera d’arte, con quel che è dentro di te. Perché non
avresti sognato soltanto; avresti eseguito alla perfezione; e avresti potuto ripetere la tua esecuzione
infinite volte, senza variazioni maggiori di quelle che differenziano due monetine”. “Ah”, sospira
l’attore, “mi esponi un quadro terribile. Vorresti dimostrarmi che non abbiamo alcuna possibilità di
considerarci artisti. Distruggi il nostro sogno più bello, e in cambio non ci offri nulla”. “No, non
sono io che debbo offrire: siete voi che dovete trovare. Esisteranno certamente delle leggi basilari
nell’Arte del Teatro, così come ce ne sono alla base di tutte le arti vere, tutto sta a scoprirle, ad
impadronirsene per ottenere tutto quel che si desidera, non ti pare?”. “Già, questa ricerca porterebbe
gli attori davanti a un muro”. “Scavalcatelo, allora!”. “È troppo alto”. “Scalatelo, allora!”. “E come
possiamo sapere dove ci porterebbe?”. “Mah, in cima, e dall’altra parte”. “Sì, ma questo è parlare
da pazzi, sono discorsi vuoti”. “Ebbene, questa è la direzione che voi, compagni, dovete seguire:
volare nell’aria, vivere nell’aria. Quando uno di voi avrà cominciato, qualcosa avverrà”. “Penso”,
continua il pittore, “che presto troverete il bandolo della matassa, e allora che splendido avvenire vi
si aprirà dinanzi! In realtà, vi invidio. Se la fotografia fosse stata inventata prima della pittura - a
volte credo di desiderarlo -, noi di questa generazione avremmo potuto provare l’intensa gioia di
progredire, mostrando che la fotografia è una cosa valida nel suo genere, ma che c’è qualcosa di
meglio!”. “Tu pensi che il nostro lavoro sia allo stesso livello della fotografia?”. “No, davvero, non
ha neppure la metà della sua precisione, è meno artistico della stessa fotografia. Praticamente, tu ed
io, che abbiamo parlato tutto questo tempo mentre il musicista se ne e stato seduto in silenzio,
sprofondandosi sempre più nella poltrona..., le nostre arti, voglio dire, in confronto alla sua sono
scherzi, giochetti, assurdità”. Al che il musicista se ne viene fuori a rovinar ogni cosa, alzandosi e
dando via libera a osservazioni prive di senso. L’attore immediatamente grida: “Non trovo proprio
che questa sia un’osservazione tanto acuta per un rappresentante dell’unica arte di questo mondo”,
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al che tutti si mettono a ridere - il musicista fra imbarazzato e cosciente della gaffe. “Mio caro
amico, questo accade proprio perché lui è un musicista. Non è nulla fuori del campo della sua
musica. Praticamente, è alquanto limitato, eccetto quando parla in termini di note, toni, semitoni e
cose del genere. Egli conosce appena la nostra lingua, conosce appena il nostro mondo, e più
grande è il musicista, più questo fatto è evidente; è davvero un brutto segno quando ti imbatti in un
compositore che è intelligente. Quanto al musicista intellettuale,... vale, a dire un...; ma non
dobbiamo pronunciare il suo nome qui: è così popolare, oggi. Che attore sarebbe stato quest’uomo,
che personalità aveva! Capisco che per tutta la vita ha covato il desiderio struggente di fare l’attore,
e credo che sarebbe stato un eccellente commediante; mentre invece divenne musicista - o autore
drammatico? In ogni modo tutto ciò dette luogo a un gran successo - un successo di personalità”.
“Non era un successo artistico?” chiede il musicista. “Ma di che arte parli? Oh, di tutte le arti
combinate insieme”, risponde quello, scioccamente ma con placidità. “Come può essere? Come
possono tutte le arti combinarsi insieme e fare un’arte sola? Così si può produrre soltanto uno
scherzo - soltanto... un teatro. Le cose che lentamente, per legge naturale, si uniscono insieme
possono, nel corso di molti anni o di molti secoli, acquistare un certo diritto di chiedere che la
Natura dia alla loro fusione un nome nuovo. Soltanto in questo modo può sorgere un’arte nuova.
Non credo che l’antica Madre approvi i processi forzati; e se mai chiude un occhio, presto si prende
la rivincita: così è delle arti. Non puoi mescolarle e poi proclamare che hai creato un’arte nuova. Se
sei in grado di trovare in Natura un materiale nuovo, che non sia mai stato usato dall’uomo per
dar forma ai suoi pensieri, allora puoi dire che sei sulla strada buona per creare una nuova arte.
Perché hai trovato ciò con cui la puoi creare. Poi non ti rimane altro che cominciare. Il teatro,
come io lo vedo, deve ancora scoprire questo materiale”. E qui finisce la conversazione.
Per parte mia, io son d’accordo con l’ultima affermazione dell’artista. Non proverò affatto
piacere nel competere col valente fotografo, e aspirerò sempre a qualcosa di completamente
opposto alla vita come la vediamo. Questa vita di carne e sangue, che noi tutti amiamo, non è per
me qualcosa in cui frugare e da mettere in mostra davanti al mondo, sia pure in forma
convenzionale. Credo che la nostra aspirazione debba essere piuttosto cogliere una lontana, breve
visione di quello spirito che chiamiamo Morte - evocare cose belle dal mondo immaginario; dicono
che sono fredde, quelle cose morte, io non so - spesso sembrano più calde e più vive di ciò che si
ostenta come vita. Ombre - spiriti mi sembrano essere più belli e vitali che uomini e donne,
invischiati in meschinità, oggetti inumani, enigmatici: gelidissimo gelo, angustissima umanità.
Considerando abbastanza a lungo le cose della vita, non scopriremo forse che non sono né belle, né
misteriose, né tragiche, ma inerti, melodrammatiche, sciocche, e che cospirano contro la vitalità contro ogni calore? E da tali cose, a cui manca il sole della vita, non si può trarre ispirazione. Come
da quella vita misteriosa, gioiosa, di una perfezione estrema, che si chiama Morte - vita d’ombre e
d’immagini sconosciute, dove non è vero che tutto sia oscurità e nebbia, come s’immagina, ma al
contrario vividi colori, vivida luce, nitide forme; popolata di figure strane, fiere, solenni, pacate,
sospinte verso una meravigliosa armonia di movimento: da tutto questo è possibile trovare
ispirazione. E tutto questo è qualcosa di più che una semplice realtà effettiva. Da quest’idea della
morte che sembra una specie di primavera, una fioritura - da questa contrada e da questa idea può
giungere una ispirazione così vasta, che, con risoluta esultanza, io mi slancio verso di lei; e guardate! - in un attimo, mi trovo le braccia piene di fiori. Non faccio che un passo o due, e di
nuovo l’abbondanza mi circonda. Traverso senza fatica un mare di bellezza, veleggio dovunque i
venti mi portino; là, là non c’è pericolo. Questo è il mio sogno; ma tutto il teatro del mondo non si
identifica con la mia persona, né con un centinaio di artisti o attori, ma con qualcosa di assai
differente. Perciò le mie aspirazioni personali contano poco. Tuttavia la meta cui tende il teatro in
generale è di reintegrare l’arte che gli è propria; bisognerebbe allora cominciare col bandire dal
teatro quest’idea dalla personificazione, quest’idea di riprodurre la Natura; poiché, fin tanto che
essa rimarrà nel teatro, esso non potrà mai diventare libero. Gli attori dovrebbero educarsi seguendo
le norme di un insegnamento meno attuale (se i princìpi ancora più antichi e più belli sono troppo
difficili per iniziare) e così eviteranno quel folle desiderio di immettere vita nel loro lavoro, perché
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sempre questo vuol dire portare sulla scena gesti eccessivi, una mimica affettata, discorsi altisonanti
e una scenografia abbagliante, nella vana e sfrenata illusione che con un sistema del genere si possa,
magicamente, evocare la vitalità. Il che in pochi casi, a confermare la regola, riesce, e solo parzialmente. Riesce imparzialmente alle impetuose personalità della Scena. Per loro è un vero caso di
trionfo, malgrado le regole, proprio a dispetto delle regole, e noi che guardiamo buttiamo in aria i
cappelli e gridiamo evviva. Siamo costretti ad agire così; non vogliamo metterci ad analizzare o a
impostare problemi: seguiamo la corrente, ci abbandoniamo all’ammirazione e alla suggestione.
Che questo sia solo una sorta di ipnotismo, il nostro gusto se ne infischia: siamo felici d’essere così
commossi, e saltiamo letteralmente dalla gioia. La grande personalità ha avuto ragione
contemporaneamente di noi e dell’arte. Ma le personalità di questo genere sono estremamente rare,
e, se desideriamo vedere una personalità affermarsi in campo teatrale, e trionfare completamente
come attore, dobbiamo nello stesso tempo essere del tutto indifferenti all’opera rappresentata e agli
altri attori, alla bellezza e all’arte.
Quelli che non la pensano come me su tutta questa faccenda sono coloro che adorano,
ammirano, rispettosamente, le personalità della Scena. Essi non tollerano la mia affermazione che la
Scena debba essere ripulita di tutti i suoi attori ed attrici, prima di poter tornare a vivere di nuovo. E
come potrebbero condividere la mia idea? Questo comporterebbe l’esclusione dei loro favoriti - i
due o tre esseri che per loro trasformano la scena da un volgare scherzo in una terra ideale. Ma che
cosa possono temere? Non c’è alcun pericolo per i loro favoriti - perché se pure fosse possibile
emanare una legge che proibisse a tutti, uomini e donne, di apparire davanti al pubblico sulla scena
di un teatro, essa non danneggerebbe in alcun modo quegli uomini e donne di grande personalità, a
cui il pubblico teatrale dà la corona. Supponiamo che alcuni di loro fossero nati in un’epoca in cui
la Scena era sconosciuta; forse ciò avrebbe in qualche modo diminuito il potere - o impedito loro di
esprimersi? Niente affatto. Le personalità eccezionali trovano sempre i modi e gli strumenti con cui
esprimersi; e la recitazione è soltanto uno - il minore, tra quelli disponibili; perciò questi uomini e
donne sarebbero stati comunque famosi in ogni tempo e in ogni attività. Ma se ad alcuni riesce
intollerabile la mia proposta di ripulire la Scena di TUTTI gli attori e le attrici, nell’intento di
restaurare l’Arte del Teatro, ve ne sono altri ai quali tale proposta è gradita.
“L’Artista”, dice Flaubert, “dovrebbe essere nel suo lavoro simile a Dio nella creazione:
invisibile e onnipotente; si dovrebbe sentire la sua presenza dovunque senza vederlo in nessun
luogo. L’Arte dovrebbe essere elevata al di sopra degli affetti e delle suscettività nervose13. È tempo
ormai di darle la perfezione delle scienze fisiche per mezzo di un metodo rigoroso”. E ancora: “Io
ho sempre cercato di non sminuire l’Arte per soddisfare una personalità isolata”. Egli allude
principalmente all’arte letteraria; ma se la sua opinione è così intransigente riguardo allo scrittore, a
colui cioè che di fatto non si vede mai, ma si rivela soltanto per metà attraverso la sua opera,
immaginiamo quale resistenza avrebbe opposto alla presenza effettiva dell’attore - personalità o non
personalità.
Charles Lamb dice: “Assistere alla rappresentazione del Re Lear, vedere un vecchio
vacillante che va in giro con un bastone, cacciato fuori di casa dalle figlie, in una notte di pioggia,
suscita solo pietà e disgusto, null’altro. Vien voglia di offrirgli rifugio, ecco tutto quel che ho
sentito, ogni qualvolta ho assistito ad una rappresentazione di Re Lear. Il macchinario con cui si fa
1’imitazione della tempesta, in mezzo a cui egli si trova, per quanto rudimentale è sempre più
adatto a rappresentare l’orrore degli elementi naturali che non un attore a fare la parte di Lear. Più
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“Pulcinella non ha sentimenti,” borbottava il dottor Johnson.
Una sera, mentre Garrick recitava Re Lear, il dottor Johnson e il drammaturgo Murphy stavano fra le quinte e
conversavano a mezza voce. Garrick, uscendo di scena, passò loro vicino e li rimproverò: “Parlate così forte,” disse,
“che disturbate il mio sentimento”. “Pulcinella non ha sentimenti”, replicò il dottore. Questo è vero e non è vero.
Pulcinella non è Garrick, e il dottore aveva ragione di augurarsi che Garrick arrivasse all’impersonalità di Pulcinella.
Senonché Garrick non poteva sottomettersi a ciò che voleva Johnson. “Pulcinella non ha sentimenti, bravo Pulcinella”,
borbottava il dottore, vedendo Garrick allontanarsi, “mentre Garrick ne ha, ed è tanto peggio per l’attore”. [Nota
aggiunta dall’Autore per l’edizione francese.]
50
agevole sarebbe il proposito di portare sulla scena il Satana di Milton, oppure una delle terribili
figure di Michelangelo - quanto a Lear, è essenzialmente impossibile rappresentarlo sulla scena”.
“L’Amleto stesso sembra quasi impossibile da rappresentare”, scrive William Hazlitt.
Dante nella Vita Nova ci dice che, in sogno, Amore gli apparve nelle vesti di un giovane.
Ragionando di Beatrice, Amore dice a Dante: “voglio che tu dica certe parole per rima, ne le quali
tu comprendi la forza che io tegno sopra te per lei... Queste parole, fa che siano quasi un mezzo, sì
che tu non parli a lei immediatamente, che non è degno”14. E ancora: “Avvenne poi che passando
per uno cammino lungo lo quale sen gìa uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontade di dire,
che io cominciai a pensare lo modo ch’io tenesse; e pensai che parlare di lei non si convenìa che io
facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona...”15. Vediamo dunque che per uomini di tal
fatta è sconveniente che la persona viva si inserisca nel quadro e faccia mostra di sé sopra la tela.
Essi considerano tutto ciò sconveniente - indegno.
Abbiamo qui testimoni contrari all’intero sistema del teatro moderno. Collettivamente essi
pronunciano la seguente sentenza: è arte deteriore quella che si serve di mezzi così violenti, così
commoventi, da far dimenticare allo spettatore il fatto in sé, travolgendolo con la personalità
dell’attore, con la commozione che egli comunica. E ora ecco la testimonianza di un’attrice.
Eleonora Duse ha detto: “Per salvare il Teatro, bisogna distruggere il Teatro, gli attori e le attrici
devono tutti morire di peste... Essi rendono l’arte impossibile”16. Possiamo crederle. Lei vuol dire
quello a cui alludevano Flaubert e Dante, sia pure con parole differenti. E vi sono molte
testimonianze ancora, in mio favore, se questa non sembra abbastanza probante. C’è gente che non
va mai a teatro, milioni di persone, rispetto alle migliaia che ci vanno. Poi abbiamo l’appoggio della
maggior parte degli impresari del teatro d’oggi. L’impresario moderno pensa che sulla scena
vadano presentati lavori con scenografie sontuose. Dice che non si deve risparmiare alcun sacrificio
pur di dare agli spettatori l’illusione della realtà. Ci fa notare di continuo l’importanza che ha tutto
questo sfarzo scenico. Insiste su tutto ciò per parecchi motivi, fra cui il seguente non è il meno
importante: egli sente che un lavoro semplice e buono rappresenta un grave pericolo; vede che
esiste una quantità di gente, contraria a questo spreco di decorazioni; sa che c’è stato in Europa un
notevole movimento contro 1’enormità di questo sfarzo, e che si è preteso dire che i grandi lavori ci
guadagnano ad essere rappresentati con il più semplice sfondo. Si può provare che questo
movimento d’opinione è potente e diffuso da Cracovia a Mosca, da Parigi a Roma, da Londra a
Berlino e a Vienna. Gli impresari avvertono questo pericolo davanti a loro, intuiscono che se a un
certo momento la gente riuscisse a rendersi conto di questo fatto, se una sola volta gli spettatori
gustassero il piacere che dà una rappresentazione a scena nuda, allora presto andrebbero oltre e
vorrebbero drammi senza attori, e, alla fine, andrebbero ancora più avanti, e sarebbero loro, in
effetti, non gli impresari, ad aver riformato l’Arte.
Si racconta che Napoleone abbia detto: “Nella vita c’è molto d’indegno, che nell’Arte
dovrebbe essere omesso; molto di dubbio e di incerto; e tutto questo dovrebbe sparire nella
rappresentazione dell’eroe. Noi dovremmo vederlo come una statua, dove le debolezze o i tremiti
della carne non siano più percettibili”. E non solo Napoleone, ma Ben Jonson, Lessing, Edmund
Scherer, Hans Christian Andersen, Lamb, Goethe, George Sand, Coleridge, Anatole France,
Ruskin, Pater17 e suppongo tutti gli uomini e le donne intelligenti d’Europa - senza parlare
14
Dante, Vita Nova, cap. XII.
Dante, op. cit., cap. XIX.
16
Cfr. Arthur Symons, Studies in Seven Arts, Constable, 1900.
17
Sulla scultura Pater scrive: “La sua luce bianca, monda dalle irose sanguigne macchie dell’azione e della passione,
rivela non quel che c’è di contingente nell’uomo, ma il dio che è in lui e si contrappone all’inquieto agitarsi umano”. E
ancora: “La base di ogni genio artistico è il potere di concepire l’umanità in un modo nuovo, sorprendente, gioioso, di
mettere un proprio mondo felice, una costruzione personale, al posto di quello mediocre di ogni giorno, di creare
intorno a tutto ciò l’atmosfera capace di nuove rifrazioni, scegliendo trasformando combinando in modo nuovo le
immagini che essa trasmette, secondo una selezione dell’intelligenza fantastica”. Ancora: “Tutto ciò che è contingente,
tutto quel che distoglie dal semplice effetto che fanno su noi i tipi supremi dell’umano, ogni traccia di volgarità in essi,
la scultura gradualmente l’elimina”.
15
51
dell’Asia, perché in Asia persino le persone non dotate sono incapaci di comprendere le fotografie,
mentre capiscono l’arte in quanto manifestazione semplice e chiara - hanno protestato contro la
riproduzione della Natura, con il suo scialbo realismo fotografico. Hanno protestato contro tutto
ciò, e gli impresari si sono messi a polemizzare con loro: c’è da aspettarsi che al momento buono
salti fuori la verità. È una conclusione ragionevole. Fatela finita con l’albero reale sulla scena, fatela
finita con la realtà della dizione, con la realtà dell’azione, e arriverete a farla finita con l’attore.
Questo è quanto a suo tempo dovrà accadere, e mi piace veder gli impresari appoggiare l’idea fin da
questo momento. Fatela finita con l’attore, e i mezzi con i quali si attua e fiorisce un degradante
realismo scenico avranno cessato di esistere. Non dovrebbe più esserci una figura viva atta solo a
confonderci, facendo tutt’uno di “quotidiano” e arte; non una figura viva nella quale siano
percettibili le debolezze ed i tremiti della carne18.
L’attore deve andarsene, e al suo posto deve intervenire la figura inanimata - possiamo
chiamarla la Supermarionetta,19 in attesa di un termine adeguato. Molto è stato scritto sul burattino,
sulla marionetta. Sono stati dedicati loro degli ottimi volumi, e hanno pure ispirato parecchie opere
d’arte. Oggi, che la marionetta attraversa il suo periodo meno felice, molta gente la considera come
una bambola di tipo un po’ superiore - e pensa che sia una derivazione di quest’ultima. Il che è
inesatto. La marionetta discende dalle immagini di pietra dei templi antichi - e attualmente è una
figura di un Dio alquanto degenerata. Anche se resta sempre la più cara amica dei bambini, sa
ancora come scegliere ed attrarre i suoi sostenitori.
Quando qualcuno disegna un pupazzo sulla carta, disegna una figura imbalsamata e comica;
costui non ha mai pensato al significato più profondo dell’idea che noi chiamiamo marionetta. Egli
prende per vuota stupidità e per deformità angolosa la gravità della faccia e l’immobilità del corpo.
Eppure anche i burattini moderni sono cose straordinarie. Se gli applausi scrosciano o se al
contrario sono fiacchi, nei loro cuori il battito non accelera, né rallenta, i loro gesti non diventano
precipitosi o inesatti e, sebbene inondato da un torrente di fiori e d’ammirazione, il volto della
prima attrice rimane solenne, bello e remoto, come sempre. C’è qualcosa di più che un lampo di
genio nella marionetta, c’è qualcosa di più del bagliore di una personalità ostentata. La marionetta
m’appare come l’ultima eco dell’arte nobile e bella di una civiltà passata. Ma, come avviene con
tutte le arti che son cadute in mani rozze e volgari, il pupazzo è diventato una cosa indegna. Tutti i
burattini non sono ora che dei bassi commedianti.
Essi imitano i commedianti della scena vivente più grande e più completa. Entrano in scena
soltanto per cadere col sedere a terra. Bevono soltanto per barcollare, e fanno all’amore soltanto
perché la gente rida. Hanno dimenticato il consiglio della loro madre, la Sfinge. I corpi dei burattini
hanno perduto la loro grazia complessa: sono diventati rigidi. Gli occhi hanno perduto quella
infinita astuzia del far finta di vedere: ora sono soltanto sbarrati. Essi ostentano e fanno tintinnare i
loro fili metallici, e sono diventati eccessivamente tronfi nella loro saggezza di legno. Non si
ricordano più che l’arte loro dovrebbe recare in sé lo stesso suggello di riservatezza, che vediamo
qualche volta nel lavoro degli altri artisti, e che l’arte più alta è quella che nasconde ogni artificio,
non reca più traccia dell’artefice. Se non sbaglio, è l’antico Viaggiatore greco dell’Ottocento avanti
Cristo20 che, descrivendo una visita al tempio-teatro di Tebe, ci racconta come fosse soggiogato
dalla bellezza dei burattini grazie alla loro “nobile artificialità”. “Entrando nella sala delle Visioni
io vidi in lontananza la bella bruna Regina seduta sul trono - sulla sua tomba - mi sembrò infatti che
fosse l’una e l’altra cosa. Caddi a sedere e mi misi a osservare i suoi movimenti simbolici. Ogni
ritmo mutava in lei con tanta dolcezza trasmettendosi insieme al movimento da un membro
18
Da un altro punto di vista, che però non va trascurato o discusso con leggerezza, il cardinale Manning, inglese, è
particolarmente energico quando parla del mestiere dell’attore come di un mestiere che comporta “la prostituzione di un
corpo purificato dal battesimo”.
19
Nel testo inglese: Über-Marionette, vocabolo coniato sull’esempio dell’Über-Mensch nietzschiano. [N.d.T.]
20
L’antico Viaggiatore greco, a cui Craig allude qui, può essere soltanto Erodoto. Senonché, oltre all’evidente
anacronismo, essendo Erodoto vissuto nel V secolo a. C., il brano citato non trova riscontro nel II libro delle “Storie”
erodotee, che ha per argomento l’Egitto. [N.d.T.]
52
all’altro, con tanta evidente serenità discioglieva i pensieri della sua anima; con tale gravità e
bellezza indugiava nell’affermare il suo dolore, che mi dette l’impressione di essere insensibile a
qualsiasi sofferenza; non un tremito nelle membra o nell’atteggiamento tradiva il sopravvento delle
passioni: queste erano di continuo riafferrate dalle sue mani che ella muoveva soavemente e mirava
con tranquillità. Le braccia e le mani sembrarono ad un tratto simili a un sottile caldo getto d’acqua,
che s’innalzi, poi frantumandosi cada con dolci pallidi rivi simili a dita come pioggia nel suo
grembo. L’avrei considerata una rivelazione d’arte se non avessi già veduto lo stesso spirito negli
altri esempi dell’arte di questi Egiziani. Quest’Arte di Rivelare e di Velare, com’essi la chiamano, è
una loro forza spirituale così grande, da costituire nella religione la parte preponderante. Da essa
possiamo apprendere qualcosa sul potere e sulla grazia del coraggio, perché è impossibile essere
testimone di un tale spettacolo senza provare un senso di ristoro fisico e spirituale”. Questo
nell’Ottocento avanti Cristo. Chissà che i burattini non diventino una volta ancora il fedele mezzo
d’espressione dei pensieri dell’artista. È proibito forse sperare che il futuro ci riporterà ancora
l’immagine o creatura simbolica, anch’essa costruita dalla destrezza dell’artista, consentendoci di
riconquistare quella “nobile artificialità”, di cui parla l’antico scrittore? Allora non subiremo più la
crudele influenza delle sentimentali confessioni di debolezza, alle quali la gente assiste ogni sera, e
che inducono negli spettatori stessi la debolezza che mettono in mostra. Per questo dobbiamo
cercare di ricostruire quelle immagini - e non accontentarci più del burattino: dobbiamo creare la
Supermarionetta. La Supermarionetta non competerà con la vita - ma piuttosto andrà oltre. Il suo
ideale non sarà la carne e il sangue ma piuttosto il corpo in catalessi: aspirerà a vestire di una
bellezza simile alla morte, pur emanando uno spirito di vita. Parecchie volte, nel corso di questo
saggio, sono timidamente apparse sulla carta alcune parole intorno alla Morte - dal grido incessante
di “Vita! Vita! Vita!” che i realisti emettono in continuazione. Questa può essere facilmente presa
per affettazione, specialmente da chi non ha simpatia o non trova nessun piacere nel potere e nella
misteriosa gioia di tutte le opere d’arte scevre di passione. Se il famoso Rubens e il celebre
Raffaello non crearono che espressioni appassionate ed esuberanti, vi furono pero molti artisti,
prima e dopo di loro, per i quali la moderazione nell’arte fu il sogno più prezioso, e questi più di
tutti gli altri diedero prova di uno stile veramente virile. Gli altri artisti esuberanti o tiepidi, le cui
opere ed i cui nomi ottengono il favore dei moderni, non si esprimono da uomini, ma gridano
piuttosto come animali, o cianciano come donne.
I saggi, i moderati maestri, forti delle leggi, alle quali giurarono di restare sempre fedeli - i
loro nomi ignoti - sono i creatori dei grandi e piccoli dèi dell’Oriente e dell’Occidente, i guardiani
di quei templi più grandi: essi protesero i loro pensieri verso 1’ignoto, cercando panorami e armonie
in quella contrada pacifica e amena, per poter innalzare un’immagine di pietra o cantare un verso,
imprimendogli quella pace e quella gioia che avevano intravisto lontano e che li compensava della
tumultuosa angoscia terrena.
In America possiamo immaginare i membri di quella famiglia di maestri, viventi nelle loro
superbe antiche colossali città, che mi piace pensare potessero spostarsi in un sol giorno; città fatte
di spaziose tende di seta e di baldacchini d’oro, sotto cui dimoravano i loro dèi; abitazioni atte a
soddisfare le esigenze dell’uomo più incontentabile; quelle città nobili che, durante le migrazioni
dalle alture al piano, sopra i fiumi ed in fondo alle valli, somigliavano quasi a grandi eserciti di pace
in marcia. E in ciascuna città non vi erano solo uno o due uomini, chiamati “artisti”, a cui il resto
della popolazione guardava come a dei poltroni buoni a nulla, ma molti, scelti per il loro più alto
potere di percezione. Perché questo è il significato di “artista”: un uomo che percepisce più dei suoi
simili, e afferra più di quanto ha veduto. E non ultimo fra quegli artisti, c’era il maestro delle
cerimonie, il suscitatore delle visioni, il ministro il cui dovere era di celebrare lo spirito che li
guidava - lo spirito del Movimento.
Anche in Asia i dimenticati maestri dei templi e di tutto ciò che essi contenevano hanno
permeato ogni pensiero, ogni traccia del loro lavoro di questo senso di tranquillo movimento,
evocatore della morte - glorificandolo ed esaltandolo. Anche in Africa (che secondo alcuni,
comincia solo adesso a essere civilizzata) dimorò questo spirito, essenza di perfetta civiltà. Là pure
53
vissero i grandi maestri, i quali non erano individui ossessionati dall’idea di esaltare ciascuno la
propria personalità quasi fosse una cosa preziosa e potente, ma gente paga che una sacra pazienza
muovesse i loro cervelli e le loro dita nella sola direzione permessa dalle leggi - a servizio delle
semplici verità.
Quanto la legge fosse severa e come poco 1’artista di quei tempi si permettesse di far mostra
dei suoi sentimenti personali, si può constatare osservando un qualunque esempio dell’arte egizia.
Guardate ogni membro scolpito dagli Egiziani, frugate dentro quegli occhi intagliati: essi vi
respingeranno fino al giudizio universale. Il loro atteggiamento è così silenzioso, che somiglia alla
Morte. Pure c’è una tenerezza, c’è un fascino; sempre la grazia si accompagna alla forza; 1’amore
emana da ogni singola opera; ma 1’esuberanza, 1’emozione, la vanitosa personalità dell’artista? non un solo cenno di tutto questo. I dubbi angosciosi, il travaglio interiore? - assolutamente nulla.
La strenua risolutezza? - non un segno di ciò è sfuggito all’artista, nessuna di queste confessioni:
stupidaggini. Non l’orgoglio, non timore né comicità, nessun segno che la mente o la mano
dell’artista fossero anche solo per una frazione di un attimo fuori del controllo delle leggi che lo
disciplinavano. Che cosa meravigliosa! Questo è essere grandi artisti: la quantità di effusioni
sentimentali di oggi e di ieri non sono segni di suprema intelligenza, vale a dire non sono segni di
arte suprema. Questo spirito venne in Europa, si librò sulla Grecia, a stento poté essere allontanato
dall’Italia, ma finalmente fuggì, lasciando un piccolo fiume di lacrime - perle - davanti a noi. E noi,
dopo averne calpestate la maggior parte, dopo averle divorate insieme alle ghiande del nostro pasto,
siamo andati oltre e abbiamo mangiato di peggio, ci siamo prostrati davanti ai cosiddetti “grandi
maestri”, ed abbiamo onorato queste pericolose e sfavillanti personalità. Un giorno infausto
pensammo, nella nostra ignoranza, che essi fossero stati mandati per rappresentarci, che fossero
venuti ad esprimere i nostri pensieri, infine che quanto ispirava la loro architettura e la loro musica
in qualche modo ci riguardasse. E fu così che arrivammo a pretendere di poterci riconoscere in tutto
ciò a cui avevano posto mano: dovevamo esser presenti nella loro architettura, nella loro scultura,
nella loro musica, nella pittura e nella poesia; e li incitammo perfino ad invitarci con le parole
familiari: “Venite su, non vi formalizzate”.
Gli artisti, dopo molti secoli, hanno finito col cedere, e ci hanno dato ciò che chiedevamo. E
avvenne che, quando questa ignoranza ebbe allontanato il chiaro spirito che un tempo aveva
governato la mente e la mano dell’artista, uno spirito oscuro prese il suo posto: il predone insolente
sul trono della legge - vale a dire uno stupido spirito al potere; e ognuno cominciò a gridare al
Rinascimento! mentre i pittori, i musicisti, gli scultori, gli architetti gareggiavano senza sosta l’uno
contro l’altro per soddisfare alla richiesta: che ogni cosa fosse fatta in modo che tutti potessero in
qualche modo trovarvi la propria impronta.
Saltarono fuori ritratti con facce congestionate, occhi incavati, bocche contorte, dita rattratte
nell’ansia di uscire dalla loro forma, giunture dalle quali sporgevano vene gonfie; tutti i colori alla
rinfusa, tutte le linee in tumulto, simili ai deliri di un pazzo. La forma sconfina nel delirio, il
bisbigliare tranquillo e fresco della vita estatica, che un tempo aveva ispirato una speranza così
ineffabile, avvampa in fiamme e si annienta: al suo posto - il realismo, l’ottusa affermazione della
vita, una cosa che ognuno accetta e fraintende insieme. Una cosa lontanissima dal fine dell’arte, che
non è quello di riflettere i fatti quotidiani di questa vita; perché non è proprio dell’artista camminare
dietro le cose, avendo al contrario conquistato il privilegio di precederle - di guidarle. Piuttosto la
vita dovrebbe riflettere la traccia dello spirito, poiché fu lo spirito, che primo scelse l’artista perché
narrasse la sua bellezza21. E per una tale pittura, anche prendendo la forma dalla vita per la sua
bellezza e fragilità, il colore dev’esser cercato nella sconosciuta terra dell’immaginazione, la quale
che altro è, se non la contrada dove abita ciò che noi chiamiamo Morte? Vedete: non è per
leggerezza o per vanità che io parlo dei burattini e del loro potere di trattenere nel volto e nella
forma quelle espressioni belle e lontane, anche quando sono sottoposte a una pioggia di lodi, a un
21
“Tutte le forme sono perfette nella mente del poeta: ma esse non sono tratte fuori dalla Natura o composte a sua
immagine: esse vengono dall’Immaginazione”. William Blake.
54
torrente di applausi. Vi sono persone che hanno preso in giro questi burattini. “Burattino” è in
genere un termine spregiativo, sebbene ci sia ancora qualcuno che trova in queste figurine, pure
così degenerate, della bellezza.
Parlare di burattini suscita in molti, uomini e donne, un riso insensato. Pensano subito ai fili,
pensano alle mani rigide e ai movimenti irregolari; dicono: “È un bamboccio ridicolo”. Ma
lasciatemi dir loro alcune poche cose intorno a questi burattini. Lasciate ch’io ripeta loro che i
fantocci sono i discendenti di una grande e nobile famiglia d’Immagini, immagini che erano
davvero “fatte a somiglianza di Dio”; e che molti secoli or sono queste figure avevano un
movimento ritmico e non a scatti. Non avevano bisogno di fili metallici che li sostenessero, né
parlavano attraverso il naso del manovratore nascosto. (Povero Pulcinella, io non volevo
disprezzarti! Tu stai solo, più grande nella tua disperazione, a guardare indietro nei secoli con le
lacrime dipinte umide ancora sulle tue gote antiche, e sembri gridare supplichevolmente al tuo cane:
“Sorella Anna, sorella Anna, non viene nessuno?”. Poi con una delle tue magnifiche bravate volgi
l’impeto del nostro riso - e delle mie lacrime - sopra te stesso con quello strillo acuto che giunge al
cuore: “Oh, il mio naso! Oh, il mio naso! Oh, il mio naso!”) Voi credete, signore e signori, che
questi burattini siano sempre stati delle cosine alte una spanna?
No davvero! Il fantoccio ebbe un tempo una forma più generosa della vostra.
Credete che egli sgambettasse su di una piccola piattaforma di due metri quadrati, fatta in
modo da somigliare a un teatrino all’antica, e costruita in modo che la testa del burattino giungesse
a sfiorare il soffitto del proscenio? E credete che abbia sempre abitato in una casetta con porte e
finestre piccole come quelle di una casa di bambola, con le persiane dipinte divise nel centro, e con
i fiori nel giardinetto pieni di petali sgargianti grandi come la sua testa? Cercate di cacciare del tutto
queste idee dalla vostra mente, e lasciate che vi dica qualcosa della sua abitazione.
In Asia si stende il suo primo regno. Sulle rive del Gange gli costruirono la sua casa, un
vasto palazzo che fra colonna e colonna si levava nell’aria e si immergeva nell’acqua. Circondata
da giardini si stendeva calda e ricca di fiori e rinfrescata da fontane: giardini dentro i quali non
penetrava alcun rumore, nei quali quasi nulla si muoveva. Soltanto nelle fresche, segrete camere di
questo palazzo si agitavano senza tregua le menti rapide dei servitori. Stavano preparando una festa
che gli si addicesse, una festa per onorare lo spirito che gli aveva dato la vita. Poi, un giorno, aveva
luogo la cerimonia.
A questa cerimonia egli prendeva parte: l’ennesima celebrazione in lode della Creazione;
l’antico atto di grazia, l’evviva all’esistenza, ed insieme il più severo inno al privilegio
dell’esistenza futura, che è velata dalla parola Morte. E durante la cerimonia apparivano, davanti
agli occhi, dei bruni adoratori, i simboli di tutte le cose esistenti sulla Terra e nel Nirvana. Il
simbolo dell’albero bello, il simbolo delle colline, i simboli dei ricchi minerali racchiusi nelle
colline; il simbolo della nube, del vento, e di tutte le cose alate; il simbolo del pensiero, del ricordo,
più veloce di ogni altra cosa; il simbolo dell’animale, il simbolo di Budda e dell’Uomo - ed eccola
giungere, la figura, il burattino di cui voi tutti ridete tanto. Voi oggi ridete di lui, perché non gli
rimangono che le sue debolezze. Egli le riflette da voi; ma non avreste riso, se l’aveste veduto
all’epoca del suo splendore quando era chiamato a rappresentare il simbolo dell’uomo nella grande
cerimonia, quando, nel suo incedere, era l’immagine stessa della gioia del nostro cuore. Se noi
ridessimo ed insultassimo la memoria del fantoccio, dovremmo ridere della caduta che abbiamo
prodotta in noi stessi - ridere delle fedi e delle immagini che abbiamo spezzate22. Pochi secoli dopo
22
Chiunque comprenda il valore della maschera e dei veli e li apprezzi si affianca allo scultore, all’architetto, all’orafo,
al tipografo. Credete che il più modesto di loro disprezzi la materia che lavora? Credete che il proto che compone la sua
pagina non provi alcun sentimento per i suoi servi fedeli, i caratteri di stampa? Credete che egli permetta a qualcuno di
toccare le sue cassette? o che non si affezioni al conio, alla balestra e agli altri suoi collaboratori inanimati? La spada
non è più cara al soldato di quanto lo sia il compositoio al tipografo. Osservate come lo scultore ama e accarezza la
fredda pietra che collabora con lui alla sua opera. Avete notato come la guarda? L’avete visto scegliere qualche bel
blocco di marmo o di granito? Egli non lo attacca come fa il domatore con una belva non ancora domata; non c’è lotta
per decidere chi vincerà; non c’è zuffa fra animale e animale. Si tratta qui di tutt’altra cosa. Lo scultore confida
55
troviamo la sua casa un po’ più logora per l’uso. Da un tempio che era è divenuta, non dirò un
teatro, ma qualcosa tra il tempio e il teatro, e in essa egli va perdendo la sua salute. Qualcosa è
nell’aria. I dottori gli dicono che deve stare attento. “Cosa devo temere di più?” egli domanda. Gli
rispondono: “Temi soprattutto la vanità degli uomini”. Egli pensa: “Questo è quel che io stesso ho
insegnato; questa è la paura che ho previsto per noi che celebriamo con gioia questa nostra
esistenza. È possibile che io, l’unico ad aver rivelato questa verità, debba essere l’unico a perderne
la nozione, debba essere uno dei primi a cadere? È chiaro che si sta tramando insidiosamente contro
di me. Terrò gli occhi rivolti al cielo”. E congeda i suoi dottori e medita su ciò.
E ora lasciatevi dire chi fu che venne a turbare l’aria tranquilla che circondava questa
singolare cosa perfetta. Si racconta che molto tempo dopo egli prese dimora sulle coste
dell’Estremo Oriente, e qui vennero due donne a guardarlo. Nella cerimonia alla quale esse
assistettero, egli fiammeggiò di tanto vivo splendore terreno, ma anche di una semplicità tanto
ultraterrena, che - al contrario delle altre millenovecentonovantotto anime che partecipavano alla
festa, nelle quali si provocò uno stato d’estasi che illuminava la mente anche se l’ubriacava - in
queste due donne si provocò soltanto un’ubriacatura. Egli non le vide, gli occhi fissi al cielo, ma le
riempì di un desiderio troppo grande per essere spento: il desiderio di assurgere a simbolo diretto
della divinita nell’uomo. Non frapposero indugi; vestendosi delle migliori vesti che potevano
(“come le sue”, esse pensavano), muovendosi con dei gesti (“come i suoi”, pensavano), e riuscendo
a produrre meraviglia negli animi degli spettatori (“come fa lui”, gridavano), esse costruirono da sé
un tempio (“come il suo, come il suo”), e soddisfecero le richieste del pubblico con questa misera
parodia.
Questo si racconta. È il primo ricordo dell’attore in Oriente. L’attore nasce dalla folle vanità
di due donne, che non furono abbastanza forti da guardare il simbolo della Divinità senza desiderare
di imitarlo; e la parodia si dimostrò profittevole. In cinquanta o cent’anni si dovevano costruire sedi
per tali parodie in tutte le parti del mondo.
Le male erbe, si dice, crescono rapidamente, e questo deserto di male erbe che è i1 teatro
moderno spuntò in fretta. L’immagine della marionetta divina attirò sempre meno amatori, e le
donne appunto divennero “la moda”. Con lo svanire del burattino e la progressiva comparsa, al suo
posto, di queste donne che facevano mostra di sé sul palcoscenico, si impose lo spirito oscuro che
ha nome Caos, e sulla sua traccia il trionfo delle personalità turbolente. Vedete ora che cosa mi ha
spinto ad amare, a cominciare ad apprezzare quello che chiamiamo il “burattino”, facendomi
detestare ciò che si chiama “vita” nell’arte? Io prego assiduamente per il ritorno dell’immagine - la
Supermarionetta - nel teatro; e quando essa tornerà, non appena essa verrà veduta, sarà amata a tal
segno, che ancora una volta sarà possibile ai popoli ritrovare nelle cerimonie l’antica gioia - ancora
una volta la Creazione sarà celebrata - sarà tributato omaggio all’esistenza - e sarà fatta divina e
felice intercessione alla Morte23.
Firenze, marzo 1907.
nell’aiuto che gli verrà dato dalla bella pietra fredda. Trasalisce del più nobile piacere, perché comprende la natura
divina di questo aiuto volontario e sicuro - che non è una sottomissione.
Quanto all’architetto, egli ama la Proporzione. Che cos’è la Proporzione? Una semplice faccenda di calcolo,
direte voi.. Numeri... Eh, sì, è una fredda equazione, che sta alla base della cattedrale di Colonia. Tuttavia guardate il
fremito d’estasi divina sorto da ciò che vi sembrava insensibile, lettera morta, freddo calcolo. Voi mi direte che si tratta
soltanto di Immaginazione, di Ispirazione, e ve ne infischierete del calcolo. Notate bene che questa medesima
Immaginazione, questa medesima Ispirazione sono a servizio del teatro, eppure l’artista della scena non ne ha mai tratto
una perfezione che stia alla pari con la cattedrale di Colonia o il Partenone.
No. La colpa è dell’uomo; e ogni uomo che sceglie un materiale bello per il suo lavoro, come lo scultore o
l’architetto, deve creare un’opera più nobile di quella dell’attore, il quale prende soltanto se stesso come materiale per
la propria opera. [Nota aggiunta dall’Autore per l’edizione francese].
23
“L’architettura egiziana, la più antica a noi nota - con i suoi architravi - i suoi monumenti concepiti in linee nobili, in
blocchi massicci - sempre dedicati alle Divinità della Morte, prodigi di grandiosità, di solenne serenità, di eterna
durata”. Dr. G. Carotti, Histoire de l’Art. [Nota aggiunta dall’Autore per l’edizione francese].
56
57
L’Attore e la Supermarionetta24
Dedicato con tutto l’affetto ai miei buoni amici
De Vos e Alexander Hevesi.
“Per salvare il Teatro, bisogna distruggere il
Teatro, gli attori e le attrici devono tutti morire
di peste... Essi rendono l’arte impossibile.”
Eleonora Duse
(Arthur Symons, Studies in Seven Arts,
Constable, 1900)
È sempre stato argomento di discussione se recitare sia un’arte o no, e quindi se l’attore sia
un Artista o qualcosa di ben diverso. Non abbiamo prove per affermare che questo problema abbia
angustiato le menti dei maggiori pensatori di ogni epoca, comunque è ragionevole pensare che, se
l’avessero ritenuto degno di seria considerazione, vi avrebbero applicato lo stesso metodo di ricerca
usato nell’esaminare le altre arti, come la Musica e la Poesia, l’Architettura, la Scultura e la Pittura.
D’altronde, in certi ambienti si sono avute accanite discussioni su questo argomento.
Raramente vi han preso parte degli attori, ancor più raramente dei veri uomini di teatro, ma tutti
hanno fatto mostra di una grande foga, peraltro ingiustificata, e in compenso di una scarsissima
conoscenza della materia. Le argomentazioni di chi sostiene che recitare non è un’arte e che perciò
l’attore non è un artista sono così irragionevoli e personali nella loro prevenzione contro l’attore,
che forse proprio per questa ragione gli attori non si son dati pena di intervenire nella controversia.
Così ora, regolarmente, ad ogni stagione giunge l’attacco settimanale contro l’attore e il suo
piacevole mestiere, attacco che finisce di solito con la ritirata del nemico. Di regola quelli che
vanno a ingrossare le file della parte avversa sono dei letterati o dei semplici privati: forti di essere
andati a teatro tutta la vita, oppure di non esserci andati mai, neppure una volta, muovono
all’attacco per ragioni note solo a loro. Ho seguito questi puntuali attacchi, di stagione in stagione, e
mi è parso che per lo più abbiano origine da suscettibilità, inimicizie personali o presunzione. Sono
illogici dal principio alla fine: attacchi simili contro l’attore e il suo mestiere non hanno ragione
d’esistere. Non è mia intenzione di prendere partito, vorrei soltanto esporvi quella che mi sembra la
logica di un fatto strano, e che non credo possa esser messa in discussione.
Recitare non è un’arte; è quindi inesatto parlare dell’attore come di un artista. Perché tutto
ciò che è accidentale è nemico dell’artista, l’arte è in antitesi assoluta con il caos, e il caos è creato
dall’accozzaglia di molti fatti accidentali. All’arte si giunge unicamente di proposito. Quindi è
chiaro che per produrre un’opera d’arte qualsiasi, possiamo lavorare soltanto con quei materiali che
siamo in grado di controllare. L’uomo non è uno di questi materiali.
Tutta la natura umana tende verso la libertà, perciò 1’uomo reca nella sua stessa persona la
prova che, come materiale per il teatro, egli è inutilizzabile. Nel teatro moderno, poiché ci si serve
come materiale del corpo di uomini e donne, tutto quel che si rappresenta è di natura accidentale: le
azioni fisiche dell’attore, l’espressione del suo volto, il suono della voce, tutto è in balia dei venti
delle sue emozioni, e se è vero che questi venti spirano in continuazione attorno all’artista
eccitandolo, non ne turbano mai 1’equilibrio. L’attore invece diviene succubo dell’emozione; essa
gli invade le membra, le scuote come vuole. Egli è completamente in suo potere, si muove come
uno in preda al delirio, o come un pazzo, barcollando qua e là; la testa, le braccia, i piedi, se pure
non sono del tutto al di fuori del controllo, oppongono così poca resistenza al torrente delle
passioni, che possono cedere e fargli fare un passo falso da un momento all’altro. È inutile che
24
Mi faccio poche illusioni che questo saggio riesca gradito alle donne del nostro tempo; non spero assolutamente che
possa mai essere di loro gusto. Quanto ad amarne l’idea fondamentale, la cosa per il momento non è loro possibile.
[Nota aggiunta dall’Autore per l’edizione francese.]
58
cerchi di ragionare; le chiare raccomandazioni di Amleto agli attori25 (raccomandazioni da
sognatore - sia detto per inciso - non da logico) sono parole al vento: spesso le membra si rifiutano
di obbedire alla mente quando 1’emozione si accende, mentre la ragione non fa che alimentare il
fuoco delle emozioni. Come per il movimento, così succede per le espressioni del volto: la mente
lottando riesce per un momento a far muovere gli occhi o i muscoli del volto secondo la propria
volontà; ma appena riesce per pochi istanti a tenere il volto in perfetta soggezione, subito viene
sopraffatta dall’emozione, che si è infiammata per azione della mente stessa. In un attimo, come un
lampo, prima che la mente abbia il tempo di gridare e di protestare, la passione ardente si è
impadronita dell’espressione dell’attore. Essa si distorce, varia, oscilla e si agita, è spinta
dall’emozione giù per la fronte dell’attore, fra gli occhi, fino alla bocca; ora egli è completamente
alla mercé dell’emozione, e le grida: “Fa’ di me quello che vuoi!”. La sua espressione si perde in un
tumulto pazzo, ed ecco! “Nulla nasce dal nulla”. Alla voce dell’attore accade lo stesso che ai suoi
movimenti. L’emozione gliela soffoca, la costringe a cospirare anch’essa contro la ragione, la altera
in modo tale che l’attore dà l’impressione di un’emotività discordante. È inutile che mi veniate a
dire che 1’emozione è l’anima degli dèi e che è proprio ciò che l’artista aspira a produrre; prima di
tutto non è vero, e poi, anche se lo fosse, ogni emozione disordinata, ogni sentimento accidentale,
non può avere alcun valore. Abbiamo visto dunque che la mente dell’attore ha minor potere della
sua emozione, perché 1’emozione è capace di indurre la mente a collaborare alla distruzione di ciò
che essa stessa vorrebbe produrre; e, dal momento che la mente diviene schiava dell’emozione, ne
consegue che all’attore debbano capitare continui inconvenienti. Così siamo arrivati a questo punto:
che 1’emozione è la causa che prima crea, poi distrugge. L’arte, come l’abbiamo definita, non può
ammettere dei fatti accidentali; quindi, quel che l’attore ci dà non è un’opera d’arte, ma una serie di
confessioni fortuite26. Nei tempi antichi il corpo umano non era adoperato come materiale nell’Arte
del Teatro: allora le emozioni degli uomini e delle donne non erano considerate uno spettacolo
adatto per la moltitudine. Un elefante e una tigre in un’arena soddisfacevano meglio i gusti degli
spettatori, quando si voleva eccitarli. La lotta furiosa fra l’elefante e la tigre dava tutta 1’eccitazione
che oggi possiamo ricevere dalla scena moderna, e allo stato puro. Uno spettacolo del genere non
era più brutale, anzi era più delicato e umano: poiché non c’è nulla di più disgustoso che esporre su
di un palco uomini e donne, facendogli esibire quel che gli artisti si rifiutano di mostrare, se non
velatamente e in una forma da essi predisposta. Come mai 1’uomo abbia deciso di prendere il posto
che fino a quel momento era riservato agli animali, non è difficile arguirlo.
L’uomo “di cultura” s’incontra con 1’uomo “di temperamento” e gli si rivolge press’a poco
in questi termini: “Hai un aspetto davvero superbo: come ti muovi bene! La tua voce è simile al
canto degli uccelli, e come risplendono i tuoi occhi! Fai proprio una figura magnifica! Somigli
quasi a un dio! Secondo me bisognerebbe mostrare a tutti la tua bellezza. Scriverò poche righe, e tu
le dirai rivolgendoti alla folla. Ti dovrai mettere in piedi dinanzi a loro e pronuncerai i miei versi
come meglio ti piacerà. Certamente sarà una cosa perfetta”.
E l’uomo di temperamento risponde: “Ma dici sul serio? Veramente il mio aspetto ti sembra
simile a quello di un dio? Non ci avevo mai pensato. E credi proprio che mostrandomi alla folla
potrei farle una bella impressione e la riempirei di entusiasmo?”. “No, no, no”, dice l’uomo
intelligente, “se ti fai solo vedere, no; ma se tu hai qualcosa da dire, susciterai davvero una grande
impressione”.
L’altro risponde: “Credo che avrò qualche difficoltà a pronunciare le tue parole. Mi sarebbe
più facile mostrarmi soltanto e dire qualcosa di spontaneo, come: ‘Salute a tutti!’ Sento che facendo
così forse riuscirei meglio a essere me stesso”. “Ottima idea”, risponde il tentatore, “questa del
‘Salute a tutti!’. Su questo tema comporrò, diciamo così, cento o duecento versi su misura per
25
Amleto, atto III, scena 2.
“Il bimbo che danza per suo piacere, l’agnello che ruzza, o il cerbiatto che gioca, sono degli esseri felici e benedetti,
ma non sono degli artisti. L’artista è colui che si attiene a una regola dura, al fine di dispensarci una gioia deliziosa”.
John Ruskin [Nota aggiunta dall’Autore per 1’edizione francese.]
26
59
essere declamati. Me l’hai suggerito tu stesso. Salute! Siamo d’accordo, allora, che farai così?”. “Se
vuoi”, risponde l’altro con una ottusità bonaria, lusingato oltre ogni dire.
E così comincia la commedia dell’autore e dell’attore. Il giovane mostrandosi alla folla,
declamando i versi, fa una magnifica pubblicità all’arte delle lettere. Dopo l’applauso il giovane è
presto dimenticato; dimenticato perfino il modo in cui ha pronunciato i versi, ma l’idea è nuova e
originale, per quei tempi, e l’autore pensa bene di approfittarne, seguito ben presto da altri autori
accortisi che utilizzare come strumenti uomini avvenenti e fatui è davvero un’ottima trovata. Che
poi lo strumento sia un essere umano non ha per loro la minima importanza. Pur non conoscendone
i registri, riescono a trarne dei suoni, anche se rudimentali, e trovano comunque che tutto ciò è
veramente utile.
È così che oggi assistiamo allo strano spettacolo di un uomo contento di enunciare i pensieri
a cui un altro ha dato forma, mostrando la propria persona al pubblico. Fa questo perché è
lusingato; e la vanità... non ragiona. Ma sempre finché esisterà il mondo la natura umana
combatterà per la libertà, e si ribellerà all’essere fatta schiava, semplice veicolo per l’espressione
dei pensieri di un altro. Si tratta di un problema molto grave, e non lo si può eludere affermando che
se l’attore è il mezzo di espressione dei pensieri di un altro, è lui che dà vita alle parole morte di un
autore. Anche se ciò fosse vero (il che è escluso), anche se l’attore presentasse solo idee proprie, la
sua natura rimarrebbe pur sempre in condizione di schiavitù; il suo corpo dovrebbe divenire lo
schiavo della mente; e questo, come ho dimostrato, un corpo sano si rifiuta assolutamente di farlo.
Quindi il corpo umano, per le ragioni che ho detto, è per sua natura assolutamente inutilizzabile
come materiale artistico. Mi rendo pienamente conto del carattere generico di quest’affermazione;
e, poiché concerne uomini e donne che sono in vita, e che come classe di persone son degni di ogni
stima, devo aggiungere qualcosa, per non recar loro un’offesa involontaria. So benissimo che quel
che ho detto non provocherà ancora l’esodo in massa degli attori da tutti i teatri del mondo, non li
spingerà a rinchiudersi entro monasteri, dove irrideranno per il resto della loro vita l’arte del teatro,
divenuta argomento capitale di piacevoli conversazioni. Come ho già scritto altrove, il teatro
continuerà a svilupparsi e gli attori continueranno per alcuni anni a intralciare la sua evoluzione.
Ma vedo uno spiraglio attraverso il quale gli attori potranno evadere in tempo dal servaggio in cui si
trovano. Essi devono creare per se stessi una nuova forma di recitazione, consistente essenzialmente
in gesti simbolici. Oggi essi impersonano e interpretano; domani dovranno rappresentare e
interpretare; e dopodomani dovranno creare. In questo modo potrà aversi nuovamente uno stile.
Oggi l’attore impersona. Egli grida al pubblico: “State attenti; ora fingo di essere così e così, ed ora
simulo questa e quest’altra azione” e poi si mette a imitare quanto più esattamente possibile quello
che ha annunziato che indicherà. Supponiamo ad esempio che sia Romeo. Dice al pubblico che è
innamorato, quindi prende a mostrarlo, baciando Giulietta. Questa, si afferma, è un’opera d’arte: si
pretende che tutto ciò sia un modo intelligente di suggerire un pensiero. Ma perché, perché? È
proprio come se un pittore disegnasse su di un muro un animale con le orecchie lunghe, e poi ci
scrivesse sotto: “Questo è un asino”. Già è abbastanza chiaro, penseremo noi, anche senza
1’iscrizione: qualunque ragazzo di dieci anni sa fare altrettanto. La differenza fra il ragazzo di dieci
anni e l’artista è questa: l’artista è colui che tracciando certi segni e certe forme crea l’impressione
di un asino ed è tanto più grande se riesce a suscitare l’impressione del genere “asino”, della sua
“essenza”.
L’attore invece guarda alla vita come una macchina fotografica, e cerca di fare un ritratto
che competa con una fotografia. Non immagina neppure che la sua arte sia simile, ad esempio,
all’arte della musica. Egli si sforza di riprodurre la Natura; raramente pensa di inventare con l’aiuto
della Natura, e non aspira mai a creare. Come ho detto, il meglio che può fare, quando vuole
cogliere e rendere la poesia di un bacio, la foga di un combattimento, o la quiete della morte, è
copiare fedelmente, fotograficamente - bacia - combatte - giace supino e fa la mimica della morte ma, se ci pensate, tutto questo non è pura idiozia? Misera arte e abilità da quattro soldi se non può
offrire al pubblico lo spirito, l’essenza di un’idea, se è in grado soltanto di esibire una copia priva
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d’arte, un fac-simile della copia stessa! Questo si chiama essere un imitatore, non un artista. Questo
è un proclamarsi parente del ventriloquo27.
Secondo un modo di dire del gergo teatrale, l’attore “entra nella pelle del suo personaggio”.
Meglio sarebbe dire che “esce del tutto fuori della pelle del suo personaggio”. “E che”, grida il
brillante attore di sangue caldo, “allora non ci deve essere né carne né sangue in questa monotona
arte del vostro teatro? Non ci deve essere vita?”. Dipende da quel che voi chiamate vita, signor mio,
quando usate questa parola in rapporto all’idea di arte. Il pittore intende qualcosa di molto
differente dalla realtà immediata quando parla di vita, ed anche gli altri artisti in genere fanno lo
stesso: si riferiscono a qualcosa di essenzialmente spirituale; soltanto l’attore, il ventriloquo, o
l’impagliatore d’animali, affermando di immettere la vita nel loro lavoro, intendono parlare di
riproduzione materiale e fedele, di qualcosa che ha un aspetto vistoso e piacevole; per questo io
dico che sarebbe meglio se l’attore cercasse di uscire completamente dalla pelle del suo
personaggio. Se qualche attore leggerà il mio scritto, è possibile che io non riesca a fargli intendere
l’enorme assurdità del suo comportamento, di questa sua convinzione circa la necessità di fare una
vera copia, una riproduzione? Supponiamo adesso che un tale attore sia qui con me, mentre parlo.
Inviterò un musicista e un pittore a unirsi a noi. Ora lasciamoli parlare. Quanto a me ne ho
abbastanza di fare la parte di colui che per motivi banali denigra il lavoro dell’attore. Se ho parlato
in questo modo, l’ho fatto per amore del teatro, perché spero e ho fiducia che fra non molto uno
straordinario rivolgimento farà sorgere a nuova vita ciò che nel teatro è in decadenza, perche sono
convinto che l’attore darà l’apporto del suo coraggio a questa rinascita. Il mio atteggiamento circa
l’intera questione è frainteso da molti, nel teatro. È considerato come un mio atteggiamento, esclusivamente mio, ai loro occhi io sembro uno stravagante attaccabrighe, un pessimista, un brontolone:
uno che è stanco di una cosa e cerca di mandarla in pezzi. Perciò lasciamo parlare gli altri artisti
insieme con l’attore, e lasciamo che sia quest’ultimo a fare il difensore della sua causa, in base
all’opinione degli altri in materia d’arte. Sediamo qui a conversare, l’attore, il musicista, il pittore
ed io. Io, dato che rappresento un’arte distinta da tutte queste, me ne starò in silenzio.
Mentre ce ne stiamo seduti, il discorso verte dapprima sulla Natura. Siamo circondati da
belle colline declinanti, da alberi, da vaste montagne che si ergono in lontananza, coperte di neve;
intorno a noi scorrono le innumerevoli, delicate voci della Natura... la Vita. “Come è bello”, dice il
pittore, “come e bella la sensazione che tutto questo ci procura!”. Insegue l’impossibile sogno di
portare integralmente sulla tela il valore materiale e spirituale di quello che lo circonda; eppure il
suo atteggiamento è quello che in generale si assume davanti a una cosa molto pericolosa. Il
musicista guarda fisso a terra. Quello dell’attore è uno sguardo interiore e personale, rivolto a se
stesso. Inconsciamente egli assapora la sensazione di se stesso in atto di rappresentare la figura
primaria e centrale in una scena realmente buona. Percorre a gran passi lo spazio fra noi e il
panorama, girando in semicerchio, e guarda lo stupendo sfondo senza vederlo, conscio di una cosa
soltanto: di se stesso e del suo atteggiamento. Naturalmente un’attrice se ne starebbe lì, umile in
presenza della Natura. Essa non è che una piccola cosa, una piccola, pittoresca particella; poiché
questo è l’atteggiamento, la parte, che le conosciamo: quando sospira, pressoché non udita,
comunicando al pubblico e a se stessa che essa è lì, piccolo “ohimé” in presenza del Dio che la
creò, e tutte le altre sfumature del nonsenso sentimentale. In tal modo noi siamo tutti riuniti qui, e
dopo aver preso gli atteggiamenti a noi naturali, seguitiamo a interrogarci a vicenda. Immaginiamo
27
“Perciò quando qualcuno di questi pantomimi, che sono così abili ad imitare qualunque cosa, venisse da noi e ci
proponesse di far mostra di sé e della sua poesia, noi cadremmo in ginocchio e l’adoreremmo, come un essere santo,
meraviglioso e soave; dovremmo però anche informarlo che nel nostro Stato agli esseri come lui non è permesso di
esistere: le leggi non lo consentono. E così, dopo averlo unto di mirra ed incoronato con una ghirlanda di lana, lo
dovremmo inviare in un’altra città. Perché intendiamo impiegare per la salute della nostra anima i più aspri e severi
poeti e cantori di storie, che imiteranno lo stile dei virtuosi soltanto, e seguiranno quei modelli che prescrivemmo da
principio, quando cominciammo 1’educazione dei nostri soldati”. Platone. (Per il brano completo, troppo lungo per
essere riportato qui, rimandiamo il lettore a La Repubblica, libro III, p. 395.)
[la citazione di Craig non è esatta: il passo corrisponde a La Repubblica, libro III, p. 398, A-B. (N.d.T.)]
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pure che, una volta tanto, prendiamo realmente interesse a scoprire tutto ciò che riguarda gli altri ed
il loro lavoro. (Vi garantisco che la cosa è del tutto inconsueta e che l’egoismo mentale, la più alta
forma di stupidaggine, rinchiude più di un artista riconosciuto, in un piccolo involucro
impermeabile). Ma ammettiamo che qui regni un generale interesse: che l’attore e il musicista
desiderino imparare qualcosa sull’arte della pittura; e che il pittore e il musicista vogliano sapere
dall’attore in che cosa consiste il suo lavoro, e se e per quale motivo egli lo consideri un’arte.
Poiché qui essi non racconteranno le cose per metà, ma diranno quello che pensano. Dal momento
che non hanno di mira altro che la verità, non hanno nulla da temere; sono tutti buoni compagni,
tutti buoni amici; non hanno la pelle delicata e possono dar colpi e riceverne. “Dicci un po’”,
domanda il pittore, “è vero che prima di poter recitare bene una parte devi sentire le emozioni del
personaggio che rappresenti?”. “Ebbene, sì e no; dipende da quello che vuoi dire”, risponde l’altro.
“In un primo momento dobbiamo essere in grado di sentire le emozioni di un personaggio, di
entrare in simpatia con esse e perfino di criticarle; osserviamo il personaggio da una certa distanza,
prima di identificarci con lui: cerchiamo, utilizzando quanto più possibile il testo, di richiamare alla
mente tutte le forme di emozioni atte ad esser evidenziate in questo personaggio. Dopo aver più
volte riordinate e selezionate le emozioni che riteniamo più importanti, ci esercitiamo a riprodurle
dinanzi al pubblico; e per far questo dobbiamo sentire solo quel poco che è necessario: meno
sentiamo, infatti, più saldo sarà il controllo che avremo sull’espressione facciale e su quella del
corpo”. Col gesto d’impazienza tipico del genio, l’artista si alza e comincia a camminare su e giù.
Non l’ha sorpreso sentir dire dal suo amico che le emozioni non hanno eccessiva importanza, e che
egli è in grado di controllare il volto, i tratti, la voce e così via, proprio come se il suo corpo fosse
uno strumento. Il musicista si sprofonda sempre più nella sua poltrona. “Ma c’è mai stato un
attore”, chiede l’artista, “che abbia educato il suo corpo dalla testa ai piedi al punto da ottenere una
totale sottomissione al lavoro della mente senza il benché minimo intervento delle emozioni? Senza
dubbio, ci deve essere stato un attore, diciamo uno su dieci milioni, che l’ha fatto...”. “No”, dice
con enfasi l’attore, “mai, mai; non c’è mai stato un attore che abbia raggiunto un tale stato di
perfezione meccanica da rendere il suo corpo schiavo assoluto della mente. Edmund Kean in
Inghilterra, Salvini in Italia, la Rachel, Eleonora Duse, li ho tutti presenti; eppure ripeto che non è
mai esistito un attore o un’attrice come tu immagini”. E qui l’artista domanda: “Allora tu ammetti
che ci potrebbe essere uno stato di perfezione?”. “Perché no? naturalmente. Ma è irrealizzabile, sarà
sempre irrealizzabile”, grida l’attore; e si alza, quasi con un senso di sollievo. “È come dire che non
c’è mai stato un attore perfetto, che non c’è mai stato un attore che non abbia rovinato la sua parte
una, due, dieci volte, talora cento volte in una serata? Che non c’è mai stato un brano di recitazione
che si possa dire almeno quasi perfetto, e che non ci sarà mai?”. Per tutta risposta l’attore chiede
prontamente: “Ma c’è mai stato un dipinto, o un pezzo di architettura, o un brano di musica che si
possa chiamare perfetto?”. “Senza dubbio”, rispondono gli altri. “Le leggi che governano le nostre
arti consentono una tale possibilità”. “Un quadro, per esempio”, continua l’artista, “può consistere
di quattro linee, o di quattrocento linee, tirate in certe direzioni; può essere elementare, ma è
possibile farlo perfetto. Vale a dire, io posso innanzitutto scegliere gli strumenti per disegnare le
linee, posso scegliere il materiale su cui disporle, posso, meditare per tutto il tempo che voglio,
posso cambiare; poi, in uno stato comunque libero da commozione, da fretta, da disagi e da nervosismo - praticamente in uno stato scelto da me (perché io preparo, aspetto e scelgo anche questo)
- posso buttar giù queste linee d’un tratto - così - tutto è a posto. Essendo padrone del mio
materiale, nulla eccetto la mia volontà può muoverle o mutarle; e, come ho detto, la mia volontà è
interamente sotto il mio controllo. La linea può essere diritta od ondulata; o, se voglio, può essere
curva, e non c’è rischio che se l’intenzione è fare una linea retta mi riesca curva, e se è di farne una
curva, mi venga piena di angoli. E quando tutto è pronto - finito - non è suscettibile di cambiamenti,
tranne quelli che vorrà apportare il tempo, il quale alla fine lo distruggerà”. “La cosa è piuttosto
fuori del comune”, risponde l’attore, “vorrei che fosse possibile nel mio lavoro”. “Sì”, risponde
l’artista, “è una cosa davvero straordinaria, ed è questo, io sostengo, che fa la differenza fra
un’affermazione intelligente e una casuale o accidentale. L’affermazione per eccellenza intelligente
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è opera d’arte. L’affermazione accidentale è opera del caso. Quando le affermazioni intelligenti
giungono alle forme più elevate divengono opera d’arte superiore. E per questo ho sempre
sostenuto, sebbene possa anche sbagliarmi, che il lavoro di voi attori non ha i caratteri dell’arte.
Vale a dire (e anche tu l’hai detto) che ogni affermazione fatta nel vostro lavoro è soggetta a tutte le
possibili deformazioni che 1’emozione vuole apportarvi. Quel che immaginate col pensiero, il
corpo non riesce a realizzarlo a causa della Natura. Praticamente, il corpo, prendendo il sopravvento
sull’intelligenza, ed è successo spesso sul palcoscenico, ne ha completamente travisato gli intenti.
Alcuni attori sembrano dire: ‘Che vantaggio c’è ad avere belle idee? A che scopo concepire una
bella idea, un bel pensiero, se poi il corpo, che è completamente fuori di ogni controllo, rovinerà
tutto? Tanto vale buttare a mare l’intelligenza, e lasciare che il corpo porti avanti me e lo
spettacolo’. A me sembra che ci sia della saggezza nel punto di vista di un tale attore; non sta a
gingillarsi fra le due cose che lottano in lui, una contro l’altra. Non ha il minimo timore del
risultato. Lo affronta da uomo, a volte un tantino troppo come un centauro; butta via ogni scienza,
ogni cautela, ogni ragione, ed il risultato è il buon umore degli spettatori, che per questo pagano
volentieri. Ma noi qui stiamo parlando di altre cose, non di buon umore, e benché applaudiamo
l’attore che mette in mostra una personalità di questo genere, non dobbiamo dimenticare che stiamo
applaudendo la sua personalità: è lui che acclamiamo, non quel che sta facendo o il modo in cui lo
fa: assolutamente niente a che fare con l’arte, con l’ordine o col proposito”. “Sei proprio una cara
creatura, un amico”, dice l’attore ridendo allegramente “quando mi dici che la mia attività non è
un’arte! Ma credo di capire quello che intendi. Vuoi dire che prima che io appaia sulla scena, prima
che il mio corpo cominci a entrare in gioco, io sono un artista”. “Ebbene, sì, tu lo sei, tu per caso lo
sei, perché sei un pessimo attore; sulla scena sei abominevole, ma hai idee, hai immaginazione; sei
piuttosto un’eccezione, dovrei dire. Ti ho ascoltato mentre mi dicevi come vorresti rappresentare il
Riccardo III: cosa vorresti fare, che strana atmosfera vorresti creare su tutto l’insieme; e quello che
tu hai veduto in questo lavoro, e quel che hai inventato, le aggiunte che hai apportato, sono così
notevoli, così coerenti nella concezione, così distinte e chiare nella forma, che, se potessi fare del
tuo corpo una macchina o un pezzo di materia inerte come l’argilla, e se esso ti potesse obbedire in
ogni movimento per tutto il tempo che è davanti al pubblico, e se potessi mettere da parte il poema
di Shakespeare - saresti in grado di creare un’opera d’arte, con quel che è dentro di te. Perché non
avresti sognato soltanto; avresti eseguito alla perfezione; e avresti potuto ripetere la tua esecuzione
infinite volte, senza variazioni maggiori di quelle che differenziano due monetine”. “Ah”, sospira
l’attore, “mi esponi un quadro terribile. Vorresti dimostrarmi che non abbiamo alcuna possibilità di
considerarci artisti. Distruggi il nostro sogno più bello, e in cambio non ci offri nulla”. “No, non
sono io che debbo offrire: siete voi che dovete trovare. Esisteranno certamente delle leggi basilari
nell’Arte del Teatro, così come ce ne sono alla base di tutte le arti vere, tutto sta a scoprirle, ad
impadronirsene per ottenere tutto quel che si desidera, non ti pare?”. “Già, questa ricerca porterebbe
gli attori davanti a un muro”. “Scavalcatelo, allora!”. “È troppo alto”. “Scalatelo, allora!”. “E come
possiamo sapere dove ci porterebbe?”. “Mah, in cima, e dall’altra parte”. “Sì, ma questo è parlare
da pazzi, sono discorsi vuoti”. “Ebbene, questa è la direzione che voi, compagni, dovete seguire:
volare nell’aria, vivere nell’aria. Quando uno di voi avrà cominciato, qualcosa avverrà”. “Penso”,
continua il pittore, “che presto troverete il bandolo della matassa, e allora che splendido avvenire vi
si aprirà dinanzi! In realtà, vi invidio. Se la fotografia fosse stata inventata prima della pittura - a
volte credo di desiderarlo -, noi di questa generazione avremmo potuto provare l’intensa gioia di
progredire, mostrando che la fotografia è una cosa valida nel suo genere, ma che c’è qualcosa di
meglio!”. “Tu pensi che il nostro lavoro sia allo stesso livello della fotografia?”. “No, davvero, non
ha neppure la metà della sua precisione, è meno artistico della stessa fotografia. Praticamente, tu ed
io, che abbiamo parlato tutto questo tempo mentre il musicista se ne e stato seduto in silenzio,
sprofondandosi sempre più nella poltrona..., le nostre arti, voglio dire, in confronto alla sua sono
scherzi, giochetti, assurdità”. Al che il musicista se ne viene fuori a rovinar ogni cosa, alzandosi e
dando via libera a osservazioni prive di senso. L’attore immediatamente grida: “Non trovo proprio
che questa sia un’osservazione tanto acuta per un rappresentante dell’unica arte di questo mondo”,
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al che tutti si mettono a ridere - il musicista fra imbarazzato e cosciente della gaffe. “Mio caro
amico, questo accade proprio perché lui è un musicista. Non è nulla fuori del campo della sua
musica. Praticamente, è alquanto limitato, eccetto quando parla in termini di note, toni, semitoni e
cose del genere. Egli conosce appena la nostra lingua, conosce appena il nostro mondo, e più
grande è il musicista, più questo fatto è evidente; è davvero un brutto segno quando ti imbatti in un
compositore che è intelligente. Quanto al musicista intellettuale,... vale, a dire un...; ma non
dobbiamo pronunciare il suo nome qui: è così popolare, oggi. Che attore sarebbe stato quest’uomo,
che personalità aveva! Capisco che per tutta la vita ha covato il desiderio struggente di fare l’attore,
e credo che sarebbe stato un eccellente commediante; mentre invece divenne musicista - o autore
drammatico? In ogni modo tutto ciò dette luogo a un gran successo - un successo di personalità”.
“Non era un successo artistico?” chiede il musicista. “Ma di che arte parli? Oh, di tutte le arti
combinate insieme”, risponde quello, scioccamente ma con placidità. “Come può essere? Come
possono tutte le arti combinarsi insieme e fare un’arte sola? Così si può produrre soltanto uno
scherzo - soltanto... un teatro. Le cose che lentamente, per legge naturale, si uniscono insieme
possono, nel corso di molti anni o di molti secoli, acquistare un certo diritto di chiedere che la
Natura dia alla loro fusione un nome nuovo. Soltanto in questo modo può sorgere un’arte nuova.
Non credo che l’antica Madre approvi i processi forzati; e se mai chiude un occhio, presto si prende
la rivincita: così è delle arti. Non puoi mescolarle e poi proclamare che hai creato un’arte nuova. Se
sei in grado di trovare in Natura un materiale nuovo, che non sia mai stato usato dall’uomo per
dar forma ai suoi pensieri, allora puoi dire che sei sulla strada buona per creare una nuova arte.
Perché hai trovato ciò con cui la puoi creare. Poi non ti rimane altro che cominciare. Il teatro,
come io lo vedo, deve ancora scoprire questo materiale”. E qui finisce la conversazione.
Per parte mia, io son d’accordo con l’ultima affermazione dell’artista. Non proverò affatto
piacere nel competere col valente fotografo, e aspirerò sempre a qualcosa di completamente
opposto alla vita come la vediamo. Questa vita di carne e sangue, che noi tutti amiamo, non è per
me qualcosa in cui frugare e da mettere in mostra davanti al mondo, sia pure in forma
convenzionale. Credo che la nostra aspirazione debba essere piuttosto cogliere una lontana, breve
visione di quello spirito che chiamiamo Morte - evocare cose belle dal mondo immaginario; dicono
che sono fredde, quelle cose morte, io non so - spesso sembrano più calde e più vive di ciò che si
ostenta come vita. Ombre - spiriti mi sembrano essere più belli e vitali che uomini e donne,
invischiati in meschinità, oggetti inumani, enigmatici: gelidissimo gelo, angustissima umanità.
Considerando abbastanza a lungo le cose della vita, non scopriremo forse che non sono né belle, né
misteriose, né tragiche, ma inerti, melodrammatiche, sciocche, e che cospirano contro la vitalità contro ogni calore? E da tali cose, a cui manca il sole della vita, non si può trarre ispirazione. Come
da quella vita misteriosa, gioiosa, di una perfezione estrema, che si chiama Morte - vita d’ombre e
d’immagini sconosciute, dove non è vero che tutto sia oscurità e nebbia, come s’immagina, ma al
contrario vividi colori, vivida luce, nitide forme; popolata di figure strane, fiere, solenni, pacate,
sospinte verso una meravigliosa armonia di movimento: da tutto questo è possibile trovare
ispirazione. E tutto questo è qualcosa di più che una semplice realtà effettiva. Da quest’idea della
morte che sembra una specie di primavera, una fioritura - da questa contrada e da questa idea può
giungere una ispirazione così vasta, che, con risoluta esultanza, io mi slancio verso di lei; e guardate! - in un attimo, mi trovo le braccia piene di fiori. Non faccio che un passo o due, e di
nuovo l’abbondanza mi circonda. Traverso senza fatica un mare di bellezza, veleggio dovunque i
venti mi portino; là, là non c’è pericolo. Questo è il mio sogno; ma tutto il teatro del mondo non si
identifica con la mia persona, né con un centinaio di artisti o attori, ma con qualcosa di assai
differente. Perciò le mie aspirazioni personali contano poco. Tuttavia la meta cui tende il teatro in
generale è di reintegrare l’arte che gli è propria; bisognerebbe allora cominciare col bandire dal
teatro quest’idea dalla personificazione, quest’idea di riprodurre la Natura; poiché, fin tanto che
essa rimarrà nel teatro, esso non potrà mai diventare libero. Gli attori dovrebbero educarsi seguendo
le norme di un insegnamento meno attuale (se i princìpi ancora più antichi e più belli sono troppo
difficili per iniziare) e così eviteranno quel folle desiderio di immettere vita nel loro lavoro, perché
64
sempre questo vuol dire portare sulla scena gesti eccessivi, una mimica affettata, discorsi altisonanti
e una scenografia abbagliante, nella vana e sfrenata illusione che con un sistema del genere si possa,
magicamente, evocare la vitalità. Il che in pochi casi, a confermare la regola, riesce, e solo parzialmente. Riesce imparzialmente alle impetuose personalità della Scena. Per loro è un vero caso di
trionfo, malgrado le regole, proprio a dispetto delle regole, e noi che guardiamo buttiamo in aria i
cappelli e gridiamo evviva. Siamo costretti ad agire così; non vogliamo metterci ad analizzare o a
impostare problemi: seguiamo la corrente, ci abbandoniamo all’ammirazione e alla suggestione.
Che questo sia solo una sorta di ipnotismo, il nostro gusto se ne infischia: siamo felici d’essere così
commossi, e saltiamo letteralmente dalla gioia. La grande personalità ha avuto ragione
contemporaneamente di noi e dell’arte. Ma le personalità di questo genere sono estremamente rare,
e, se desideriamo vedere una personalità affermarsi in campo teatrale, e trionfare completamente
come attore, dobbiamo nello stesso tempo essere del tutto indifferenti all’opera rappresentata e agli
altri attori, alla bellezza e all’arte.
Quelli che non la pensano come me su tutta questa faccenda sono coloro che adorano,
ammirano, rispettosamente, le personalità della Scena. Essi non tollerano la mia affermazione che la
Scena debba essere ripulita di tutti i suoi attori ed attrici, prima di poter tornare a vivere di nuovo. E
come potrebbero condividere la mia idea? Questo comporterebbe l’esclusione dei loro favoriti - i
due o tre esseri che per loro trasformano la scena da un volgare scherzo in una terra ideale. Ma che
cosa possono temere? Non c’è alcun pericolo per i loro favoriti - perché se pure fosse possibile
emanare una legge che proibisse a tutti, uomini e donne, di apparire davanti al pubblico sulla scena
di un teatro, essa non danneggerebbe in alcun modo quegli uomini e donne di grande personalità, a
cui il pubblico teatrale dà la corona. Supponiamo che alcuni di loro fossero nati in un’epoca in cui
la Scena era sconosciuta; forse ciò avrebbe in qualche modo diminuito il potere - o impedito loro di
esprimersi? Niente affatto. Le personalità eccezionali trovano sempre i modi e gli strumenti con cui
esprimersi; e la recitazione è soltanto uno - il minore, tra quelli disponibili; perciò questi uomini e
donne sarebbero stati comunque famosi in ogni tempo e in ogni attività. Ma se ad alcuni riesce
intollerabile la mia proposta di ripulire la Scena di TUTTI gli attori e le attrici, nell’intento di
restaurare l’Arte del Teatro, ve ne sono altri ai quali tale proposta è gradita.
“L’Artista”, dice Flaubert, “dovrebbe essere nel suo lavoro simile a Dio nella creazione:
invisibile e onnipotente; si dovrebbe sentire la sua presenza dovunque senza vederlo in nessun
luogo. L’Arte dovrebbe essere elevata al di sopra degli affetti e delle suscettività nervose28. È tempo
ormai di darle la perfezione delle scienze fisiche per mezzo di un metodo rigoroso”. E ancora: “Io
ho sempre cercato di non sminuire l’Arte per soddisfare una personalità isolata”. Egli allude
principalmente all’arte letteraria; ma se la sua opinione è così intransigente riguardo allo scrittore, a
colui cioè che di fatto non si vede mai, ma si rivela soltanto per metà attraverso la sua opera,
immaginiamo quale resistenza avrebbe opposto alla presenza effettiva dell’attore - personalità o non
personalità.
Charles Lamb dice: “Assistere alla rappresentazione del Re Lear, vedere un vecchio
vacillante che va in giro con un bastone, cacciato fuori di casa dalle figlie, in una notte di pioggia,
suscita solo pietà e disgusto, null’altro. Vien voglia di offrirgli rifugio, ecco tutto quel che ho
sentito, ogni qualvolta ho assistito ad una rappresentazione di Re Lear. Il macchinario con cui si fa
1’imitazione della tempesta, in mezzo a cui egli si trova, per quanto rudimentale è sempre più
adatto a rappresentare l’orrore degli elementi naturali che non un attore a fare la parte di Lear. Più
28
“Pulcinella non ha sentimenti,” borbottava il dottor Johnson.
Una sera, mentre Garrick recitava Re Lear, il dottor Johnson e il drammaturgo Murphy stavano fra le quinte e
conversavano a mezza voce. Garrick, uscendo di scena, passò loro vicino e li rimproverò: “Parlate così forte,” disse,
“che disturbate il mio sentimento”. “Pulcinella non ha sentimenti”, replicò il dottore. Questo è vero e non è vero.
Pulcinella non è Garrick, e il dottore aveva ragione di augurarsi che Garrick arrivasse all’impersonalità di Pulcinella.
Senonché Garrick non poteva sottomettersi a ciò che voleva Johnson. “Pulcinella non ha sentimenti, bravo Pulcinella”,
borbottava il dottore, vedendo Garrick allontanarsi, “mentre Garrick ne ha, ed è tanto peggio per l’attore”. [Nota
aggiunta dall’Autore per l’edizione francese.]
65
agevole sarebbe il proposito di portare sulla scena il Satana di Milton, oppure una delle terribili
figure di Michelangelo - quanto a Lear, è essenzialmente impossibile rappresentarlo sulla scena”.
“L’Amleto stesso sembra quasi impossibile da rappresentare”, scrive William Hazlitt.
Dante nella Vita Nova ci dice che, in sogno, Amore gli apparve nelle vesti di un giovane.
Ragionando di Beatrice, Amore dice a Dante: “voglio che tu dica certe parole per rima, ne le quali
tu comprendi la forza che io tegno sopra te per lei... Queste parole, fa che siano quasi un mezzo, sì
che tu non parli a lei immediatamente, che non è degno”29. E ancora: “Avvenne poi che passando
per uno cammino lungo lo quale sen gìa uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontade di dire,
che io cominciai a pensare lo modo ch’io tenesse; e pensai che parlare di lei non si convenìa che io
facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona...”30. Vediamo dunque che per uomini di tal
fatta è sconveniente che la persona viva si inserisca nel quadro e faccia mostra di sé sopra la tela.
Essi considerano tutto ciò sconveniente - indegno.
Abbiamo qui testimoni contrari all’intero sistema del teatro moderno. Collettivamente essi
pronunciano la seguente sentenza: è arte deteriore quella che si serve di mezzi così violenti, così
commoventi, da far dimenticare allo spettatore il fatto in sé, travolgendolo con la personalità
dell’attore, con la commozione che egli comunica. E ora ecco la testimonianza di un’attrice.
Eleonora Duse ha detto: “Per salvare il Teatro, bisogna distruggere il Teatro, gli attori e le attrici
devono tutti morire di peste... Essi rendono l’arte impossibile”31. Possiamo crederle. Lei vuol dire
quello a cui alludevano Flaubert e Dante, sia pure con parole differenti. E vi sono molte
testimonianze ancora, in mio favore, se questa non sembra abbastanza probante. C’è gente che non
va mai a teatro, milioni di persone, rispetto alle migliaia che ci vanno. Poi abbiamo l’appoggio della
maggior parte degli impresari del teatro d’oggi. L’impresario moderno pensa che sulla scena
vadano presentati lavori con scenografie sontuose. Dice che non si deve risparmiare alcun sacrificio
pur di dare agli spettatori l’illusione della realtà. Ci fa notare di continuo l’importanza che ha tutto
questo sfarzo scenico. Insiste su tutto ciò per parecchi motivi, fra cui il seguente non è il meno
importante: egli sente che un lavoro semplice e buono rappresenta un grave pericolo; vede che
esiste una quantità di gente, contraria a questo spreco di decorazioni; sa che c’è stato in Europa un
notevole movimento contro 1’enormità di questo sfarzo, e che si è preteso dire che i grandi lavori ci
guadagnano ad essere rappresentati con il più semplice sfondo. Si può provare che questo
movimento d’opinione è potente e diffuso da Cracovia a Mosca, da Parigi a Roma, da Londra a
Berlino e a Vienna. Gli impresari avvertono questo pericolo davanti a loro, intuiscono che se a un
certo momento la gente riuscisse a rendersi conto di questo fatto, se una sola volta gli spettatori
gustassero il piacere che dà una rappresentazione a scena nuda, allora presto andrebbero oltre e
vorrebbero drammi senza attori, e, alla fine, andrebbero ancora più avanti, e sarebbero loro, in
effetti, non gli impresari, ad aver riformato l’Arte.
Si racconta che Napoleone abbia detto: “Nella vita c’è molto d’indegno, che nell’Arte
dovrebbe essere omesso; molto di dubbio e di incerto; e tutto questo dovrebbe sparire nella
rappresentazione dell’eroe. Noi dovremmo vederlo come una statua, dove le debolezze o i tremiti
della carne non siano più percettibili”. E non solo Napoleone, ma Ben Jonson, Lessing, Edmund
Scherer, Hans Christian Andersen, Lamb, Goethe, George Sand, Coleridge, Anatole France,
Ruskin, Pater32 e suppongo tutti gli uomini e le donne intelligenti d’Europa - senza parlare
29
Dante, Vita Nova, cap. XII.
Dante, op. cit., cap. XIX.
31
Cfr. Arthur Symons, Studies in Seven Arts, Constable, 1900.
32
Sulla scultura Pater scrive: “La sua luce bianca, monda dalle irose sanguigne macchie dell’azione e della passione,
rivela non quel che c’è di contingente nell’uomo, ma il dio che è in lui e si contrappone all’inquieto agitarsi umano”. E
ancora: “La base di ogni genio artistico è il potere di concepire l’umanità in un modo nuovo, sorprendente, gioioso, di
mettere un proprio mondo felice, una costruzione personale, al posto di quello mediocre di ogni giorno, di creare
intorno a tutto ciò l’atmosfera capace di nuove rifrazioni, scegliendo trasformando combinando in modo nuovo le
immagini che essa trasmette, secondo una selezione dell’intelligenza fantastica”. Ancora: “Tutto ciò che è contingente,
tutto quel che distoglie dal semplice effetto che fanno su noi i tipi supremi dell’umano, ogni traccia di volgarità in essi,
la scultura gradualmente l’elimina”.
30
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dell’Asia, perché in Asia persino le persone non dotate sono incapaci di comprendere le fotografie,
mentre capiscono l’arte in quanto manifestazione semplice e chiara - hanno protestato contro la
riproduzione della Natura, con il suo scialbo realismo fotografico. Hanno protestato contro tutto
ciò, e gli impresari si sono messi a polemizzare con loro: c’è da aspettarsi che al momento buono
salti fuori la verità. È una conclusione ragionevole. Fatela finita con l’albero reale sulla scena, fatela
finita con la realtà della dizione, con la realtà dell’azione, e arriverete a farla finita con l’attore.
Questo è quanto a suo tempo dovrà accadere, e mi piace veder gli impresari appoggiare l’idea fin da
questo momento. Fatela finita con l’attore, e i mezzi con i quali si attua e fiorisce un degradante
realismo scenico avranno cessato di esistere. Non dovrebbe più esserci una figura viva atta solo a
confonderci, facendo tutt’uno di “quotidiano” e arte; non una figura viva nella quale siano
percettibili le debolezze ed i tremiti della carne33.
L’attore deve andarsene, e al suo posto deve intervenire la figura inanimata - possiamo
chiamarla la Supermarionetta,34 in attesa di un termine adeguato. Molto è stato scritto sul burattino,
sulla marionetta. Sono stati dedicati loro degli ottimi volumi, e hanno pure ispirato parecchie opere
d’arte. Oggi, che la marionetta attraversa il suo periodo meno felice, molta gente la considera come
una bambola di tipo un po’ superiore - e pensa che sia una derivazione di quest’ultima. Il che è
inesatto. La marionetta discende dalle immagini di pietra dei templi antichi - e attualmente è una
figura di un Dio alquanto degenerata. Anche se resta sempre la più cara amica dei bambini, sa
ancora come scegliere ed attrarre i suoi sostenitori.
Quando qualcuno disegna un pupazzo sulla carta, disegna una figura imbalsamata e comica;
costui non ha mai pensato al significato più profondo dell’idea che noi chiamiamo marionetta. Egli
prende per vuota stupidità e per deformità angolosa la gravità della faccia e l’immobilità del corpo.
Eppure anche i burattini moderni sono cose straordinarie. Se gli applausi scrosciano o se al
contrario sono fiacchi, nei loro cuori il battito non accelera, né rallenta, i loro gesti non diventano
precipitosi o inesatti e, sebbene inondato da un torrente di fiori e d’ammirazione, il volto della
prima attrice rimane solenne, bello e remoto, come sempre. C’è qualcosa di più che un lampo di
genio nella marionetta, c’è qualcosa di più del bagliore di una personalità ostentata. La marionetta
m’appare come l’ultima eco dell’arte nobile e bella di una civiltà passata. Ma, come avviene con
tutte le arti che son cadute in mani rozze e volgari, il pupazzo è diventato una cosa indegna. Tutti i
burattini non sono ora che dei bassi commedianti.
Essi imitano i commedianti della scena vivente più grande e più completa. Entrano in scena
soltanto per cadere col sedere a terra. Bevono soltanto per barcollare, e fanno all’amore soltanto
perché la gente rida. Hanno dimenticato il consiglio della loro madre, la Sfinge. I corpi dei burattini
hanno perduto la loro grazia complessa: sono diventati rigidi. Gli occhi hanno perduto quella
infinita astuzia del far finta di vedere: ora sono soltanto sbarrati. Essi ostentano e fanno tintinnare i
loro fili metallici, e sono diventati eccessivamente tronfi nella loro saggezza di legno. Non si
ricordano più che l’arte loro dovrebbe recare in sé lo stesso suggello di riservatezza, che vediamo
qualche volta nel lavoro degli altri artisti, e che l’arte più alta è quella che nasconde ogni artificio,
non reca più traccia dell’artefice. Se non sbaglio, è l’antico Viaggiatore greco dell’Ottocento avanti
Cristo35 che, descrivendo una visita al tempio-teatro di Tebe, ci racconta come fosse soggiogato
dalla bellezza dei burattini grazie alla loro “nobile artificialità”. “Entrando nella sala delle Visioni
io vidi in lontananza la bella bruna Regina seduta sul trono - sulla sua tomba - mi sembrò infatti che
fosse l’una e l’altra cosa. Caddi a sedere e mi misi a osservare i suoi movimenti simbolici. Ogni
ritmo mutava in lei con tanta dolcezza trasmettendosi insieme al movimento da un membro
33
Da un altro punto di vista, che però non va trascurato o discusso con leggerezza, il cardinale Manning, inglese, è
particolarmente energico quando parla del mestiere dell’attore come di un mestiere che comporta “la prostituzione di un
corpo purificato dal battesimo”.
34
Nel testo inglese: Über-Marionette, vocabolo coniato sull’esempio dell’Über-Mensch nietzschiano. [N.d.T.]
35
L’antico Viaggiatore greco, a cui Craig allude qui, può essere soltanto Erodoto. Senonché, oltre all’evidente
anacronismo, essendo Erodoto vissuto nel V secolo a. C., il brano citato non trova riscontro nel II libro delle “Storie”
erodotee, che ha per argomento l’Egitto. [N.d.T.]
67
all’altro, con tanta evidente serenità discioglieva i pensieri della sua anima; con tale gravità e
bellezza indugiava nell’affermare il suo dolore, che mi dette l’impressione di essere insensibile a
qualsiasi sofferenza; non un tremito nelle membra o nell’atteggiamento tradiva il sopravvento delle
passioni: queste erano di continuo riafferrate dalle sue mani che ella muoveva soavemente e mirava
con tranquillità. Le braccia e le mani sembrarono ad un tratto simili a un sottile caldo getto d’acqua,
che s’innalzi, poi frantumandosi cada con dolci pallidi rivi simili a dita come pioggia nel suo
grembo. L’avrei considerata una rivelazione d’arte se non avessi già veduto lo stesso spirito negli
altri esempi dell’arte di questi Egiziani. Quest’Arte di Rivelare e di Velare, com’essi la chiamano, è
una loro forza spirituale così grande, da costituire nella religione la parte preponderante. Da essa
possiamo apprendere qualcosa sul potere e sulla grazia del coraggio, perché è impossibile essere
testimone di un tale spettacolo senza provare un senso di ristoro fisico e spirituale”. Questo
nell’Ottocento avanti Cristo. Chissà che i burattini non diventino una volta ancora il fedele mezzo
d’espressione dei pensieri dell’artista. È proibito forse sperare che il futuro ci riporterà ancora
l’immagine o creatura simbolica, anch’essa costruita dalla destrezza dell’artista, consentendoci di
riconquistare quella “nobile artificialità”, di cui parla l’antico scrittore? Allora non subiremo più la
crudele influenza delle sentimentali confessioni di debolezza, alle quali la gente assiste ogni sera, e
che inducono negli spettatori stessi la debolezza che mettono in mostra. Per questo dobbiamo
cercare di ricostruire quelle immagini - e non accontentarci più del burattino: dobbiamo creare la
Supermarionetta. La Supermarionetta non competerà con la vita - ma piuttosto andrà oltre. Il suo
ideale non sarà la carne e il sangue ma piuttosto il corpo in catalessi: aspirerà a vestire di una
bellezza simile alla morte, pur emanando uno spirito di vita. Parecchie volte, nel corso di questo
saggio, sono timidamente apparse sulla carta alcune parole intorno alla Morte - dal grido incessante
di “Vita! Vita! Vita!” che i realisti emettono in continuazione. Questa può essere facilmente presa
per affettazione, specialmente da chi non ha simpatia o non trova nessun piacere nel potere e nella
misteriosa gioia di tutte le opere d’arte scevre di passione. Se il famoso Rubens e il celebre
Raffaello non crearono che espressioni appassionate ed esuberanti, vi furono pero molti artisti,
prima e dopo di loro, per i quali la moderazione nell’arte fu il sogno più prezioso, e questi più di
tutti gli altri diedero prova di uno stile veramente virile. Gli altri artisti esuberanti o tiepidi, le cui
opere ed i cui nomi ottengono il favore dei moderni, non si esprimono da uomini, ma gridano
piuttosto come animali, o cianciano come donne.
I saggi, i moderati maestri, forti delle leggi, alle quali giurarono di restare sempre fedeli - i
loro nomi ignoti - sono i creatori dei grandi e piccoli dèi dell’Oriente e dell’Occidente, i guardiani
di quei templi più grandi: essi protesero i loro pensieri verso 1’ignoto, cercando panorami e armonie
in quella contrada pacifica e amena, per poter innalzare un’immagine di pietra o cantare un verso,
imprimendogli quella pace e quella gioia che avevano intravisto lontano e che li compensava della
tumultuosa angoscia terrena.
In America possiamo immaginare i membri di quella famiglia di maestri, viventi nelle loro
superbe antiche colossali città, che mi piace pensare potessero spostarsi in un sol giorno; città fatte
di spaziose tende di seta e di baldacchini d’oro, sotto cui dimoravano i loro dèi; abitazioni atte a
soddisfare le esigenze dell’uomo più incontentabile; quelle città nobili che, durante le migrazioni
dalle alture al piano, sopra i fiumi ed in fondo alle valli, somigliavano quasi a grandi eserciti di pace
in marcia. E in ciascuna città non vi erano solo uno o due uomini, chiamati “artisti”, a cui il resto
della popolazione guardava come a dei poltroni buoni a nulla, ma molti, scelti per il loro più alto
potere di percezione. Perché questo è il significato di “artista”: un uomo che percepisce più dei suoi
simili, e afferra più di quanto ha veduto. E non ultimo fra quegli artisti, c’era il maestro delle
cerimonie, il suscitatore delle visioni, il ministro il cui dovere era di celebrare lo spirito che li
guidava - lo spirito del Movimento.
Anche in Asia i dimenticati maestri dei templi e di tutto ciò che essi contenevano hanno
permeato ogni pensiero, ogni traccia del loro lavoro di questo senso di tranquillo movimento,
evocatore della morte - glorificandolo ed esaltandolo. Anche in Africa (che secondo alcuni,
comincia solo adesso a essere civilizzata) dimorò questo spirito, essenza di perfetta civiltà. Là pure
68
vissero i grandi maestri, i quali non erano individui ossessionati dall’idea di esaltare ciascuno la
propria personalità quasi fosse una cosa preziosa e potente, ma gente paga che una sacra pazienza
muovesse i loro cervelli e le loro dita nella sola direzione permessa dalle leggi - a servizio delle
semplici verità.
Quanto la legge fosse severa e come poco 1’artista di quei tempi si permettesse di far mostra
dei suoi sentimenti personali, si può constatare osservando un qualunque esempio dell’arte egizia.
Guardate ogni membro scolpito dagli Egiziani, frugate dentro quegli occhi intagliati: essi vi
respingeranno fino al giudizio universale. Il loro atteggiamento è così silenzioso, che somiglia alla
Morte. Pure c’è una tenerezza, c’è un fascino; sempre la grazia si accompagna alla forza; 1’amore
emana da ogni singola opera; ma 1’esuberanza, 1’emozione, la vanitosa personalità dell’artista? non un solo cenno di tutto questo. I dubbi angosciosi, il travaglio interiore? - assolutamente nulla.
La strenua risolutezza? - non un segno di ciò è sfuggito all’artista, nessuna di queste confessioni:
stupidaggini. Non l’orgoglio, non timore né comicità, nessun segno che la mente o la mano
dell’artista fossero anche solo per una frazione di un attimo fuori del controllo delle leggi che lo
disciplinavano. Che cosa meravigliosa! Questo è essere grandi artisti: la quantità di effusioni
sentimentali di oggi e di ieri non sono segni di suprema intelligenza, vale a dire non sono segni di
arte suprema. Questo spirito venne in Europa, si librò sulla Grecia, a stento poté essere allontanato
dall’Italia, ma finalmente fuggì, lasciando un piccolo fiume di lacrime - perle - davanti a noi. E noi,
dopo averne calpestate la maggior parte, dopo averle divorate insieme alle ghiande del nostro pasto,
siamo andati oltre e abbiamo mangiato di peggio, ci siamo prostrati davanti ai cosiddetti “grandi
maestri”, ed abbiamo onorato queste pericolose e sfavillanti personalità. Un giorno infausto
pensammo, nella nostra ignoranza, che essi fossero stati mandati per rappresentarci, che fossero
venuti ad esprimere i nostri pensieri, infine che quanto ispirava la loro architettura e la loro musica
in qualche modo ci riguardasse. E fu così che arrivammo a pretendere di poterci riconoscere in tutto
ciò a cui avevano posto mano: dovevamo esser presenti nella loro architettura, nella loro scultura,
nella loro musica, nella pittura e nella poesia; e li incitammo perfino ad invitarci con le parole
familiari: “Venite su, non vi formalizzate”.
Gli artisti, dopo molti secoli, hanno finito col cedere, e ci hanno dato ciò che chiedevamo. E
avvenne che, quando questa ignoranza ebbe allontanato il chiaro spirito che un tempo aveva
governato la mente e la mano dell’artista, uno spirito oscuro prese il suo posto: il predone insolente
sul trono della legge - vale a dire uno stupido spirito al potere; e ognuno cominciò a gridare al
Rinascimento! mentre i pittori, i musicisti, gli scultori, gli architetti gareggiavano senza sosta l’uno
contro l’altro per soddisfare alla richiesta: che ogni cosa fosse fatta in modo che tutti potessero in
qualche modo trovarvi la propria impronta.
Saltarono fuori ritratti con facce congestionate, occhi incavati, bocche contorte, dita rattratte
nell’ansia di uscire dalla loro forma, giunture dalle quali sporgevano vene gonfie; tutti i colori alla
rinfusa, tutte le linee in tumulto, simili ai deliri di un pazzo. La forma sconfina nel delirio, il
bisbigliare tranquillo e fresco della vita estatica, che un tempo aveva ispirato una speranza così
ineffabile, avvampa in fiamme e si annienta: al suo posto - il realismo, l’ottusa affermazione della
vita, una cosa che ognuno accetta e fraintende insieme. Una cosa lontanissima dal fine dell’arte, che
non è quello di riflettere i fatti quotidiani di questa vita; perché non è proprio dell’artista camminare
dietro le cose, avendo al contrario conquistato il privilegio di precederle - di guidarle. Piuttosto la
vita dovrebbe riflettere la traccia dello spirito, poiché fu lo spirito, che primo scelse l’artista perché
narrasse la sua bellezza36. E per una tale pittura, anche prendendo la forma dalla vita per la sua
bellezza e fragilità, il colore dev’esser cercato nella sconosciuta terra dell’immaginazione, la quale
che altro è, se non la contrada dove abita ciò che noi chiamiamo Morte? Vedete: non è per
leggerezza o per vanità che io parlo dei burattini e del loro potere di trattenere nel volto e nella
forma quelle espressioni belle e lontane, anche quando sono sottoposte a una pioggia di lodi, a un
36
“Tutte le forme sono perfette nella mente del poeta: ma esse non sono tratte fuori dalla Natura o composte a sua
immagine: esse vengono dall’Immaginazione”. William Blake.
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torrente di applausi. Vi sono persone che hanno preso in giro questi burattini. “Burattino” è in
genere un termine spregiativo, sebbene ci sia ancora qualcuno che trova in queste figurine, pure
così degenerate, della bellezza.
Parlare di burattini suscita in molti, uomini e donne, un riso insensato. Pensano subito ai fili,
pensano alle mani rigide e ai movimenti irregolari; dicono: “È un bamboccio ridicolo”. Ma
lasciatemi dir loro alcune poche cose intorno a questi burattini. Lasciate ch’io ripeta loro che i
fantocci sono i discendenti di una grande e nobile famiglia d’Immagini, immagini che erano
davvero “fatte a somiglianza di Dio”; e che molti secoli or sono queste figure avevano un
movimento ritmico e non a scatti. Non avevano bisogno di fili metallici che li sostenessero, né
parlavano attraverso il naso del manovratore nascosto. (Povero Pulcinella, io non volevo
disprezzarti! Tu stai solo, più grande nella tua disperazione, a guardare indietro nei secoli con le
lacrime dipinte umide ancora sulle tue gote antiche, e sembri gridare supplichevolmente al tuo cane:
“Sorella Anna, sorella Anna, non viene nessuno?”. Poi con una delle tue magnifiche bravate volgi
l’impeto del nostro riso - e delle mie lacrime - sopra te stesso con quello strillo acuto che giunge al
cuore: “Oh, il mio naso! Oh, il mio naso! Oh, il mio naso!”) Voi credete, signore e signori, che
questi burattini siano sempre stati delle cosine alte una spanna?
No davvero! Il fantoccio ebbe un tempo una forma più generosa della vostra.
Credete che egli sgambettasse su di una piccola piattaforma di due metri quadrati, fatta in
modo da somigliare a un teatrino all’antica, e costruita in modo che la testa del burattino giungesse
a sfiorare il soffitto del proscenio? E credete che abbia sempre abitato in una casetta con porte e
finestre piccole come quelle di una casa di bambola, con le persiane dipinte divise nel centro, e con
i fiori nel giardinetto pieni di petali sgargianti grandi come la sua testa? Cercate di cacciare del tutto
queste idee dalla vostra mente, e lasciate che vi dica qualcosa della sua abitazione.
In Asia si stende il suo primo regno. Sulle rive del Gange gli costruirono la sua casa, un
vasto palazzo che fra colonna e colonna si levava nell’aria e si immergeva nell’acqua. Circondata
da giardini si stendeva calda e ricca di fiori e rinfrescata da fontane: giardini dentro i quali non
penetrava alcun rumore, nei quali quasi nulla si muoveva. Soltanto nelle fresche, segrete camere di
questo palazzo si agitavano senza tregua le menti rapide dei servitori. Stavano preparando una festa
che gli si addicesse, una festa per onorare lo spirito che gli aveva dato la vita. Poi, un giorno, aveva
luogo la cerimonia.
A questa cerimonia egli prendeva parte: l’ennesima celebrazione in lode della Creazione;
l’antico atto di grazia, l’evviva all’esistenza, ed insieme il più severo inno al privilegio
dell’esistenza futura, che è velata dalla parola Morte. E durante la cerimonia apparivano, davanti
agli occhi, dei bruni adoratori, i simboli di tutte le cose esistenti sulla Terra e nel Nirvana. Il
simbolo dell’albero bello, il simbolo delle colline, i simboli dei ricchi minerali racchiusi nelle
colline; il simbolo della nube, del vento, e di tutte le cose alate; il simbolo del pensiero, del ricordo,
più veloce di ogni altra cosa; il simbolo dell’animale, il simbolo di Budda e dell’Uomo - ed eccola
giungere, la figura, il burattino di cui voi tutti ridete tanto. Voi oggi ridete di lui, perché non gli
rimangono che le sue debolezze. Egli le riflette da voi; ma non avreste riso, se l’aveste veduto
all’epoca del suo splendore quando era chiamato a rappresentare il simbolo dell’uomo nella grande
cerimonia, quando, nel suo incedere, era l’immagine stessa della gioia del nostro cuore. Se noi
ridessimo ed insultassimo la memoria del fantoccio, dovremmo ridere della caduta che abbiamo
prodotta in noi stessi - ridere delle fedi e delle immagini che abbiamo spezzate37. Pochi secoli dopo
37
Chiunque comprenda il valore della maschera e dei veli e li apprezzi si affianca allo scultore, all’architetto, all’orafo,
al tipografo. Credete che il più modesto di loro disprezzi la materia che lavora? Credete che il proto che compone la sua
pagina non provi alcun sentimento per i suoi servi fedeli, i caratteri di stampa? Credete che egli permetta a qualcuno di
toccare le sue cassette? o che non si affezioni al conio, alla balestra e agli altri suoi collaboratori inanimati? La spada
non è più cara al soldato di quanto lo sia il compositoio al tipografo. Osservate come lo scultore ama e accarezza la
fredda pietra che collabora con lui alla sua opera. Avete notato come la guarda? L’avete visto scegliere qualche bel
blocco di marmo o di granito? Egli non lo attacca come fa il domatore con una belva non ancora domata; non c’è lotta
per decidere chi vincerà; non c’è zuffa fra animale e animale. Si tratta qui di tutt’altra cosa. Lo scultore confida
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troviamo la sua casa un po’ più logora per l’uso. Da un tempio che era è divenuta, non dirò un
teatro, ma qualcosa tra il tempio e il teatro, e in essa egli va perdendo la sua salute. Qualcosa è
nell’aria. I dottori gli dicono che deve stare attento. “Cosa devo temere di più?” egli domanda. Gli
rispondono: “Temi soprattutto la vanità degli uomini”. Egli pensa: “Questo è quel che io stesso ho
insegnato; questa è la paura che ho previsto per noi che celebriamo con gioia questa nostra
esistenza. È possibile che io, l’unico ad aver rivelato questa verità, debba essere l’unico a perderne
la nozione, debba essere uno dei primi a cadere? È chiaro che si sta tramando insidiosamente contro
di me. Terrò gli occhi rivolti al cielo”. E congeda i suoi dottori e medita su ciò.
E ora lasciatevi dire chi fu che venne a turbare l’aria tranquilla che circondava questa
singolare cosa perfetta. Si racconta che molto tempo dopo egli prese dimora sulle coste
dell’Estremo Oriente, e qui vennero due donne a guardarlo. Nella cerimonia alla quale esse
assistettero, egli fiammeggiò di tanto vivo splendore terreno, ma anche di una semplicità tanto
ultraterrena, che - al contrario delle altre millenovecentonovantotto anime che partecipavano alla
festa, nelle quali si provocò uno stato d’estasi che illuminava la mente anche se l’ubriacava - in
queste due donne si provocò soltanto un’ubriacatura. Egli non le vide, gli occhi fissi al cielo, ma le
riempì di un desiderio troppo grande per essere spento: il desiderio di assurgere a simbolo diretto
della divinita nell’uomo. Non frapposero indugi; vestendosi delle migliori vesti che potevano
(“come le sue”, esse pensavano), muovendosi con dei gesti (“come i suoi”, pensavano), e riuscendo
a produrre meraviglia negli animi degli spettatori (“come fa lui”, gridavano), esse costruirono da sé
un tempio (“come il suo, come il suo”), e soddisfecero le richieste del pubblico con questa misera
parodia.
Questo si racconta. È il primo ricordo dell’attore in Oriente. L’attore nasce dalla folle vanità
di due donne, che non furono abbastanza forti da guardare il simbolo della Divinità senza desiderare
di imitarlo; e la parodia si dimostrò profittevole. In cinquanta o cent’anni si dovevano costruire sedi
per tali parodie in tutte le parti del mondo.
Le male erbe, si dice, crescono rapidamente, e questo deserto di male erbe che è i1 teatro
moderno spuntò in fretta. L’immagine della marionetta divina attirò sempre meno amatori, e le
donne appunto divennero “la moda”. Con lo svanire del burattino e la progressiva comparsa, al suo
posto, di queste donne che facevano mostra di sé sul palcoscenico, si impose lo spirito oscuro che
ha nome Caos, e sulla sua traccia il trionfo delle personalità turbolente. Vedete ora che cosa mi ha
spinto ad amare, a cominciare ad apprezzare quello che chiamiamo il “burattino”, facendomi
detestare ciò che si chiama “vita” nell’arte? Io prego assiduamente per il ritorno dell’immagine - la
Supermarionetta - nel teatro; e quando essa tornerà, non appena essa verrà veduta, sarà amata a tal
segno, che ancora una volta sarà possibile ai popoli ritrovare nelle cerimonie l’antica gioia - ancora
una volta la Creazione sarà celebrata - sarà tributato omaggio all’esistenza - e sarà fatta divina e
felice intercessione alla Morte38.
Firenze, marzo 1907.
nell’aiuto che gli verrà dato dalla bella pietra fredda. Trasalisce del più nobile piacere, perché comprende la natura
divina di questo aiuto volontario e sicuro - che non è una sottomissione.
Quanto all’architetto, egli ama la Proporzione. Che cos’è la Proporzione? Una semplice faccenda di calcolo,
direte voi.. Numeri... Eh, sì, è una fredda equazione, che sta alla base della cattedrale di Colonia. Tuttavia guardate il
fremito d’estasi divina sorto da ciò che vi sembrava insensibile, lettera morta, freddo calcolo. Voi mi direte che si tratta
soltanto di Immaginazione, di Ispirazione, e ve ne infischierete del calcolo. Notate bene che questa medesima
Immaginazione, questa medesima Ispirazione sono a servizio del teatro, eppure l’artista della scena non ne ha mai tratto
una perfezione che stia alla pari con la cattedrale di Colonia o il Partenone.
No. La colpa è dell’uomo; e ogni uomo che sceglie un materiale bello per il suo lavoro, come lo scultore o
l’architetto, deve creare un’opera più nobile di quella dell’attore, il quale prende soltanto se stesso come materiale per
la propria opera. [Nota aggiunta dall’Autore per l’edizione francese].
38
“L’architettura egiziana, la più antica a noi nota - con i suoi architravi - i suoi monumenti concepiti in linee nobili, in
blocchi massicci - sempre dedicati alle Divinità della Morte, prodigi di grandiosità, di solenne serenità, di eterna
durata”. Dr. G. Carotti, Histoire de l’Art. [Nota aggiunta dall’Autore per l’edizione francese].
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72
Testi e autori drammatici, dipinti e pittori nel teatro
Dovunque io vada, tra persone più o meno intelligenti, che abbiano letto con più o meno
attenzione quanto ho scritto sul teatro, torna sempre a galla l’eterna domanda. A volte
aggressivamente, a volte cortesemente, mi chiedono: “È vero che volete abolire tutti i lavori teatrali
dalla scena? È vero che trovate la poesia fuori posto, in teatro? Che cos’è questa strana idea che ciò
che per tanti secoli ci era sembrato buono, oggi tutt’a un tratto deve apparirci cattivo?”. È davvero
molto difficile rispondere a queste domande, ma, appunto perché è molto difficile, cerchiamo di
farlo.
Naturalmente ai miei occhi tutto il problema è così chiaro, che non è un vero e proprio
problema: mi pare ovvio che quando uno si accinge a un lavoro non debba servirsi della mano di un
altro, e poi dichiarare “è tutta opera mia”.
A me tutto ciò appare così ovvio che, per rispondere ragionevolmente e con esattezza a
quelli a cui non sembra altrettanto ovvio, bisogna che mi astragga dal quadro che ho dinanzi a me, e
consideri dettagliatamente il loro modo di vedere. Così facendo però devo tornare a porre sul
tappeto degli argomenti ordinari che sono già evidenti ai più di noi; ma forse è inevitabile, se
vogliamo risolvere la questione.
Detesto dimostrare a qualcuno che ha torto, specie se si tratta di una persona che non
s’intende d’arte. Ho una stima più che profonda per il suo buon senso; inoltre non ci tengo affatto a
provare che chi va in platea a vedere il Riccardo III fa male ad andarci, a prescindere dalle ragioni
che ve l’hanno spinto.
Prendiamo l’intera prima fila di una platea londinese, composta di una ventina di individui.
Chiediamo loro perché sono venuti a teatro. Cinque rispondono: “Vado a veder recitare il
tale”. Tre rispondono: “Il lavoro è così bello; mi piace tanto ascoltarlo”. Due, ridendo scioccamente
ci dicono: “Non sappiamo bene perché siamo venuti, ma è così divertente”. Altri due hanno
obbedito a un senso di dovere nei riguardi degli attori e nei riguardi del pubblico; e gli ultimi otto ci
daranno altrettante spiegazioni diverse e contraddittorie per giustificare la loro presenza.
Uno dirà che è lo straordinario senso dell’impossibile, la spaventosa assurdità di tutto
l’insieme, che lo affascina (eccellente critico!).
Un secondo vi confesserà, che dopo aver passato la giornata tra gente noiosa e banale, trova
interessante unirsi a un gruppo di persone che se ne stanno sedute in silenzio a guardare degli attori
e delle scene che insieme creano una funzione su di un palco.
Poi c’è il terzo, il critico: quello che ha letto che Edmund Kean illuminava Shakespeare con
dei lampi di genio, che i Kemble erano della “scuola classica”, mentre Charles Fechter era un attore
romantico; quello che ha letto una storia del teatro, la quale liquida in due pagine i primi duemila
anni per entrare in particolari solo con l’età shakespeariana. Ebbene, quest’uomo è venuto perché
sente in qualche modo che, senza di lui, la rappresentazione sarebbe incompleta; egli è uno di
“color che sanno” - non ha forse letto tutto, sull’argomento?
Vicino a costui è seduta una giovane signora, che, con l’intelligenza propria del suo sesso, è
pronta a vedere tutto quel che c’è nella rappresentazione, e anche di più (o di meno), se occorre: in
generale pero inclina per il “più”; anzi è la paladina del “più”, sempreché lo trovi.
Al suo fianco c’è il brontolone, quello che va a teatro perché “deve” e che, io credo, è
sempre quello che si commuove di più di fronte a ciò che vede. Tuttavia, appena calato il sipario, vi
dirà che non era assolutamente questo ciò che si aspettava: “gli attori sono tanti bastoni, non hanno
nulla di reale”. Poi ci fa osservare che una scena si muoveva, protesta contro la musica di fondo che
guasta l’effetto; e polemizza contro tutte queste luci abbaglianti che annullano l’illusione. Quale sia
poi quest’illusione che viene annullata, non lo sa proprio dire. Ma, mentre il resto della fila dice che
la rappresentazione era molto bella ed applaude di cuore, lui seguita a recriminare e borbottare,
concludendo che, “non era assolutamente questo il modo”.
Vediamo così che ciascun individuo, uomo o donna, è venuto a teatro per un motivo diverso,
vede le cose sotto un diverso aspetto, eppure concorre a costituire ciò che chiamiamo “il pubblico”;
73
cioè un’entità globale - quel pubblico che l’attore considera come una sola persona e che noi
dobbiamo accettare come lo “spettatore ideale”.
Una cosa però è certa: nessuna di quelle persone può fare a meno del teatro. Bisogna
ammettere poi che su venti di loro, quindici sono venute per vedere qualcosa. Anzi potrei dire che
tutte e venti sono venute per vedere, poiché le prime cinque della nostra lista, quelle venute per
ascoltare Shakespeare, ammettono, più o meno esplicitamente, che desideravano vederlo
rappresentato; altrimenti, come tanti, se lo sarebbero letto in silenzio, a casa loro, ascoltando solo
con le orecchie della mente, e integrando la lettura con tutti i meravigliosi e straordinari dettagli
dalla mente immaginati; oppure avrebbero optato, come altri, per una lettura collettiva nelle società
shakespeariane.
Possiamo dire quindi con sicurezza che tutti desideravano vedere il lavoro. E questo
desiderio è il più vivo della natura umana. Solo quando vede, l’uomo crede profondamente.
Ci sono un’infinità di prove al riguardo, e molte ve ne verranno in mente, senza che io ve le
citi. È dunque ragionevole chiedere che quel che la gente desidera e va a cercare a teatro, le venga
dato. Essa vuol vedere qualcosa; bisogna mostrarle qualcosa. Solo così la si contenterà.
Io sostengo pertanto che per soddisfare veramente la vista, e, mediante la vista, l’anima della
persona, non dobbiamo confonderne il potere visivo, che è assai delicato, sollecitando
contemporaneamente l’orecchio con musica o parole, turbando la mente con problemi, e scuotendo
il corpo con passioni.
Prendiamo un esempio per chiarire ciò che intendo: quel passo della tragedia di Macbeth, in
cui questi cerca di suscitare in sé la forza necessaria per uccidere il Re Duncan. Egli vaga qua e là
per gli oscuri corridoi del castello. Dietro a lui, come un’ombra, viene un servo; passano e ripassano
davanti a una finestra. Mi sembra di vederlo fermarsi e guardare a lungo, fuori, verso la campagna.
Continua il suo vagare da belva, finalmente si siede su di un banco di pietra. Il servo, che tiene un
lume vacillante, lo guarda, e lui a sua volta guarda il servo. Ancora una volta comincia a misurare
coi suoi passi il corridoio; ha paura d’essere lasciato solo. Pensa alla moglie, ed ha ancora più paura
della solitudine... “Va’, prega la tua padrona, quando la mia bevanda sarà pronta, di suonare la
campana”. Il servo parte. Macbeth continua a vagare su e giù. Nella sua agitazione la figura della
moglie prende il posto di quella del servo. Si sente particolarmente forte; ha un pubblico; sembra
prender coraggio, e la passione insana si infiamma in lui. Sì. Ucciderà il Re Duncan. Il servo
ritorna, lo fa trasalire per un istante. “Va’ a letto”, gli dice. E guarda la fiamma della torcia che
rimpicciolisce, rimpicciolisce sempre più, giù lungo i gradini verso il sotterraneo; una fiamma
dapprima, ora un guizzo soltanto, un guizzo...
Questo che vedo davanti a me, è un pugnale
l’elsa rivolta verso la mia mano? Su, lasciati prendere:
non ti tengo fra le dita, eppure ti vedo ancora.
Non sei tu dunque, fatale visione, sensibile
al tatto come alla vista? o sei tu solo
un pugnale della fantasia; un’immagine falsa
scaturita dal mio cervello in fiamme?
lo ti vedo tuttavia, di forma perfettamente uguale
a questo che io ora impugno.
Tu mi indichi la via verso cui mi dirigevo,
e sei proprio l’arma che io avrei usata.
I miei occhi son fatti lo zimbello degli altri sensi,
oppure dominano tutti gli altri, da soli. Ti vedo ancora;
e sulla tua lama e sull’impugnatura gocce di sangue
che prima non c’erano. - Ma no, non ci sono!
È l’atto di sangue, che suggestiona
così i miei occhi. - Ora su metà del mondo
la natura sembra morta, e sogni malefici forzano
le cortine del sonno; ora le streghe celebrano
i riti della pallida Ecate; e il livido assassino,
74
svegliato dalla sua sentinella, il lupo,
i cui ululati gli avvertono l’ora, così, furtivamente
col passi rapaci di Tarquinio, verso la mèta
si dirige come uno spettro - Tu, ferma terra che fai eco ai suoni,
non ascoltare i miei passi, per che strada camminano, perché temo
che anche le pietre possano dire dove io vado,
e sottrarre quest’attimo orrendo al tempo
che ora è propizio. - Ma finché parlo, egli vive:
le parole soffiano una troppo fredda brezza sul fuoco dell’azione
(suona una campana)
Vado; è fatto; la campana m’invita.
Non udirla, Duncan; perché è un rintocco funebre
che ti chiama in cielo, o all’inferno39.
Veniamo ora a quel che dicevo. Questa stessa idea, queste stesse figure, queste stesse
visioni, possono essere meglio portate dinanzi agli occhi, e in tal modo nell’anima del pubblico, se
l’artista concentra i suoi sforzi a risvegliare il nostro potere visivo, piuttosto che ad ingenerare
confusione, stimolando simultaneamente quello intellettivo ed uditivo.
È già difficile leggere questo soliloquio di Macbeth lentamente, nella quiete della nostra
stanza, senza alcun rumore o vista estranea, e intendere tutto il valore di quel che Shakespeare vi ha
messo. Rileggendolo tre, quattro o cinque volte, allora soltanto ne potremo afferrare parte del
significato; e dopo averlo letto tre, quattro, cinque volte, se uno continua a leggere l’intera tragedia
ne rimarrà affaticato come se avesse camminato per venti miglia. Ma almeno avrà sentito qualcosa
di quello che Shakespeare voleva fargli sentire, sebbene certamente non tutto. Ebbene, quello che
ha sentito il nostro ipotetico lettore, noi non riusciremmo a sentirlo andando a vedere la
rappresentazione a teatro.
Quando leggiamo quei versi, non siamo più chiusi entro quattro pareti; seguiamo Macbeth
fino alla sommità del castello, spingiamo lo sguardo entro il bosco pieno di cornacchie e al di là
delle colline; possiamo scendere con lui nei sotterranei, o uscir fuori fra i cespugli che circondano
fitti le scarpate dell’umido castello di Glamis. E se in verità andassimo solo così lontano con
Shakespeare, non avrei ragione di dolermi per essermi rinchiuso fra le tre pareti che ci circondano
in teatro: non sarebbe una grave perdita. Ma, in realtà, quando leggiamo, cavalchiamo con
Shakespeare gli invisibili corsieri dell’aria; la Pietà, simile a un bimbo appena nato, indifeso, sta
sospesa dinanzi ai nostri occhi, nell’aria; vediamo la figura del “livido assassino” coi passi rapaci di
Tarquinio passarci davanti; ci sembra che vaghi in cerca di preda per la nostra stanza tutto il tempo
che leggiamo. Udiamo la campana suonare il rintocco funebre alla morte di Duncan; il suo suono
riecheggia più volte lontano, mentre stiamo leggendo. Più oltre, “Domani e domani e domani; si
insinua coi suoi piccoli passi giorno dopo giorno”. Tutt’intorno alla nostra camera, fuori della
finestra, nella stanza sopra la nostra testa, continuamente si insinua il domani e il domani. Tutto
questo va perduto, in teatro. Ed è una perdita grave.
Non sono persone o cose che ci circondano e ci posseggono, mentre sediamo e leggiamo, ma
idee. E quando un’arte è così grande, così perfetta, da poterci donare, alla sola lettura, sensazioni
pervase di una magia tanto rara, è per lo meno sacrilegio distruggere la fonte di tali sensazioni,
confondendo noi stessi e la nostra percezione, chiamando in causa tutti i nostri sensi
contemporaneamente.
Tutto questo dovrebbe riuscire ovvio. Perciò, sebbene pensare ad una totale cessazione della
messa in scena di questi drammi sia mera illusione, voglio sperare almeno che raramente essi
vengano rappresentati, dato che, per i motivi che vi ho detto, la scena ce ne fa perdere il significato
più profondo.
39
Macbeth, atto II scena 1.
75
E c’è un’altra ragione a mio favore: quelle stesse idee, quelle stesse impressioni - o se
volete, quella stessa bellezza e filosofia - possono essere portate dinanzi agli occhi degli spettatori,
senza confondere, facendo appello agli altri sensi, le idee.
Possiamo vedere un uomo (si può chiamare Macbeth, quantunque sapere il suo nome non
abbia alcun valore) che passa attraverso dubbi e timori - una semplice figura in azione; e intorno a
lui altre figure in azione; non potremo certo ricevere la superba impressione che solo un maestro
(quale Shakespeare) ci può dare, ma avremo attraverso gli occhi un’impressione più chiara che non
se fossero sollecitati nello stesso tempo tutti gli altri sensi i quali, anziché aiutarci, creerebbero
soltanto confusione - come sempre avviene.
Supponiamo che si stia guardando il famoso quadro di Signorelli, che è alla Galleria di
Berlino. Non credo proprio che un quartetto d’archi che suonasse lì vicino nello stesso momento
gioverebbe alla nostra vista; né che se uno ci recitasse contemporaneamente La nascita di Pan ci
farebbe meglio intendere i pregi del quadro. Ci confonderebbe soltanto.
Supponiamo che si stia ascoltando la Sinfonia pastorale di Beethoven. Io non credo che un
panorama di contadini intenti a falciare il fieno, o la lettura armoniosa di un brano del Shepheards
Calendar di Spencer aggiungerebbe niente alla comprensione o al godimento delle bellezze della
Sinfonia. Ci confonderebbe soltanto.
Si è mai fatta una prova del genere? No, davvero! I musicisti hanno difeso bene il loro
giardino. I pittori hanno fatto altrettanto. Gli uomini di teatro invece hanno abbandonato la loro
vigna, che è stata usurpata da chiunque ne abbia voluto far uso. Un tempo se ne servirono gli autori
drammatici: Shakespeare, Molière e gli altri, poi Wagner; e oggi vediamo che il pittore sta
mettendo gli occhi sul nostro bel posticino; il pittore, che ha migliaia e migliaia di acri di terreno,
dei quali ha coltivato fino ad oggi, in modo squisito, una piccola parte. Ma ora il pittore e il
musicista, come pure lo scrittore, non si contentano più dei loro vasti possessi; così l’usurpazione
continua.
E io sono qui a dirvelo, e a reclamare il teatro per quelli che sono nati nel teatro. E ci
riusciremo! Oggi o domani, o fra cento anni, ma ci riusciremo! Così, vedete, io non voglio
eliminare ogni testo dalla scena per ostentazione, ma in primo luogo perché ho osservato che i testi
a teatro vengono rovinati, e in secondo luogo perché i testi e gli autori drammatici rovinano noi, ci
privano cioè della nostra autonomia e della nostra vitalità.
In Germania, in Inghilterra e perfino in Olanda, dove pure a volte sanno essere
particolarmente intelligenti, si afferma che io voglio irragionevolmente gettar fuori i testi e gli
autori drammatici dal teatro senza alcun motivo, e si aggiunge che intendo sostituire il pittore
all’autore.
Quest’opinione ha origine dal fatto che io ho disegnato molte scene sulla carta. Ai miei
tempi ho messo in scena molti lavori e nella maggior parte dei casi non usavo fare prima alcun
bozzetto; e se oggi avessi un teatro mio non traccerei sulla carta i disegni che ho in mente, ma li
trasporterei direttamente sul palcoscenico.
Ma poiché questo teatro mio ancora non lo possiedo, e poiché il cervello non mi dà tregua
finché questi disegni e queste idee non hanno ricevuto una forma qualsiasi, mi vedo costretto a
farne oggetto di studi con i mezzi limitati che ho a disposizione. Così mi si giudica da quel che
disegno sulla carta e mi si acclama come Maler, come pittore, e subito gli incoscienti si mettono a
gridare: “Ah! abbiamo scoperto il tremendo complotto: quest’uomo non parla che da un punto di
vista limitato. Vuole cacciar fuori dal palcoscenico, i nostri testi soltanto per sostituirli coi suoi
quadri!”.
Ma, signori miei, vi assicuro, siete caduti in un altro errore. Un errore in verità facile a
commettersi ed alquanto difficile da evitare, perché naturalmente voi vi chiedete: “Se costui non è
un pittore, allora che cos’è? Non può essere un direttore di scena, perché se così fosse per prima
cosa chiederebbe un autore, mentre invece non ne vuole...”. Comprendo perfettamente il vostro
imbarazzo. Come potreste capire quel che ancora non è? come potreste credere in ciò che non avete
ancora veduto? Oh! se ci fosse in tutto il mondo un pugno d’uomini che, vedendo con gli occhi
76
della fantasia, credessero nel più intimo della loro mente a quel che “vedono”! Lasciatevi dire
ancora una volta che non soltanto il lavoro dello scrittore è inutile a teatro. Anche il lavoro del
musicista lo è, ed anche quello del pittore. Tutti e tre sono completamente inutili. Che essi rientrino
nelle loro riserve, nei loro regni, e lascino agli Artisti del Teatro il possesso dei loro domini! Solo
quando questi ultimi saranno di nuovo riuniti, sorgerà un’arte così alta, e così universalmente
amata, che - lo profetizzo - si scoprirà in essa una nuova religione. Una religione senza prediche,
fatta di rivelazioni. Non ci mostrerà le immagini definite che lo scultore e il pittore ci offrono. Essa
svelerà al nostri occhi i pensieri, silenziosamente - per mezzo dei movimenti - in un susseguirsi di
visioni.
Così ora vi rendete conto - o, almeno, lo spero - che il teatro non ha nulla a che fare con
l’autore drammatico e con la letteratura. Vedete anche che la mia proposta è davvero innocua
(qualcuno dirà: davvero insensata) - voglio soltanto reintegrare la nostra Arte antica ed onorevole.
Innocua, perché vedete come io sia completamente libero da ogni prevenzione nei confronti del
poeta o del drammaturgo. Inoltre i miei sentimenti avranno ben poca influenza sul teatro moderno.
Il teatro moderno manterrà la sua posizione e continuerà immutato finché il pittore non mostrerà un
po’ più i denti, ed allora diventerà teatro ultra-moderno; poi verrà il turno di qualche altro artista forse dell’architetto; infine questi due se lo contenderanno, sarà una bella piccola baruffa, e noi
uomini di teatro, come il terzo cane, scapperemo con l’osso. Eccola!
1908.
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Il teatro in Russia, in Germania e in Inghilterra
Due lettere a John Semar
I.
Il teatro in Germania e in Inghilterra
Caro Semar,
alla mia partenza da Firenze mi avevi chiesto di inviarti notizie sui teatri che avrei visto in
Germania, in Inghilterra e in Russia: non ero neppure giunto a Monaco, che già volevo spedirti
notizie sufficienti a riempire tre numeri di The Mask.
Arrivato ad Amsterdam volevo mandarti ancora altre notizie; ora che sono in Inghilterra
vedo che è assolutamente necessario non rimandare oltre.
Non intendo scrivere nulla sull’Arte del Teatro, perché essa in realtà non esiste, però si può
scrivere sull’attività o sull’inattività del teatro, e se mi chiedi dove il teatro è più attivo, ti devo
rispondere: in Germania. L’attività tedesca non è soltanto impulsiva, ma è sistematica, e questa
combinazione porterà entro vent’anni il teatro tedesco al primo posto in tutta Europa. Giudico
secondo quel che ho veduto, non per sentito dire; e questo è quel che ho veduto a Monaco.
Ho visto principi dare il loro nome e il loro denaro per sostenere il teatro. Ho veduto un
nuovo teatro costruito a Monaco dall’architetto professor Littmann; l’ho visitato, e ti posso assicurare che è di prima categoria. Non ha quella stupida faccenda delle balconate una sull’altra, con
dorature inutili e colonne di marmo, con altrettanto inutili drappi felpati o di seta, con enormi
lampadari o con i soliti palchi per l’orchestra o il solito palcoscenico. È una cosa del tutto fuori
dell’ordinario, eppure vedi dei principi che sostengono l’impresa, senza chiamarla eccentrica, e quel che è più importante - anche il popolo l’incoraggia. Ho cercato di procurarmi una poltrona per
la rappresentazione della sera stessa, e sebbene si fosse alla fine della stagione, non ci sono riuscito.
Grazie alla cortesia del professor Littmann son potuto salire sul palcoscenico di giorno, visitare
l’auditorium, e vedere i dispositivi scenici quelli per l’illuminazione.
Non sono affatto simili a quelli che ho sempre veduto altrove. Non voglio discutere se siano
tecnicamente migliori o peggiori, ma la cosa su cui desidero richiamare la tua attenzione è che,
sebbene siano completamente nuovi, completamente originali, pure ricevono aiuto, e non un timido
appoggio, ma l’aiuto entusiasta, senza riserve, di tutta la città di Monaco. Ed ora eccomi in
Inghilterra, e non vedo neanche una città che offra col cuore il sia pur minimo appoggio a una
qualsiasi idea originale che venga in mente ai giovani; tutto questo è semplicemente vergognoso. In
Inghilterra abbiamo, io credo, la stessa intelligenza, lo stesso gusto, e forse la stessa genialità, che
nelle altre nazioni. La bellezza, caro Semar, la bellezza dell’Inghilterra è straordinaria, la bellezza
di questo popolo è stupefacente, ma la sua energia sembra, per il momento, nulla.
Credo proprio che tutti gli artisti si siano messi a giocare a golf o a tirare ai fagiani.
Immagino che preferiscano vivere all’aria aperta piuttosto che star seduti al chiuso per sentirsi
insultare da una massa di ricchi blasonati dormiglioni, ai quali non è mai venuto in mente che ci
possa essere qualcosa di meglio da fare, invece che dormire. Prima di partire dall’Inghilterra,
pensavo che la colpa fosse dei capocomici e degli uomini di teatro; ma i capocomici non son poi da
condannare del tutto. Il paese è da biasimare e con esso i ricchi gentiluomini d’Inghilterra. Cosa mi
dà diritto di parlare così? Il mio soggiorno in Germania di circa quattro anni, i miei viaggi in Russia
e in Olanda e, per finire, quest’ultima visita di due giorni a Monaco. Uno vede e di colpo
comprende tutto; dopo aver atteso, guardato, indagato, chiesto, d’un tratto tutto appare chiaro. A
meno che i gentiluomini inglesi non si sveglino e decidano di mettere da parte l’abito da snob per
indossare un abito la gentiluomo, il teatro non risorgerà - finché un giorno non si accorgeranno di
aver perso tutto il loro denaro, finito in mano di una nazione straniera, e non si guarderanno attorno
disperati in cerca di qualcuno che li aiuti. Allora vedranno gli artisti e i lavoratori. Non sono un
socialista. Mi piace pensare agli eleganti lord inglesi; ma questi lord eleganti, dai modi sicuri, non
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esistono più: sono tutti sonnambuli con la faccia e la barba bianca; vanno su e giù da una città
all’altra del Regno, mormorando fra sé “Grazie a Dio, papà mio m’ha lasciato in buone condizioni!
Ora non avrò più di che affliggermi!”. Ma certamente avranno ancora molto di che dolersi, mi
sembra, e in un modo che non s’aspettano. No! Non sono socialista, caro Semar, non ancora!
Ancora una o due parole sul teatro di Monaco - il Münchner Künstler Theater - cioè il
Teatro degli Artisti di Monaco. Un certo numero di artisti inglesi, forse i migliori, vedono qualcosa
di allarmante in quel che essi chiamano teatro d’Arte, Arte con la A maiuscola. Ma perché
quest’Arte non dovrebbe avere la “A” maiuscola, come ogni altra? Ho visto la parola Guerra con la
“G” maiuscola, cos’è al confronto Arte con la “A” maiuscola?
Non ti posso parlare di tutti i lavori che mettono in scena, ma voglio solo ricordare il Faust,
che comincia alle sei di sera, per poterlo rappresentare integralmente; il Teatro delle Meraviglie,
lavoro di cui certo pochi avranno sentito parlare, scritto da uno sconosciuto, Cervantes; o anche Die
Deutschen Kleinstädter o La dodicesima notte; oltre a questi c’è La Regina di Maggio,
Tanzmärchen, Herr Peter Squenz, ed altri lavori di grande interesse.
Queste messe in scena sono opera di pittori e di attori, ma non di attori sconosciuti, di attori
cosiddetti indipendenti. Sono gli attori del Teatro Reale, cioè quelli che noi chiamiamo attori della
scuola tradizionale. Vien fatto di chiedersi se, qualora si trovasse un uomo tanto generoso da
costruire in Inghilterra un teatro d’Arte, i teatri più importanti sarebbero disposti a cedere i loro
attori. L’orchestra del piccolo teatro di Monaco non è un’orchestra di fortuna, ma è l’Orchestra
della Società Filarmonica!
Ora, con un simile inizio, con un complesso tale di attori, musicisti e scenografi (non
parliamo dei direttori di scena, che sono quanto di meglio si possa desiderare), è lecito attendersi
molto. Anche in Inghilterra si potrebbe sperare altrettanto, con una “troupe” del genere. Sebbene
non abbia potuto vedere lo spettacolo, non dubito che sia stato eccellente, perché affatto completo.
Ho veduto il palcoscenico, e te ne voglio parlare.
Era assai piccolo, ma completissimo. Sembrava che niente fosse lasciato al caso. I tiri, le
scene, le luci, tutto sembrava fuori del comune; si aveva l’impressione che ogni cosa fosse riposta
come in un armadio. Le scene in uso erano tutte montate non so dirti con quanta perfezione e
ingegnosità. Il palcoscenico era preparato per la sera, con le sedie e i tavoli coperti. Lo scenario,
sebbene lo si stesse usando già da parecchi mesi, non mostrava alcuna traccia di usura; anche gli
angoli, dove si congiungono più pezzi, sembravano nuovi come il primo giorno. Ogni cosa era
curata a meraviglia. Ero incantato da ciò che vedevo e che pareva dirmi chiaramente: “Noi tedeschi
non siamo in grado di dire se lo spettacolo sarà un’opera d’arte o no; non possiamo dire se stasera
verrà a teatro in genio o uno stupido; ma siamo decisi a far trovare - a questo stupido o a questo
genio - tutto in perfetto ordine; e lui non avrà nulla da ridire sulla disposizione materiale delle cose.
Se non avremo predisposto un meccanismo efficiente (non necessariamente un meccanismo
complicato) il lavoro non avrà alcuna possibilità di buona riuscita”.
Sarebbe curioso vedere in che modo i tedeschi intraprendono un compito del genere;
sarebbe molto interessante sapere se è un comitato a organizzare tutto questo sistema, o se è effetto
di un’educazione nazionale, o se dipende dalla personalità di uno solo. Secondo me deriva
dall’educazione nazionale. “Dietro front! Avanti march! Fianco destro!”. Qualcosa del genere. Le
macchine di scena del teatro mi sembrava che provenissero da ogni parte del mondo; la Germania è
caratteristica proprio per questo, perché non rifiuta la minima cosa, se pensa che possa essere utile.
Non ti ho parlato dell’edificio in se stesso. È molto bello; sarebbe lungo descriverti i suoi
aspetti piacevoli, ma anche qui la bellezza passa in secondo piano, l’essenziale è la praticità e
l’utilità. Entri nell’edificio, e subito di fronte a te c’è la cassa per i biglietti. Dai due lati ci sono dei
gradini che portano alle poltrone, persino le indicazioni sul percorso da seguire fanno parte della
decorazione d’insieme: non hanno l’aria, come in Inghilterra, di cartelli appesi al muro. C’è molto
ancora da dire. Ti scriverò ancora su questo e altri teatri, e speriamo che in Inghilterra ci si decida a
intraprendere un’azione comune per questa faccenda di un teatro nuovo. Prima di tutto è necessario
che i gentiluomini inglesi comprendano il ruolo che dovranno sostenere; poi che anche gli
79
organizzatori sappiano la loro parte; e infine che si ricorra all’artista per riempire di cose belle un
teatro bello e ben strutturato.
P.S. A proposito, passando per la porta di scena del teatro ho notato questa scritta:
“Sprechen Streng Verboten”, che significa “È severamente proibito parlare”. In un primo momento
ho pensato di essere in cielo. Ho pensato: “Finalmente hanno scoperto l’Arte del Teatro”. Invece
no, non sono andati tanto lontano. Che strano! Ma la chiave è proprio in quel Sprechen streng
verboten.
Inghilterra, 1908.
Nota. Dopo questo mio scritto, i tedeschi, guidati dal loro grande maestro professor Reinhardt, hanno
invaso l’Inghilterra e hanno dimostrato che quanto scrivevo nel 1908 era esatto. Hanno dato all’Inghilterra
una bella lezione in fatto di amministrazione teatrale e di arte teatrale moderna.
II.
Il teatro in Russia e in Inghilterra
Caro Semar,
avevo intenzione di scriverti del teatro in Inghilterra. Forse uno di questi giorni mi sentirò
più ispirato e ti invierò su di una cartolina illustrata le poche righe necessarie a definire quel che
penso del teatro in Inghilterra, ma oggi mi mancano le parole.
È che, sai, l’ho veduto or ora, lui e gli allegri compagni che lo compongono: sono davvero
divertenti. Potrei scriverti dei libri su di loro e sulle loro geniali amabilità.
Ora sono in Russia, nella vivida città di Mosca, ricevuto e festeggiato dagli attori del
maggior teatro locale: i più splendidi camerati di tutto il mondo. Ma non basta: oltre ad essere ospiti
perfetti, sono degli ammirabili attori.
Sulergiskij, Moskwin, Artem, Leonidov, Katscialov, Wischnewsky, Luschki, Balliv,
Adaschev; la signora Lilina, deliziosa; la signora Knipper, magnifica, quando vuole; alcuni degli
attori nell’Oiseau bleu sono molto bravi, specialmente la signorina Koonen. Aggiungi a questi i
cento altri, fra attori e attrici, che promettono di formare presto un complesso drammatico potente e
omogeneo; quando ti avrò detto che sono tutti intelligenti, entusiasti del loro lavoro, che lavorano
su nuovi testi ogni giorno e su nuove idee ogni minuto, e così via, potrai formartene da solo l’idea
che vorrai.
Se, per virtù magica, una tale compagnia potesse sorgere in Inghilterra, Shakespeare
diverrebbe ancora una volta una forza viva. Nelle condizioni attuali non è che una mercanzia. Il
Teatro d’Arte (del quale ti sto scrivendo) è vivo qui, ed ha un carattere e un’intelligenza.
Il suo direttore, Constantin Stanislavskij, ha ottenuto l’impossibile: ha costituito con
successo un teatro non commerciale. Egli crede nel realismo come mezzo attraverso il quale l’attore
può rivelare la psicologia del drammaturgo. Io non ci credo. Ma non è questa la sede per discutere
se questa teoria abbia valore o meno: le perle a volte si possono trovare nella spazzatura; guardando
in basso a volte si può vedere il cielo.
Tutto ciò che questi russi fanno sulla scena, lo fanno a perfezione. Perdono tempo, denaro,
fatica, cervello e pazienza come prìncipi: da autentici prìncipi non ritengono che spendere grandi
somme per la scenografia e il macchinario esaurisca i loro compiti, nondimeno non trascurano di
occuparsene.
Fanno centinaia di prove per ogni lavoro, cambiano più volte una scena finché non è in
armonia con le loro idee: provano, provano e provano, inventando dettagli su dettagli con
un’accuratezza e una pazienza perfette, e sempre con un’intelligenza vivida - l’intelligenza russa.
Serietà e carattere, queste due qualità condurranno il Teatro d’Arte di Mosca a successi
senza fine, in Europa e altrove. Il loro teatro è nato col cucchiaio d’argento in bocca: ha solo dieci
80
anni, per ora, ma ha un lungo avvenire dinanzi a sé: quando sarà cresciuto diverrà un’istituzione
fondamentale. Deve stare attento a non fare la corte alla poesia, e non deve sposarla, ma quando
sarà giunto all’età virile si sveglierà a una nuova coscienza, dispiegherà le ali della fantasia e si
leverà in alto per quella strada più vasta e più aperta che non ha nome e non conduce in alcun luogo
al di là di se stessa.
Ed io mi sento forse più infelice di quanto mi sia mai sentito in vita mia, perché mi rendo
conto del torpore senza rimedio dell’Inghilterra e della sua scena, della vanità e della follia
insanabili del suo teatro; dell’assoluta stupidità di chiunque ha a che fare con le Arti in Inghilterra;
del compiacimento letale con cui Londra stima di essere attiva e intelligente in questo campo;
dell’idiozia di quella parte della stampa che chiama “eccentrico” ogni coraggioso tentativo di
rianimare la vita e l’arte; della mancanza di cameratismo a Londra; in una parola, di questo
desiderio sfrenato di cose da quattro soldi. Gli attori inglesi non hanno vie d’uscita: il loro sistema
direttivo è pessimo: non hanno modo di studiare o di provare, non osano ribellarsi per non perdere il
pane e burro quotidiano, così si godono la vita come meglio possono, cioè amaramente.
Gli attori russi del Teatro di Mosca mi hanno dato l’impressione di provare durante i loro
spettacoli un piacere intellettuale molto più intenso che non gli altri attori d’Europa. Ogni loro
rappresentazione è ammirevole: sia che si tratti di un dramma della vita e dei sentimenti moderni o
di una fiaba, vi apportano sempre un tratto di sicurezza, di delicatezza, da maestri. Nulla è lasciato
al caso. Ogni cosa è trattata seriamente. La serietà, come ti ho detto, è la qualità più marcata nel
teatro russo. Lo zelo non è mai apparente, e a me che vengo dall’Inghilterra e non vivo qui, questa
serietà probabilmente appare con più evidenza. In Inghilterra lo spirito di derisione ha mantenuto lo
stesso potere che aveva trent’anni or sono, quando E. W. Godwin vi pose l’accento. I direttori e gli
attori non osano essere seri, perché potrebbero venir derisi, e ovviamente hanno paura di essere
soltanto zelanti. In Inghilterra vediamo un bravo attore ridere della sua parte e di se stesso, strizzare
l’occhio in continuazione al pubblico, terrificato dall’idea di venir preso sul serio. Impegnarsi
sarebbe più che un crimine - come dice Alexandre - sarebbe uno sbaglio. Qui a Mosca rischiano lo
sbaglio e in compenso sono riusciti a diventare il miglior gruppo di attori sulla scena europea. Il
loro primo attore, Stanislavskij, ha meno del turbine istintivo di Giovanni Grasso, è più
intellettuale.
Non fraintendermi: non stare a pensare che come attore sia freddo e compassato. Sarebbe
difficile trovare una tecnica più semplice, un risultato più umano. Maestro di psicologia, la sua
recitazione è totalmente realistica; pure sa evitare tutte le forme brutali; le sue creazioni sono
straordinarie per la grazia che hanno. Non posso trovare parola più appropriata.
Più di ogni altro spettacolo mi è piaciuto lo Zio Vania, sebbene questa compagnia sia in
grado di metter mano a qualunque testo mirabilmente.
Nel Nemico del popolo Stanislavskij ci mostra come recitare la parte del dottor Stockmann
senza essere “teatrale” e senza essere comico o stupido. Il pubblico sorride tutto il tempo che non è
commosso fino alle lagrime, ma non si sentono mai quegli scrosci di risate che sono così abituali
nel teatro inglese.
Mosca, 1908.
81
L’Arte del Teatro
Primo dialogo40
fra un uomo del mestiere - il regista
e un frequentatore di teatro - lo spettatore
Ormai abbiamo finito la nostra visita: abbiamo visto la struttura generale del teatro, i
macchinari per cambiare le scene, l’apparato delle luci e cento altre cose; vi ho spiegato anche
come funziona tutto il meccanismo. Fermiamoci in platea, adesso, e parliamo un po’ del teatro e
della sua arte. Sapete che cosa è l’Arte del Teatro?
LO SPETTATORE La recitazione, mi sembra...
IL REGISTA Una sola parte, dunque, è uguale al tutto?
LO SPETTATORE No di certo. Voi allora credete che l’Arte del Teatro stia nel testo scritto?
IL REGISTA Il testo è un’opera letteraria. Com’è possibile che un’arte sia allo stesso tempo se stessa
e un’altra?
LO SPETTATORE È vero; ma se mi dite che né la recitazione, né il testo sono l’Arte del Teatro, devo
concludere che lo siano la scenografia e la danza. Non mi direte, spero, che intendete questo.
IL REGISTA No. L’Arte del Teatro non si identifica con la recitazione o con il testo, e neppure con
la scenografia o la danza, ma è sintesi di tutti gli elementi che compongono quest’insieme: di
azione, che è lo spirito della recitazione; di parole, che formano il corpo del testo; di linea e di
colore, che sono il cuore della scenografia; di ritmo, che è l’essenza della danza.
LO SPETTATORE Azione, parole, linea, colore, ritmo! E quale di questi elementi è più importante
per la nostra arte?
IL REGISTA L’uno non è più essenziale dell’altro, come un colore non è più importante di un altro
per il pittore o una nota più di un’altra per il musicista. Sotto un certo aspetto, forse, l’azione ha
la priorità. Essa è per l’Arte del Teatro quello che il disegno è per la pittura o la melodia per la
musica. L’Arte del Teatro è nata dall’azione, dal movimento, dalla danza.
LO SPETTATORE Avevo sempre creduto che fosse nata dalla parola e avesse come padre il poeta.
IL REGISTA È l’opinione comune, ma riflettete un istante: l’immaginazione del poeta prende corpo
in parole, scelte con arte; egli recita o canta queste parole, ed è fatto. La sua poesia, detta o
cantata, si rivolge all’udito e, attraverso l’udito, alla fantasia. Se poi il poeta aggiunge il gesto
alla dizione o al canto, la cosa non ci è d’aiuto; al contrario, rovina tutto.
LO SPETTATORE D’accordo. Capisco bene che aggiungere il gesto a un perfetto poema lirico non
può che produrre un risultato disarmonico. Ma si può dire lo stesso della poesia drammatica?
IL REGISTA Senza dubbio. Ricordate che io parlo di poema drammatico, non di dramma, che sono
due cose distinte. Il poema drammatico è composto per essere letto, il dramma invece lo si deve
vedere recitato in scena. Quindi il gesto è necessario al dramma, inutile al poema drammatico. È
assurdo parlare di queste due cose, del gesto e della poesia, come se fossero in qualche modo
collegate. Allo stesso modo, non dovete neppure confondere il poeta drammatico col
drammaturgo. L’uno scrive per il lettore o l’ascoltatore, l’altro per il pubblico del teatro. Sapete
chi è il padre del drammaturgo?
LO SPETTATORE Non so... credo il poeta drammatico.
IL REGISTA
40
Questo Primo Dialogo fu pubblicato nel 1905. Si ristampa qui col suo titolo originale, benché oggi preferirei
intitolarlo “L’Arte del Teatro di Domani”; rappresenta bene, infatti, questo teatro. Il giorno che seguirà al “domani” si
può senz’altro chiamare “avvenire”. Occorrerà allora un teatro più nuovo, migliore di quello qui indicato, poiché allora
avrete la Supermarionetta e il Dramma senza parole. Ma di ciò ho scritto altrove, in questo stesso volume.
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Vi sbagliate. Il padre del drammaturgo è il danzatore. Ora, mi sapete dire con quali
mezzi il drammaturgo compose la sua prima opera?
LO SPETTATORE Con le parole, immagino, come il poeta lirico.
IL REGISTA Vi sbagliate di nuovo; così la pensa tutta la gente che non conosce la natura dell’arte
drammatica. No: il drammaturgo compose la sua prima opera servendosi dell’azione, delle
parole, della linea, del colore e del ritmo, facendo appello ai nostri occhi e al nostro orecchio
mediante un abile uso di questi elementi.
LO SPETTATORE
E qual è la differenza fra quest’opera del primo drammaturgo e quella dei
drammaturghi contemporanei?
IL REGISTA I primi drammaturghi erano figli del teatro; quelli di oggi non lo sono. Essi intuivano
quello che i drammaturghi moderni non hanno ancora compreso. Il primo drammaturgo sapeva
che quando compariva con i suoi compagni di fronte al pubblico, esso desiderava vedere più che
udire. Sapeva che la vista è il più veloce e il più acuto fra tutti i sensi dell’uomo. La prima cosa
di cui aveva la percezione quando compariva di fronte al pubblico erano le centinaia di occhi
bramosi ed avidi. E gli spettatori, seduti tanto lontano da non poter udire tutte le sue parole,
sembravano più vicini per l’intensità e l’ardore con cui lo fissavano. Ad essi, e a tutti, egli si
rivolgeva in poesia o in prosa, ma sempre mediante l’azione: azione poetica, che è la danza, o
azione in prosa, che è il gesto.
LO SPETTATORE Interessante. Continuate, vi prego.
IL REGISTA No. Piuttosto facciamo un passo indietro. Vi ho detto che il primo drammaturgo era
figlio del danzatore, cioè figlio del teatro, non figlio del poeta. Abbiamo visto or ora che il poeta
drammatico d’oggi è figlio del poeta e sa giungere solo all’orecchio di chi lo ascolta, non altro. E
il pubblico di oggi, ciononostante, continua ad andare a teatro per vedere e non per udire, come
in passato. Non fraintendetemi, vi prego. Non voglio dire o suggerire che il poeta è cattivo autore
drammatico o che esercita un’influenza negativa sul teatro. Desidero solo farvi comprendere che
il poeta non è uomo di teatro, non proviene dal teatro e non ne può far parte; fra tutti gli scrittori,
solo il drammaturgo ha, in virtù della sua origine, qualche diritto, sia pur minimo, sul teatro. Ma
andiamo avanti: la gente, secondo me, si riunisce ancora per vedere gli spettacoli, non per
ascoltarli. Ma questo che cosa prova? Soltanto che il pubblico non è cambiato. È lì con mille
paia di occhi, proprio come una volta. La cosa è tanto più strana perché gli autori drammatici
sono cambiati. Ed anche i drammi non sono più un insieme armonioso di azioni, parole, danza e
scena: o son tutti parole o tutti scena. I lavori di Shakespeare, per esempio, son molto differenti
dai più antichi misteri medievali, composti esclusivamente per il teatro. Amleto non è adatto per
sua natura alla rappresentazione scenica; Amleto e le altre opere shakespeariane hanno una forma
così perfetta alla lettura, che vengono inevitabilmente a perdere moltissimo quando ci son
presentate dopo aver subito un trattamento scenico. Il fatto che venivano rappresentate ai tempi
di Shakespeare non prova il contrario. Le Mascherate, i Cortei erano allora gli esempi luminosi e
belli di Arte del Teatro. Se i testi drammatici fossero stati scritti per essere veduti, leggendoli li
troveremmo incompleti. Ora, non c’è chi, alla lettura, possa trovare Amleto noioso o incompleto,
ma più d’uno, dopo aver assistito alla rappresentazione del lavoro, dirà con rammarico: “No, non
è l’Amleto di Shakespeare”. Quando non si può aggiungere nulla per migliorare un’opera d’arte,
essa è “finita”, completa. Amleto era finito - completo - quando Shakespeare ne scrisse l’ultima
parola; aggiungervi gesti, scena, costumi o danza, è come insinuare che è incompleto e che
pertanto ha bisogno di essere perfezionato.
LO SPETTATORE Ma allora volete dire che Amleto non si dovrebbe mai rappresentare?
IL REGISTA A che scopo rispondere “proprio così”? Amleto sarà rappresentato ancora ed è dovere
dei suoi interpreti di fare del loro meglio. Ma non è detto che il teatro dovrà basarsi sempre su di
un testo da mettere in scena; un giorno, vi ho detto, creerà i prodotti autonomi della sua arte.
LO SPETTATORE Un’opera teatrale, dunque, dovrebbe essere incompleta quando è stampata in un
libro o recitata soltanto?
IL REGISTA
83
Sì. Incompleta comunque e sempre, tranne che sulle tavole del palcoscenico. Non può
non essere insoddisfacente, priva di arte, alla lettura o all’ascolto, perché senza l’azione, senza il
colore, la linea e il ritmo nel movimento e nella scena, è incompleta.
LO SPETTATORE La cosa è interessante, ma allo stesso tempo mi sorprende.
IL REGISTA
Forse perché è un po’ fuori dell’ordinario? Ditemi: cosa vi stupisce, in modo
particolare?
LO SPETTATORE Ebbene, prima di tutto il fatto che non mi ero mai fermato a considerare in cosa
consista l’Arte del Teatro; per la maggior parte di noi non è che un divertimento, uno svago.
IL REGISTA E per voi?
LO SPETTATORE
Oh, per me è sempre stata una cosa affascinante, metà divertimento e metà
esercizio intellettuale. Lo spettacolo mi diverte sempre, e così l’interpretazione che danno gli
attori, spesso poi contribuisce ad educarmi.
IL REGISTA Difatti è una specie di soddisfazione incompleta. È il risultato che si ottiene quando si
vede o si ascolta qualcosa di imperfetto.
LO SPETTATORE Eppure qualche rappresentazione particolare a volte mi ha soddisfatto, così almeno
credo.
IL REGISTA Se un lavoro, ovviamente mediocre, vi ha soddisfatto, non è possibile che abbiate
trovato soltanto qualcosa di meno mediocre di ciò che vi aspettavate? C’è gente che va a teatro,
oggi, aspettandosi di morire di noia. Ed è naturale, perché hanno insegnato loro a veder solo cose
noiose. Se mi dite che uno spettacolo teatrale moderno vi ha soddisfatto, questo prova che non
solo l’arte è degenerata ma anche una parte del pubblico. Ma non vi lasciate scoraggiare, per
questo. Conoscevo un uomo così occupato che non aveva neppure il tempo di ascoltare della
musica, all’infuori di quella dell’organetto in strada. E questa era per lui la musica ideale.
Ebbene, come certo sapete, a questo mondo c’è della musica un po’ migliore... Se vedeste una
sola volta una vera opera d’arte teatrale, non sopportereste più quelle che oggi vi somministrano
al suo posto. Eppure, non vi è dato di vederla; e non perché il pubblico non lo desideri o perché
il teatro non disponga di uomini eccellenti capaci di eseguirla, ma perché manca l’artista che la
crei - l’artista di teatro, ricordate, non il pittore, il poeta o il musicista. I molti eccellenti uomini
del mestiere, a cui ho accennato, sono tutti più o meno impotenti a cambiare questa situazione;
sono obbligati a fornire al direttore del teatro quello che lui chiede, e lo fanno di buon grado.
L’avvento dell’artista nel mondo teatrale cambierà tutto. Egli raccoglierà, lentamente ma
inevitabilmente, attorno a sé i lavoratori più bravi - ne ho già parlato - e con loro darà nuova vita
all’Arte del teatro.
LO SPETTATORE E gli altri?
IL REGISTA Gli altri? Il teatro moderno è pieno di questi altri, di questi mestieranti senza pratica e
senza talento. A loro favore si può dire una cosa: credo che non si rendano conto della loro
incapacità. Non è ignoranza da parte loro, è ingenuità. Se si rendessero conto una buona volta di
essere degli artigiani, di avere un mestiere in cui far pratica! E non parlo soltanto dei
macchinisti, elettricisti, dei parrucchieri, costumisti, scenografi e attori (questi in realtà sono per
molti aspetti gli artigiani più bravi e più volenterosi): parlo principalmente del regista. Se il
regista si preparasse tecnicamente a interpretare le opere del drammaturgo a tempo debito, con
uno svolgimento progressivo, riuscirebbe a restituire al teatro il terreno perduto, ed infine
mediante il suo genio creativo, reintegrerebbe l’Arte del Teatro nella sede che le è propria.
LO SPETTATORE Ma allora voi anteponete il regista agli attori?
IL REGISTA Sì; il rapporto fra il regista e l’attore è proprio identico a quello che intercorre fra il
direttore d’orchestra e gli orchestrali o fra l’editore e il tipografo.
LO SPETTATORE E considerate il regista un artigiano e non un artista?
IL REGISTA Quando interpreta le opere di un drammaturgo col concorso degli attori, degli scenografi
e degli altri artigiani, allora anche lui è un operaio - un artigiano capo; quando conoscerà a fondo
l’uso delle azioni, delle parole, della linea, del colore e del ritmo, allora soltanto potrà diventare
IL REGISTA
84
un artista. Quel giorno non ci occorrerà più l’aiuto di un autore teatrale, perché la nostra arte sarà
del tutto autonoma.
LO SPETTATORE La Rinascita dell’arte secondo voi è intimamente legata alla Rinascita del regista?
IL REGISTA Certo, senz’ombra di dubbio. Avevate forse creduto per un momento che io disprezzassi
il regista? Io disprezzo piuttosto ogni uomo che venga meno a tutti i suoi doveri di direttore di
scena.
LO SPETTATORE E quali sono questi doveri?
IL REGISTA Qual è il suo mestiere? Ve lo dirò io. Il suo lavoro come interprete dell’opera del
drammaturgo è press’a poco questo: prende la copia del testo dalle mani dell’autore, e promette
d’interpretarlo, fedelmente, secondo la lettera (ricordate che qui parlo soltanto dei registi più
bravi). Poi legge l’opera e durante la prima lettura tutto il colore, il tono, il movimento e il ritmo
che il lavoro assumerà, gli appaiono in modo chiaro. Quanto alle direttive sceniche, alle
descrizioni degli ambienti ecc., di cui l’autore può avere infiorato il testo, non ne terrà alcun
conto, perché, se è padrone del suo mestiere, non gli potranno essere di alcuna utilità.
LO SPETTATORE
Non vi capisco bene. Volete dire che quando un autore si è dato la pena di
descrivere le scene in cui i suoi personaggi dovranno muoversi e parlare, il regista non deve
prenderne atto? - in altre parole le deve ignorare?
IL REGISTA Non fa differenza se le ignora oppure no. Quello a cui deve badare è di armonizzare
l’azione e la scena coi versi o con la prosa del testo, con la sua bellezza ed il suo senso.
Qualunque sia il quadro che il drammaturgo vuole mostrarci, egli ci descriverà la scena nel corso
della conversazione fra i personaggi. Prendiamo per esempio la prima scena dell’Amleto comincia così:
BERNARDO Chi è là?
FRANCESCO No, rispondete a me; fermatevi e svelate chi siete.
BERNARDO Viva il re!
FRANCESCO Bernardo?
BERNARDO Lui.
FRANCESCO Giungete proprio alla vostra ora.
BERNARDO Sono suonate ora le dodici; andate a letto, Francesco.
FRANCESCO Vi ringrazio per questo cambio, fa un freddo pungente, ed io ho la morte nel cuore.
BERNARDO Avete avuto una guardia tranquilla?
FRANCESCO Non un topo s’è mosso.
BERNARDO Bene, buona notte. Se incontrate Orazio e Marcello, i compagni della mia veglia, dite loro di
affrettarsi41.
C’è quanto basta per guidare il regista; da questo dialogo si può ricavare che è mezzanotte, che
l’azione si svolge all’aperto, che c’è il cambio della guardia in un castello, che la notte è molto
fredda, molto calma e molto buia. Qualunque “direttiva scenica” aggiunta dal drammaturgo non
potrebbe che risultare ovvia.
LO SPETTATORE Secondo voi quindi un autore non dovrebbe scrivere alcuna didascalia, e, se lo fa,
voi la considerate un’offesa?
IL REGISTA Ebbene, non è forse un’offesa per un uomo di teatro?
LO SPETTATORE In che modo?
IL REGISTA Prima ditemi qual è la più grande offesa che un attore può fare a un drammaturgo.
LO SPETTATORE Recitare male la sua parte?
IL REGISTA No, questo proverebbe soltanto che l’attore fa male il proprio mestiere.
LO SPETTATORE Ditemi voi allora.
IL REGISTA La più grande offesa che un attore può fare a un drammaturgo è di tagliare via parole o
versi dal testo, o di inserire delle battute improvvisate, i cosiddetti “soggetti”. È un’offesa
41
Amleto, atto I, scena 1.
85
calpestare ciò che è proprietà esclusiva dell’autore drammatico. È raro che si aggiungano
“soggetti” in Shakespeare, e quando accade la cosa non passa senza sollevar critiche.
LO SPETTATORE Ma cosa c’entra questo con le direttive sceniche dell’autore, in che modo l’autore
offende il teatro quando precisa il testo con didascalie?
IL REGISTA
Lo offende perché ne invade la sfera di competenza. Se aggiungere “soggetti” o
tagliare i versi del poeta è un’offesa, lo è anche immischiarsi nell’arte del direttore di scena.
LO SPETTATORE Allora tutte le didascalie in qualunque testo teatrale sono prive di valore?
IL REGISTA Per il lettore, no; ma per il regista e per l’attore, sì.
LO SPETTATORE Ma Shakespeare...
IL REGISTA
Shakespeare dà soltanto raramente delle direttive a chi cura la messa in scena.
Guardate Amleto, Romeo e Giulietta, Re Lear, Otello, uno qualunque dei suoi capolavori, ed,
eccezion fatta per alcuni drammi storici che contengono descrizioni di castelli, di tenute ecc., che
trovate? Come sono descritte le scene in Amleto?
LO SPETTATORE La mia edizione riporta una descrizione molto chiara: “Atto I scena I - Elsinore.
Una piattaforma davanti al Castello”.
IL REGISTA
Voi avete sotto gli occhi un’edizione recente annotata da un certo Malone, ma
Shakespeare non ha scritto nulla del genere. Egli ha scritto soltanto: “Actus primus, scaena
prima...”. Ed ora vediamo Romeo e Giulietta. Cosa dice il vostro libro?
LO SPETTATORE “Atto I scena I - Verona, una piazza pubblica”.
IL REGISTA E la seconda scena?
LO SPETTATORE “Scena II - Una strada”.
IL REGISTA E la terza?
LO SPETTATORE “Scena III - Una stanza nella casa dei Capuleti”.
IL REGISTA Volete sapere adesso quali sono in realtà le direttive sceniche scritte da Shakespeare
per questa tragedia?
LO SPETTATORE Sì.
IL REGISTA Solamente “Atto I - scena I”. E non una parola di più per nessun atto o scena, in tutto il
dramma. Passiamo a Re Lear.
LO SPETTATORE No, mi basta. Capisco. Evidentemente Shakespeare contava sull’intelligenza degli
uomini di teatro perché completassero le scene secondo le sue implicite indicazioni... Ma
possiamo dire lo stesso anche per le azioni? Shakespeare non fornisce delle indicazioni in
proposito? Nell’Amleto, per esempio, c’è: “Amleto salta nella tomba d’Ofelia”, “Laerte lotta con
lui” e più in là: “I presenti li separano, e tutti e due escono dalla fossa”.
IL REGISTA No, non una parola. Tutte le direttive sceniche, dalla prima all’ultima, sono insipide
invenzioni di vari editori, Malone, Capell, Theobald ed altri, che hanno commesso una vera
indelicatezza intervenendo nel testo, e noi, uomini di teatro, ne subiamo gli effetti.
LO SPETTATORE Come mai?
IL REGISTA Perché, se uno di noi leggendo Shakespeare immagina delle sequenze di movimenti che
non sono in accordo con le “istruzioni” di questi signori, e sulla scena presenta le sue idee,
immediatamente qualche “esperto” gli fa la ramanzina, e lo accusa di alterare le indicazioni di
Shakespeare o, peggio ancora, di falsare le sue vere intenzioni.
LO SPETTATORE Ma questi “esperti” di cui parlate non sanno che Shakespeare non ha fornito
indicazioni sceniche?
IL REGISTA C’è da supporre che le cose stiano proprio così, a giudicare dalle loro critiche
inopportune. In ogni caso, quel che desideravo mostrarvi è che il nostro più grande poeta
moderno si era reso conto che l’aggiungere direttive sceniche era prima di tutto inutile, in
secondo luogo di cattivo gusto. Perciò possiamo essere certi che Shakespeare aveva ben
compreso la natura della funzione propria dell’operaio del teatro - il regista - e che tra i vari
compiti c’era anche quello di creare lo scenario per il dramma.
LO SPETTATORE Mi stavate appunto descrivendo i singoli compiti del direttore di scena.
86
Sì. Ora che abbiamo eliminato la convinzione erronea che le didascalie dell’autore
siano di qualche utilità, vediamo in che modo il regista si deve mettere al lavoro per interpretare
fedelmente l’opera del drammaturgo. Vi ho già detto che egli giura di seguire il testo alla lettera
e che il suo primo lavoro è quello di leggere dal principio alla fine il dramma e di trarne una
prima, acuta impressione; leggendo, dicevamo, comincia a vedere il colore, il ritmo, l’azione
dell’insieme. Poi mette da parte il testo per un po’ di tempo e mescola sulla tavolozza (per dirla
nel linguaggio dei pittori) della sua fantasia i colori che la prima reazione al dramma ha suscitato
in lui. Così, quando riprende in mano il testo, lo vede in un ambito che è per lui una vera ipotesi
di lavoro. Alla fine della seconda lettura si accorgerà che le impressioni maggiormente marcate
son divenute più chiare, più precise, e che invece le altre, quelle più vaghe, sono scomparse.
Allora ne prenderà nota: in quel momento potrà anche cominciare ad abbozzare, con linee e
colori, alcune delle scene e delle idee che ha in testa. Tuttavia sarà meglio che aspetti ad aver
riletto il lavoro almeno una dozzina di volte.
LO SPETTATORE Io credevo che il regista lasciasse sempre allo scenografo il compito di disegnare
le scene.
IL REGISTA Così fa, generalmente. E questo è il primo errore del teatro moderno.
LO SPETTATORE Perché è un errore?
IL REGISTA Per questo motivo: A ha scritto un lavoro che B promette di interpretare fedelmente. In
un processo delicato qual è l’interpretazione di una cosa sfuggente come lo spirito di un dramma,
qual è, secondo voi, il modo più sicuro per preservare l’unità di questo spirito? È meglio se B fa
tutto il lavoro da sé, oppure è meglio se lo mette nelle mani di C, D ed E, ognuno dei quali la
pensa, e quindi, vede le cose, in modo differente da B e da A?
LO SPETTATORE Naturalmente la prima maniera è la migliore. Ma è possibile che un uomo solo
faccia il lavoro di tre persone?
IL REGISTA Non c’è altra scelta, se si vuole ottenere l’unità, che è l’unica cosa vitale per l’opera
d’arte.
LO SPETTATORE Allora il regista non deve chiamare uno scenografo e farsi disegnare le scene, ma
se le deve disegnare da sé?
IL REGISTA Certamente. Ma non basta: egli non deve limitarsi a fare un bozzetto ben disegnato o
storicamente esatto, con porte e finestre disposte in modo pittoresco, ma deve innanzi tutto
scegliere i colori che a suo avviso sono in armonia con lo spirito del testo, scartando quelli che
sono fuori tono; poi deve ideare un oggetto - un arco, una fontana, una balconata, un letto - porlo
al centro del disegno e metterci intorno tutto ciò che secondo il testo è necessario far vedere. A
tutto questo deve aggiungere, uno per uno, i personaggi del dramma, e, successivamente, i
movimenti dei personaggi e i costumi. Con ogni probabilità commetterà parecchi errori, nel suo
progetto; in questo caso deve disfare il disegno e correggere l’errore, ammesso che non sia
costretto addirittura a schizzare da capo il bozzetto o a ricominciare il progetto ex novo.
Comunque bisogna che, lentamente, armoniosamente, il disegno si sviluppi in modo da
soddisfare l’occhio dello spettatore. Mentre compone questo progetto figurato, il disegnatore è
guidato tanto dal suono dei versi o della prosa quanto dal loro senso e dallo spirito del testo. In
breve tutto questo è concluso, e si può cominciare il lavoro reale.
LO SPETTATORE Che lavoro reale? M sembra che il regista in questo modo abbia fatto una buona
parte di quel che si chiama lavoro reale.
IL REGISTA Può darsi, ma le difficoltà sono appena cominciate. Per lavoro reale io intendo quello
che comporta mano d’opera specializzata, come ad esempio dipingere le immense tele delle
scene e fare i costumi.
LO SPETTATORE Non mi verrete a dire che il regista dipinge da solo le scene e taglia e cuce i
costumi da sé?
IL REGISTA No, non dico che debba farlo in ogni caso e per ogni regia, però deve aver provato a
farlo almeno una volta durante il suo apprendistato, oppure deve aver studiato a fondo tutti i lati
tecnici di questi mestieri complicati. Allora sarà in grado di dirigere i suoi operai specializzati
IL REGISTA
87
nei singoli lavori. Quando è cominciata la costruzione delle scene e il montaggio dei costumi, si
distribuiscono le parti agli attori, che le imparano a memoria prima che abbiano luogo le prove
(Oggi non usa così, come potete facilmente indovinare, però un regista come dico io dovrebbe
farlo). Nel frattempo le scene e i costumi son già quasi pronti. Non sto a dirvi la mole di lavoro,
interessante ma faticoso, che implica portare avanti fino a questo punto la messa in scena. Ma
anche quando le scene sono finalmente montate e gli attori indossano i costumi, le difficoltà da
affrontare sono ancora gravose.
LO SPETTATORE Il lavoro del direttore di scena non è ancora finito?
IL REGISTA Finito? Cosa volete dire?
LO SPETTATORE Be’, pensavo che, fatte le scene e fatti i costumi, il resto fosse solo compito degli
attori.
IL REGISTA No, solo adesso comincia il lavoro più interessante del regista. La scena è montata ed i
personaggi sono vestiti: in poche parole, egli ha di fronte una specie di quadro di sogno.
Allontana tutti dal palcoscenico all’infuori di quell’uno, due o più personaggi che aprono il
dramma, e comincia a studiare lo schema di illuminazione delle figure e della scena.
LO SPETTATORE Cosa? Questa parte non è lasciata alla discrezione del capo elettricista e dei suoi
uomini?42
IL REGISTA Il meccanismo dell’illuminazione, sì; ma predisporre il modo in cui impiegare tale
meccanismo è compito del regista. Dato che, come ho detto, egli è dotato di intelligenza e di
preparazione, ha in mente il tipo particolare d’illuminazione, così come, in modo altrettanto
specifico, ha dipinto le scene e ideato i costumi. Se la parola “armonia” non avesse un significato
per lui, naturalmente lascerebbe che fosse il primo venuto ad occuparsi delle luci.
LO SPETTATORE Allora, volete dire che ha studiato così a fondo la natura da poter dirigere gli
elettricisti sul come ottenere i più diversi effetti: che il sole splenda a questa o a quella altezza, o
che la luna inondi col suo chiarore, più o meno intenso, l’interno di una stanza?
IL REGISTA No, non intendevo questo: il mio regista non ha mai cercato di riprodurre le luci della
natura; né tenterebbe di fare una cosa così impossibile. Non riprodurre la natura, ma suggerire
alcuni dei suoi aspetti più belli e più vivi - questo è quel che vuole il mio regista. Diversamente,
mostrerebbe di essere un presuntuoso arrogante con arie da padreterno. Un regista può ben
aspirare ad essere artista, ma l’aspirare ad avere onori celesti gli è nocivo. E può evitare di
assumere questo atteggiamento non tentando mai di imprigionare o di copiare la natura, perché
la natura non si lascerà mai imprigionare, né permetterà mai che la si copi con successo.
LO SPETTATORE Allora in che modo si mette al lavoro? Che cosa gli fa da guida nell’illuminazione
delle scene e dei costumi?
IL REGISTA Che cosa gli fa da guida? Ma la scena e i costumi, i versi e la prosa e il senso del testo!
Tutte queste cose, vi ho già detto, sono ora in armonia l’una con l’altra - tutto procede
dolcemente; non c’è nulla di più semplice, ora, che il farle continuare così, e il regista è l’unico
che sappia come conservare questa armonia che ha creato in embrione.
LO SPETTATORE Volete dirmi qualche altra cosa sul sistema attuale d’illuminazione della scena e
degli attori?
IL REGISTA Certamente. Cosa volete sapere?
LO SPETTATORE
Vorrei sapere perché mettono tutte quelle luci per terra, sul davanti del
palcoscenico - si chiamano luci di ribalta o mi sbaglio?
IL REGISTA Sì, luci di ribalta.
LO SPETTATORE E perché stanno sul pavimento?
IL REGISTA È quello che si sono chiesti tutti i riformatori del teatro, e nessuno ha saputo dare una
risposta soddisfacente, per la semplice ragione che non c’è risposta alcuna, né mai ci sarà.
L’unica cosa da fare è rimuovere tutte le luci di ribalta da tutti i teatri al più presto possibile, e
42
“Perché perdere tempo a parlare a un uomo così stupido come questo spettatore?” mi ha chiesto un’affascinante
signora - e non si aspetta che io le risponda. La risposta è ovvia: alle persone sagge non si parla... le si ascolta.
88
non pensarci più. È una di quelle strane faccende che nessuno sa spiegare e che sorprendono
sempre i bambini. Nel 1812 la piccola Nancy Lake andò al teatro Drury Lane, e suo padre ci
narra che anche lei rimase meravigliata delle luci di ribalta, e disse:
Quella fila di lampade, poveri occhi miei!
Come risplendono - Mi domando perché
le hanno messe a terra.
REJECTED ADDRESSES
Questo nel 1812! e noi ancora ce lo domandiamo.
LO SPETTATORE Un mio amico, un attore, mi ha detto una volta che se non ci fossero le luci di
ribalta tutte le facce degli attori sembrerebbero sporche.
IL REGISTA Questa è l’osservazione di uno che non capisce che al posto delle luci di ribalta si
potrebbe adottare un altro sistema per illuminare le facce e le figure. È questo tipo di cose, tanto
semplici, che non viene mai in mente alla gente che non dedica un po’ di tempo a studiare
neppure alla leggera le altre branche del suo mestiere.
LO SPETTATORE Gli attori non studiano le diverse attività concernenti il teatro?
IL REGISTA Di regola, no - e in qualche modo sarebbe proprio contrario alla vera vita dell’attore.
Se un attore intelligente dedicasse del tempo a studiare tutte le branche dell’arte del teatro, a
poco a poco cesserebbe di recitare e finirebbe col diventare regista - a tal punto attrae l’arte nel
suo complesso, a confronto del mestiere singolo del recitare.
LO SPETTATORE Il mio amico attore mi aveva anche detto che se si togliessero le luci di ribalta il
pubblico non potrebbe vedere la sua faccia.
IL REGISTA Se questo l’avessero detto Henry Irving o Eleonora Duse, l’osservazione potrebbe
avere un senso. Ma la faccia dell’attore ordinario o è violentemente espressiva o è del tutto priva
d’espressione; perciò sarebbe una benedizione se il teatro fosse non soltanto senza luci di ribalta,
ma proprio senza nessun tipo di illuminazione. Ludovic Celler nel suo libro Les décors, les
costumes et la mise-en-scene au XVIIe siècle propone un’ottima teoria sull’origine delle luci di
ribalta. Naturalmente si usava illuminare il palcoscenico con dei grandi candelieri, circolari o
triangolari, sospesi sopra le teste degli attori e del pubblico; ora secondo Ludovic Celler, il
sistema delle luci di ribalta trova origine nei piccoli teatri popolari che, non potendo affrontare la
spesa dei candelieri, mettevano delle candele di sego sul davanti del pavimento della scena. Io
credo che questa teoria sia esatta, perché il buon senso non avrebbe mai suggerito un tale errore
artistico, mentre invece con tutta probabilità lo hanno fatto i conti di cassa. Quanto poco
sentimento artistico c’è nei conti di cassa! Quando avremo tempo vi dirò qualche altra cosa su
questo potente usurpatore del trono del teatro - la cassetta. Ma torniamo ad argomenti più seri e
più interessanti della mancanza d’espressione e delle luci di ribalta. Abbiamo passato in rassegna
i vari compiti del regista - scene, costumi, illuminazione - e siamo giunti alla parte più
interessante: come comporre cioè i movimenti e i discorsi dei vari personaggi. Vi ha
meravigliato il fatto che la recitazione - il modo di parlare e di agire degli attori - non sia lasciata
al loro arbitrio. Ma riflettete un istante sulla natura di questo lavoro. Vorreste che quel che si sta
già formando armoniosamente secondo un principio unico venga compromesso di colpo con
l’introduzione di un elemento accidentale?
LO SPETTATORE Cosa intendete dire? Spiegatemi più esattamente per favore in che modo l’attore
può rovinare tutto l’insieme.
IL REGISTA Ricordate che lo fa inconsciamente! Non intendo assolutamente dire che egli voglia
essere in disaccordo con quel che lo circonda; se egli agisce così, lo fa innocentemente. Alcuni
attori, sotto questo riguardo, hanno un istinto che li guida efficacemente, altri non lo hanno
affatto. Ma anche quelli che hanno un istinto più acuto non possono fondersi armoniosamente
nell’insieme, se non seguano le indicazioni del regista.
89
Allora voi non permettete mai all’attore e all’attrice principale di muoversi e di
recitare secondo il loro istinto e la loro ragione?
IL REGISTA No, anzi devono essere loro i primi a seguire le istruzioni del regista, proprio perché
molto spesso stanno al centro dell’insieme, sono il cuore del disegno emotivo.
LO SPETTATORE E loro capiscono e condividono tutto questo?
IL REGISTA Sì, ma solo quando si convincono e al tempo stesso apprezzano che il testo e
un’interpretazione esattamente adeguata sono la cosa più importante del teatro moderno. Volete
un esempio? C’è da mettere in scena Romeo e Giulietta: abbiamo studiato il testo, preparato le
scene, i costumi, lo schema dell’illuminazione, ed ora cominciamo le prove con gli attori. Il
primo movimento della grande cerchia dei turbolenti cittadini di Verona, che si azzuffano,
bestemmiano e si uccidono l’un l’altro, ci spaventa. Ci fa orrore l’idea che in questa piccola
bianca città di rose, di canti e d’amore, covi un odio tremendo e detestabile, pronto a divampare
proprio davanti alle porte della chiesa, o nel mezzo della festa di maggio, o sotto le finestre della
casa di una bambina appena nata. Subito dopo quest’immagine, mentre ancora ricordiamo la
perfidia che spirava dalle facce dei Capuleti e dei Montecchi, ecco che viene, vagando per le
strade, il figlio del Montecchi, Romeo, che presto diverrà l’amante riamato di Giulietta. Quindi,
qualunque attore venga scelto a fare la parte di Romeo, si dovrà muovere e parlare come una
parte, un componente dell’insieme - di questo insieme che, vi ho già detto, ha una sua forma
definita. Egli deve apparire ai nostri occhi in un dato modo, passando per un certo punto della
scena, sotto una certa luce, con la testa inclinata secondo un certo angolo, gli occhi, i piedi, tutto
il corpo, in accordo col resto. Perché i suoi pensieri (per quanto belli possano essere) possono
non combaciare con lo spirito o col disegno così attentamente preparato dal direttore.
LO SPETTATORE Il regista dovrebbe allora controllare i movimenti di chi fa la parte di Romeo,
anche se è un bravo attore?
IL REGISTA Senza alcun dubbio; e quanto più bravo è l’attore, tanto più grandi saranno la sua
intelligenza e il suo gusto, e quindi sarà più facile controllarlo. In realtà vi sto parlando di un
teatro particolare, dove tutti gli attori sono persone raffinate ed il direttore un uomo di talento
eccezionale.
LO SPETTATORE Ma non state chiedendo a questi attori intelligenti quasi di diventare dei burattini?
IL REGISTA Non siate suscettibile! Una domanda simile me la sarei aspettata da un attore incerto
dei mezzi a sua disposizione. Attualmente un burattino è soltanto una bambola, abbastanza
piacevole per uno spettacolo di marionette. Ma per un teatro ci vuole qualcosa di più di un
burattino. Eppure questi sono i sentimenti di molti attori nei riguardi del regista: hanno
l’impressione di essere manovrati con i fili, se ne risentono e si mostrano feriti, insultati.
LO SPETTATORE Lo capisco...
IL REGISTA E non comprendete allora che dovrebbero essere contenti di venir controllati? Pensate
un momento alle relazioni gerarchiche degli uomini su di una nave, e comprenderete come io
consideri quelle esistenti fra la gente di un teatro. Chi forma l’equipaggio di una nave?
LO SPETTATORE Di una nave? C’è il capitano, ossia il comandante, il primo, il secondo e il terzo
ufficiale, l’ufficiale di rotta e così via fino alla ciurma.
IL REGISTA E chi dirige la nave?
LO SPETTATORE Il timone...
IL REGISTA Sì, e chi altro?
LO SPETTATORE Il timoniere che manovra la ruota del timone.
IL REGISTA E ancora chi?
LO SPETTATORE L’uomo che controlla il timoniere.
IL REGISTA E chi è costui?
LO SPETTATORE L’ufficiale di rotta.
IL REGISTA E chi controlla l’ufficiale di rotta?
LO SPETTATORE Il capitano.
LO SPETTATORE
90
E si obbedisce agli ordini che non provengono dal capitano, o che non sono impartiti
con la sua autorizzazione?
LO SPETTATORE No, non si dovrebbe.
IL REGISTA E la nave può seguire con sicurezza la sua rotta senza capitano?
LO SPETTATORE Di solito, no.
IL REGISTA E l’equipaggio obbedisce al capitano e agli ufficiali?
LO SPETTATORE Sì, di regola.
IL REGISTA Di buon grado?
LO SPETTATORE Sì.
IL REGISTA E questa non si chiama forse disciplina?
LO SPETTATORE Sì.
IL REGISTA E la disciplina, che risultati porta?
LO SPETTATORE L’obbedienza precisa e volontaria alla regola e ai princìpi.
IL REGISTA Il primo di questi princìpi è l’obbedienza stessa, no?
LO SPETTATORE Senz’altro.
IL REGISTA Bene. Non vi sarà difficile allora comprendere che un teatro, in cui lavorano centinaia
di persone, è per molti aspetti simile a una nave, e necessita di un comando. Capirete anche
facilmente che il minimo segno di disobbedienza potrebbe essere disastroso. In marina si è
provveduto a prevenire ogni ammutinamento, non così a teatro. La marina è stata ben attenta a
precisare, in modo chiaro e senza possibilità di equivoci, che il capitano del bastimento è il re e
per di più un re dispotico. L’ammutinamento a bordo viene giudicato dalla corte marziale e
punito con pene molto severe, il carcere o l’allontanamento dal servizio.
LO SPETTATORE Non vorreste mica suggerire una cosa del genere per il teatro?
IL REGISTA
Il teatro, a differenza della nave, non è fatto per scopi bellici, e così per ragioni
inspiegabili la disciplina non è ritenuta d’importanza vitale, mentre dovrebbe avere lo stesso
valore che in ogni altro campo. Quello che vi voglio dimostrare è che fin quando a teatro non si
capirà che la disciplina è obbedienza volontaria e assoluta al direttore o capitano, non si potranno
mai realizzare grandi imprese.
LO SPETTATORE Ma gli attori, gli uomini di scena e gli altri, non fanno forse volentieri il loro
lavoro?
IL REGISTA Mio caro amico, non sono mai esistite creature con un’indole migliore della gente di
teatro. Sono sempre pieni di zelo e di entusiasmo, ma a volte la loro discriminazione è
imperfetta, e si rivelano altrettanto pronti all’indisciplina come all’obbedienza, ad ammainare la
bandiera come ad issarla. Quanto a fissare la bandiera all’albero se lo sognano raramente; perché
gli ufficiali della marina teatrale predicano il compromesso e la corrotta dottrina del venire a
patti col nemico. I nostri nemici sono la pompa volgare, l’opinione del basso pubblico e
l’ignoranza. A questi i nostri “ufficiali” vogliono che ci arrendiamo. Quel che la gente di teatro
non ha ancora compreso bene è il valore di un alto ideale e di un direttore che lo serva
fedelmente.
LO SPETTATORE E questo direttore, perché non dovrebbe essere un attore o uno scenografo?
IL REGISTA Voi andreste a prendere il vostro capo dai ranghi, lo innalzereste al grado di capitano,
per poi metterlo di nuovo a manovrare i cannoni e le funi? No, il direttore di un teatro deve
essere un uomo al di fuori di ciascun mestiere. Deve essere un uomo che conosce le funi, ma non
le manovra più.
LO SPETTATORE Rimane però un fatto che molti direttori di teatro ben conosciuti sono stati attori e
direttori al tempo stesso.
IL REGISTA Sì, è vero. Ma non vi sarà facile convincermi che non ci sono stati segni di
ammutinamento sotto il loro governo. Al di là di questa faccenda di gerarchia, c’è quella
dell’arte, del lavoro. Se un attore assume la direzione della scena, e se è più bravo dei suoi
compagni, un istinto naturale lo porterà a far di se stesso il centro di tutto. Avrà l’impressione
che, agendo diversamente, il lavoro apparirà debole, lacunoso. Farà più attenzione al suo
IL REGISTA
91
personaggio che non al testo, e in ultima analisi cesserà a poco a poco di guardare al proprio
lavoro come a un insieme, a un tutto. E il suo lavoro ne verrà a soffrire. Non è questo il modo di
presentare un’opera d’arte a teatro.
LO SPETTATORE Ma non è possibile trovare un grande attore che sia insieme anche grande artista?
Tanto grande che, nel lavoro di regia, non incorra nell’errore che voi denunciate, ma si limiti, al
contrario, a trattare se stesso quale attore, allo stesso modo in cui adopera ogni altro materiale?
IL REGISTA Tutto è possibile; ma, in primo luogo, questo sarebbe contro la natura di un attore, in
secondo luogo recitare in scena è contrario alla natura del regista, e in terzo luogo è contro ogni
natura il fatto che un uomo occupi allo stesso tempo due posti. Ora il posto dell’attore è sulla
scena, in una certa posizione, pronto a suggerire per mezzo del suo cervello certe emozioni,
circondato da determinate scene e persone; e il posto del regista è di fronte a tutto questo, in
modo da averne una veduta d’insieme. Così vedete che se anche trovassimo il vostro “perfetto
attore” che fosse un perfetto regista, pure non potrebbe stare in due luoghi nello stesso tempo.
Naturalmente a volte si vede il direttore di una piccola orchestra suonare anche come primo
violino, ma non di sua scelta, e con risultati non molto felici; né d’altra parte questa è la
consuetudine delle grandi orchestre.
LO SPETTATORE A quel che ho capito, nessuno, secondo voi, può dirigere in scena all’infuori del
regista?
IL REGISTA La natura stessa del lavoro non lo permette a nessun altro.
LO SPETTATORE Neppure allo stesso autore del dramma?
IL REGISTA Soltanto se l’autore ha praticato ed ha studiato il mestiere dell’attore, dello scenografo,
del costumista, dell’elettricista e del danzatore; altrimenti no. Ma l’autore, che non è vissuto in
teatro, in genere sa poco di questi mestieri. Goethe, il cui amore per il teatro rimase sempre vivo,
fu per molti versi uno dei più grandi direttori di scena. Ma, quando si legò al teatro di Weimar,
dimenticò di fare quello che invece fu ben presente al grande musicista che gli succedette.
Goethe permise che nel teatro esistesse un’autorità maggiore di lui, il proprietario del teatro
stesso. Wagner ebbe l’accortezza di impossessarsi lui stesso del teatro, e divenne una specie di
barone feudale nel suo castello.
LO SPETTATORE Il fallimento di Goethe come direttore teatrale fu dovuto a questo?
IL REGISTA È naturale; perché se Goethe avesse avuto le chiavi delle porte quel piccolo impudente
can barbone non sarebbe mai arrivato fino ai camerini, la prima attrice non avrebbe mai reso se
stessa ed il teatro immortalmente ridicoli, a Weimar sarebbe stata risparmiata la tradizione di
aver perpetrato il più grave errore che si possa commettere in un teatro.
LO SPETTATORE A vedere la maggior parte degli annali teatrali non pare che gli artisti siano tenuti
in grande considerazione sulla scena.
IL REGISTA Sarebbe facile fare un’ampia requisitoria contro il teatro e la sua ignoranza dell’arte.
Ma non si deve dare addosso a uno che è a terra, se non, forse, con la speranza che lo “shock” lo
rimetta di nuovo in piedi. E il nostro teatro occidentale è decisamente a terra. L’Oriente vanta
ancora un teatro. Il nostro, qui in Occidente, è al lumicino. Ma io attendo una Rinascita.
LO SPETTATORE E come avverrà?
IL REGISTA Mediante l’avvento di qualcuno che riunirà in sé tutte le qualità che fanno di un uomo
un maestro del teatro, e mediante la riforma del teatro in quanto strumento. Quando questa sarà
compiuta, quando il teatro sarà divenuto un capolavoro di meccanica, quando avrà inventato una
sua tecnica, senza alcuno sforzo genererà una propria arte creativa. Ma tutta la questione dello
sviluppo del “mestiere” e della sua trasformazione in un’arte creativa autosufficiente è troppo
lunga per poterla approfondire adesso. Ci sono già alcuni uomini di teatro che lavorano alla
costruzione di nuovi edifici teatrali, altri che modificano la recitazione, altri ancora la
scenografia. E tutti questi tentativi hanno un loro piccolo valore. Ma bisogna innanzitutto
rendersi conto che si otterranno solo dei risultati minimi o nulli riformando un singolo mestiere
teatrale, senza cercare al tempo stesso e nel medesimo teatro di riformare anche tutti gli altri.
L’intera Rinascita dell’Arte del Teatro dipende dall’ampiezza del piano su cui verrà realizzata.
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L’Arte del Teatro, come vi ho già detto, comprende tanti mestieri diversi: la recitazione, la
scenografia, i costumi, l’illuminazione, le macchine, il canto, la danza ecc., e bisogna rendersi
conto fin dall’inizio che occorre una riforma RADICALE, non PARZIALE; che nel teatro ciascun
mestiere è in diretta relazione con ogni altro, e che non ci si può attendere niente da una riforma
discontinua, irregolare; solo una progressione sistematica darà dei risultati. Perciò la riforma
dell’Arte del Teatro potrà essere realizzata soltanto da quegli uomini che hanno studiato e
praticato ogni mestiere attinente al teatro.
LO SPETTATORE Cioè a dire dal vostro regista ideale.
IL REGISTA Sì. Ricorderete che all’inizio della nostra conversazione vi avevo detto che la mia
fiducia nella Rinascita dell’Arte del Teatro si basa sulla fiducia nella Rinascita del regista, e che
quando costui avrà compreso esattamente come servirsi degli attori, della scena, dei costumi,
dell’illuminazione, della danza, e si sarà impadronito di tutti i mestieri necessari
all’interpretazione, a poco a poco raggiungerà il pieno dominio dell’azione, della linea, del
colore, del ritmo, delle parole, quest’ultima forza che scaturisce da tutte le altre... Allora l’Arte
del Teatro, dicevo, riconquisterà tutti i suoi diritti, sarà autosufficiente come ogni arte creativa, e
non si limiterà più ad essere una tecnica d’interpretazione.
LO SPETTATORE Sì, ma allora non avevo capito bene quel che volevate dire, e sebbene adesso
comprenda a che cosa mirate, non riesco a figurarmi la scena senza poeta.
IL REGISTA Che? Mancherà qualcosa quando il poeta non scriverà più per il teatro?
LO SPETTATORE Mancherà il testo.
IL REGISTA Ne siete sicuro?
LO SPETTATORE Certamente: il testo non esisterà più se non ci sarà il poeta o l’autore drammatico a
scriverlo.
IL REGISTA Non ci sarà più il testo nel senso in cui l’intendete oggi.
LO SPETTATORE Ma voi vi proponete di presentare qualcosa al pubblico, ed io presumo che, prima
di poterglielo presentare, dovrete pure averlo in mano.
IL REGISTA Certamente; non potevate fare un’osservazione più giusta. Dove invece vi sbagliate è
nel dare per certo, come se fosse una legge per i Medi e i Persiani, che questo qualcosa debba
esser fatto di parole.
LO SPETTATORE
Allora cos’è questo qualcosa che non è fatto di parole, ma va presentato al
pubblico?
IL REGISTA Prima di tutto, ditemi: un’idea non è qualcosa?
LO SPETTATORE Sì, ma le manca una forma.
IL REGISTA Ebbene, non è possibile dare a un’idea una qualsiasi forma scelta dall’artista?
LO SPETTATORE Sì.
IL REGISTA
Ed è un crimine imperdonabile da parte dell’artista di teatro usare un materiale
differente da quello del poeta?
LO SPETTATORE No.
IL REGISTA Allora ci è permesso tentare di dar forma ad un’idea con qualunque materiale troviamo
o inventiamo, purché si tratti di un materiale non utilizzabile per uno scopo migliore?
LO SPETTATORE Sì.
IL REGISTA
Benissimo; seguitemi dunque attentamente in quel che vi dirò nei prossimi cinque
minuti, poi andatevene a casa e pensateci un po’ sopra. Dal momento che avete consentito con
me in tutto ciò che vi ho chiesto di ammettere come vero, vi dirò con quali materiali un artista
del teatro dell’avvenire creerà i suoi capolavori. Con l’AZIONE, la SCENA, la VOCE. Non è molto
semplice? E quando dico azione, intendo gesto e danza, prosa e poesia del movimento.
Quando dico scena, mi riferisco a tutto ciò che è visibile, tanto all’illuminazione e ai costumi,
quanto allo scenario.
Quando dico voce, alludo alle parole parlate e a quelle cantate, in opposizione alle parole da
leggersi, perché le parole scritte per venire pronunciate e quelle scritte per esser lette sono due
cose del tutto differenti.
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Ed ora, sebbene non abbia fatto altro che ripetere quello che vi avevo detto all’inizio della
conversazione, vedo con piacere che non sembrate più così sbalordito.
Berlino, 1905.
94
L’Arte del Teatro
Secondo dialogo
fra un frequentatore di teatro e un regista
LO SPETTATORE Mi fa piacere rivedervi dopo una così lunga assenza. Dove siete stato?
IL REGISTA All’estero.
LO SPETTATORE E che avete fatto tutto questo tempo?
IL REGISTA Sono stato a caccia.
LO SPETTATORE Raccontatemi: dove siete stato a caccia? Che cosa avete preso?
IL REGISTA Niente, perché l’animale che io seguivo non si cattura come i conigli o le lepri,
ed è più
furbo di una volpe. D’altra parte lo sport non consiste nell’uccidere la bestia, ma nel superare le
difficoltà per sorprenderla, e non c’è alcun pericolo quando l’hai stanata. Io sono stato a caccia
di un Mostro favoloso.
LO SPETTATORE E quale? La Chimera, l’Idra o l’Ippogrifo?
IL REGISTA Tutti assieme. Sono le tre parti che compongono un mostro assurdo, chiamato il
"Teatrale”43. Ho braccato questo essere terribile nelle sue mille e una tana, e l’ho vinto.
LO SPETTATORE Lo avete abbattuto?
IL REGISTA Sì. Siamo diventati amici.
LO SPETTATORE E occorreva andare all’estero solo per fare questo pezzo di controscena?
IL REGISTA Certamente, perché soltanto all’estero mi son potuto rendere conto dei punti deboli del
povero mostro. Mi ero davvero spaventato in Inghilterra, a sentire i suoi ruggiti; e i racconti che
mi facevano della sua tana, popolata di scheletri, erano proprio terrificanti. Ma all’estero ho
cominciato la caccia con molta prudenza, e un giorno ho scoperto il mostro mentre danzava, un
altro mentre mi faceva l’imitazione, il terzo giorno è stato lui stesso a invitarmi nella sua tana.
Naturalmente ho accettato l’invito e subito mi sono reso conto della situazione. Adesso potrei
abbatterlo, se volessi; solo che lui, povero caro, non me lo perdonerebbe mai, e io me ne farei
una colpa per sempre.
LO SPETTATORE Non so di che cosa stiate parlando, ma immagino che sia tutto giusto. Tuttavia mi
divertirebbe molto di più se voi rimaneste a casa a mettere in scena qualcosa, invece di
andarvene in giro per l’Europa facendo finta di cacciare.
IL REGISTA Perché non l’avete detto qualche anno fa? Non mi sarei sognato di andare in terra
straniera se soltanto mi aveste fatto capire che desideravate che rimanessi a casa. “Uno deve pur
vivere”, come ha detto il critico drammatico del Times alla censura, uno non può campare
soltanto sul bottino che altri hanno portato dalla guerra; e per questo mi son messo a fare dello
sport e fino ad ora non ho avuto neppure una delusione.
LO SPETTATORE Io invece non mi sono mai sentito così deluso.
IL REGISTA Perché, qual è il motivo?
LO SPETTATORE Odio il teatro.
IL REGISTA Su, che esagerato; un tempo l’amavate. Ricordo che una volta mi faceste un sacco di
domande sull’Arte del Teatro, e non la finivamo più di parlare.
LO SPETTATORE Adesso lo odio. Non vado più in un teatro, e le cronache, gli articoli, gli annunci e
le interviste mi fanno ridere.
IL REGISTA E perché?
LO SPETTATORE È quello che vorrei sapere.
IL REGISTA Oh, volete che diventi il vostro medico? Siete affamato di teatro e non lo potete mandar
giù così com’è: occorre un rimedio. Purtroppo non vi posso curare, perché non posso cambiare il
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Cfr. nota a p. ???.
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teatro in un giorno né in una vita, ma se volete sapere cosa accadrà un giorno del vostro antico
amore, il teatro, ve lo dirò.
LO SPETTATORE Me lo avete già raccontato molto tempo fa, ed è servito solo a rendermi più
scontento.
IL REGISTA È proprio quello che speravo; però adesso, se avete un po’ di pazienza, credo di poter
fare qualcosa per voi.
LO SPETTATORE Non voglio sentire più niente che riguardi l’Arte, o i Templi in cui essa si celebrerà,
o i suoi tre componenti: l’Azione, la Scena, e la Voce. Per me tutto ciò è più terribile di quanto a
voi non sia apparso quel mostro Chimera Ippogrifo; tutto è così smisurato: troppo enorme,
impossibile. Dovranno passare 6000 anni prima che le vostre parole si realizzino, dovrò
cambiare tutte le mie opinioni e i miei costumi - perciò non ne parliamo più, ve ne prego.
IL REGISTA D’accordo. Non una parola su questo terribile argomento mi uscirà di bocca - fino a che
voi non me lo permetterete.
LO SPETTATORE Oh, mi sento già meglio. Non so com’è, ma non appena vi vedo venire una grande
paura si impadronisce di me; sento che i denti cominciano a battere, gli occhi a dilatarsi:
ogni
speranza m’abbandona. “Comincerà?" penso; "attaccherà a parlarmi sull’Arte del Teatro
dell’Avvenire?". Vedete, non è che io non creda a tutto quello che dite, ma è la vostra flemma
che mi soffoca. Vorrei tanto aiutarvi nella realizzazione del vostro sogno, ma non vedo da dove
si possa cominciare, e sembra che voi pensiate che col mettermi a parte della vostra idea sia già
tutto fatto - non lasciate agli altri nulla da realizzare.
IL REGISTA Non intendevo dir questo.
LO SPETTATORE Può anche darsi; però questa è l’impressione che mi avete lasciato.
IL REGISTA Vi chiedo scusa; ma ora che vi ho promesso di non parlare dell’Arte del Teatro,
propongo di divertirci con gli affari del teatro. Stasera prenderemo due poltrone per una
commedia musicale.
LO SPETTATORE Sono due anni che non metto piede in un teatro, grazie all’ultima conversazione che
abbiamo avuto, ed ora mi proponete di tornare a vedere il Varietà.
IL REGISTA Proprio così. Teatro di Varietà, due poltrone, terza fila, laterali.
E ora cominciamo; cercate di non interrompermi fino a che non abbia finito. Qualche anno fa
accennai con voi a un lavoro da giganti; vi parlai del teatro, e le proporzioni dei miei
suggerimenti vi spaventarono. Vi mostrai troppe cose. E dopo ve ne ho mostrate altre ancora.
Tutto questo vi ha spaventato. Ora ve ne mostrerò di meno, e più piccole. Non avrete più da
lamentarvi di me. Quando vi parlai l’altra volta, lo feci da artista - e gli artisti hanno la stessa
stoffa degli aviatori: volano. Ma ora, di nuovo coi piedi in terra, vi parlerò come un normale
regista, che è più amministratore che artista; per farla breve, anche a rischio di annoiarvi, mio
buon amico, vi parlerò da un punto di vista pratico.
Voi amate il teatro. Ne è prova il fatto che non ci andate da un paio d’anni. Avevate un ideale
nuovo, e non lo avete mai visto realizzato sulle scene: per poter essere realizzato aveva bisogno
d’artisti, e a teatro non ce n’erano. Voi amate ancora il teatro; dareste la testa pur di avere un
buon motivo per ritornarci. Il motivo c’è: è il teatro che ha bisogno di voi.
LO SPETTATORE Può darsi: ma a me il teatro non interessa più. Non vi posso spiegare le mie ragioni
senza recare offesa a molti di quelli che tempo addietro apprezzavo.
IL REGISTA Per esempio?
LO SPETTATORE Se dico che l’attore che ora recita al Lyceum è un commediante, si offenderà; se
trovo volgare lo spettacolo che danno all’Elyseum, offendo il regista, che conosco
personalmente. E inoltre, per quanto io protesti, l’attore e il regista sono incapaci di cambiare i
loro sistemi. Non posso più applaudire come facevo prima, e non posso protestare come sto
facendo con voi; e per questo, vi ho già detto, non ho più alcun interesse.
IL REGISTA Se potessi eliminare la causa del vostro malcontento, l’interesse vi tornerebbe?
LO SPETTATORE Immediatamente.
IL REGISTA Ditemi, di che cosa siete insoddisfatto? Io non sono né l’attore né il regista in questione.
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No; il solo dichiararlo in modo definitivo mi farebbe sentire come un traditore nei
riguardi di quelli che un tempo amavo.
IL REGISTA Ah, allora siete cambiato voi, non il teatro.
LO SPETTATORE Forse, forse.
IL REGISTA Ed avete sviluppato il vostro senso estetico. Può darsi quindi che io abbia dinanzi a me
lo spettatore ideale in persona - che voi siate entrato a far parte di quel pubblico che per tanto
tempo Londra ha cercato di "educare”?
LO SPETTATORE No, no; non sono “ideale” come pensate; ma forse avete ragione a dire che mi sono
evoluto. Il repertorio e gli attori non possono essere cambiati in due anni così radicalmente come
invece può essere accaduto ad un punto di vista personale.
IL REGISTA Ora tutto quel che vedete sulle scene vi sembra “noioso, vieto, insipido e inutile”, come
il mondo ad Amleto. Ma siate pratico, vi prego. Guardate le cose con buon senso. Ammettete che
la scena non è cambiata, ma che siete soltanto voi ad aver subìto un mutamento. Bene! Subitene
un altro ancora: non per tornare come prima ma per andare avanti.
LO SPETTATORE Cosa volete dire?
IL REGISTA Avete guardato al teatro da due punti di vista: sollevatevi ora ad un terzo livello,
superiore agli altri due, e guardate ciò che dovete guardare.
LO SPETTATORE La cosa mi interessa.
IL REGISTA Seguitemi, allora. Al presente il vostro interesse per il teatro è su piccola scala, analogo
a quello che ogni inglese ha per le cose del suo paese. Siete nella posizione di quello che
disapprova l’attuale governo, e basta. Nel teatro ci sono tanti partiti, come in Parlamento.
Abbiamo l’equivalente dei conservatori, dei liberali, dei progressisti, dei radicali, dei socialisti,
dei laburisti, e contiamo anche delle suffragette fra di noi.
Questi partiti si prendono molto sul serio a vicenda, e questo non è un male. Ma al di sopra e al
di fuori di tutti i partiti ci sono gli imperialisti, chiamiamoli così, o, se volete, gli idealisti. Un
imperialista è un idealista. Voi una volta avete fatto parte di questo o quel partito teatrale.
Diciamo che eravate conservatore. Vi proclamavate tale, ma in realtà il conservatorismo in se
stesso non lo conoscevate troppo bene, e ben presto avete cominciato a seccarvi dei sistemi dei
vostri capi. Naturalmente non avendo intenzione di fare il girella, cadete in uno stato di
abbattimento, e non sapete cosa fare.
LO SPETTATORE Non posso forse o virare di bordo o passare al partito opposto?
IL REGISTA Certamente no. Non potete entrare a far parte onorevolmente di un’altra corrente. Non
potete cercare un’altra disillusione. Ma nulla vi impedisce di diventare imperialista. Tenete a
mente che io uso questa parola per esprimere l’ideale più alto, benché non sappia affatto quale
accezione voi diate al termine; perciò accettatelo (in mancanza di meglio) come il nome più
bello che si possa dare a quel partito, o fratellanza, universale, composto di gente che sostiene o
tollera molti differenti e opposti punti di vista.
LO SPETTATORE Va bene, allora diventerò imperialista. Ditemi cosa devo fare.
IL REGISTA Mio caro amico, state tornando ad essere voi stesso. Cominciate a dimostrarvi già più
interessato. Faremmo meglio ad andare a cercare subito i biglietti per il Varietà.
LO SPETTATORE No, stiamo qui e parliamo. Ditemi come si fa a diventare imperialista.
IL REGISTA Ebbene, prendete una poltrona per La dodicesima notte al His Majesty’s Theatre, una
per la messa in scena di Sansone Agonista alla Elizabethan Stage Society, un posto di seconda
galleria per l’ultima novità di Sir Arthur Pinero al St. James e uno di platea per vedere L’altra
isola di John Bull al Court Theatre. Stasera al Varietà, domani sera a sentire la Passione di Bach
a St. Paul, dopodomani all’Empire, e nel pomeriggio al cinematografo in Oxford Street. E non vi
dimenticate di andare nei sobborghi a vedere la nostra grande attrice nella parte di Porzia, o di
assistere ad uno degli spettacoli della British Empire Shakespeare Society. Potete fare tutto in
dieci sere, e di giorno se avete tempo, potreste sentire una delle letture sul dramma di Henry
Arthur Jones, o andare, se vi procurate l’invito, a un incontro dell’Associazione degli Attori, o a
LO SPETTATORE
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una prova al Drury Lane. Per farla breve, guardate il meglio e il peggio di ogni cosa; guardate il
teatro sotto ogni aspetto, e vi assicuro che comincerete ad amarlo un’altra volta.
LO SPETTATORE Arrivederci. Lo sapevo che non eravate in grado di aiutarmi. Sapevo che mi avreste
raccomandato di fare così. Ma, signor mio, l’ho già fatto due anni or sono!
IL REGISTA Siete proprio in cattive condizioni.
LO SPETTATORE Sì, ma non vi accorgete che devo ringraziare voi di questo? Alcuni anni or sono mi
avete fatto intravedere un quadro fantastico di cosa sarebbe divenuto il teatro, con i suoi templi,
con un’arte ammirevole... e tutto il resto; e così, con quell’immagine da un lato, e il teatro
moderno dall’altro, mi sono trovato fra l’alto mare e il diavolo. Non posso gustare nessuno dei
due; perciò li evito entrambi.
IL REGISTA Venite all’estero. Vi posso far vedere un teatro nel nord della Russia che vi incanterà.
LO SPETTATORE Perché pensate che mi incanterà?
IL REGISTA Perché senza essere un tempio e nessun’altra di quelle cose che tanto vi spaventano nel
mio programma, è il teatro meglio organizzato d’Europa. È un esempio di quali risultati può dare
in un teatro una riforma sistematica.
Testi drammatici, attori, attrici, direttori, scenari, luci di ribalta, riflettori, binocoli, realismo: c’è
tutto, proprio come in ogni altro teatro, con la sola differenza che questo teatro batte tutti gli altri
nel loro stesso gioco.
Ci sono due generi di teatro possibile, quello naturale e quello artificiale. I teatri europei sono
artificiali, e anche questo teatro del nord è artificiale, dal momento che si serve dello stesso
materiale artificiale che adoperano l’Opera di Parigi o l’His Majesty di Londra. La differenza sta
nell’uso che ne fa. Inoltre la sua amministrazione è differente da quella degli altri teatri europei.
Gli amministratori sono uomini, proprio come in Inghilterra, eppure si arriva a risultati diversi,
perché questi uomini tengono a mente qualcosa che i nostri amministratori non hanno mai
imparato.
LO SPETTATORE Smettetela di darmi delle notizie vaghe su questo teatro e raccontatemi
dettagliatamente qualcosa sul metodo che segue.
IL REGISTA Con piacere. Questo teatro è migliore degli altri sia per il lavoro scenico, sia per il
sistema d’amministrazione.
LO SPETTATORE In che cosa differisce il lavoro scenico? Mi avete detto che non usano un materiale
diverso da quello impiegato dagli altri teatri.
IL REGISTA No, è lo stesso. Adoperano attori che si truccano il volto, scene dipinte su tela con
strutture di legno, luci di ribalta e altre luci artificiali, versi sciolti, fonografi e così via; ma si
servono di ogni cosa con gusto.
LO SPETTATORE E nessuno degli altri teatri d’Europa fa così?
IL REGISTA Gli altri teatri d’Europa fanno solo uno studio saltuario di queste strane materie
artificiali, perciò non sono in grado di esprimersi con alcun carattere specifico, e le tele e le
pitture sono nient’altro che tele e pitture, cose che in se stesse non riescono interessanti.
LO SPETTATORE Allora non esiste un altro teatro in cui si usi tutto ciò con gusto?
IL REGISTA No.
LO SPETTATORE Immagino che i collaboratori di questo teatro russo siano in grado di usare con più
gusto il loro materiale perché hanno una maggior preparazione tecnica.
IL REGISTA Sì, ma non capisco perché mi domandiate una cosa tanto ovvia. Cosa intendete dire? Se
invece di uno studio saltuario essi rivolgono al loro materiale uno studio serio e approfondito, va
da sé che la loro tecnica è più perfetta.
LO SPETTATORE Ma prendiamo gli spettacoli dei principali teatri di Londra, per esempio. Non fanno
mostra di tecnica nell’uso di questo materiale?
IL REGISTA Se così fosse non vi avrei detto di no. Ma vi voglio dare un esempio di cosa intendo.
Prendete, diciamo, la questione dei meccanismi scenici.
Ci sono almeno nove o dieci maniere professionali per far vedere la luna in scena. Sappiamo in
che modo la compagnia Bottom e Quince ha introdotto la luna; sappiamo come la “sontuosa
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scuola” di rinnovamento la raffigura in Inghilterra; sappiamo come la raffigurano all’opera e
come la raffigura il professor Herkomer. Tutti questi sistemi differiscono in ragione diretta del
fatto che un inventore è stato più trascurato di un altro nello studiare il modo esatto in cui la luna
gioca il suo ruolo.
Ora, dopo che i collaboratori del Teatro di Constan hanno studiato con attenzione dieci differenti
maniere, ne troveranno ancora altre sei, ne scarteranno cinque ed adopereranno la sesta, che sarà
la migliore. E questo sesto sistema sarà di gran lunga superiore a tutti gli altri mai visti in
Europa. Parlo naturalmente da un punto di vista tecnico, perché, è ovvio, l’arte non ha niente a
che fare con la riproduzione delle lune sulle scene, e l’arte non è quello di cui stiamo par lando
qui. Ma in qualunque altra maniera questa luna sarà più vicina alla realtà di ogni altra luna
veduta da secoli nel teatro europeo.
LO SPETTATORE Come potete fare una simile affermazione? Non avete neppure cinquant’anni.
IL REGISTA No; ma quando a teatro si trova una buona idea, specialmente se riguarda la
riproduzione di effetti naturali, non la si dimentica mai. Son cose, queste, a cui si è data la più
grande importanza. Ricordate bene: io non sostengo assolutamente la causa del Teatro di
Constan, se non per la rappresentazione di lavori in cui si vogliano introdurre effetti realistici; e
affermo che per la prima volta si sono veramente realizzati effetti del genere, che non si tratta di
un lavoro trasandato e che non si sono aggirate le difficoltà facendo "come l’ultima volta”.
LO SPETTATORE In ogni modo, avete soltanto dimostrato che essi sono più indipendenti e più liberi
nel rifiutare i trucchi tradizionali; non avete dimostrato che ciò che fanno sia più di buon gusto.
IL REGISTA Bene; non vi posso dire altro se non che è più vicino alla Natura. A parer vostro è
indizio di più buon gusto essere vicini alla Natura o essere vicini al teatro?
LO SPETTATORE Certamente essere vicini alla Natura.
IL REGISTA Perfetto. Questa allora è la risposta alla vostra domanda.
LO SPETTATORE Ma come arrivano i collaboratori di questo teatro a un grado tale di perfezione
tecnica che li rende capaci di adoperare il loro materiale con tanto gusto?
IL REGISTA Come si arriva alla conoscenza tecnica di qualsiasi cosa?
LO SPETTATORE Con lo studio, naturalmente. Ma sono forse questi gli unici lavoratori del teatro che
studiano in tutta Europa?
IL REGISTA Stiamo parlando di perfezione tecnica, se non erro, non di conoscenza superficiale del
proprio mestiere. C’è una massa di gente che studia, ma che studia male. Quelli del Teatro di
Constan studiano e fanno esperimenti con più cura degli altri.
LO SPETTATORE Forse hanno anche maggior talento?
IL REGISTA Può darsi. E il talento, come ben sapete, è una qualità che si sviluppa con lo studio.
LO SPETTATORE Quelli di Constan hanno a disposizione qualcosa che somigli a una scuola dove
studiare?
IL REGISTA Sì, il loro teatro è una scuola. Stanno in teatro da mattina a sera, tutto l’anno, eccettuate
poche settimane di vacanza durante l’estate. In Inghilterra, entrando in un teatro raramente vi
capiterà di trovarvi anima viva, all’infuori dei macchinisti, del direttore di scena e di pochi altri
impiegati. Il Teatro di Constan è sempre affollato, giorno e notte, e se c’è una prova, gli studenti
sono lì ad assistere; e non per ridacchiare o per fare gli sciocchi, ma per osservare ogni
movimento e per sentire ogni parola.
LO SPETTATORE A chi intendete alludere, dicendo “studenti"?
IL REGISTA A chiunque. Tutti sono studenti. Per cominciare, ci sono i due direttori (i1 terzo direttore
si occupa soltanto della parte amministrativa); e questi due direttori sono studenti né più né meno
di qualsiasi altro: studiano tutto il tempo. Poi vengono gli attori e le attrici principali. Ce ne sono
circa dodici, ognuno all’altezza di qualsiasi astro europeo. Ma che dico? Ognuno di loro è attore
o attrice di molto superiore ai più grandi astri d’Europa. Ci sono poi circa ventiquattro attori e
attrici per le cosiddette "parti secondarie”. Parecchi di questi sono abbastanza capaci da rientrare
nella prima categoria; soltanto che il loro tirocinio non si è ancora protratto per un tempo
sufficiente.
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Che dite? Se un attore mostra di possedere un talento speciale, non viene promosso
subito al primo rango?
IL REGISTA No, no di certo, finché non sia passato attraverso la stessa esperienza degli altri. Può
avere quanto talento vuole: non ha importanza. Poi, oltre quelli che ho nominato, ci sono degli
studenti giovanissimi; in numero di venti circa. Sono per la maggior parte universitari, maschi e
femmine; e le ragazze non vengono scelte perché hanno un aspetto grazioso, ma - come anche i
ragazzi - per le loro capacità.
LO SPETTATORE Non accade la stessa cosa in altri paesi?
IL REGISTA No, assolutamente. Nei teatri inglesi metà delle ragazze vengono scelte perché sono
carine.
LO SPETTATORE Ma l’aspetto fisico è certo una cosa importante per un’attrice.
IL REGISTA Sì, molto importante e dovrebbe costituire una parte dei suoi studi. Ma alle attrici inglesi
non è mai venuto in mente che il rendersi carine sia una parte del loro lavoro, e una parte che
richiede grande talento e molta applicazione. In Inghilterra, alcune delle attrici di maggiore
talento non sono assolutamente quello che si dice belle ragazze. Sarebbe a dire: i loro lineamenti
sono tutt’altro che perfetti, il loro colorito non è fresco come quello di una ragazza irlandese dei
laghi, ma hanno talento, e con questo riescono ad assumere l’atteggiamento o l’aspetto che
vogliono. Esattamente come fa parte del talento e dello studio di un attore la capacità di
trasformare il proprio volto in una maschera grottesca, così fa parte del talento e dello studio di
un’attrice riuscire ad apparire bella quando lo vuole. Quando questo si sarà raggiunto in pieno, le
ragazze la smetteranno di mettere innanzi la loro bellezza fisica come argomento adatto a
ottenere una scrittura, e la scena sarà meno ma meglio popolata.
Ma torniamo ora al numero delle persone che lavorano nel Teatro di Constan. Eravamo arrivati
agli studenti. Accanto e al di sotto di essi ci sono gli allievi in prova.
LO SPETTATORE E chi sono?
IL REGISTA Sono dei giovani che chiedono di essere ammessi al teatro come scolari. Si dice loro che
dovranno lavorare per un certo tempo - credo uno o due anni - per poter domandare
l’ammissione definitiva alla scuola. Poi, dopo un esame sostenuto davanti ai direttori, ai registi e
agli attori, alcuni di loro vengono scelti e accolti nella scuola.
LO SPETTATORE A che specie di esame vengono sottoposti?
IL REGISTA Ogni candidato prepara una poesia e un racconto da recitare. E l’esame dei candidati, in
questo teatro, dimostra in maniera inequivocabile che sono eccezionali proprio i direttori del
teatro, e non i russi; perché questi candidati non hanno nulla di diverso di qualsiasi altro
aspirante alla scena, per quel che riguarda la loro attitudine all’espressione drammatica.
Differiscono dagli altri studenti solo in questo, che sono più istruiti degli altri aspiranti artisti,
perché alcuni di loro hanno una notevole conoscenza della letteratura, delle lingue straniere,
dell’arte, e delle scienze.
Superato l’esame, vengono ammessi alla scuola, dove lavorano di giorno per un certo numero di
anni: la sera può accadere che venga loro richiesto di sostenere le cosiddette “parti mute”. Così
per tutto il tempo dello studio nella scuola, quasi ogni sera, sono in mezzo alla rappresentazione;
e in capo a pochi anni è possibile, se non proprio sicuro, che il teatro in cui lavorano offra loro
una piccola scrittura. In questo modo, capite, si viene ad avere una compagnia stabile di circa
cento persone.
LO SPETTATORE Cosa intendete per compagnia stabile?
IL REGISTA La stessa cosa che si intende per esercito permanente.
LO SPETTATORE Ma allora gli attori non se ne vanno, per cercarsi qualche scrittura migliore?
IL REGISTA No, perché non ci può essere scrittura migliore. Ogni attore in Russia ambisce ad essere
membro del Teatro d’Arte di Constan.
LO SPETTATORE Un attore di talento di un altro teatro chiederebbe di entrare a far parte di questa
compagnia?
LO SPETTATORE
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Forse; ma gli ci vorrebbe un certo tempo per entrare nella particolare atmosfera che
questa compagnia ha creato e per riuscirci dovrebbe probabilmente accontentarsi di parti molto
piccole, per cominciare.
LO SPETTATORE Dunque il lavoro qui è completamente diverso da quello degli altri teatri, e
chiunque vi entrasse si sentirebbe come un pesce fuor d’acqua.
IL REGISTA Esattamente.
LO SPETTATORE Tutti gli scolari si preparano a diventare attori?
IL REGISTA Sì.
LO SPETTATORE Allora, non si preparano a diventare registi?
IL REGISTA Prima di diventare regista bisogna essere stato attore. I loro registi sono gli ultimi a
formarsi. Dopo essere stati attori per parecchi anni, può darsi che l’uno o l’altro riveli qualche
attitudine alla regia. A questa attitudine viene data occasione di manifestarsi e di svilupparsi nel
modo che ora dirò.
Alla fine di ogni stagione la scuola rappresenta un certo numero di scene tolte da dieci o undici
lavori diversi. Nel 1909, fra i lavori scelti dagli studenti c’erano: Elga e Hannele di Hauptmann,
una commedia di Sudermann, Quando noi morti ci destiamo di Ibsen, La locandiera di Goldoni,
La città morta di D’Annunzio, L’avaro di Molière, e tre o quattro lavori di autori russi.
Queste scene sono rappresentate ciascuna da membri diversi della scuola, e per ciascuna viene
scelto un diverso regista. La rappresentazione ha luogo di pomeriggio. Si invitano i parenti degli
allievi, sono presenti anche i direttori del Teatro, insieme con la compagnia; e la
rappresentazione offre a un talento di regista o di attore, che può essere latente, la possibilità di
rivelarsi. Le attitudini dimostrate nel 1909 non furono, a mio avviso, prive di rilievo. Ogni
regista ha a sua disposizione tutto ciò che il teatro può offrirgli; naturalmente non può dipingere
nuove scene, tuttavia può ugualmente mostrare il suo talento servendosi di quel che ha sotto
mano.
LO SPETTATORE Una volta, molto tempo fa, mi avete parlato di un regista ideale: un uomo che
dovrebbe riunire in sé tutte le capacità; che sia stato attore, scenografo e costumista; che
s’intenda di illuminazione, di coreografia, e che abbia il senso del ritmo; che sia in grado di
seguire gli attori che provano la parte; che possa, insomma, col suo solo cervello, completare
l’opera che, ai fini della scena, il poeta ha lasciato incompiuta. Ne trovate qualcuno del genere a
Constan?
IL REGISTA Qualcuno che gli si avvicina molto, sì. C’è ben poco che i régisseurs di là non sappiano
fare.
LO SPETTATORE Molti direbbero che, dopo tutto, non c’è nulla di essenzialmente diverso tra questo
teatro e gli altri, se non la sua maggiore completezza.
IL REGISTA Cercherò allora di farvi vedere in che cosa consiste la differenza essenziale. Fin qui sono
riuscito a spiegarvi qualcosa del sistema. Ho cercato di dimostrarvi quanto il metodo russo sia
superiore a qualsiasi altro, ma non mi illudo ancora che comprendiate a fondo quello che
intendo, e ammetto che sarebbe del tutto impossibile spiegare la ragione fondamentale della
superiorità di questo teatro finché non verrete a contatto con gli uomini che vi si sono formati, e
soprattutto con l’uomo che li ha formati, il direttore. Qui sta il segreto; un segreto che scenderà
nella tomba con lui. Capireste quello che vi ho detto, se lo aveste veduto; ma neppure in questo
caso potreste ancora scoprire il suo segreto fino al punto di trarne un vantaggio pratico.
LO SPETTATORE Voi che lo avete visto, comprendete il suo segreto?
IL REGISTA Sì, lo comprendo; ma non potrei farlo capire ad altri per il solo motivo che si tratta di
una di quelle cose semplici che nessuna forza di persuasione può far nascere, nessuna violenza di
antagonismo distruggere, nessun cumulo di spiegazioni chiarire.
LO SPETTATORE Ma di che si tratta, dunque?
IL REGISTA Di amore appassionato per il teatro; e posso dirvi senza timore di essere considerato un
profano: "Nessuna creatura nutre un amore più grande di quello, in nome del quale un uomo
sacrifica la vita per il suo lavoro”.
IL REGISTA
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LO SPETTATORE Ma negli altri teatri non si ama la scena a questo modo?
IL REGISTA No, assolutamente no. Ci sono altre cose per le quali gli uomini
darebbero la propria vita
molto più volentieri che per il loro lavoro: per un successo sociale, per un successo finanziario.
Sono disposti a sacrificare la loro vita se possono ricevere in cambio una di queste cose. A
Constan hanno un solo desiderio, di fare il lavoro migliore. Credete che io sia severo nei
confronti degli altri teatri?
Non lo sono affatto. Sono pronto a indicare gli obiettivi a cui mira ogni teatro e a mettere in
chiaro la differenza che intercorre tra il loro fine e quello del Teatro di Constan. Richiamo alla
mia memoria i migliori teatri d’Europa e vedo chiaramente a che cosa aspirano. È senz’altro
possibile che esistano molti teatri a me sconosciuti e che in questi teatri ci siano uomini a cui io
faccio torto includendoli in questa requisitoria; ma io parlo solo dei teatri che conosco. Si dice
comunemente che siano i primi teatri d’Europa. A parer mio, invece sono proprio gli ultimi.
Eppure sarebbe possibile per gli altri teatri essere buoni quanto il Teatro d’Arte di Constan, cioè
di prima categoria, solo che fossero pervasi anch’essi dal medesimo amore appassionato per il
teatro.
E ora vi dirò qualcosa della parte amministrativa.
LO SPETTATORE È proprio quello che desideravo sentire.
IL REGISTA Tanto per cominciare, le questioni finanziarie sono nelle mani di un consiglio
d’amministrazione. C’è un presidente, cinque membri del consiglio, un segretario, e cinque di
queste sette persone sono artisti. Il capitale è investito in una società per azioni, composta di
imprenditori della città di Constan, e, come in ogni altra società per azioni, il denaro e gli affari
sono affidati alla cura di un consiglio d’amministrazione.
LO SPETTATORE Fin qui non c’è differenza dagli altri teatri.
IL REGISTA No? È frequente, allora, che in un consiglio d’amministrazione gli artisti costituiscano la
maggioranza? Credo che abbiate trascurato questo particolare. Ma ora ditemi voi. Io non sono
affatto pratico di affari. Supponiamo che riponga in me tanta fiducia da investire cinquantamila
sterline per la costituzione di un Teatro d’Arte in Inghilterra; quale sarebbe lo stato d’animo
degli azionisti, se l’ultimo giorno dell’anno si leggesse loro un resoconto da cui risulti che non
c’è un centesimo per i dividendi?
LO SPETTATORE Gli azionisti esaminerebbero i rendiconti, e, una volta constatato che le uscite sono
superiori alle entrate, cambierebbero probabilmente la direzione e consiglierebbero di
rappresentare lavori più accessibili al pubblico, che procurino maggiori profitti.
IL REGISTA E perché farebbero così?
LO SPETTATORE Perché hanno investito il loro denaro nel teatro con l’idea di farlo fruttare.
IL REGISTA Immaginate di essere voi stesso un azionista e che io vi avverta che per uno, due, o
addirittura tre anni questo capitale probabilmente non renderà; che cosa direste sapendo che c’è
stato un deficit il primo anno?
LO SPETTATORE Chiederei di esaminare molto a fondo la situazione.
IL REGISTA Ah, dunque voi non vi ritirereste definitivamente?
LO SPETTATORE Prima vorrei andare a fondo della questione.
IL REGISTA Dovrei supporre, allora, che siate entrato nella società di azionisti perché eravate
interessato alla cosa in se stessa, non solo al suo aspetto finanziario.
LO SPETTATORE Sì; ma essendo io un uomo d’affari, il mio obiettivo principale sarebbe pur sempre
quello di far danaro.
IL REGISTA Ma pensate che sarebbe un buon investimento dal vostro punto di vista continuare a
sostenere un teatro del genere, dal momento che non fornisce alcun dividendo per i primi tre,
quattro o cinque anni?
LO SPETTATORE No, non lo penso affatto.
IL REGISTA Bene, allora spiegatemi da uomo d’affari come si siano potuti trovare nella città di
Constan degli uomini d’affari disposti ad aspettare dieci anni per vedere il primo reddito del
loro danaro.
102
Per me è una cosa inspiegabile. Ma suppongo che il far danaro debba essere stata
per loro una questione di secondo piano di fronte al progresso dell’arte. E in realtà, io stesso, se
fossi un uomo straricco, considererei questo un lusso o un hobby, e mi farei un vanto di
coltivarlo.
IL REGISTA Bene; mi avete detto che state perdendo l’interesse al teatro e che siete ricco. Ecco un
modo per ravvivare il vostro interesse. Entrate in rapporto con un teatro come questo. Voglio
ricordarvi una cosa: poco tempo fa vi ho detto che i1 teatro aveva bisogno di voi. Ora mi rendo
conto più chiaramente che voi siete proprio l’uomo di cui ha bisogno. Ma prima di tutto vediamo
se prendendo una decisione così affascinante voi non possiate guadagnarci in ogni caso.
Torniamo al Teatro di Constan e osserviamo che cosa e avvenuto là.
LO SPETTATORE Sì, ma ditemi una cosa: quando fu versato il primo dividendo?
IL REGISTA Dopo dieci anni.
LO SPETTATORE Questo però può accadere in qualsiasi teatro: il fatto che alcuni affari siano andati
male, questo dato non inficia la validità dell’iniziativa.
IL REGISTA Senz’altro. Ma il fatto che dopo dieci anni troviamo la lista degli azionisti immutata, e
non solo immutata ma accresciuta, è piuttosto insolito, non vi pare? Certo è molto incoraggiante.
Non siete d’accordo?
LO SPETTATORE Sì, è una cosa che incoraggia e aiuta a capire. Penso proprio che quel che mi dite è
davvero straordinario. Ma la stessa cosa sarebbe possibile altrove?
IL REGISTA Avete delle buone ragioni per pensare che non sia possibile?
LO SPETTATORE C’è il fatto che in Inghilterra iniziative analoghe sono fallite.
IL REGISTA L’esperimento è stato sempre portato fino in fondo?
LO SPETTATORE Probabilmente no, perché dubito che in Inghilterra si possa trovare un solo uomo
del tipo di quelli che, secondo le vostre parole, formano le societa per azioni di Constan.
IL REGISTA Dunque gli inglesi non hanno occhi, mani, viscere, peso, sensi, passioni, affetti? Sono
certo che sbagliate a dire quel che dite...
LO SPETTATORE Non credo; perché in Inghilterra, e così in America, il teatro è diventato
semplicemente uno dei modi commerciali per far danaro.
IL REGISTA Così stanno le cose anche in Russia, in tutta l’Europa. Ma se riuscite a trovare trenta o
quaranta uomini del genere in Russia, altrettanti ne potete trovare di sicuro in Inghilterra.
D’altronde, pensate, il Teatro Nuovo di New York non è forse un teatro di questo tipo? Credete
che i suoi fondatori aspirino ad un reddito del loro danaro nei primi due anni?
LO SPETTATORE Aspetteranno due o tre anni prima di ricevere un dividendo, meno probabile è che
ne aspettino dieci, benché io non creda che far danaro sia il loro obiettivo principale.
IL REGISTA E a che scopo, allora, pensate che questi milionari abbiano investito i loro capitali in
questo teatro?
LO SPETTATORE Perché si sono resi conto, credo, che bisognava fare qualcosa per il teatro in
America e, trovandosi in uno stato di preminenza, hanno avuto la sensazione che questo fosse
compito loro.
IL REGISTA E se allo scadere, diciamo, di cinque anni, il pubblico riconosce che il lavoro svolto in
questo teatro è perfetto, mentre i direttori rilevano che non c’è stato nessun reddito,
continueranno essi a sostenerlo o diranno che il lavoro è meno perfetto perché il teatro non ha
dato dei dividendi?
LO SPETTATORE Se sono certi che il pubblico è soddisfatto, continueranno. Ma, ditemi, se il
pubblico è rimasto soddisfatto, non significa forse che il teatro era esaurito ogni sera?
IL REGISTA Non proprio, ma potrebbe significare che era abbastanza pieno ogni sera. Tuttavia non
dovete dimenticare che le spese per far funzionare un teatro simile sono ingenti. Il Teatro d’Arte
di Constan, per esempio, ha fatto quasi il "tutto esaurito” per circa dieci anni, ma le spese
eccedevano le entrate.
LO SPETTATORE E questo non lo chiamate un cattivo affare?
LO SPETTATORE
103
Non sono in grado di esprimere un’opinione in campo d’affari. Lasciate che vi spieghi la
cosa più chiaramente e poi starà a voi decidere. Questo teatro russo ha fatto il tutto esaurito, ha
messo in scena lavori che il pubblico ha dichiarato perfetti; è il primo teatro del paese; ha
realizzato ciò che si era proposto di fare. Non chiamate questo un buon affare?
LO SPETTATORE Indubbiamente.
IL REGISTA E poi, essersi fatto una fama che non è seconda a nessun’altra in Europa, poter contare
su un vasto pubblico e sull’entusiastico appoggio di azionisti sicuri: tutto questo non lo
chiamereste un buon affare?
LO SPETTATORE Credo proprio di sì.
IL REGISTA Non siete d’accordo che gli azionisti hanno in mano un mezzo con cui realizzare, ora,
quanto danaro vogliono?
LO SPETTATORE In che modo?
IL REGISTA Costruendo un secondo teatro, un teatro grande, e facendo delle tournées in giro per il
mondo.
LO SPETTATORE Ma dove andranno a prendere il danaro, se dite che solo adesso hanno cominciato a
realizzare un magro dividendo?
IL REGISTA Il danaro si trova. Mi chiedete come? Ebbene, non posso far altro che richiamare la
vostra attenzione sul lavoro degli ultimi dieci anni. I lavoratori di questo teatro non si lasciavano
scoraggiare da nulla e non c’era nulla che sembrasse distoglierli dall’attuare i loro propositi. Essi
costruiranno questo teatro, continueranno a presentare al pubblico le opere migliori nella
maniera migliore e serviranno d’esempio al resto d’Europa.
LO SPETTATORE Un esempio piuttosto costoso, direi.
IL REGISTA Meno costoso di quel che vi sembra, se ci pensate un momento. In Europa regna la
convinzione che in Russia la gente si interessi all’arte meno di ogni altro popolo. In questo
campo godono di una fama analoga a quella degli inglesi. È anche opinione diffusa che essi
siano una specie di razza selvaggia, mentre con la prova che hanno dato nel loro teatro d’arte si è
dimostrato che non sono nulla di simile. Da un certo punto di vista questo è realmente un teatro
nazionale nel senso migliore della parola, perché gli azionisti hanno a cuore gli interessi della
loro nazione. Questo teatro, come ho detto, girerà, senza dubbio, per i centri d’Europa, e a ogni
tappa il gusto, la cultura, il coraggio della Russia avranno modo di farsi conoscere. In poche
parole, è un colpo commerciale molto abile, su scala molto ampia, e gli inglesi non farebbero
male a seguire il loro esempio. Il danaro investito in questo teatro non è danaro sprecato, e fra
non molto se ne vedranno i frutti. Non siete d’accordo?
LO SPETTATORE Sì, ma considerando la cosa sotto questa luce, ci allontaniamo del tutto dal teatro
commerciale.
IL REGISTA Su questo non c’è dubbio. Io stavo parlando del teatro come proprietà nazionale.
LO SPETTATORE Davvero? Ebbene presto avremo un Teatro nazionale in Inghilterra.
IL REGISTA Neanche per sogno. Presto avremo un Teatro di società. Esattamente quello che è, a
parer mio, il Teatro Nuovo in America - un teatro per la buona società. Ora, nessuno sente
bisogno di un teatro del genere, e meno di ogni altro le dame del gran mondo e i gentiluomini
che sono obbligati ad andarvi, a star seduti nei loro palchi e a non muoversi, a costo di annoiarsi
a morte. Teatri dell’alta società come questi tediano e avviliscono ogni città d’Europa. A Parigi
c’è l’Opera, a Berlino, a Monaco, a Vienna lo Schauspielhaus. Ma questi non sono teatri
nazionali nel vero senso della parola. Le persone che vogliono fondare un Teatro nazionale in
Inghilterra appartengono alla stessa categoria di quelle che lo hanno fondato in Russia. Viste le
spese che comportano, non devono essere una noia, questi teatri. Il cosiddetto Teatro “nazionale"
che si progetta per Londra sarà tale solo di nome. Non ha un programma preciso; eppure proprio
facendosi forte di un programma, va alla ricerca di sottoscrizioni. Il comitato estorce con la forza
le sottoscrizioni, ma non c’è costrizione che possa produrre l’ingegno, ed è l’ingegno e il buon
gusto che noi richiediamo al nostro Teatro. Ora, i russi, per creare il loro teatro nazionale
cominciano col fondare prima di tutto un teatro d’arte e saggiano per dieci anni l’onestà delle sue
IL REGISTA
104
intenzioni. Quale vi sembra il metodo migliore per arrivare alla realizzazione di un teatro
nazionale bene organizzato, l’inglese o il russo? Qual è il più economico, il più regolare? Quale
vi sembra il più giusto? Insomma, se voi aveste un teatro, quale metodo seguireste?
LO SPETTATORE Il metodo russo, se avessi a disposizione lo stesso tipo di persone e mi mettessi dal
loro stesso punto di vista.
IL REGISTA Il loro punto di vista differisce assai poco da quello di qualsiasi amministrazione
inglese: non abbiamo ragione di non credere ai direttori inglesi quando ci assicurano che il loro
fine è di fare il miglior lavoro possibile. Forse gli uomini sono di una razza diversa. Ma potreste
trovare anche qui dei giovani altrettanto intelligenti ed entusiasti; e se c’è meno cordialità,
minore prontezza nell’intuire l’uno i desideri dell’altro, in compenso tra gli inglesi c’è maggiore
senso di disciplina.
LO SPETTATORE Allora si potrebbe fondare qui un teatro simile al Teatro d’Arte di Constan?
IL REGISTA Senz’altro: anche due o tre di questi teatri.
LO SPETTATORE Sarebbe un’ottima cosa.
IL REGISTA E anche una cosa pratica, non vi pare?
LO SPETTATORE Estremamente pratica, direi.
IL REGISTA Ah, come siete pronto a convenirne, ora che questo è una realtà compiuta! Ma se ve
l’avessi proposto solo come idea personale, un’idea per la quale nutro una fede assoluta, vi avrei
convinto fino al punto di credere alla possibilità della sua attuazione? Voi siete una carissima
persona, ma, per Giove, se vi si chiede di credere in una cosa che non esiste ancora, vi
dimostrate ritroso come se foste una donna. Il Teatro d’Arte di Constan esiste da più di dieci
anni: ecco perché credete in esso e proclamate che è "assolutamente pratico”.
LO SPETTATORE Ma non lo è forse? E come potete chiedere a qualcuno, che abbia buon senso, di
credere a un progetto mai sperimentato?
IL REGISTA La prudenza non è mai male: è abitudine inglese di essere fin troppo prudenti. Ma
questo vezzo uccide molte, molte iniziative coraggiose, che avrebbero bisogno soltanto di un
opportuno appoggio per essere condotte al livello della realizzazione pratica. E gli inglesi non
eccedono in prudenza solo nel rifiutare un appoggio finanziario: quello che spesso manca è il
loro appoggio morale, il che sta a indicare che in faccende del genere è il coraggio morale che
talvolta fa difetto. E ditemi ancora: trovate che il metodo russo sia perfettamente pratico?
LO SPETTATORE Sì, lo considero tale.
IL REGISTA Ammesso che questo sia un metodo assai pratico per portare avanti un teatro moderno,
che deve aprire le porte al pubblico regolarmente ogni sera, che ne direste voi, se io affermassi
che esiste un metodo ancora più pratico per continuare lo studio dell’Arte del Teatro?
LO SPETTATORE Direi... Ma prima spiegatemi meglio cosa intendete dire.
IL REGISTA Intendo questo: il fine di tutti i Teatri Ideali - e dei loro direttori - è di eccellere nell’arte
che hanno il privilegio di servire. Devono perseguire senza posa il loro ideale, devono aspirare
ad andare avanti, e perciò devono essere molto, molto lungimiranti. Ho ragione?
LO SPETTATORE Penso di sì; i direttori di Constan non sono lungimiranti?
IL REGISTA Molto lungimiranti quando si tratta del loro teatro, molto meno quando si tratta dell’arte.
Devono tenere aperto il teatro ogni sera; è una difficoltà con cui lottano in continuazione. Se
potessero chiudere il teatro per cinque anni e impiegare il loro tempo solo in esperimenti,
potrebbero dedicarsi con maggior efficacia a quell’Ideale, che abbiamo posto come fine di tutti i
teatri modello.
LO SPETTATORE Sarebbe un provvedimento molto impegnativo chiudere un teatro simile per cinque
anni.
IL REGISTA Molto serio, sì; tanto quanto lo richiedono le circostanze. In Europa molti teatri
potrebbero chiudere i battenti a tempo indeterminato, per la durata di quaranta o cinquant’anni e
fare in continuazione esperimenti, senza raggiungere risultati tangibili. Ma questo Teatro di
Constan è un’eccezione e con un provvedimento del genere potrebbe scoprire proprio il bandolo
105
della matassa. Credo che dovremmo essere tanto lungimiranti da vedere in tutta la sua gravità
l’attuale situazione del teatro.
LO SPETTATORE Ma nessuno ha la facoltà di spingere lo sguardo oltre l’orizzonte del momento; e
questo è il limite al di là del quale, a parer nostro, non sa spingersi lo sguardo di qualche
direttore: è la portata massima del suo campo visivo.
IL REGISTA Esattissimo. Ma ricordatevi che ad ogni passo avanti la posizione dell’orizzonte si
sposta e così possiamo continuamente vedere più lontano di prima.
LO SPETTATORE Questo è vero.
IL REGISTA Ecco perché il direttore artistico di un teatro, che si sforzi di superare l’ultimo risultato
raggiunto, terrà lo sguardo fisso a questo punto estremo e, in tal modo, potrà soddisfare
incessantemente, sempre di più, il suo desiderio di progredire, restando se stesso e al tempo
stesso mutando. Che tutto ciò si svolga con lentezza, non ha importanza. Siete d’accordo con
me?
LO SPETTATORE Senz’altro.
IL REGISTA Ora, che cos’è che gli riesce utile, praticamente?
LO SPETTATORE Tutto quello che si trova dinanzi a lui e che rientra nel suo campo visivo.
IL REGISTA E se avanza di cinque passi vede di meno di quanto vedrebbe avanzando di cento?
LO SPETTATORE Certo, venti volte di meno.
IL REGISTA E se avanza di cinquecento passi vedrà cento volte di più che se avanzasse di cinque
soltanto?
LO SPETTATORE Non c’è dubbio.
IL REGISTA Dunque potrà fare cento progressi di più che se avanzasse di cinque passi.
LO SPETTATORE Verissimo.
IL REGISTA Parlando praticamente, non ci sono limiti al suo progresso, purché - come premessa - si
spinga abbastanza avanti. E per vedere molto lontano, deve aver proceduto press’a poco fino al
punto a cui arriva il suo potere visivo. Si dice che l’arte è lunga e la vita breve. Credete allora
che ci sia molto tempo da sprecare in dilazioni, oppure consigliereste a quelli che mirano al
progresso, di andare avanti senza esitare?
LO SPETTATORE Consiglierei di fare questo, ma con cautela.
IL REGISTA Sì, con cautela e con risolutezza. Ma ricordatevi che abbiamo stabilito come il progresso
di un uomo sia sicuro a condizione che egli avanzi verso quello che rientra nel suo campo visivo.
Dobbiamo ora considerare quale sia per noi il metodo migliore per raggiungere un punto visibile.
Credete che ci si arrivi andando all’indietro?
LO SPETTATORE No, di certo. Come potrebbe essere?
IL REGISTA O forse andando di lato?
LO SPETTATORE No, naturalmente.
IL REGISTA Oppure girando in cerchio, per misura di sicurezza?
LO SPETTATORE No. Nessuno di questi sistemi servirebbe a nulla.
IL REGISTA E perché no?
LO SPETTATORE Perché sarebbero assurdi. Se si è visto qualcosa, la via migliore per raggiungerla è
puntare diritti su di essa.
IL REGISTA Questo metodo è stato mai messo in pratica con buon esito?
LO SPETTATORE Certo, quasi sempre.
IL REGISTA Su cento casi quante volte direste che ha avuto esito favorevole?
LO SPETTATORE Direi in novanta casi su cento.
IL REGISTA Penso che abbiate ragione e sarei anzi portato a dire che in novantanove casi su cento un
uomo può raggiungere ciò che vede seguendo la via che porta direttamente all’oggetto. Per quel
che riguarda la centesima volta cedo i diritti alla Dea Fortuna: merita questo riconoscimento. È
lecito supporre che, agendo in questo modo, il direttore - come dicevamo - guadagni molto
tempo.
LO SPETTATORE Anche questo è vero. Ma, vi prego, ditemi cosa c’entra questo col teatro?
106
Devo pregarvi a mia volta di seguirmi e di ritornare indietro, al teatro; un punto che
abbiamo visto in linea retta e senza esitazioni. Ditemi: gli occhi si usano di solito per vedere?
LO SPETTATORE Ma sì, naturalmente.
IL REGISTA E direste che, al fine di vedere, sia più pratico aprire gli occhi o chiuderli?
LO SPETTATORE Mi sembra più assennata la prima soluzione.
IL REGISTA Non avete risposto alla mia domanda. È cosa pratica, dunque?
LO SPETTATORE E come no?
IL REGISTA E che ve ne pare: fissando lo sguardo nella direzione in cui si è visto un oggetto qualche
tempo prima si hanno buone probabilità di rivederlo ancora? Direste che questo è pratico?
LO SPETTATORE Sì.
IL REGISTA E quando si arriva all’oggetto visto e se ne scorge un altro più lontano, è pratico
continuare a procedere nella stessa direzione fino a raggiungerlo?
LO SPETTATORE Sì, senza dubbio.
IL REGISTA Benissimo, allora. Mi avete detto quello che ho sempre sospettato fosse vero. Avete
detto che un artista dotato di fantasia è giustificato ed è su un piano perfettamente pratico, se
procede verso ciò che una volta ha visto nella sua immaginazione. Perciò, amico mio caro, non
vi resta ormai che una cosa da dirmi.
LO SPETTATORE Quale?
IL REGISTA Dovete dirmi se è possibile che tutti vedano la stessa cosa.
LO SPETTATORE È piuttosto inverosimile.
IL REGISTA Dunque, se io ho visto una cosa, può darsi benissimo che altri non l’abbiano veduta;
inoltre se questa cosa ha destato il mio interesse, è molto probabile che altri siano curiosi di
vederla anche loro.
LO SPETTATORE Di solito succede così.
IL REGISTA A voi capita, per esempio?
LO SPETTATORE Sì.
IL REGISTA Pensate che mi sia permesso di mostrarvi questa cosa se ne sono capace?
LO SPETTATORE Sicuramente.
IL REGISTA Se io non ve la mostrassi, probabilmente non la vedreste mai; cosicché, per dirla in
termini semplici, finché non ve la mostro, si può dire che essa appartiene a me.
LO SPETTATORE Ammettiamolo.
IL REGISTA Dunque, appartiene a me. E poiché è verosimile che io desideri mostrarvi una cosa che
mi appartiene nel suo stato migliore, dovrò studiare bene il metodo per trasferirla di fronte a voi.
Devo usare un metodo pratico?
LO SPETTATORE Sì, essenzialmente pratico, se volete evitare ogni incidente.
IL REGISTA Cosa intendete per "pratico”?
LO SPETTATORE La parola "pratico" significa "ciò che è suscettibile di attuazione”.
IL REGISTA Esatto. E c’è un solo modo per attuare qualcosa?
LO SPETTATORE No, in genere ce n’è più d’uno. Perché me lo chiedete?
IL REGISTA Vi prego di perdonare la mia presunzione, ma volevo essere certo che non confondeste
l’espressione “modo pratico" con “modo comune”, o addirittura con “modo banale”.
LO SPETTATORE Niente affatto.
IL REGISTA Scusatemi ancora; ma ultimamente è diventata un’abitudine fraintendere il significato
della parola “pratico”, specialmente quando si parla di teatro. Andiamo avanti. Dicevo che se io
avessi qualcosa che mi appartiene e volessi mostrarvela, dovrei fare molta attenzione a
portarvela davanti senza rovinarla in alcun modo.
LO SPETTATORE Sì.
IL REGISTA Supponiamo che io non abbia la possibilità di farvela vedere: molte cose si trovano in
questa situazione. Il Polo Nord, per esempio... oppure un’idea. E in rapporto a qualsiasi fine il
Polo Nord non è né più né meno che un’idea. Se vi dico, per esempio, di aver veduto il Polo
Nord, questo non vi illumina di più che se vi dicessi di aver visto il Paradiso.
IL REGISTA
107
LO SPETTATORE Verissimo.
IL REGISTA Invece se vi dico
di aver visto il campanile di una chiesa, vi trovate di fronte a qualcosa
di familiare da cui partire per costruirvi un’immagine rispondente alla realtà. Il Polo Nord o
un’idea sono cose alle quali non posso farvi accostare senza uno sforzo considerevole sia da
parte vostra che da parte mia. Non posso comunicarvi un’idea, o una prova che il Polo Nord
esiste in un dato punto del globo. Dovrò comunicarvelo - come abbiamo convenuto - con molta
cautela. Per esempio, devo rendervi completamente chiara la mia prova dell’esistenza del Polo
Nord, e benché questo non implichi il minimo sforzo da parte vostra, a me ne costerà
esattamente il doppio che se anche voi aveste partecipato alla ricerca delle prove.
LO SPETTATORE Come si spiega questo?
IL REGISTA Ricordate una cosa: abbiamo riconosciuto di comune accordo che il semplice
raccontarvi di aver visto il Polo Nord non è prova sufficiente che io dica la verità, laddove il
dirvi semplicemente che ho veduto il campanile di una chiesa lo è44. Ora, che cosa basterebbe a
provarvi che io ho visto il Polo Nord?
LO SPETTATORE Dovreste provarlo alla presenza di un gruppo di esperti e di scienziati per mezzo di
determinate osservazioni eccetera.
IL REGISTA Questo proverebbe la verità delle mie asserzioni?
LO SPETTATORE Suppongo di sì; in base alle vostre dichiarazioni gli esperti darebbero, o meno, una
conferma.
IL REGISTA E non potrei provarlo a voi personalmente?
LO SPETTATORE Eh, no; io, vedete, non sono in grado di comprendervi. Per me esisterebbe un’unica
possibilità di accettare il vostro racconto: quella cioè di rimettermi alle persone competenti,
dinanzi alle quali abbiate presentato le vostre prove.
IL REGISTA Ma il mio racconto avrebbe un qualche interesse per voi? Potreste sentirvi attratto da
qualcosa che non capite?
LO SPETTATORE Oh, sì. Però sembra strano, a pensarci.
IL REGISTA Non molto strano; eppure più strano di quanto immaginiate. Il lato più curioso di tutto
questo è che all’umanità possano far tanto difetto l’istinto e il coraggio morale. Se avessimo
conservato l’uno e l’altro, non pretenderemmo prove concrete, ma avremmo più fede nelle
grandi verità e maggiore attitudine a comprenderle. A ogni modo, la cosa in sé è divertente.
Dove non comprendiamo non crediamo, dipendiamo come bambini da quelli che sono in grado
sia di credere che di capire - una conseguenza inevitabile, stando le cose come stanno.
LO SPETTATORE Posso chiedervi...
IL REGISTA Suvvia, andiamo avanti. Per credere all’idea che io vi propongo (questa del Polo Nord)
voi vi rimetterete dunque al giudizio dei competenti, dinanzi ai quali io avrò esposto le mie
prove.
Queste prove costituiscono una piccola difficoltà. Per fare osservazioni e sondaggi, per poter
portare, ritornando, i minerali, gli uccelli, le piante o altre cose atte a convalidare il mio
racconto, dovrò darmi molto da fare, essere assai bene equipaggiato e assistito. Intraprendere un
viaggio in terre sconosciute significa andare in cerca di disgrazie, e sono pochi quelli che
possono provvedere al loro equipaggiamento senza organizzarsi con la massima cura. Perciò, la
nave, la ciurma, gli strumenti, tutto questo viene scelto solo dopo matura riflessione. Di ogni
cosa non si deve portare né troppo né troppo poco. Durante un viaggio simile attraverso un paese
ignoto e in un ambiente le cui condizioni naturali sono eccezionalmente sfavorevoli, dove la
Natura sembra diffidarci dal violare la profondità del suo mistero, bisogna prendere precauzioni
atte a superare qualsiasi imprevisto. Anche se abbiamo provveduto a tutto con la cura più
scrupolosa, qualche incidente potrà sempre minacciare la sicurezza della spedizione. Ci
44
Chieder prove di ogni cosa grande o piccola è sempre indizio di mente ristretta. Ma chiedere prove delle cose grandi
soltanto e accettare invece le piccole, è segno di intelligenza limitatissima. Se la dimostrazione come tale è valida, lo
deve essere in maniera assoluta. Le prove sono dunque prive di valore? Il problema non è mai stato risolto.
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occorrerà, di ogni cosa, una quantità sufficiente ma non eccessiva. Non è quindi una questione di
danaro, per quanto una certa quantità di danaro sarà certo necessaria.
LO SPETTATORE Ma che c’entra questo col teatro?
IL REGISTA Abbiate un po’ di pazienza e vedrete.
Provvediamo a tutto questo dopo aver fatto il nostro piano. Qui sta la parte più difficile
dell’impresa, perché, una volta organizzato il programma, dobbiamo seguirlo fino in fondo,
profittando allo stesso tempo delle occasioni impreviste, man mano che si presentano.
Ora che siamo pronti per la partenza, considerate per un momento ciò a cui ci stiamo
accingendo. Ci disponiamo ad intraprendere una spedizione pericolosa e difficilissima verso
l’ignoto, per riportare, al nostro ritorno, poche prove visibili del mondo che avremo conosciuto.
Non riporteremo con noi l’idea in se stessa, bensì soltanto la sua parte più marginale, diciamo la
frangia dell’idea; perché ritornare dall’ignoto con l’idea in sé e per sé ci indurrebbe certamente a
pensare che siamo pazzi, mentre il riportare con noi gli indizi tangibili di essa vi assicura della
nostra sanità mentale.
LO SPETTATORE Che strano paradosso!
IL REGISTA Ebbene, accettiamolo. Voi volete la graziosa piccola frangia. L’avrete, anche se proprio
questa frangia costa tanto a conquistarsi da rappresentare tutta la difficoltà dell’impresa. E ora
veniamo al teatro. Ma prima una domanda.
LO SPETTATORE Quale domanda?
IL REGISTA Mi avete chiesto di non parlare più di templi o dell’arte del teatro, di cui una volta vi
dissi che era perduta, quell’arte che un valente poeta mi descrisse efficacemente dicendo che
"giace sepolta sotto le basi delle Piramidi da duemila anni, tanto è solenne”. Permettetemi di
parlarne ancora una volta.
LO SPETTATORE Ne parlerete per qualche fine pratico?
IL REGISTA Soltanto a tal fine.
LO SPETTATORE Non vi limiterete, spero, a dirmi che cosa quest’arte significava per noi un tempo, e
che cosa dovrebbe significare adesso? Mi indicherete una via pratica per farla rivivere fra noi?
IL REGISTA La mia intenzione è proprio questa.
LO SPETTATORE Non proporrete di distruggere tutti gli attuali teatri del mondo, per arrivare a una
soluzione pratica? In tal caso non potrei darvi ascolto, perché il vostro progetto cesserebbe di
avere un valore pratico.
IL REGISTA Non ci penso neppure. Quanto mi fa piacere sentirvi esprimere il desiderio che non si
tocchino i teatri esistenti! Ciò mi dimostra che il vostro interesse per essi si va risvegliando e che
vi ho giù quasi guarito. Ricordatevi, il Varietà alle otto!
LO SPETTATORE Non l’ho dimenticato. Ma insomma, questo vostro progetto pratico?
IL REGISTA Il mio proposito è di scoprire o riscoprite l’arte perduta del teatro, con una spedizione
pratica, condotta rapidamente e senza inutili spese nei regni in cui quell’arte giace sepolta.
LO SPETTATORE Una buona intenzione. E qual metodo intendete seguire?
IL REGISTA Il più semplice. Si basa sui metodi usati dagli esploratori artici. La scoperta di quest’arte
è esattamente il parallelo della scoperta del Polo Nord.
L’una e l’altro sono nella stessa situazione: immersi nell’ignoto. Per ambedue abbiamo degli
indizi atti a farci scoprire dove si trovino. Sono avvolti entrambi in un fitto arcano; i loro domini
sono identici, a quel che si dice: il regno del mistero e della bellezza.
Per i preparativi della prima spedizione (perché contiamo di farne parecchie) adotteremo il
metodo usato da Nansen. Innanzitutto prenderemo tempo - impiegheremo cioè tre o quattro anni
a prepararci. Quanto al progetto, il suo studio sarà iniziato almeno sei anni prima.
Così fece Nansen col suo piano di spedizione.
Se permettete, vi leggerò un estratto dal suo Estremo Nord, che ho appena finito di leggere: esso
contiene una relazione sui progetti e sui preparativi per la spedizione del 1893:
“Se poniamo attenzione alla lunga lista delle precedenti spedizioni e ai loro equipaggiamenti, ci
colpisce molto il particolare che non sia stata quasi mai costruita una sola nave fatta apposta per
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-
la spedizione; in realtà, la maggior parte degli esploratori non si è servita neppure di navi
destinate fin dall’origine alla navigazione glaciale.
"La cosa sorprende ancora più se si ripensa alle somme di danaro dissipate per
l’equipaggiamento di alcune di queste spedizioni. Sta di fatto che per lo più avevano tanta fretta
di partire che mancava il tempo per preparare l’equipaggiamento con una certa cura. In molti
casi, infatti, i preparativi si iniziavano soltanto pochi mesi prima che la spedizione partisse.
Questa nostra spedizione, comunque, non ha potuto venir equipaggiata in un tempo così breve, e
se il viaggio in se stesso ha richiesto tre anni, i preparativi non ne hanno richiesti di meno,
mentre il piano era stato concepito nove anni prima.
"Archer fece piani su piani per il progetto della nave; un modello dopo l’altro fu approntato e
abbandonato.
"Si apportavano continuamente nuove migliorìe. Il tipo che alla fine adottammo può sembrare
tutt’altro che bello a molta gente, ma la nostra spedizione ha mostrato, credo, che esso
corrisponde appieno agli scopi cui si mirava”.
Vedete qui la lunga e scrupolosa preparazione che precedette la partenza degli esploratori.
LO SPETTATORE Sì, e ci volle anche molto danaro, come credo ci vorrà per il piano vostro.
IL REGISTA Certamente avremo bisogno di aiuto, sia finanziario che morale, ma lo troveremo.
LO SPETTATORE Come lo sapete?
IL REGISTA Un po’ di pazienza. Verrò alla questione del danaro quando sarà il momento. Non
appena avremo trovato dei validi appoggi per il nostro progetto - cinquemila sterline all’anno,
assicurate per cinque anni, è quanto chiediamo - potremo mettere in atto il piano seguente.
Costruiremo e allestiremo una scuola, corredandola di tutto il necessario.
Essa dovrà contenere due teatri: uno all’aperto e l’altro al chiuso. Queste due scene, chiusa e
aperta, sono necessarie per i nostri esperimenti; ogni teoria dovrà venire sperimentata sull’una o
sull’altra, talvolta su ambedue, e si provvederà a una documentazione dei risultati.
Tale documentazione verrà fatta: per iscritto, con disegni o fotografie, con registrazione
cinematografica o fonografica, in vista di una relazione futura. Ma non sarà resa pubblica e l’uso
ne sarà riservato ai membri della scuola.
Si acquisteranno anche apparecchi per lo studio dei suoni naturali e della luce, insieme ad altri
per la loro riproduzione artificiale; con tali apparecchi riusciremo a migliorare le nostre nozioni
in questo campo, e saremo validamente stimolati all’invenzione di strumenti migliori, atti a
riprodurre in modo più perfetto la bellezza del suono e della luce. Inoltre acquisteremo
apparecchi per lo studio del movimento; alcuni, anzi, verranno inventati di proposito per
quest’uso. A questo corredo aggiungeremo una macchina tipografica, ogni specie di attrezzi di
falegnameria, una biblioteca ben fornita e tutti gli accessori dei teatri moderni. Con questi
materiali e con questi strumenti intraprenderemo lo studio della Scena come al giorno d’oggi,
nell’intento di scoprire i punti deboli che l’hanno portata alla sua disgraziata condizione attuale.
In una parola, faremo degli esperimenti anatomici sul corpo del teatro moderno nel nostro teatro
coperto (vi rammento che ne abbiamo due), esattamente come i chirurghi e i loro allievi fanno
esperimenti anatomici sui corpi di persone e animali morti.
Nella scelta del criterio di amministrazione la scuola seguirà l’antico esempio della Natura. Ci
sarà un capo, un corpo e le sue membra; il direttore sarà designato per elezione. Sarà molto più
facile decidere per i componenti dell’esecutivo, perché il loro compito è senza dubbio meno
gravoso. Nella scuola non vi saranno complessivamente più di trenta persone. Non ci saranno
donne. Vi sono chiari, ora, questi due punti? Primo: che avremo una scuola sperimentale, per lo
studio delle tre fonti naturali dell’arte, suono, luce e movimento, o, come le ho definite altrove,
voce, scena, azione.
Secondo: che conteremo in tutto trenta collaboratori, i quali - singolarmente e collettivamente si applicheranno allo studio dei tre elementi suddetti e degli altri esperimenti necessari a saggiare
i principi del teatro moderno. Vi è chiaro?
110
LO SPETTATORE
Chiarissimo. Ma in che senso il vostro metodo è analogo a quello degli esploratori
artici?
Ora ve lo dirò. Dovremo scegliere un centro da cui verranno mandati in varie direzioni
dei distaccamenti di ricerca, dacché il nostro obiettivo è di esplorare, entro limiti ragionevoli,
ogni angolo di quel mondo teatrale che ci è sconosciuto. Al tempo stesso esamineremo gran
parte del terreno già battuto, spinti dalla convinzione che l’indagine non sia stata condotta a
fondo. Non c’è molta speranza di trovarvi qualche cosa di grande valore, ma una ricognizione è
necessaria. Al più presto possibile ci spingeremo avanti, puntando sull’ignoto. Come i reparti di
esplorazione vengono mandati in direzioni determinate con l’incarico di fare sondaggi e rilievi,
per ritornare poi al punto scelto come base, così i nostri investigatori spingeranno le loro ricerche
entro determinate regioni, dalle quali - dopo averle esaurientemente esplorate e aver raccolto
informazioni sufficienti - ritorneranno al punto in cui si erano separati da noi, per comunicare i
risultati delle osservazioni fatte.
Se il lavoro verrà attuato con la rapidità che ci auguriamo, nello spazio di un anno avanzeremo
su di una nuova posizione in cui fisseremo la nostra base. In caso contrario, se la cosa si rivelerà
troppo difficile, rimarremo sulla base di partenza. Desidero soprattutto sottolineare questo punto:
che non si avrà spostamento di base finché ognuno non sarà pienamente convinto che la nuova
posizione sia vantaggiosa.
È chiaro che l’avanzamento della base serve per facilitare le comunicazioni, nel caso che i nostri
reparti di esploratori si portassero lontano, penetrando nelle zone dell’ignoto. Con questo metodo
e con l’aiuto di mezzi sufficienti, possiamo moltiplicare i nostri tentativi per raggiungere la meta
finale. È l’unico metodo che mi viene in mente e non saprei immaginarne uno migliore: ricordate
che la recitazione impostata su basi simili assicura successi continui di vario genere. Pensate a
quante osservazioni, a quante relazioni importanti sono state fatte, non solo da quelli che hanno
raggiunto le regioni estreme del Nord, ma anche da coloro che hanno limitato le loro ricerche a
quelle latitudini già esplorate da altri viaggiatori.
In capo a un anno i nostri annali registreranno resoconti di cose finora sconosciute, tempi e
risultati di esperimenti di valore incalcolabile, non solo per noi in vista degli sforzi futuri, ma
anche per chi riprenderà la ricerca quando noi saremo costretti ad abbandonarla.
LO SPETTATORE Ritenete probabile dunque che i vostri sforzi non abbiano tutto quel successo che
voi auspicate?
IL REGISTA Al contrario - credo che si possa contare con certezza su di un successo eccezionale; ma
quanto ad un successo definitivo, è raro raggiungerlo, perché probabilmente al momento non
esiste nulla di definitivo. Ditemi ora: il mio progetto e il metodo che suggerisco per attuarlo vi
sembrano buoni?
LO SPETTATORE Cercherò di dirvi quello che penso. II progetto è ideale, e poiché voi andate alla
ricerca dell’ideale esso è in armonia con quelli che sono i vostri fini. Ma troverete poi degli
appoggi? Tanto per cominciare, avrete l’appoggio dei massimi rappresentanti della Professione
Teatrale?
IL REGISTA A chi alludete?
LO SPETTATORE Per parlare franco alludo a Herbert Tree, a Charles Wyndham, a Arthur Bourchier,
a Weedon Grossmith, a Cyril Maude...
IL REGISTA Agli attori-impresari, insomma.
LO SPETTATORE Sì. Ma non ho esaurito la mia lista: essa comprende non solo tutti quelli che in
Inghilterra sono in rapporto con le arti ed alcune persone che hanno a che fare con lo Stato, ma
anche certi artisti stranieri. Per esempio, vi appoggerà il teatro d’Europa, il teatro francese, sia la
Comédie Française che uno dei teatri più piccoli, ma significativi, come quelli diretti da Sarah
Bernhardt e da Antoine? Vi darà qualche appoggio il teatro tedesco? I teatri di Stato, o
Reinhardt, per esempio, o il Teatro d’Arte di Monaco? E l’Olanda, cosa farà l’Olanda? E la
Svezia, la Russia o l’Italia? Il Teatro d’Arte di Constan, di cui mi avete parlato, o Eleonora Duse,
dei cui ideali ho tanto sentito parlare? E gli americani? Vorrei sapere, vedete, su chi fate
IL REGISTA
111
affidamento per avere aiuto, perché questo è l’elemento principale per la realizzazione del vostro
progetto.
IL REGISTA È facile rispondere alla domanda che mi fate. Avete nominato or ora alcune delle
personalità più note del mondo teatrale. Se la scuola che noi progettiamo di fondare è in
contrasto con tutti i loro interessi, non la appoggeranno. Ma riflettete se questo può essere il
caso. Per esempio, fra quelli che avete nominato ci sono probabilmente alcuni idealisti convinti.
I direttori del Teatro d’Arte di Constan sono tra questi, senz’ombra di dubbio. Credo che sul loro
appoggio si possa contare. Eleonora Duse? Credo che il suo aiuto non lo rifiuterebbe mai. Poi
c’è Reinhardt di Berlino. Un progetto come il mio non è certo in contrasto con i suoi interessi.
Ed è molto più probabile che il nome di Herbert Beerbohm-Tree compaia a fianco di questi che
non di certi signori abulici che hanno perduto l’amore dell’avventura. Sarah Bernhardt e Antoine
è più che verosimile che accoglierebbero con entusiasmo il nostro programma e lo sosterrebbero
come un progetto attuabile se ne venissero a conoscenza e lo capissero.
LO SPETTATORE E tutti questi si limiterebbero a darvi il loro appoggio morale?
IL REGISTA Che cosa possono dare di più? Essi sono strenui lavoratori in una professione assai
diversa, e si è già sfruttata fin troppo spesso la generosità di cui godono fama. Se ci danno la
mano e ci augurano buona fortuna, è il massimo che mai ci sogneremmo di chiedere loro.
LO SPETTATORE Sì, ma il vostro capitale dove andrete a pescarlo? Un cumulo di auguri è una bella
cosa, ma di nessuna utilità pratica.
IL REGISTA Può darsi che abbiate ragione; tuttavia non si valuta ogni cosa dai vantaggi pratici che
può dare. Noi speriamo di ricevere aiuti concreti dallo Stato.
LO SPETTATORE La vostra fiducia mi porta a credere che abbiate ragione. Ma ci sono due cose che
dovrete provare allo Stato perché vi conceda il suo appoggio.
IL REGISTA Quali sono?
LO SPETTATORE Prima di tutto, dovrete dimostrare chiaramente che lo Stato ne avrebbe un
beneficio; in secondo luogo, che il vantaggio sarà superiore alla spesa.
IL REGISTA È giusto. Vediamo dunque per prima cosa quale potrebbe essere il beneficio per lo Stato.
II teatro agisce sul pubblico in due maniere diverse: o istruisce o diverte. Ci sono vari modi di
istruire e di divertire. Ora, cosa dite che sia più istruttivo: ascoltare o vedere?
LO SPETTATORE Vedere, a parer mio.
IL REGISTA E che cosa vi sembra più facile da comprendere: il bello o il brutto, il nobile o il
volgare?
LO SPETTATORE Se il nostro fine è di istruire, è più facile comprendere il bello e il nobile, perché è
proprio questo che cerchiamo di cogliere; se invece miriamo al divertimento, è probabile che il
grossolano e il brutto abbiano effetti più immediati.
IL REGISTA E non sono invece più divertenti il bello e il nobile?
LO SPETTATORE Credo proprio di no.
IL REGISTA Eppure, qual è quella cosa che a vederla e a udirla, vi dà la sensazione di essere tutto un
sorriso da capo a piedi?
LO SPETTATORE La bellezza - la verità - oh, un qualche cosa che va al di là di ogni possibilità di
definizione.
IL REGISTA Penso lo stesso anch’io. Ma in questo non c’è qualcosa di divertente? Perché noi
sorridiamo; e il sorriso è un ridere sommesso.
LO SPETTATORE È vero.
IL REGISTA Non è il caso di chiamare questa la parte indubbiamente migliore del divertimento?
LO SPETTATORE Possiamo chiamarla così, per amore di discussione.
IL REGISTA Ed è legata, come abbiamo visto, al bello e al nobile; quindi la parte migliore del
divertimento è parente stretta della parte migliore dell’istruzione.
LO SPETTATORE A quanto pare...
112
Ora, abbiamo detto che il teatro o istruisce o diverte. D’altronde vediamo che talvolta
agisce in ambedue i sensi; in una parola, istruisce e diverte contemporaneamente se è nobile e
bello al massimo grado.
LO SPETTATORE Verissimo.
IL REGISTA E vi pare che quella sensazione che, in mancanza della parola esatta, ho chiamato
"sorriso da capo a piedi”, sia una sensazione buona o cattiva?
LO SPETTATORE Direi che è la sensazione migliore.
IL REGISTA Praticamente: se voi vedeste in un pubblico foltissimo centinaia di facce illuminate dal
sorriso, non direste che gli spettatori sono più felici che se quelle stesse facce avessero
un’espressione tesa o annoiata?
LO SPETTATORE Certamente.
IL REGISTA E ditemi, se voi foste un re, preferireste vedere dei volti felici come quelli che vi ho
descritti, o piuttosto delle facce tetre?
LO SPETTATORE Preferirei vedere dei volti felici, naturalmente.
IL REGISTA Un’altra domanda: preferireste vederli sorridenti o pensosi?
LO SPETTATORE Sorridenti o pensosi? Un volto pensoso non deve essere a tutti i costi tetro, ma
comunque preferirei vederli sorridenti.
IL REGISTA Perché lo preferireste?
LO SPETTATORE Perché mi sentirei anch’io spinto a sorridere.
IL REGISTA Buona risposta. Ora, mi avete detto poco fa che vedere istruisce più che non sentire.
Devo interpretare così: che, secondo voi, ciò che si vede si comprende più rapidamente e con
maggiore facilità?
LO SPETTATORE Sì, intendo dire proprio questo.
IL REGISTA Facciamo un esempio. Noi vediamo un cavallo di razza lasciato libero in un campo.
Esso salta, inarca il collo, volge attorno gli occhi superbamente. Se non avessimo mai visto
prima un cavallo, nessuna descrizione ce ne darebbe l’impressione giusta così rapidamente come
il vederlo.
LO SPETTATORE Sì, è vero.
IL REGISTA E una descrizione verbale del cavallo, che ci venisse fatta nel momento stesso in cui
esso ci si presenta davanti agli occhi, ci aiuterebbe a comprendere meglio quel che vediamo?
LO SPETTATORE No; credo che ci confonderebbe, perché saremmo del tutto occupati a fissare
l’animale.
IL REGISTA Dunque, non sareste disposto a udire qualcosa su di lui, mentre lo vedete?
LO SPETTATORE No, mi urterebbe anziché aiutarmi.
IL REGISTA Eppure si dice che l’udito è un mezzo di istruzione efficace quanto la vista.
LO SPETTATORE Sì, ma è probabile che le due impressioni si disturbino a vicenda quando vengono
prodotte simultaneamente.
IL REGISTA Allora impostiamo la questione in maniera diversa. Supponete che il cavallo saltando
davanti a noi esprima la sua gioia e il suo orgoglio con dei nitriti - e allora?
LO SPETTATORE Ah, sì, è vero. Questo ci aiuterebbe a comprendere; sarebbe una gioia per i nostri
sensi.
IL REGISTA Il nitrito di un cavallo, allora, è più illuminante di un discorso preparato? Sorridereste
nell’udirlo?
LO SPETTATORE Molto probabilmente, sì.
IL REGISTA Direste allora di aver avuto una percezione perfetta, per aver visto qualcosa di nobile e
aver colto un’espressione gioiosa proveniente da ciò che vi sembrava così nobile; e fareste un
sorriso d’intelligenza. Non diverreste pensoso, nevvero?
LO SPETTATORE No, no; rimarrei incantato.
IL REGISTA Proprio così: e questo è esattamente lo stato d’animo a cui si arriva in un teatro come
quello a cui accennavo, dove istruzione e divertimento scaturiscono insieme dalla
contemplazione visiva e uditiva della bellezza. Rimarreste incantato. L’istruzione disgiunta dal
IL REGISTA
113
divertimento provocherebbe in voi una condizione di spirito più meschina; ne uscireste
solamente più istruito. Allo stesso modo eserciterebbe un effetto meschino su di voi il
divertimento non congiunto all’istruzione.
Ricordatevi che ho parlato sempre di vero divertimento e di vera istruzione, nel senso più elevato
della parola; cioè ne ho parlato come di due cose che è possibile e desiderabile congiungere tra
loro. Perciò ho precisato che sono molto affini e quindi difficilmente separabili.
LO SPETTATORE Eppure sono distinte, perché i teatri di varietà risuonano di grida e di risate, mentre
al Lyceum le facce degli spettatori, durante la rappresentazione di Re Lear o di Amleto, sono
molto tese.
IL REGISTA Sì, era proprio di questo che volevo parlare. Il divario è veramente troppo grande, specie
in Inghilterra; in Germania, invece, si sentono molto meno risate grossolane nei teatri di varietà,
e durante la rappresentazione di una tragedia le facce sono meno tese e più pensose. Un teatro
perfetto non dovrebbe né tendere né allentare i muscoli facciali, non dovrebbe contrarre né le
cellule del cervello né le fibre del cuore. Tutto dovrebbe farci sentire a nostro agio. Il compito
del Teatro e della sua Arte è proprio questo: di procurare al pubblico uno stato di distensione
mentale e fisica.
LO SPETTATORE Ma un teatro perfetto non è realizzabile.
IL REGISTA Cosa sento? Che dite? Siamo in Inghilterra, no? Voi siete un inglese, credo - o mi
sbaglio? - e spero che ritirerete subito questa vostra affermazione.
LO SPETTATORE Sembrate tale e quale il cavallo che avete descritto; bisogna che cerchi di evitare i
vostri calci.
IL REGISTA Meno male! E ora che abbiamo riconosciuto di comune accordo la possibilità di creare
un teatro perfetto qui in Inghilterra, vediamo come si possa farlo. Secondo voi, dobbiamo
dimostrare che lo Stato ne avrà un beneficio, per poter sperare nel suo appoggio. Sta bene: il
teatro che noi offriremo allo Stato è il più perfetto del mondo, e questo non è forse un beneficio?
Questo teatro vedrà la luce dopo alcuni anni di lavoro45, seguendo il metodo di ricerca a cui ho
accennato.
LO SPETTATORE Ma non mi avete dimostrato che le spese di questa "spedizione” saranno inferiori al
vantaggio che ne deriverà allo Stato, il quale ne trarrà un beneficio solo se il guadagno risulterà
superiore al capitale impiegato.
IL REGISTA Ve lo dimostrerò il più concisamente possibile, certo non posso, nel corso di una breve
conversazione, portarvi tutte le prove relative ai vari punti. Lo potrei invece se la cosa venisse
discussa, ai fini di un’indagine più approfondita da un comitato incaricato di esaminare il mio
progetto.
Le spese per i primi cinque anni ammonterebbero, come ho detto prima, a venticinquemila
sterline. Ora, può darsi che venticinquemila sterline vi sembrino una somma enorme. Vediamo,
comunque, a che cosa corrisponde in realtà questa somma.
Corrisponde alle spese sostenute da F. Nansen per la sua Spedizione polare del 1893-96.
Corrisponde al prezzo di un quadro della Galleria Nazionale.
Corrisponde all’incirca alla somma necessaria per mettere in scena da tre a cinque
rappresentazioni all’His Majesty Theatre o al Drury Lane.
Corrisponde press’a poco alle spese sostenute in Inghilterra nel 1908 per l’allestimento di un
solo Corteo.
Corrisponde a un quarto del guadagno realizzato da Sarah Bernhardt con la sua tournée in
Francia, negli anni 1880-81.
Corrisponde agli incassi medi di cento teatri di Londra in una serata.
Corrisponde circa ad un terzo della somma che si pagava nel 1634 per un solo Trionfo46.
45
Il Teatro d’Arte di Constan, che è il teatro più perfettamente organizzato e diretto d’Europa, ha impiegato dieci anni
per raggiungere la sua attuale perfezione e soltanto al decimo ha cominciato a rendere un dividendo.
46
Il Trionjo della Pace. Cfr. Symonds, Skakespeare’s Predecessors, p. 27.
114
Corrisponde a meno di metà della somma spesa per ampliare e abbellire il Teatro Lyceum nel
1881.
Corrisponde a un quinto dell’incasso di un’unica tournée di Irving in America47.
Ora ditemi, credete che venticinquemila sterline siano una grossa somma per coprire le spese di
un lavoro importante come il nostro, per cinque anni?
LO SPETTATORE Dopo quel che m’avete detto, non lo penso più.
IL REGISTA Pensate ora anche quanto deve pagare il pubblico per i tanti esperimenti teatrali che si
fanno ogni anno. Si può dire che oggigiorno quasi ogni rappresentazione, a Londra e in
provincia, è un esperimento - onesto, anche se incompleto e privo di metodo - inteso a migliorare
il mestiere del lavoro scenico.
Il pubblico e portato a credere che questi esperimenti siano altrettante opere d’arte perfette,
mentre non sono neanche per sogno opere d’arte, bensì soltanto dei pasticci, messi su con
intenzioni onestissime, ma realizzati in una maniera orripilante.
Ora, non sarebbe meno costoso per il pubblico, se qualcuno - lo Stato, un milionario, o anche il
pubblico stesso - pagasse l’esigua somma di venticinquemila sterline che ho indicato, per coprire
la spesa di un esperimento serio e positivo, che duri cinque anni e sia fatto da persone
competenti, piuttosto che continuare in eterno ad alleggerirsi ogni anno di due milioni e mezzo
di sterline, come sta facendo ora, per degli esperimenti fatti in fretta e senza metodo?
LO SPETTATORE È così rilevante la somma che il pubblico spende ogni anno?
48
IL REGISTA Vediamo se il mio conto è esatto. In Inghilterra ci sono, diciamo, cento teatri . Poniamo
che ognuno di questi cento teatri incassi dal pubblico duecentocinquanta sterline la sera49, e che
questo avvenga per cento serate di rappresentazione all’anno50.
Anche facendo un calcolo minimo, si arriva lo stesso al totale macroscopico di due milioni e
mezzo di sterline portati via al pubblico, nel corso di un anno per della robaccia. Ho risposto
così alla vostra seconda domanda?
LO SPETTATORE Veramente, no. Io vi chiedevo se il guadagno che ne ricaverà lo Stato sarà superiore
alle spese. Voi mi avete soltanto fatto vedere che il costo è estremamente basso in confronto ad
altre spese statali o private, ma dovete ancora dimostrarmi che lo Stato ricaverà un utile dalle sue
venticinquemila sterline.
IL REGISTA Riesaminiamo un’altra volta la faccenda. Lo Stato riceverà dalla scuola, alla fine dei
cinque anni, i frutti delle sue fatiche. Questi comprenderanno:
1) la dimostrazione pratica del miglior metodo da usare per la costruzione e la direzione di un
Teatro nazionale, secondo un modello ideale e in una maniera ritenuta fino ad ora impossibile;
2) la semplificazione e il conseguente miglioramento di molte macchine teatrali della scena
moderna;
3) l’addestramento di registi e del personale addetto a cambiare le scene,
4) l’addestramento degli attori, che comprende lo studio della dizione e del movimento, le due
difficoltà maggiori per l’attore medio;
5) l’addestramento di un gruppo di scenografi originali, di un gruppo di uomini perfettamente
esercitati ad eseguire qualsiasi ordine relativo alle luci di scena. Se oggi si va ad assistere a una
prova particolare d’illuminazione, in qualsiasi teatro il personale addetto a questo compito è
sempre in grave imbarazzo.
I tre motivi essenziali di questo sono: primo, che il direttore di scena non sa quel che vuole, non
conosce i nomi e gli usi delle macchine che si adoperano o delle loro parti, non sa che cosa se ne
possa ricavare, ed è completamente all’oscuro di come giungere a un risultato preciso. Lascia
tutto al caso e all’"effetto” fortuito. Il secondo motivo è che la gran maggioranza degli uomini
47
Brereton, Life of Irving, p. 312.
Ce ne sono più di sei volte tanti.
49
Il Lyceum nel 1881 ne poté incassare trecentoventotto in una sola sera.
50
I teatri rimangono aperti per oltre duecento sere all’anno.
48
115
che fanno funzionare le macchine durante le rappresentazioni serali di giorno vengono impiegati
per un altro lavoro e hanno ricevuto soltanto istruzioni molto sommarie su come svolgere il loro
servizio. Il terzo motivo è che le macchine vengono progettate senza che si sappia a che uso
dovranno servire. Inoltre, bisogna ammettere che gli elettricisti si trovano a dover lottare con
molte difficoltà inutili, che si potrebbero eliminare se si riprendesse a studiare da capo nel suo
complesso il mestiere della scena moderna, con l’idea di dare nuovamente un ordine alle parti di
cui è composto. C’è un solo uomo in cui riponiamo le nostre speranze a tal fine: il regista.
Senonché il regista ha poco tempo disponibile per lo studio, perché è occupato a seguire e a
risolvere situazioni imbarazzanti, che troppo spesso vengono create dal direttore del teatro, dagli
attori, dalle attrici e dalle comparse. Se fa un tentativo di migliorare qualcosa, tutti perdono la
testa. Quando il regista avrà il tempo di imparare e quando poi gli sarà data l’autorità e la
possibilità di istruire il suo personale, i teatri faranno un piccolo passo avanti nella direzione
giusta. Una scuola è l’unico luogo in cui sia possibile ricevere e dare un addestramento del
genere. Insomma. quello che noi potremmo offrire allo Stato in cambio del suo appoggio,
sarebbe il nucleo di un Teatro Ideale, fondato su basi pratiche, con una scuola in cui si formerà il
personale futuro, dal regista fino agli elettricisti, uniti tutti nell’aspirazione di raggiungere un
livello ideale che non si dovrebbe abbassare assolutamente per nessuna ragione.
Vedete dunque che la scuola, pur con l’occhio fisso al futuro e con i suoi ideali saldamente
stabiliti, avrebbe mani e piedi impegnati nel presente. Per andare alla ricerca della perduta Arte
del Teatro, bisogna passare prima attraverso le regioni in cui è situato il teatro moderno.
Percorrendole ristabiliremo l’ordine. Ora comprendete?
LO SPETTATORE Mi avete davvero chiarito le idee. E adesso, ancora una domanda. Sarete voi a capo
di questa scuola?
IL REGISTA No. Il capo, o direttore, come vi dicevo, sarà eletto dai membri della scuola stessa.
LO SPETTATORE E voi non porrete la vostra candidatura? Che farà la scuola senza di voi?
IL REGISTA Qualsiasi cosa. Con me, nulla.
LO SPETTATORE Cosa intendete dire? Non vorrete mica abbandonare il progetto che avete ideato
proprio voi?
IL REGISTA No, non abbandonerò mai la scuola, ma non avrò mai funzioni né di capo, né di corpo,
né di membro.
LO SPETTATORE E che volete fare allora?
IL REGISTA Io creerò la scuola e poi chiederò che mi si conceda libero accesso ad essa perché possa
andare a studiare là quando ne ho voglia. Ho molte ragioni per desiderare questo: ci vorrebbero
molti anni per spiegarvelo esaurientemente. Ma potete dare per scontato che non sono ragioni
oziose. Mi sentirei ben onorato di far parte di una scuola simile.
LO SPETTATORE Ma voi farete di più, farete voi stesso degli esperimenti e darete all’impresa il
contributo del vostro talento.
IL REGISTA Il mio talento non è grande e non può essere prestato. Certo, farei volentieri degli
esperimenti, se mi venisse chiesto di farli; ma credo di poter essere più utile alla scuola
tenendomi un po’ a distanza che non legandomi ad essa.
LO SPETTATORE E questo è il modo mediante il quale suggerite di riscoprire quest’arte perduta, che
voi conoscete probabilmente più di qualsiasi altro?
IL REGISTA Ne conosco ben poco, ma può darsi che sappia meglio degli altri dove si trova. Posso
indicare la direzione giusta, e per questo motivo credo di poter appoggiare validamente gli sforzi
della scuola. Nella ricerca, negli esperimenti sarò sempre con loro, ma non li dirigerò e non
bisogna attendersi che io li segua. Sarò a loro disposizione in qualunque momento mi chiamino,
ma non per un’occupazione stabile.
LO SPETTATORE Voi mi togliete un po’ il respiro. Mi dimostrate di sapere di questa Terza Arte,
come l’avete chiamata, quanto il resto del mondo, se non di più, e me ne parlate per ore ed ore;
per essa rinunciate a tutto nella vita, vi offrite di avviare una scuola, e poi cedete ad un altro
116
scuola, idea, progetto. Non temete che la cosa cambi aspetto di molto, una volta che non
l’abbiate più in mano voi?
IL REGISTA Cambierà certamente, la sua esistenza dipende da questo; ma non ho timori in proposito.
LO SPETTATORE Ma personalmente non avete alcuna aspirazione nei riguardi della scuola? Non vi
addolorerà un poco vederla muoversi in una direzione sbagliata?
IL REGISTA Non c’è questo pericolo. La calamita dell’ideale è fissata; il suo potere di attrazione ha
già cominciato ad agire; sarà proprio resistendo a questo potere che faremo le nostre scoperte. Ci
saranno con noi degli uomini che di tanto in tanto si sentiranno depressi e stanchi, ed è probabile
che allora si commettano degli errori, ma assieme agli errori verranno le scoperte. Tuttavia gli
errori non si commetteranno mai a bella posta, per motivi egoistici: potranno essere soltanto la
conseguenza di un eccesso di tensione. E queste resistenze, come dicevo, avranno come unico
effetto quello di guidarci verso il nostro ideale.
LO SPETTATORE Ma il teatro moderno che voi dichiarate di disprezzare oppone resistenza
all’attrazione dell’ideale.
IL REGISTA Ah, questa è tutt’altra cosa. Quello resiste per paura; noi resisteremo per coraggio. Noi
ci sentiremo attratti e trascinati e andremo avanti con decisione, ma lentamente, continuando a
fare scoperte lungo la via. Alla fine scopriremo quello che cercavamo e che ci attraeva, e allora...
LO SPETTATORE E allora?
IL REGISTA Qui sta il punto. Per parte mia sono pienamente convinto che il nostro viaggio non avrà
mai fine. Noi non cesseremo mai di subire quel potere di attrazione, esso non muterà mai. E noi
ci sentiremo sempre chiamati, con parole e con cenni, e spinti a procedere innanzi.
1910.
117
Gli spettri nelle tragedie di Shakespeare
Un’indicazione singolare riguardo al modo in cui i registi dovrebbero realizzare le tragedie
di Shakespeare è costituita dall’apparizione, in queste tragedie, di spettri o spiriti.
Il fatto stesso della loro presenza esclude la possibilità di trasposizione realistica.
Shakespeare ne ha fatto il centro dei suoi sogni sconfinati, il punto che, come avviene in una figura
geometrica circolare, controlla e condiziona in ogni minimo particolare la circonferenza.
Questi spiriti determinano la chiave in cui, come per la musica, ogni nota della composizione
va armonizzata; sono parte integrante del dramma, non estranea ad esso; sono i simboli visualizzati
del mondo soprannaturale che serra quello naturale, ed esercitano sull’azione qualcosa di simile
all’influenza che, nella "scienza dei suoni” compete ai "toni parziali, ai quali, anche se
impercettibili all’udito, si deve la differenza di suono che passa fra il più misero strumento e la nota
suprema del violino"; come avviene per essi, “così nella scienza della vita, nella strada affollata o
sulla piazza del mercato o a teatro, o dovunque vi sia vita, esistono dei toni parziali, presenze
invisibili. Fianco a fianco, con la folla umana, c’è una folla di forme invisibili... Principati, Potenze
e Possibilità... Non si vedono, ma si sentono. Entrano nelle case degli esseri umani visibili, e alcune
di esse vengono completamente rinnovate per accoglierli; dimorano là, e l’ultima ora di quegli
esseri umani è raggiante di una luce divina, vibrante di un amore più intenso; ma può accadere, al
contrario, che, visitati da spiriti più malvagi di loro stessi, l’ultima ora di tali esseri umani sia
peggiore della vita passata: essi soggiacciono ad una violenza e a una tirannia orrenda a loro stessi;
inafferrabile e inevitabile, ai confini della disperazione”51.
Proprio mediante l’alchimia di questi “toni parziali", mettendo in gioco influenze sentite
anche se non vedute, a volte impalpabili come "l’ombra di un’ombra”, eppure percepite perfino
allora come forze dominanti, talvolta malefiche, talvolta benefiche, Shakespeare perviene a risultati
che trascendono quelli dei suoi contemporanei, anche quando essi trattano temi similari, come
Middleton nella sua Strega.
Perché, quando Shakespeare scrisse "entra lo spettro di Banquo”, non aveva in mente
soltanto un commediante avvolto in una pezza di mussola. Altrimenti, se si fosse preoccupato cioè
della mussola e delle luci di ribalta, non avrebbe mai creato lo spettro in Amleto; perché lo spettro
del padre di Amleto, che scosta i veli all’inizio della grande tragedia, non è uno scherzo; non è un
teatrante con l’armatura, non è una figura da farsa. È una visualizzazione momentanea delle forze
invisibili che dominano l’azione ed è un chiaro comando che Shakespeare dà agli uomini di teatro
perché destino la loro immaginazione e lascino inattiva la loro razionalità.
Le apparizioni di tutti questi spiriti nelle tragedie non sono invenzioni di un direttore
pantomimo; sono le nobilissime creazioni di un nobile poeta e servono a indicarci nel modo più
chiaro possibile quali fossero le idee di Shakespeare riguardo alla scena.
“L’elemento suggestivo dovrà predominare, perché tutti i quadri scenici che pretendono di
darci l’illusione della realtà necessariamente falliscono il loro effetto o causano una disillusione. I
drammi di Shakespeare sono creazioni poetiche e vanno presentati ed eseguiti come tali”52;
consiglio questo di cui dovrebbero, soprattutto, far tesoro coloro che intraprendono la realizzazione
di quelle tragedie di Shakespeare nelle quali è presente l’elemento soprannaturale.
Così se un uomo di teatro vuol mettere in scena Macbeth, Amleto, Riccardo III, Giulio
Cesare, Antonio e Cleopatra, La Tempesta o Sogno di una notte di mezza estate nel modo in cui
andrebbero rappresentate, deve innanzi tutto polarizzare il suo interesse sugli spiriti di questi
drammi; fino a quando non li avrà compresi con tutto se stesso, porterà sulla scena una cosa fatta
51
52
Shorthouse.
Hevesi.
118
solo di cenci e di stracci. Quando invece si sarà compenetrato in questi spiriti, nel momento in cui
avrà veduto le loro proporzioni e avrà imparato a muoversi secondo il loro ritmo, allora egli diverrà
un maestro nell’arte del mettere in scena una tragedia di Shakespeare. Ma di questo il regista non
sembra affatto rendersi
conto, altrimenti adotterebbe un sistema del tutto differente
nell’interpretare quelle scene in cui compaiono gli spettri. Che cosa fa apparire tanto deboli e poco
convincenti sulla scena gli spettri di Shakespeare che pure sono così significativi ed impressionanti
quando leggiamo i suoi drammi?
È che in scena l’apparizione è improvvisa, l’atmosfera giusta non è stata ben predisposta.
Entra lo spettro, e immediatamente panico fra gli attori, e le luci, la musica di fondo e tutto il
pubblico sembrano impazzire. Lo spettro esce - e tutto il teatro tira un sospiro di sollievo. In realtà
quando lo spettro esce di scena, il pubblico in qualche modo sente che si è taciuto qualcosa di cui
“era meglio non parlare”. Così il problema immane, che è alle radici di tutto il mondo, il problema
della vita e della morte, questo tema sottile che produce sempre tanta bellezza e su cui Shakespeare
tesse le sue trame, è sorvolato, evitato con un colpetto di tosse apologetico.
Noi siamo dei bambini in questo campo, pensiamo che uno spauracchio vada bene. Ridiamo
scioccamente quando ci chiedono di rappresentare l’idea di un qualcosa di spirituale, perché non
sappiamo nulla degli spiriti, dal momento che non crediamo in essi. Ridacchiamo come bambini, ci
avvolgiamo in una tovaglia e diciamo “Uh, uh, uh”. Ma considerate dei lavori come Amleto,
Macbeth, Riccardo III. Che cos’è che dà loro quel senso di mistero e di terrore supremo, che li
eleva al di sopra di semplici tragedie di ambizione, assassinio, follia e sconfitta? Non è proprio
quell’elemento soprannaturale che domina l’azione dal principio alla fine; quella mescolanza di
mistico e di materiale; quella sensazione di figure che rimangono sospese, intangibili come la
morte, di volti misteriosi, informi, dei quali ci pare di intravedere qualcosa guardandoli di lato, ma
che, non appena ci voltiamo, scompaiono? Nel Macbeth l’aria è densa di mistero, tutta l’azione è
regolata da una potenza invisibile; e sono proprio quelle parole che non si sentono mai, proprio
quelle figure che raramente prendono una forma più definita dell’ombra di una nuvola, a dare al
testo la misteriosa bellezza, lo splendore, la profondità, l’immensità che lo distinguono; in questo
consiste l’elemento tragico primario.
Fate che il regista concentri la sua attenzione e quella del pubblico sulle cose visibili,
temporali, e il testo verrà spogliato di metà della sua magnificenza e di tutto il suo significato. Fate
invece che introduca, senza travisarlo, l’elemento soprannaturale; che elevi l’azione dai puri dati
materiali a quelli psicologici, e renda udibili alle orecchie dell’animo, se non a quelle del corpo, “il
solenne, ininterrotto sussurrare dell’uomo e del suo destino”, che indichi "gli incerti, dolorosi passi
dell’essere umano, mentre si avvicina - o si discosta smarrito - alla sua verità, alla sua bellezza e al
suo Dio”, che ci mostri come alla base di Re Lear, di Macbeth e di Amleto stia "il mormorare
dell’eternità all’orizzonte"53; solo allora egli adempirà le intenzioni del poeta invece di trasformare i
suoi spiriti maestosi in individui dalla voce sepolcrale, con la faccia imbiancata e le vesti di
mussola.
Considerate, ad esempio, più dettagliatamente la tragedia di Macbeth, in cui “la pressione
opprimente del fattore soprannaturale urge sul vortice della passione umana con raddoppiata
violenza"54. Il successo della rappresentazione dipende interamente dalla capacità del regista di
suggerire questa forza soprannaturale e dalla capacità dell’attore di abbandonarsi al vortice della
tragedia, a quel misterioso magnetismo animale che domina Macbeth e la sua "truppa di amici”.
Mi sembra di vederlo, nei primi quattro atti della tragedia, come un uomo ipnotizzato, che si
muove raramente ma, quando lo fa, è simile a un sonnambulo. Più in là le posizioni sono invertite
ed il sonnambulismo di Lady Macbeth è come un’eco truce, ironica di tutta la vita di Macbeth,
un’acuta, lacerante eco che si va perdendo, si va perdendo, e svanisce.
53
54
Maeterlinck.
Hazlitt.
119
Nell’ultimo atto Macbeth si desta. Sembra quasi che sia un nuovo personaggio. Non è più un
sonnambulo che si trascina pesantemente, è un uomo comune che si sveglia di soprassalto da un
sogno e vede che il sogno è divenuto realtà. Non è l’uomo che alcuni attori ci mostrano, il codardo
scellerato, preso in trappola; ma non è neppure, a parer mio, quel temerario coraggioso e scellerato
che altri vorrebbero. Egli è un condannato a morte che è stato svegliato all’improvviso la mattina
stessa dell’esecuzione, e, nella brutalità di questo risveglio, riesce a comprendere solo i fatti che gli
sono davanti, ed anche di questi afferra soltanto il significato esterno. Vede un esercito di fronte a
sé: combatterà - si prepara - ma intanto continua a lambiccarsi il cervello sul significato del sogno.
Di tanto in tanto ricade nel suo stato di sonnambulismo. Fino a che sua moglie era in vita, egli non
era consapevole della propria condizione, era un mero strumento nelle sue mani, e lei a sua volta
fungeva da “medium” con gli spiriti il cui compito è sempre quello di mettere a prova il vigore
degli uomini, esercitando la loro forza sulla debolezza femminile.
Nietzsche, dove parla del Macbeth, vede soltanto la pazza ambizione dell’uomo, la passione
terrena dell’ambizione; e ci dice che questa visione, invece di allontanarci irresistibilmente dalla
malvagia ambizione che è in noi, l’aumenta. Forse è vero; però sembra che dietro a tutto ciò ci sia
molto di più che l’ambizione malvagia e l’idea dell’eroe e dello scellerato.
Dietro a tutto questo mi sembra di percepire le forze invisibili di cui si è già parlato; questi
spiriti, che Shakespeare amava sempre far intravedere, si trovano dietro a tutte le cose terrene, le
muovono, e le muovono manifestamente verso grandi azioni, verso il conseguimento del bene o del
male.
Nel Macbeth esse si chiamano, come nei racconti della nonna, le Tre Streghe; è un nome
elastico, che il pubblico del teatro può prendere sul serio o per ischerzo, come vuole.
Ora, quando parlo dell’influsso ipnotico di questi spiriti come di una cosa completamente
nuova, lo faccio unicamente in rapporto all’interpretazione scenica di Shakespeare, e non da
semplice studioso. So che gli studiosi hanno scritto su questi spiriti, paragonandoli a certe figure
della tragedia greca, e hanno detto di loro cose molto più profonde di quanto possa dire io. Ma i
loro commenti sono per chi legge Shakespeare, per chi lo vede recitare, non per coloro che
prendono parte alla messa in scena dei suoi drammi. Non mi interessa in questo momento se questi
testi furono composti per la scena o no, e se ci guadagnano oppure ci perdono a venir rappresentati.
Però se mi chiedessero di mettere in scena il Macbeth, io gli darei un significato del tutto differente
da quello che gli attribuisce lo studioso, il quale ha da tener presente solo se stesso, leggendo il
testo in privato. Voi potete sentire la presenza di queste streghe, mentre leggete la tragedia, ma chi
di voi ha mai sentito la loro presenza nel vederla recitata? In questo consiste il fallimento del regista
e dell’attore.
Nel Macbeth, a parer mio, è durante i momenti ipnotici che noi dobbiamo sentire la forza
schiacciante di questi fattori invisibili; e come farlo sentire, come renderlo chiaro, ma non reale,
attuale, questo è il problema del regista. A me sembra che questo dramma non sia ancora stato
rappresentato in modo esatto perché non abbiamo mai sentito gli spiriti agire mediante la donna
sull’uomo. Certo, questo è uno dei compiti più difficili che si possano proporre al regista, ma non
certo per la difficoltà di procurarsi la mussola che sia sufficientemente trasparente, per la difficoltà
di trovare macchinari che siano in grado di sollevare da terra gli spettri, o per qualche altra ragione
del genere. La principale difficoltà sta nella recitazione dei due interpreti di Lady Macbeth e di
Macbeth, perché se si ammette che l’elemento spirituale, che Shakespeare designa col nome di
Streghe e di Spettri, è in qualche modo connesso con la sofferenza di questi due esseri umani,
Macbeth e la sua Lady, allora questi due personaggi lo devono mostrare al pubblico.
Ma riuscire a portare questi spiriti e i loro strumenti ad un’armonia effettiva non dipende
solo dagli interpreti delle due parti principali: dipende anche dagli interpreti delle streghe, e
soprattutto dal regista.
Gli spiriti non compaiono mai sul palcoscenico durante le scene di Lady Macbeth, né noi
siamo consapevoli del loro influsso; eppure quando leggiamo la tragedia, non solo siamo
consapevoli dell’influsso di queste "sostanze invisibili”, ma siamo anche consapevoli in qualche
120
modo della loro presenza. La percepiamo, così come nel romanzo di Shorthouse, La Contessa Eva,
sentiamo la presenza dell’abate francese.
Non ci sono nella tragedia dei momenti, in cui sembra che uno dei tre spiriti abbia, con la
sua mano scarna, tappato la bocca di Lady Macbeth, ed abbia risposto invece di lei? E chi fu, se non
uno di loro, che la trascinò per il polso, quando ella entrò nella stanza del vecchio re con i due
pugnali in mano? Chi le spinse il gomito quando macchiò di sangue i volti dei palafrenieri? E
ancora, cos’è il pugnale che Macbeth vede nell’aria? Con che filo è tenuto sospeso? chi lo fa
penzolare? e di chi è la voce che egli sente mentre torna dalla stanza del re assassinato?
MACBETH Ho fatto il mio dovere. Non hai udito un rumore?
LADY MACBETH Ho udito la civetta gridare e i grilli stridere.
MACBETH Quando?
LADY MACBETH Ora.
55
MACBETH Mentre scendevo?
Ma tu non hai parlato?
Chi hanno sentito parlare mentre egli scendeva?
E chi sono le tre misteriose figure che danzano gaiamente senza fare alcun rumore intorno
alla miserabile coppia che discute nelle tenebre fosche, dopo aver compiuta l’orribile azione? Non
lo sappiamo bene, mentre leggiamo; lo scordiamo del tutto quando vediamo la tragedia
rappresentata sulla scena. Qui vediamo soltanto l’uomo debole istigato dalla donna ambiziosa che
assume le maniere della cosiddetta “Regina da tragedia"; ed in altre scene troviamo lo stesso uomo
il quale, accortosi che la stessa donna ambiziosa non lo aiuta, chiama alcune streghe ed ha un
colloquio con loro in una caverna.
Ciò che dovremmo vedere è un uomo in quello stato ipnotico che può essere allo stesso
tempo terribile e bello vedere. Dovremmo renderci conto che questo stato d’ipnotismo gli è
trasmesso per mezzo di sua moglie, e dovremmo riconoscere le streghe come spiriti, più terribili
perché più belle di quanto possiamo concepirle; ciò che non accade quando invece le
rappresentiamo terrificanti. Le dovremmo vedere non come le immagina Hazlitt, quali “megere del
male, oscene mezzane dell’iniquità, malvagie per la loro incapacità di godere, amanti della
distruzione, perché esse stesse sono irreali, aborti, semi-esistenze, che divengono sublimi per il loro
essere avulse da ogni simpatia umana e per il disprezzo che nutrono verso tutte le cose terrene"; ce
le dovremmo figurare così come ci immaginiamo il Cristo militante, che flagella i mercanti, gli
sciocchi che lo rinnegano. Qui abbiamo l’idea del Dio supremo, del supremo Amore, ed è questo
che va introdotto nell’interpretazione scenica di Macbeth. Vediamo in questo caso il Dio della
Forza, esemplificato nelle tre streghe, che getta due frammenti d’umanità sull’incudine e li
schiaccia, perché non furono abbastanza duri da resistere; che li consuma perché non hanno
sopportato il fuoco: che offre alla donna una corona per il suo uomo, la lusinga oltre misura, le
sussurra che ella è la più forte, la più intelligente; che sussurra a lui che è il più coraggioso.
Ecco con quanta forza di persuasione gli spiriti possono agire sull’uomo o sulla donna,
quando essi sono separati e soli! ascoltate il fluire delle loro parole; essi sono ubriacati dalla forza
di questi spiriti, anche se ne ignorano la presenza.
Ma notate il momento in cui i due s’incontrano. L’uno sul volto dell’altra vedono qualcosa
di così straordinario che sembrano colpiti come da un ricordo perduto. “Dove ho veduto o sentito
prima, quel che ora vedo?”. Ognuno diviene furtivo, si mette in allarme, sta timoroso sulla
difensiva, non ci sono effusioni verbali, il loro incontro è simile al cauto avvicinarsi di due animali.
Cos’è che vedono? lo spirito che si avvolge ai loro piedi o è sospeso sulle loro teste, o, come
nei quadri dell’antico Dürer, bisbiglia loro nell’orecchio? Ma perché, ci si chiede, questi spiriti
dovrebbero apparire così orribili, quando proprio un momento fa abbiamo parlato di loro come di
creature divine, simili al Cristo militante? E la risposta appare ovvia. Non può forse lo spirito
assumere altrettante forme quante il corpo, altrettante forme quante la mente? Questi spiriti sono le
55
Macbeth, atto II, scena 2.
121
molte anime della natura, inesorabili verso il debole, ma obbedienti a quelli che si sottomettono ad
una disciplina.
Veniamo ora all’apparizione di Banquo durante la festa.
Tutta la tragedia si incentra su questo punto, e trae origine la esso. È qui che vengono
pronunciate le parole più terribili, è qui che si offre alla vista l’impressione più tremenda. E per
giungere a questo momento con decoro, con intelligenza, vale a dire, artisticamente, le figure non
devono passeggiare per terra nei primi due atti e poi improvvisamente mettersi a camminare sui
trampoli nel terzo atto, perché allora una grande verità apparirebbe come un’enorme bugia, e lo
spettro di Banquo come un nulla.
Bisogna aprire la tragedia in un’atmosfera più elevata di quella in cui di solito brancoliamo,
l’atmosfera del quotidiano; perché qui siamo sul piano delle fantasie, sul piano di quella cosa
stranamente disprezzata che è l’immaginazione: su di un piano spirituale.
Dovremmo esser coscienti che lo spirito vuol vedere la donna annientarsi da sé e non cedere
all’influsso mediante il quale egli la mette alla prova. Dovremmo vedere l’orrore che prova lo
spirito nell’accorgersi del trionfo di questo suo influsso.
Invece, di tutto questo sulla scena non si vede niente. Non sappiamo perché le streghe
tormentano questi due individui; abbiamo la sensazione che la cosa sia alquanto spiacevole. Ma non
è questo il sentimento che dovrebbe sorgere in noi. Vediamo gli spauracchi e i diavoletti del
calderone, e i forconi, e le figure simili a zanzare dei pantomimi, ma non il Dio, lo Spirito, che
dovremmo invece vedere; lo spirito bello, quel genio paziente e severo che chiede all’eroe di dare
infine prova d’eroismo.
I personaggi di Shakespeare spesso non sono che esseri deboli; Lady Macbeth è forse la più
debole di tutti, e se questa è la bellezza del dramma - ed è grande senza dubbio - è bellezza
morbosa, non bellezza suprema.
Dopo aver letto di questi personaggi, restiamo abbandonati a noi stessi, alle nostre
riflessioni, e ciascuno completerà le sue sensazioni entro il margine che Shakespeare ha lasciato al
lettore. A chi legge è permessa una grande libertà, perché molte cose sono taciute, benché quasi
tutto sia stato indicato; per un cervello immaginoso questi spiriti sono chiaramente impliciti e,
d’altro canto, da chi non ha fantasia i frutti dell’immaginazione son sempre bene accolti per
divorarli come Eva deve aver divorato il frutto proibito.
Perciò quando accade che un regista ha immaginazione, egli deve presentare al pubblico i
frutti della sua fantasia.
Ma guardate che materiale ingombrante gli vien messo davanti! Cosa può fare con della
robaccia come gli scenari, i costumi, le figure in movimento che deve spingere qua e là e mettere
sotto questa o quella luce? È forse materiale adatto per una cosa sottile qual è l’immaginazione?
Può anche darsi; forse non è peggio del marmo o dei materiali usati per costruire una cattedrale;
forse tutto dipende dal modo in cui li si usa.
Ebbene, ammesso ciò, il regista può tornare al suo materiale e scuotere via tutta la polvere
accumulatasi, fino a risvegliarlo alla vita reale, vale a dire alla vita dell’immaginazione. Perché c’è
una sola vita reale in arte, e questa è la vita dell’immaginazione. Il fantastico è il reale in arte, e in
nessun dramma si può osservare la verità di questa affermazione meglio che nel Macbeth.
Per certe persone è comodo dire che Shakespeare viveva in un’età stranamente superstiziosa
e che traeva i suoi soggetti da un’epoca e da un paese imbevuti di superstizioni.
Giusto cielo! ma è così strana l’idea di uno spettro, l’idea di uno spirito? Allora tutto
Shakespeare è strano e innaturale e bisognerebbe dare in fretta alle fiamme la maggior parte delle
sue opere, perché noi non vogliamo nulla che si possa chiamare strano e innaturale, nel secolo
ventesimo. Noi vogliamo cose che si possano comprendere chiaramente, e questi drammi, come ci
sono presentati sulla scena, non sono comprensibili in modo chiaro: l’apparizione grottesca di un
fantasma non è cosa molto intelligibile, sebbene io creda che la reale presenza degli spiriti intorno a
noi sia un fatto che ogni intelligenza media dovrebbe meditare.
122
Eppure come è possibile mostrare in modo adeguato una tale idea se prendiamo come punto
primario e centrale delle nostre considerazioni Macbeth e sua moglie, Banquo e il suo cavallo, i
troni e le tavole, e lasciamo che queste cose ci impediscano di intendere l’esito reale del dramma?
Se non vediamo questi spiriti prima di iniziare il nostro lavoro, dopo non li vedremo più. Credete
forse che si possa vedere uno spirito dietro al sipario durante un intervallo? No, l’uomo che voglia
rappresentare questi drammi come Shakespeare, forse, avrebbe voluto, deve inserirne ogni
frammento in un senso di spiritualità; e per far questo deve evitare completamente quel che è
materiale, semplice razionalità, o meglio ciò che rivela soltanto il proprio involucro materiale,
altrimenti lo spettatore si troverebbe di fronte qualcosa di opaco e di impenetrabile e dovrebbe
tornare perciò a quel ritmo cadenzato che fluisce non solo nelle parole di Shakespeare, ma nel suo
stesso respiro, nel sottile aroma che fluttua intorno ai suoi drammi.
Ma per concludere in modo più concreto.
Se io dovessi insegnare a un giovane, che ci si voglia avventurare, come giungere
all’interpretazione di cui abbiamo parlato, agirei nel modo seguente: lo condurrei attraverso ciascun
brano del dramma, e da ogni atto, ogni scena, ogni pensiero, azione o suono, estrarrei uno spirito, lo
spirito che è in esso. E sui volti degli attori, sui loro costumi e sulle scene, mediante la luce, la linea,
il colore, il movimento, la voce ed ogni altro mezzo a nostra disposizione, trasferirei alla scena
incessantemente tutti quegli elementi atti a evocare la presenza di questi spiriti: in tal modo, quando
durante la festa compare lo spettro di Banquo, lungi dal farci ridacchiare, esso apparirà ai nostri
occhi logico e terribile; dovremmo trovarci in uno stato d’attesa così vivo, dovremmo essere
immersi nell’atmosfera della sua venuta a tal punto da sentire la sua presenza anche prima di
vederlo.
Questa sarebbe l’acme naturale, la conclusione logica. E da quel momento fino alla fine
della tragedia, farei sparire ad uno ad uno gli spiriti dai volti, dagli abiti, dagli scenari, finché nulla
rimanga sulla scena fuorché il corpo di Macbeth, una manciata di cenere lasciata lungo il passaggio
dal fuoco distruttore.
In tal maniera verrebbe evitato il sentimento di scherno che l’apparizione di uno spettro fa
sorgere in noi; e prima che il pubblico se ne renda conto, il mondo degli spiriti diverrebbe ancora
una volta possibile, le nostre menti sarebbero di nuovo pronte a ricevere la rivelazione
dell’invisibile; e sentiremmo la verità delle parole d’Amleto:
"Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ci si sogni nella tua filosofia”.
1910.
123
I drammi di Shakespeare
Nel mio saggio sull’Arte del Teatro, pubblicato nel 1905, osai aderire all’opinione di coloro
che ritengono che i drammi di Shakespeare siano stati scritti per il lettore, e non per la scena.
Sembra che molte persone siano di questo avviso. Pure fu una soddisfazione per me quando più
tardi mi capitò di leggere, fra gli scritti di Goethe, queste ed altre affermazioni:
"Shakespeare appartiene di diritto alla storia della poesia; nella storia del teatro appare
soltanto per caso”.
"Tutto il modo che Shakespeare ha di condurre i suoi drammi ne rende, in certa misura,
irrealizzabile l’esecuzione sulla scena attuale”.
"La ristrettezza stessa della scena gli impone delle limitazioni”.
Goethe giunge a questa conclusione non all’inizio della sua vita, ma alla fine, dopo che la
sua esperienza personale a teatro gli ha mostrato che letteratura e scena sono, e devono essere,
indipendenti l’una dall’altra56. Io rimango sempre della stessa opinione: che i drammi di
Shakespeare non sono fatti per la scena, proprio perché io stesso lavoro in questo momento a
parecchie rappresentazioni shakespeariane ed ho quindi occasione di passare in rassegna le varie
"edizioni”, come si usa chiamarle, del nostro autore, specialmente le edizioni per la scena. Un fatto
mi ha colpito: e cioè che la gente la quale sostiene che Shakespeare era un maestro d’arte teatrale
taglia via dai suoi drammi versi, passi, anzi intere scene: e sono parole, brani e scene che, a detta
loro, furono scritte per il teatro.
Dire che una cosa è perfetta e poi mutilarla è alquanto strano. Se un direttore vuole tagliare
un testo, dicendo che in tal modo esso sarà più comprensibile al pubblico, è cosa ammissibile,
purché non dica al tempo stesso che Shakespeare era un maestro perfetto di arte drammatica.
Se mai ci fu un’arte per il popolo questa è il dramma, e se Shakespeare non è riuscito a farsi
comprendere dalle folle di ogni epoca, il capocomico non migliorerà certo la situazione tagliando
ampi brani del testo.
Nell’Amleto di solito i direttori tolgono quel lungo passo che comincia con: "Ora tutte le
circostanze portano l’accusa contro di me"57, con il pretesto che “non aiuta il dramma”. È uno stato
di cose tutt’affatto straordinario, che i direttori siano in condizione di dire quel che "aiuta o non
aiuta" i drammi di Shakespeare, dopo che l’autore stesso ha preso al riguardo le sue decisioni.
Tagliate il dialogo fra Ofelia e Amleto nell’atto III, scena II, quando egli giace ai piedi di lei, e il
personaggio di Amleto sarà privato di gran parte della sua forza. Ofelia, invece di essere una donna
intelligente, diventa una debuttante del primo periodo vittoriano, e Amleto, invece di essere un
uomo del suo tempo ed evocare un’epoca che era qualcosa di più che un’epoca di belle maniere,
diventa una specie di curato predicatore. Naturalmente il censore potrà fare delle obiezioni a questo
e ad altri brani di Shakespeare, nel qual caso avrebbe perfettamente ragione perché questi testi non
sono stati scritti per le scene, bensì per essere letti. Ma se volete recitarli, recitateli per intero oppure
non fatene niente58. Dire che l’omissione di un piccolo passo non nuoce ad una tale opera è ridicolo
quanto il sostenere che il portar via una piccola parte di un corpo, soltanto un occhio, non
danneggia l’intero individuo.
56
Ci sono però nei drammi di Shakespeare dei passi essenzialmente scenici e concepiti in funzione della scena: sono le
parti lasciate all’improvvisazione, quelle stesse che inducono tanti a dire che questi drammi sono dei capolavori teatrali.
Bisognerebbe riesaminare tutta l’opera di Shakespeare e separare in essa il testo letterario dalle improvvisazioni verbali
degli attori. Bisognerebbe inoltre confrontare fra loro le diverse edizioni: rileggere Amleto nel testo del 1603 e in quello
del 1604. Il primo è la tragedia rude e frusta destinata al popolo, il secondo l’opera rifinita alla perfezione, destinata ai
lettori seduti in poltrona. [Brano aggiunto dall’Autore nell’edizione francese.]
Questa teoria è stata ripresa e più ampiamente sviluppata da Craig nel suo volume The Theatre Advancing,
Boston 1919 e Londra 1921, a proposito di Molto rumore per nulla. [N. d. T.]
57
Amleto, atto IV, scena 4.
58
“...Vedo con vivo piacere che posso senz’altro avallare l’opinione di Tieck, là dove egli mostra di essere un fiero
difensore dell’unità, dell’indivisibilità e dell’inviolabilità dei drammi di Shakespeare, ed insiste sul fatto che devono
essere rappresentati integralmente, senza revisioni o modificazioni di sorta”. Goethe.
124
Prendersi libertà del genere con i grandi drammi non è segno di civiltà, anzi è estremamente
barbaro. Un’altra argomentazione portata per giustificare questi tagli è che uno spettacolo non può
durare più di un dato tempo. Ma il tempo non ha nulla a che fare con la rappresentazione: se è bella
non ci interessa quanto dura; se è brutta è meglio tagliar corto. Perciò insistere sul fattore tempo
significa solo che il direttore ha paura che il lavoro sarà rappresentato male. Si può forse esser sazi
di una cosa bella? Allora è possibile rappresentare un dramma di Shakespeare per intero in una sera,
purché gli apparecchi per i cambiamenti di scena non siano così assurdamente complessi da
richiedere venti minuti per atto, e purché gli attori non facciano delle pause troppo lunghe su ogni
sillaba, ma esercitino i loro cervelli a pensare un pochino più in fretta. È questa dizione lenta dei
versi di Shakespeare che lo ha reso noioso a tanta gente. Nei drammi di Shakespeare ci sono delle
scene appassionate oltremodo stupende, più ardenti di quelle del teatro italiano, eppure noi le
annacquiamo e le strascichiamo e poi restiamo sorpresi quando un Giovanni Grasso viene in
Inghilterra e ci mostra come dovremmo parlare, recitare e rivelare la subitaneità ed il furore della
passione. Sembra che noi ci scordiamo che la passione è una specie di follia, la riduciamo a un
atteggiamento logico e la esprimiamo con la voce del giudice o del matematico: l’impressione è che
si stia facendo un’operazione d’aritmetica. Così, sulle nostre scene, è un bottegaio, non Otello, che
sta strangolando Desdemona. Gli attori inglesi di temperamento non potranno sentirsi in pace con
se stessi finché non si saranno svegliati e avranno spazzato via dalla scena e dal teatro tutti questi
attori impassibili e indigesti.
Fatto questo, i drammi di Shakespeare verranno interpretati come si dovrebbe? No, non
credo. Neppure se gli attori più bravi e di maggior temperamento del mondo intero si riunissero per
cercare di recitare l’Amleto ne potrebbero dare un’interpretazione corretta, perché temo che
rappresentare bene Amleto sia impossibile.
1908.
Nota. Da quando ho scritto questo saggio, e dalla prima pubblicazione di questo libro nel 1911, ho
cercato io stesso di mettere in scena Amleto - l’Amleto di Shakespeare - a Mosca. Perché ho
cercato di farlo, sapendo che la cosa era impossibile? Per molte ragioni: volevo rafforzarmi nella
mia opinione; volevo che la gente si rendesse conto della verità, volevo anche affrontare le critiche,
e volevo esercitare le mie qualità di regista (perché da parecchi anni non mettevo in scena un
lavoro). E inoltre desideravo fare quel che i miei amici mi chiedevano.
Son rimasto soddisfatto? Sì. Ora sono più che mai convinto che i drammi di Shakespeare
non sono recitabili - che sulla scena sono una noia - ma anche che la folla non ama niente più che
una buona confusione di princìpi a teatro, come la ama in architettura e in musica. Se chiedete se il
Teatro d’Arte di Mosca ha svolto bene il suo compito, vi dirò: molto, molto bene; quanto però ad
attenersi fedelmente ai princìpi che governano la nostra arte... non è proprio il caso di parlarne. Se
avesse rispettato questi princìpi avrebbe chiuso le porte tre anni or sono, quando io spiegai ai suoi
impresari che questa era l’unica strada giusta che gli restava. Ciononostante è pur sempre il primo
teatro d’Europa: regna nell’Inferno.
1912.
125
Il Realismo e l’attore
Mi chiedete se io ritengo che il Realismo nella recitazione sia un modo sincero di
rappresentare la natura umana. Lo attestano gli scrittori e i pittori moderni mediante quel che
scrivono o dipingono, e con il modo in cui lo fanno. Proprio perché i realisti si sforzano di
rappresentare sinceramente la Natura (usando di una schiettezza che chiamano verità, e che
generalmente sconfina nella brutalità), e perché questa sincerità non è il frutto o il fiore di una
nuova pianta, ma soltanto la radice, io credo che mai l’attore pretenderà di avere la stessa libertà
degli scrittori o dei pittori di oggi, sì da poter fare “la presentazione contraffatta” di queste brutalità
con tutta la cura possibile dei particolari.
Non riesco a ricordare alcun attore così privo d’intelligenza da voler presentare in tutta la
sua crudezza il momento della morte come i realisti moderni lo hanno dipinto o descritto nelle loro
opere, o quello dell’amore, come è espresso da questi stessi maestri sinceri e terribilmente ciechi.
I realisti vi diranno che a loro non interessa tanto il soggetto in se stesso, quanto il modo in
cui lo trattano. Se è così, allora è un fatto davvero straordinario che i realisti si interessino soltanto a
cose deformi o brutali, e proprio a quelle che gli idealisti si son sempre dati cura di velare.
La domanda che avete dimenticato di rivolgermi è se il pubblico permetterebbe mai
all’attore di rivelare quegli stessi sentimenti e casi che tanto gli scrittori idealisti quanto quelli
realisti hanno diritto, in un modo o nell’altro, di esprimere.
Qual è la differenza che intercorre fra pittura, parola e realtà viva e palpitante? Anche il
pubblico che siede a teatro la percepisce e perciò si rifiuta di permettere che l’attore riveli quel che
a Milton e a Rabelais concede di svelare. Quindi come ci può essere ombra di dubbio sul fatto che
non solo all’attore non dovrebbe esser permessa la stessa libertà dello scrittore o del pittore, ma che
di fatto tale libertà non gli è concessa?
Il Realismo è un modo d’esprimersi volgare, buono per i ciechi. Ecco il chiaroveggente che
canta: "Bellezza è Verità, Verità Bellezza - questo è tutto ciò che al mondo si può sapere, tutto ciò
che è necessario sapere”. Il cieco gracchia: “Bellezza è Realismo, Realismo Bellezza - questo è
tutto quel che so al mondo, tutto quel che mi interessa sapere!”
La differenza è tutta una questione di amore. Chi ama il mondo vede la bellezza ovunque: è
un Dio che rende complete con la conoscenza le cose incomplete. Guarisce gli storpi e i malati,
infonde coraggio agli stanchi, e giunge anche a ridare la vista ai ciechi. Questo è il potere che ha
sempre avuto l’Artista, colui che, a mio avviso, dirige il mondo. Probabilmente il Realismo può
andare a genio al pubblico in un dato periodo, e in un altro no. Al pubblico non interessa la ricerca
della conoscenza e neppure della saggezza, questo semplice atomo quotidiano di verità, che rimane,
non veduto, dovunque, eternamente. Al pubblico interessa la conquista del denaro, e, col denaro, di
quella greve e brutale capacità di vendetta che esso comporta: la capacità di dare come una dama
una stretta di mano quando un bacio è troppo poco; la capacità di dare, con l’aria da gran signore,
dieci sterline un “povero diavolo”, un po’ di carità, là dove solo l’amore potrebbe bastare. Fino a
quando il pubblico sarà composto da questa categoria di gente mostruosamente mediocre, che
scambia la metà o i tre quarti per il tutto, esso amerà il Realismo, che non è altro, per l’artista, se
non misura scarsa, meschinità.
In ogni modo, i frequentatori del teatro non hanno di che preoccuparsi; non c’è motivo
perché si sentano depressi; che siano furiosi, va bene, ma depressi? Non ce n’è davvero ragione:
poiché quel numero limitato di spettatori che amano la Bellezza e detestano il Realismo è solo una
piccola minoranza di circa sei milioni di anime. Sono dispersi qua e là per il mondo. Vanno di rado,
se pure ci vanno, al teatro moderno.
Per questo li amo, e voglio unirmi ad essi.
Forte dei Marmi, 1908.
126
I teatri all’aperto
Mi sembra che il teatro abbia aspirato quasi sempre ad essere “naturale”, che autori, attori e
scenografi si siano sforzati quasi sempre di evitare la "teatralità”. Persino nel secolo diciottesimo,
un’età in cui la maggior parte delle cose si ammantava di un’artificiosità sontuosa, luccicante di
argento dorato, appare un maestro che tenta di riportare tutto al "naturale"; eppure, oggi le
commedie di Molière ci sembrano tutt’altro che naturali e il loro sistema antiquato di
rappresentazione ci colpisce proprio in quanto artificioso.
Non per uno, ma per svariati secoli gli uomini hanno portato in trionfo i loro autori migliori,
perché erano più “naturali” degli altri. Eppure i drammi di Shakespeare non ci fanno più l’effetto di
drammi “naturali”; persino Robertson e i suoi Caste e Ours, che erano considerati naturalissimi
pochi anni fa, e il loro modo di rappresentazione quanto mai aderente alla vita, ci appaiono oggi
antiquati e artificiosi.
Alcuni si spingono fino al punto di dire che sono diventati artificiosi i primi lavori di Arthur
Pinero e gli ultimi di Shaw.
Lo stesso vale per la decorazione delle scene. Cent’anni fa Clarkson Stanfield dipingeva in
Inghilterra degli scenari che sbalordivano i critici per il loro aspetto “naturale”, e questo anche dopo
aver conosciuto l’opera di de Loutherbourg; ma ben presto Stanfield fu considerato non naturale,
perché Telbin il Vecchio offrì qualcosa che, secondo loro, era la Natura stessa; non avevano finito
di dirlo che già si rimangiavano le proprie parole, voltavano la schiena a Telbin, e scoprivano la
vera Natura in Hawes Craven, solo per mettere anche lui in disparte poco dopo e sostituirlo con
Harker che "finalmente ci dà, dipingendo, l’immagine della Natura”.
Le cose non vanno meglio quando si tratta della recitazione. I Kemble col loro stile
superbamente artificioso dovevano cedere il posto a Edmund Kean, a cui trent’anni dopo veniva
negata ogni naturalezza; non era forse “più naturale” Macready? Nello spazio di pochi anni tutti
questi attori ci apparvero affettati e artificiosi, quando fece la sua comparsa Henry Irving.
Oggigiorno parliamo dell’artificiosità di Irving, mettendola a confronto con la recitazione naturale
di Antoine. “È la Natura in persona”, gridano i critici, e fra non molto la recitazione naturale di
Antoine diventerà mero artificio in confronto a quella di Stanislavskij.
Allora, sono queste tutte manifestazioni di una medesima “Natura”?
Secondo me, prese una per una e tutte assieme, sono né più né meno che altrettanti aspetti di
una nuova artificiosità, quella del naturalismo.
Drammaturghi, attori, artisti della scena, sono vittime di un sortilegio - vi ricordate la storia
della Bella Addormentata? - e bisogna rompere l’incantesimo perché si risveglino. Romperlo sarà al
tempo stesso molto difficile e molto facile, molto difficile per coloro che sono nati per dormire;
molto facile per chi è nato per essere sveglio; ma è assolutamente certo che, finché l’incanto non
sarà rotto, completamente e radicalmente distrutto, tutti i lavori, le recitazioni e le scene d’Europa
sono e continueranno ad essere teatrali59.
Non credo sia giunto il momento di darvi un’indicazione sul modo di rompere questo
incantesimo che grava sul teatro europeo. D’altronde, il mio intento qui è di porre un problema, non
di dare una risposta. Si potrebbe rilevare che vi ho posto il problema, senza tenere alcun conto di
quel che si dice il suo “lato pratico”, e che le risposte devono venir formulate con lo stesso spirito.
C’è sempre nell’uomo un desiderio più che naturale (che nasce da una sana prudenza) di mantenere
59
Bisogna riconoscere qui che c’è un certo fascino (ed è l’essenza stessa e il riflesso di quel Mondo fantastico che ci
colpisce nei Libri...) nella leggiadra o pavoneggiante artificiosità del “Teatrale”. La gran parte di noi ama il
divertimento della finzione, ammira la festosità degli orpelli, la cipria e il rossetto; ma tutti noi uomini di teatro - a
cominciare dal primo attore del regno fino all’ultimo buttafuori di provincia - aneliamo con tutto il cuore a questo: che
lo spirito della Natura, nella sua interezza, s’impossessi di questa nostra casa che amiamo.
127
le cose su di un piano pratico, e quando discutiamo di questioni economiche o igieniche conviene
essere pratici quanto più è possibile.
Ma quando il problema ci pone al di fuori di questo contesto, quando discutiamo di cose che
provengono dallo spirito, come le arti e la filosofia, faremo bene a considerarle nella maniera ideale
che ad esse si addice; più tardi potremo ritornare sulla terra e tentare di tradurle in simboli. Il
problema che pongo è questo: ritenete che il teatro all’aperto sia il luogo adatto per presentare al
pubblico quella che noi chiamiamo l’Arte del Teatro, o vi pare che sia più idoneo il teatro coperto?
Il primo vi offre delle condizioni naturali, il secondo delle condizioni artificiali.
1909.
128
Il simbolismo
"È per mezzo dei Simboli che l’uomo, consapevolmente o
inconsciamente, vive, lavora ed ha un suo modo d’essere:
più nobili poi sono ritenute quelle età che hanno meglio
compreso il valore del Simbolo, e più l’hanno apprezzato.”
Carlyle
Il simbolismo60 è realmente più adatto; è sensato, ben ordinato ed è impiegato
universalmente. Non lo si può dire teatrale, se per teatrale si intende qualcosa di vistoso, pure è
l’essenza vera e propria del teatro, se vogliamo includere l’Arte del Teatro fra le arti superiori.
Il simbolismo non è qualcosa di cui si debba aver paura, è la delicatezza stessa; è compreso
facilmente tanto dal contadino o dal marinaio quanto dai re o dagli uomini d’alto rango. Alcuni
temono il simbolismo, ma è difficile scoprire perché, e questi tali a volte si offendono e vogliono far
credere che la ragione per cui non amano il simbolismo è che in esso c’è qualcosa di morboso e di
nocivo. “Viviamo in un’epoca realistica", è la scusa che mettono avanti. Ma non sanno spiegare
come mai essi stessi siano costretti a servirsi di simboli per negarli, né come mai per tutta la vita
abbiano fatto uso proprio di questa cosa che trovano tanto incomprensibile.
Perché il simbolismo è alle radici non soltanto di ogni arte, ma di ogni vita, è solo per mezzo
dei simboli che la vita diviene possibile; li adoperiamo sempre.
Le lettere dell’alfabeto sono simboli, usati quotidianamente dai popoli civili. I numeri sono
simboli, e la chimica e la matematica li adoperano. Tutte le monete del mondo sono simboli, e gli
uomini d’affari ne hanno fiducia. La corona e lo scettro dei re e la tiara dei papi sono simboli. Le
opere dei poeti e dei pittori, degli architetti e degli scultori, sono piene di simbolismo; i cinesi, gli
egizi, i greci, i romani e gli artisti moderni dall’età di Costantino hanno compreso e apprezzato nel
suo valore il simbolo. La musica diviene intelligibile solo mediante l’impiego dei simboli, ed è
simbolica nella sua essenza. Tutte le forme di saluto e di congedo sono simboliche, e si servono dei
simboli, e l’estremo atto di pietà verso i nostri morti è di erigere un simbolo sopra di essi.
Credo che nessuno debba mai biasimare il simbolismo, né temerlo.
1910.
60
“Simbolismo: un uso sistematico di simboli; un simbolo; un segno visibile di un’idea”. Webster.
129
Lo squisito e il prezioso
I porci non apprezzano le perle. Questo è ormai un fatto universalmente riconosciuto che
trova d’accordo la maggior parte della gente.
La maggior parte della gente che noi conosciamo apprezza certamente le perle; perciò si
può dire che i più apprezzano ciò che è al tempo stesso squisito e prezioso.
Non mi interessa se le perle vengono apprezzate per la loro rarità e per il loro prezzo - tanto
meglio - o per la loro bellezza. L’una ragione come l’altra è buona, dal momento che il risultato è
sempre lo stesso: le perle suscitano meraviglia ed eccitazione, vengono di certo maneggiate con
delicatezza, e chi le porta probabilmente avrà un aspetto più affascinante. Così vediamo che ad
essere vicini a ciò che è prezioso e squisito si diviene più squisiti, più preziosi noi stessi.
È un vero peccato che il teatro non sia né squisito né prezioso.
Io vorrei, al posto di espressioni violente di violente emozioni ed idee, più squisite
espressioni di più preziose emozioni ed idee.
Al posto dei materiali volgari, quali la prosa, le grossolane tavole di legno, le tele dipinte, la
cartapesta e la polvere, mi piacerebbe adoperare materiali più preziosi: la Poesia, o ancora il
Silenzio, tanto più prezioso - l’ebano e l’avorio, l’argento e l’oro, e legni pregiati d’alberi rari, sete
squisite di colori inusitati, marmo e alabastro - e belle intelligenze.
Il pubblico non è così sciocco: non valuterà un pezzo di carbone più di un diamante;
preferirà sempre la seta e l’avorio al legno e alla tela. Il critico che neghi ciò non è che un venditore
di fumo.
Per questo, signori, vi chiedo di considerare il giglio falso del teatro e di paragonarlo a
quelle specie più preziose, i gigli di campo.
E ringraziandovi per le vostre critiche passate, vi chiedo di fare con equità la critica del
materiale presente del teatro moderno. Così facendo, anche se sarete indulgenti, risveglierete in noi
tutti una condizione assai vicina all’ira più squisita; ma farete onore al teatro, l’onore di credere che
esso è ancora degno di una nobile critica, ancora meritevole di un giudizio basato sui suoi dati
essenziali, e non soltanto su fatti marginali.
Se una pianta di fico producesse cardi, critichereste i suoi frutti spinosi? Perdereste il vostro
tempo a protestare contro la qualità dei cardi, a farne una descrizione negativa e a chiederne di
migliori?
E allora perché criticate i falsi prodotti della nostra nobile arte?
Vi prego di studiare la natura dell’Arte del Teatro, in modo che col vostro aiuto si scopra
ancora una volta che i suoi fiori e i suoi frutti sono squisiti e preziosi.
1910.
130
Per un nuovo teatro
Disegni per scene teatrali
con note critiche dell’inventore Edward Gordon Craig
Roma non fu costruita
in un sol giorno
Agli
ITALIANI
con rispetto, affetto, e gratitudine;
ai loro vecchi e nuovi attori,
sempre i migliori d’Europa,
i disegni di questo libro
sono dedicati
131
Sulla verità e l’errore
La verità ha sempre bisogno di essere ripetuta, perché l’errore è
predicato continuamente e incessantemente, e non solo da voci
isolate, ma dalla moltitudine. Nei giornali, nelle enciclopedie, nelle
scuole e nelle università, ovunque l’errore ha il posto d’onore; è a
suo agio con la maggioranza che ne assume la difesa.
Goethe, Conversazioni con Eckermann, 1822-1832.
132
I
C’è ancora molto da spiegare sul teatro61, e sull’Arte del Teatro, a quanto sembra, prima che
il mondo abbia delle idee chiare in proposito.
Quando si indica una nuova direzione, si corre sempre un gran pericolo, perfino se si indica
un oggetto familiare; tanto maggiore poi è il pericolo se l’oggetto ci è estraneo. La gente si mette a
gridare "Dov’è, dov’è” ed è felice quando posa lo sguardo sulla prima cosa che capita. Tutto sta a
riuscire a vedere in lontananza e nei minimi particolari.
Per esempio, se indico una montagna molto distante, un bambino seduto nel prato leverà gli
occhi a guardare gli alti fili d’erba che gli stanno davanti al naso e applicherà ciò che mi sente dire
sulla distanza alle punte di quei fili d’erba. Una donna vicino a me, invece di guardare nella
direzione indicata, probabilmente si metterà a guardare me. Un uomo invece si sforzerà di guardare
più lontano possibile. Ma scommetto che il suo sguardo sarà attratto da un oggetto lontano un
centinaio di metri, o anche un migliaio, o magari da un uccello che spicca il volo da un cespuglio e
si allontana volteggiando. Ed ecco sparito ogni interesse per la montagna. Può darsi anche che
scambi un castello su una collina per una montagna, mentre qualcuno, dopo aver scrutato
attentamente l’orizzonte, potrebbe addirittura dire che la montagna non esiste.
Ciò che sto indicando è una montagna, un altopiano: è la montagna del Teatro. Se fosse
qualcos’altro la chiamerei con un altro nome. Ma per ora non mi viene in mente nessun altro nome
appropriato. Continuiamola quindi a chiamare Teatro, e vi prego di credermi se vi dico che è una
montagna, non è una collina, né un gruppo di colline, né un miraggio di colline: è la montagna più
grande che abbia mai visto. Nessuno finora è riuscito a scalarne le vette: è evidente che la montagna
nasconde qualcosa di molto strano. Se fosse stata facilmente accessibile, sarebbe stata scalata da
tutte le parti; non vi sembra dunque che c’è qualcosa di strano? La gente ci ha girovagato intorno
per migliaia di anni e nessuno è mai arrivato sulla vetta, e molti non vogliono nemmeno credere che
abbia una vetta, ma io che l’ho vista desidero contraddirli con tutte le mie forze. Ho veduto la vetta
da lontano: ed è più bella del Fuji-iama.
Mi sento attratto da questa montagna e penso di essermici avvicinato un po’ da quando,
venticinque anni fa, mi son messo in cammino.
Lungo il viaggio ho incontrato gente stranissima, ho incontrato persone che tornavano al
punto da cui io ero partito, e nel passarmi davanti mi dicevano che andavano verso la montagna.
Alcuni, che le voltavano le spalle, asserivano di esserci appena stati ma che "tutto sommato, non era
poi un gran che”. Avevano un’aria delusa. Altri me la descrivevano così: "è alta esattamente
seimilacinquantadue piedi e mezzo; è un vulcano spento, e la classe media ne occupa la sommità. Il
clima è molto secco; il commercio di ceneri è molto attivo"; ma avevano sbagliato montagna. Altri
che giurano di esserci stati dicono che è retta dalle donne e... ma il seguito è troppo ridicolo.
Ora, tutto ciò va benissimo per le cronache dei giornali ma non corrisponde alla verità.
Nessuno ha scalato la vetta; nessuno può quindi riferire notizie esatte. Ognuno mente, perché
ognuno parla d’una cosa diversa.
Io non mento. Non vi dico di aver scoperto il luogo esatto: dico solo che ci sto andando. Non
vi dico che sto andando verso un nuovo tempio, perché anche questa sarebbe una bugia. Sto
andando verso un nuovo Teatro, e questo libro è un mio contributo per il nuovo Teatro. Tutto quello
che ho messo nel libro, l’ho già lasciato alle spalle. L’ho trovato in pianura, nemmeno sui primi
pendii, e perciò non è il caso che vi eccitiate per qualche piccola scoperta, perché ora ci aspettano
scoperte più importanti, e infine le grandi scoperte.
Ci saranno molti teatri prima del Teatro, proprio come ci sono tanti altipiani su una
montagna. Per questo ho intitolato il libro “Per un nuovo Teatro" e non "Verso il nuovo Teatro”.
61
Teatro. Secondo il professor Skeat, è una parola francese, derivante dal latino; la parola latina deriva a sua volta dal
greco. Francese medioevale, theatre: Cotgrave’s Dictionary ed. 1660. Dal latino Theatrum, che viene dal greco
θεατρον, luogo di spettacoli, da θεαομαι: vedo. Cfr. θεα: una vista; cfr. Prellwitz. Nota: non una parola sul fatto che
si tratta di un luogo dove si ascoltano blaterare 30.000 parole in due ore.
133
Se avessi parlato del nuovo Teatro, alcuni di voi avrebbero pensato al nuovo teatro che sarà
aperto fra tre o quattro anni, e siccome scrivo in inglese, avreste sicuramente pensato che alludessi
al nuovo teatro inglese, e vi sareste detti “II teatro inglese è il teatro”. La prima cosa che devono
fare gli inglesi è togliersi di testa la convinzione che il teatro esiste solo in Inghilterra, e ricordarsi
che c’è un teatro in Francia, uno in Germania, ci sono teatri in Russia, in Italia, in Spagna, in
Ungheria, in Svezia, in Norvegia e Danimarca e perfino in Svizzera e in Finlandia e non penso così
di aver elencato tutti i teatri, perché esiste un teatro al di là del Caucaso, un teatro in Oriente, e un
teatro perfino in America e in Africa.
A quali di questi teatri è rivolto il mio contributo? A nessuno di loro: c’è un altro nuovo Teatro
che sta sorgendo e a esso offro il mio libro. Non lo offro come fosse pane di cui nutrirsi, ma solo
come semplice avvertimento. Non c’è niente in questo libro che possa avere un’utilità pratica, a
parte l’avvertimento in sé; e per carità verso voi stessi e verso il Teatro ideale, non saltate addosso
al libro nella speranza di cavarne qualcosa62 che possa avere un’utilità pratica immediata, o con la
convinzione che vi porti più vicino al vostro ideale (al più potrebbe portarvi 10.000 sterline
all’anno, se avrete ben lavorato - ma non sarebbe affatto pratico, a mio avviso, perché le 10.000
sterline sono sì e no il valore di una canzone - e bisognerebbe imparare a rifiutare tali somme
meschine, se si ha una concezione seria dei grandi ideali dell’Arte).
Come ho già detto, in questo libro ho scritto quello che ho già lasciato alle spalle. Dateci
un’occhiata, se volete rendetegli il dovuto omaggio, provando spavento e traendone diletto, spero.
In teatro c’è sempre un matto di tipo particolare che gentilmente si chiede: “perché non
dovrei usare un’idea se è buona?”. Così di certo ci sarà qualcuno che, adocchiando un’illustrazione
del libro, penserà “Questa sì che è una buona idea. Cosa mi impedisce di rubarla?”. Vero è che può
arrivare perfino ad aggiungere (ma è molto improbabile): “Beninteso, menzionerò pubblicamente,
nel programma, o dove che sia, la fonte da cui l’ho presa”. I matti di questa specie non si accorgono
che agendo così indeboliscono se stessi e il teatro che si presume servano con intelligenza. Ecco
perché raccomando a voi e a loro di temere l’influsso del mio libro.
A entrambi suggerisco (nel caso trovaste delle idee che vi pare di poter applicare con
successo alla vostra messa in scena) di seguire il consiglio di Punch: "Non fatelo”. Se invece, volete
esercitare le vostre capacità di scenografo, non per un profitto immediato, ma per perfezionarvi, il
mio libro è al vostro servizio. Non fatene mostra però: evitate il pericolo di esibire quel che non vi
appartiene ancora.
Un’idea ha valore soltanto in rapporto alla vita che la fa nascere, e solo una vibrazione
originale può darle nuovamente vita. E perfino in questo caso sarà diversa, seppure di poco. Così se
oggi un Autolycus63 del teatro europeo riprendesse una mia idea con l’intenzione di porla in pratica,
non approderebbe a niente di simile perché c’è un’enorme differenza tra una cosa e la sua immagine
riflessa nello specchio. È tutta questione di vita; inoltre è spregevole copiare un’idea, dal momento
che con una modesta attività dell’anima e del corpo potete voi stessi generare un’idea e aggiungere
così vita alla vita; ma, se invece non avete idee vostre, non vergognatevi di ammetterlo.
Quel che non sopportiamo sono le idee morte, le copie; tutti dovrebbero protestare contro le
continue mistificazioni del teatro inglese, che vogliono far passare per originali idee che non lo
sono. Uno degli errori dei critici inglesi, secondo me, è che perfino i migliori si entusiasmano per
idee copiate, ignorando l’esistenza dell’originale; o, anche se ne sono a conoscenza, criticano la
copia nello stesso modo in cui avrebbero criticato l’originale64.
62
Mi viene in mente quella piccola satira, così nota e gaia, opera di un maestro conosciuto, sull’arte di cavar fuori, che
fa così: “Horner Giovannino stava in un angolino / a mangiare una torta di Natale, / ci tuffò il ditino, una prugna fuori
ne tirò / e ‘Che bravo ragazzo sono io!’ esclamò”.
63
Mitico figlio di Ermete, che ereditò dal padre l’estrema abilità nei furti.
64
È un piccolo errore che potrebbe facilmente essere evitato se ai critici inglesi si desse l’opportunità di studiate i lavori
che si rappresentano nelle altre città delle isole britanniche e del continente. Bisognerebbe che i ricchi giornali inglesi
inviassero i critici a Parigi, a Berlino, a Krakau e a Budapest. Il pubblico merita di sapere cosa si dà in questi e in altri
luoghi. Chi, ad esempio, aveva sentito nominare Strindberg, prima che morisse; e se non fosse stato per William
134
In conclusione, questo libro rappresenta i miei primi sforzi in un settore di una fase dell’arte
teatrale attraverso cui sono passato. Come ho scritto nel mio libro L’Arte del Teatro, gli artisti del
teatro dell’avvenire creeranno i loro capolavori servendosi dell’azione, della scena e della voce. Era
il 1905, e il futuro a cui mi riferivo ci è ancora davanti; perciò ogni persona capace di affrontare il
problema meglio di me è ancora libera di modificare quanto ho detto e di mostrare che si può creare
con altri mezzi... più belli, più semplici. Ne parlo qui per richiamare ancora una volta la vostra
attenzione su un fatto che ogni tanto qualcuno trascura, nel parlare del mio lavoro. E cioè, il fatto
che non mi interesso solo alla parte "scenica” dell’arte. Ricordate che ho detto chiaramente che
azione e voce sono le altre due parti cui è diretto il mio studio. Ma, mentre dell’azione e della voce
non si può trattare in modo soddisfacente con il solo mezzo di libri o di diagrammi, questo è
possibile, in un certo senso, per la scena. Perciò questo libro riguarda solo il settore scena.
II
Un tempo la scenografia era architettura. Più tardi divenne imitazione dell’architettura; più
tardi ancora imitazione dell’architettura artificiale.
Allora perse la testa, diventò pazza e da quel momento si trova in manicomio. Un giorno,
quando ci sarà la mia scuola, pubblicheremo un libro su questo avvenimento storico. E avrò cura
che si faccia giustizia del mio lavoro di scenografo (temo però che se ne salverà solo una
piccolissima parte), ma ora non è il momento per bistrattarlo troppo, anche se forse potrei farlo
meglio di alcuni miei critici.
I disegni che vedrete qui appresso rappresentano il lavoro che ho svolto tra il 1900 e il 1910.
Lavoro che appartiene ormai al passato, e benché possa riguardarlo con interesse, non lo amo
molto, proprio perché è mio. Anche se non è del tutto privo di significato e di buon gusto, ciò non
giustifica ai miei occhi il fatto che non è abbastanza valido da un punto di vista scenografico, e che
non potrebbe sostenere il confronto con gli scenari più nobili dell’epoca in cui il palcoscenico era in
condizioni più elevate. Nel periodo più nobile si parlava poco di “semplicità”, meno ancora di
illusione, e il pittore di scene era assolutamente sconosciuto. In quel tempo si costruivano i teatri
per i drammi e non i drammi per i teatri e nei teatri. Si recitava di giorno, mentre il sole illuminava
attori e uditorio in egual misura, senza indulgere ai cosiddetti "effetti di luce"65, senza sprecare
tanto tempo nel tentativo di ottenere quel dato colore falso che sarebbe apparso vero con la luce
artificiale, e senza nemmeno dipingersi la faccia di cremisi e giallo ocra, per aver l’aria di essere
arrivati freschi freschi dalla campagna.
Se però ci si asteneva dal fare certe cose, non era per sembrare più naturali, ma per essere
più veri. È difficile che il lettore comprenda cosa intendo con "più veri”, e in fondo non ha molta
importanza, purché lo comprenda l’artista di teatro.
Ma torniamo ai miei disegni: come ho detto più volte, essi rappresentano i miei tentativi in
un settore di una fase dell’arte teatrale - una fase che ho attraversato. Raffrontateli con lo scenario
dei Greci, e vi renderete conto di quanto perdano al confronto. Raffrontateli con il secondo scenario
per il Dramma, così solenne, lo scenario dei Cristiani, e vi sembreranno già meglio. Raffrontateli
con quelli del terzo periodo (cioè del XVI secolo) quando si cominciarono a portare sui teatri
Archer, che andava così spesso in Norvegia, in Inghilterra chi avrebbe sentito parlare di lbsen? E, per venire ai nostri
giorni, i giornali ci hanno forse informati sulla rinascita dell’arte dell’improvvisazione sotto Hevesi nei teatri d’Italia e
d’Ungheria? Forse che qualcuno sa qualcosa su Wyspiansky e la sua scuola? Ma chi non conosce gli imitatori più
scadenti di tutti costoro? La stampa londinese è presa dall’isteria per i peggiori imitatori, mentre spetta agli editori
provvedere a darci notizie precise sull’origine delle imitazioni.
65
A Letchworth, nell’autunno del 1912, ebbi la fortuna di assistere a uno spettacolo che si svolgeva all’aperto, e in cui
erano bandite le luci artificiali. L’Inghilterra è proprio il paese ideale per gli spettacoli all’aperto e alla luce del sole.
Nell’Europa del Sud, il caldo è insopportabile; in Inghilterra invece fa fresco; e la pioggia fa sempre da legislatore
naturale e impedisce un numero esagerato di feste superflue. Le feste van bene in primavera; e un mese basta.
135
illuminati con luci artificiali delle imitazioni dell’architettura, e vi sembreranno buoni. Credo che
avrebbero fatto la loro bella figura accanto ai disegni di Peruzzi, Serlio, Palladio ecc.; e che
comunque siano migliori degli scenari rococò di Bibiena; inutile dire, infine, che credo che i miei
disegni siano di gran lunga superiori alla odierna scenografia, per parecchi tipi di spettacoli. Ma non
è il caso di soffermarsi sull’argomento: parliamo invece dei vari periodi della scenografia, senza
però sfoggiare troppi nomi o date.
Quando il Dramma si trasferì al coperto, morì; e quando il Dramma si trasferì al coperto, vi
si trasferirono anche gli scenari: come noi per vivere abbiamo bisogno del sole, così anche il
Dramma e l’Architettura hanno bisogno del sole per non morire. Il Dramma poteva esistere
all’aperto e al sole perché era una festa rara, non il divertimento di ogni sera. Si è detto che era una
festa religiosa, ma forse è sbagliato sottolinearlo, perché la parola "religioso” oggi ha assunto un
significato diverso da quello che aveva nell’antichità. Come descrivere che cosa era un tempo?
Ecco: se vi trovaste in una piazza - a Piazza San Marco, per esempio, o in Trafalgar Square - in una
giornata di sole, e vedeste centinaia di piccioni volare intorno alla piazza, battere le ali, dilettarsi
così divinamente, potreste rendervi conto di che cosa era una festa greca. Vi è mai capitato che la
gente nella piazza proseguisse per i fatti suoi, senza accorgersi di quel che accadeva? No: perfino
l’individuo più insensibile, passando per strada, si fermerà a osservare lo spettacolo.
Vi diranno che il dramma greco aveva successo perché mostrava le passioni umane, o
perché c’erano delle belle ragazze che danzavano (c’è sempre della gente che immagina che nei
drammi greci danzassero belle ragazze) o perché faceva presa sul pubblico per la sua penetrante
tensione intellettuale, e così via. Niente di tutto questo. Tutto dipendeva dal fatto che i Greci
avevano carpito molti segreti della natura dagli uccelli, dagli alberi, dalle nuvole, e non temevano di
porre tali semplici segreti a servizio della religione. E il segreto più importante ch’essi avevano
colto era una piccola parte del segreto del movimento. Era il movimento del coro che commoveva
gli astanti. Era il movimento del sole sull’architettura che commoveva l’uditorio.
Un critico, in Italia, parlando di uno spettacolo dato in un teatro all’aperto, in cui
l’architettura era il solo scenario, ha descritto l’emozione che dava il passaggio del sole durante lo
spettacolo. Non era capace di descriverla esattamente (credo che pochi potrebbero farlo, o meglio,
solo un poeta) ma diceva che si aveva davvero l’impressione di vedere il tempo muoversi.
Guardando66, si aveva la sensazione del movimento.
Dopo il teatro greco è venuto quello cristiano - la Chiesa Cristiana. Il tema del dramma, se
non più tragico di quello greco, era forse più triste. Lo scenario era ancora architettura e si può
vedere ancor oggi il palcoscenico nei cori e negli altari delle chiese cristiane primitive. Ci sono
palcoscenici a diverse altezze, finestre situate in modo da illuminarli, ingressi disposti in modo che i
movimenti dei singoli e dei gruppi risaltino. Ci sono i posti per i musici, si vede proprio il luogo in
cui stavano gli attori principali (possiamo realmente chiamarli attori), la direzione in cui si
volgevano e perfino quel che facevano. Tutto ciò è documentato. Il dramma cristiano si chiama
Messa67. La differenza fondamentale fra il teatro greco e quello cristiano è che quest’ultimo si
svolgeva al chiuso anche se ci si serviva ancora della luce del giorno, e in particolare di quella del
sole.
La gente faceva ressa nei teatri religiosi come api in un alveare; non comprendeva neppure
una parola di quel che dicevano, perché parlavano in latino, ma ciononostante affollava le chiese.
Indovinate perché? Costava loro soltanto l’obolo che erano disposti a dare. Forse la ragione è
questa. In ogni modo, non preoccupiamoci; torniamo alla scenografia.
Di fronte allo sfondo architettonico c’erano decorazioni in oro, e gioielli e sete e velluti e
altri materiali preziosi. Mi chiedo se la gente ci sarebbe andata lo stesso tanto volentieri, se tutto
66
Ricordate a questo proposito l’etimologia della parola “teatro”. Cfr. nota 1.
“Il rito centrale e più solenne del culto cristiano era la Messa, una commemorazione essenzialmente drammatica dei
momenti più critici della vita del Redentore”. E. K. Chambers, The Medieval Stage, vol. II, t. III, p. 3.
67
136
fosse stato di cartone e di roba falsa. Sarei curioso di sapere se una croce di cartapesta avrebbe
suscitato lo stesso senso di eccitazione e di terrore sacro.
Cosa fu a causare il fallimento di questo meraviglioso teatro, dopo qualche secolo?
Null’altro che un’esibizione di braccia e gambe in un circo. Era troppo per la gente. Non poteva
resistere. È comprensibile, ma non è altrettanto comprensibile il criterio dei sovrani che furono così
pazzi da far vedere tali spettacoli a un’Europa non ancora matura. Portare un popolo giovane a
vedere un mucchio di ragazzi e ragazze danzare nudi in un circo, distogliendolo da quel dramma
stupendo che era la Messa, è come portare dei bambini a vedere Sheherazade. A quel tempo infatti i
popoli d’Europa erano innocenti come bambini. Si dirà che era giunto il momento che si
decidessero a diventare adulti. Ma pensate come lo sono diventati. Mi si obietterà che non è esatto
quel che dico e che nei fanciulli c’è tanta stupidità quanta divinità. Sono d’accordo. Ma se ve ne è
in egual misura, perché farsi un dovere di incoraggiare la stupidità? Direte che il teatro religioso era
diventato insulso e l’altro rappresentava un sollievo. Fa tanto "Europa”, questo “sollievo"; la
degenerazione moderna sembra basarsi tutta sulla parola "sollievo”. Nell’antichità, quando un
gladiatore aveva la peggio e ormai rantolava, non si parlava di sollievo. Mi sembra che uno dei
metodi usati fosse di trafiggerlo con un punteruolo. Ora tutto è sollievo. Ma torniamo alla
scenografia.
Dopo la scomparsa del teatro greco e cristiano, venne alla luce il primo teatro falso. I poeti
si misero a scrivere drammi elaborati e noiosi, per i quali ci si servì di scenari che erano una specie
di imitazione dello sfondo architettonico. Si modellavano o si dipingevano su tela palazzi e strade, e
per un po’ di tempo il pubblico li sopportò. Tali drammi venivano rappresentati in palazzi signorili,
e il popolo, poiché non poteva darci nemmeno un’occhiata, pensò di creare un teatro per conto suo
e decise di farne nello stesso tempo un trattenimento per l’aristocrazia. Nacque così la grande
Commedia dell’Arte.
Come sfondo presero le case e i palazzi di una strada, non palazzi dipinti, non case dipinte,
ma le vere case, fuori, nella strada. Di nuovo architettura. Di nuovo all’aperto. Di nuovo al sole. E
questo teatro sopravvisse per circa tre secoli. Fu culla a Shakespeare e a Molière, e il teatro di
Shakespeare è fra gli ultimi teatri fioriti all’aria aperta.
Finita anche la stagione del teatro shakespeariano, la luce del giorno fu bandita per sempre.
Si accesero lampade a olio, lampade a gas, lampade elettriche, e lo scenario, invece di essere
architettonico, divenne pittorico. Anzi, non si può nemmeno chiamarla pittura, perché la pittura è
un’arte basata solo su due dimensioni, e penso che Leonardo da Vinci o Cézanne sarebbero
d’accordo con me nel dire che la scenografia non è pittura. Eppure ogni giorno si sente parlare della
scenografia come se fosse pittura, e i pittori hanno perfino la temerarietà di venire in teatro a
piazzare sul palcoscenico il frutto dei loro studi. Sono tutti discendenti di Bibiena e spero che ne
vadano orgogliosi. Niente piace loro di più che l’artificio del teatro moderno, e si “servono” del
palcoscenico pur disprezzandone, allo stesso tempo, i trucchi. Amano tanto il teatro moderno
perché non sanno nulla della bellezza del teatro antico. Ma non è questo il modo di avvicinarsi a un
teatro nobile, né a una scenografia nobile. Mi sembra invece che ad esso si avvicinino, se pure di
poco, molte mie scene, tra cui quelle qui riprodotte.
Quando ho cominciato a lavorare, non esisteva nessuna scuola di arte teatrale, non c’era
nessuno a dirmi quel che vi ho detto; ed è solo ora, dopo molti anni di lavoro, che mi son reso conto
della direzione in cui noi tutti stiamo andando. E la mia meta non è di tornare indietro verso i Greci,
verso la Chiesa cristiana, verso qualunque altro teatro nobile del passato; né vi incito a ricostruirlo.
No, non m’importa del passato, ma solo del futuro; ma l’insegnamento proveniente dalle cose più
belle del passato è identico a quello delle cose più belle del futuro; ed è per raggiungere questo
vecchio, nuovo ideale - e chissà?, perfino per sorpassarlo, col tempo - che vado verso un nuovo
Teatro.
Amleto
137
Vedi tavola 1.
Sono lo spettro di tuo padre
dannato a camminare di notte
e di giorno a digiunare tra i fuochi,
fino a quando gli orrendi delitti compiuti nei miei giorni di uomo
non saranno bruciati e purgati. Se non mi fosse vietato
di raccontare i segreti della mia prigione,
ti svelerei una storia la cui più lieve parola
ti strazierebbe l’anima, ti gelerebbe il giovane sangue;
i tuoi due occhi, come stelle, schizzerebbero via dalle loro orbite,
le tue ciocche annodate e folte si dividerebbero,
ogni capello ti si rizzerebbe in testa
come gli aghi dell’irrequieto porcospino:
ma quest’eterno bando non è
per orecchie di carne e di sangue. Ascolta, ascolta, oh, ascolta
se mai amasti il tuo caro padre...
AMLETO O Dio!
SPETTRO Vendica il suo orrendo e snaturato delitto.
SPETTRO
“L’arrivo ”
Vedi tavola 2.
Questo disegno non è stato fatto per un dramma particolare, ma per quel che, secondo me, è
il vero dramma. L’arrivo è una specie di direzione di scena. Si tratta, come si desume dal titolo, di
un’azione che sta per compiersi, non di parole da pronunciare; ed è proprio il fatto di non sapere chi
arriva e perché arrivi o che aspetto avrà che la rende drammatica ai miei occhi. “E insoddisfacente"
aggiungerete. Dipende se siete più o meno interessati alla fine, al centro o all’inizio. Quanto più si
rinvia la fine, tanto più la vita diventa emozionante. Mi sembra stupido affrettarsi ad aprire le porte
d’oro per trovare solo grandi stelle lucenti; e dover ammettere "che dentro non c’è paradiso”.
Purché non apriate le porte, non lo saprete mai, e questo è il paradiso. Certo Maeterlinck sostiene
che conoscere il posto in cui sediamo è come trovare il paradiso, ma per me non è così.
Secondo me i drammi non dovrebbero mai dire nulla. Non intendo che non dovreste sentir
dire mai una parola (benché sarebbe una benedizione del cielo, se così fosse), ma le azioni, i
sentimenti suscitati, non dovrebbero mai avere una conclusione, dovrebbero rimanere un mistero; e
il mistero un attimo dopo la conclusione non esiste più; il mistero muore appena toccate l’essenza
delle cose o appena la vedete con chiarezza. Che assurdità, quindi, parlare del mistero di questa o
quella commedia, dal momento che si tratta di commedie alquanto misteriose, ma comprensibili
fino in fondo. “Magari lo fossi tu un po’ più comprensibile” mi sembra di sentirvi dire. Se volessi
esserlo, direi quel che ho detto dieci anni fa, “datemi un teatro”, e allora sareste come il cieco
Gloucester e potreste "vedere con il sentimento”.
LEAR Leggi.
GLOUCESTER Come, con gli occhi in questo stato?
LEAR Oh, oh, sei tu qui con me? Senza occhi nella
testa, senza soldi nella borsa? I tuoi occhi sono in grave stato, la tua
borsa in uno leggero; eppure vedi come va il mondo.
GLOUCESTER Lo vedo con il sentimento.
Ma non voglio più un teatro - non abbiamo più bisogno di teatri. Prima di tutto abbiamo
bisogno di diventare padroni dell’arte. Torniamo dunque ai nostri studi con tutta la serietà rimastaci
dopo secoli di finzione.
138
Wapping Old Stairs
Vedi tavola 3.
Al tempo di questo disegno, vivevo in un piccolo studio da qualche parte nel centro di
Londra, e odiavo perfino la vista degli uomini, tranne nei giorni in cui riuscivo ad andare in autobus
a Hampton Court. In quel periodo scrivevo uno strano tipo di mimodramma, lo progettavo da capo
a fondo disegnandone le scene e stabilendone tutti i movimenti. S’intitolava “Fame”. Era
spaventoso. Mi proposero di metterlo in scena a Berlino; ma nel frattempo mi ero rifugiato in una
graziosa, incoraggiante città, e pensai che non era più il caso. In quel mimo avevo messo insieme
tutte quelle meschine indolenti ma “rispettabili” signore, che hanno duemila sterline al collo, gonne
fruscianti, e un aspetto disgustoso. Le odiavo così di cuore che le coprivo di fango in ogni pagina;
evidentemente non mi ero ancora accorto che non sono proprio così antipatiche come sembrano.
Erano loro la causa per cui un’intera famiglia moriva sulla scena in quella faccenda tragicomica che
era "Fame”. C’era anche un re, una grande, grossa figura, che veniva portato su una sedia a rotelle,
simile a una grande rana; era una specie di re del denaro, gonfio per i troppi pasti consumati al
Savoy. Non un vero re, naturalmente - una bestia di re - e ricordo che quel che mi piaceva
soprattutto era il suo ingresso, su un trono da invalido che sembrava un mare di cuscini; a spingerlo
erano i primi gentiluomini della Corte. La loro avanzata avveniva così: prima quattro scalini, dopo
di che svenivano quasi tutti di fatica; uno sventolio, un profumo di sali durante una pausa, silenzio,
ed ecco una minuta, stridula voce proveniente dalla profondità dei cuscini che chiedeva aiuto. Poi
un altro ardito sforzo: quattro scalini più su e un’altra pausa, con la stessa scenetta di prima. Così
alla fine giungevano alla meta. Questo dramma non mi dice più nulla; per lo meno, fino a quando
non mostrerò il rovescio della medaglia. La fame del povero, l’ho descritta abbastanza bene, ma
non così la fame del ricco. Direi che è altrettanto tragica. Nello stesso periodo preparavo un
secondo mimo-dramma che doveva intitolarsi “Londra”. Non l’ho mai finito, ma ricordo che
cominciava in Persia o in Arabia. In una grande sala, inondata di luce, che non lasciava capire in
che paese ci si trovasse, un filosofo e un poeta meditavano (e in Oriente non meditano come se
fossero nelle nuvole), e il poeta era il poeta di Blake che vede attraverso gli occhi, e il filosofo
vedeva con gli occhi. E poiché il poeta non voleva credere tutte le cose che il filosofo gli diceva di
Londra, era portato via dall’Arabia e dal sole fino a Wapping Old Stairs. Qui sentiva dire che
Londra è il luogo dove confluiscono tutte le anime dei morti: lì giunte, sono costrette a prendere un
mestiere miserabile come quello dello strillone o del lustrascarpe e ad andare a lavorare. E ricordo
che arrivavano tutte in grandi barche lungo lo scuro Tamigi, e venivano scaricate come sacchi di
carbone e buttate sugli scalini, mentre uno spirito infernale urlava i loro nomi o numeri notandoli su
un foglio. Disegnai un’altra scena per questo dramma, e poi basta.
In questo disegno, le due figure, o meglio la prima sembra che stia per raggiungere la
sommità. Non credo che assomigli molto al vero Wapping Old Stairs di oggi, ma forse chiuderete
un occhio.
Venezia salvata
Vedi tavola 4.
È improbabile che qualcuno di voi abbia letto Venezia salvata di Otway; sappiate comunque
che l’azione si svolge a Venezia, com’è prevedibile: una Venezia inventata da Otway, che forse la
conosceva poco e se ne curava meno ancora, ma che seguiva la moda del tempo, e usava Venezia
139
come sfondo per il suo dramma passionale. Hugo von Hoffmansthal di Vienna ha adattato più o
meno liberamente il capolavoro di Otway per il direttore di un teatro tedesco, e io fui invitato nel
1904 ad andare a Berlino per disegnare le scene e i costumi e per sovrintendere all’allestimento.
Feci del mio meglio, date le condizioni di lavoro di cui darò un esempio. Il direttore in precedenza
era stato critico letterario; in seguito aveva studiato per pochi anni teatro, e nemmeno da artista ma
da “uomo di lettere”. Quando gli feci vedere il disegno qui accanto per la penultima scena lo guardò
con aria sospettosa e mi chiese dove fosse la porta. Dissi: "Non c’è porta, c’è un passaggio per
entrare e uscire”. “D’accordo”, rispose, “ma non vedo né la maniglia né la serratura. Non si può
fare una porta senza maniglia”. E io di nuovo: "Non c’è porta, c’è un passaggio per entrare e
uscire”. Stava già per montare su tutte le furie, ma appena lo informai che era stato copiato nei
minimi particolari da un antico manoscritto italiano, cambiò espressione, si rasserenò e fu tutto
contento. Lascio indovinare al lettore se l’avevo copiato davvero o no. II male è, e sarà sempre, che
molti importanti uomini di teatro non hanno immaginazione. Non pretendevo che quel caro, vecchio
gentiluomo immaginasse una porta, ma solo che intuisse che la porta non era necessaria; ci son
riuscito soltanto assicurandolo che era l’esatta riproduzione d’una cosa reale. Ma fu peggio per lui
se rese impossibile, con la sua mancanza di immaginazione, ogni altra collaborazione tra noi,
perché in tre o quattro anni perse ogni prestigio presso il suo pubblico che si riversò nel teatro
rivale. Quest’ultimo era diretto da un mio amico che aveva il buon senso, per così dire, di servirsi
delle mie vecchie idee (così mi riferirono) e fece traboccare di gente il suo teatro68.
Ogni tanto bisogna dirle queste cose, ed è più facile quando non si ha più a che fare con
impresari, o speculatori teatrali che dir si voglia.
Amleto
Atto I, Scena 5
Vedi tavola 5.
Sia questo disegno, del 1904, che quello fatto per la stessa scena nel 1907, rispecchiano
fedelmente le mie idee sull’attore e i suoi poteri. Nel primo, non è certo facile dominare la scena dal
punto in cui si trova l’attore; nel secondo, poi, solo un eroe ne sarebbe capace.
Perché metto l’attore in un teatro di burattini?
Se, come dicono tutti, è un fantoccio, per Roscio, sarà ben un fantoccio superiore. La scena
avrà proporzioni altissime rispetto alle sue, eppure egli la dominerà. Privato del volto, continuerà a
dominarla con l’azione. Privato perfino del movimento, messo in condizione disperata, continuerà a
dominarla con l’unica cosa che gli sarà rimasta: una maschera. Ma ciò è possibile solo a prezzo di
enormi sacrifici, per il bene del teatro. Perché sacrifici? Perché, a meno che ne conosciate uno voi,
non è stato ancora scoperto altro modo, né si scoprirà mai, probabilmente. Mi chiedete perché?
Quando avrete risposto a tutte le domande del poeta sul fiore nella spaccatura del muro, ne saprete
molto più di me, e non avrete più bisogno di farmi domande. Se non ci fossero misteri nella vita, la
vita sarebbe priva di valore; ogni cosa per piccola che sia è un grande mistero, e ogni cosa per
piccola che sia dovrebbe essere considerata tale.
Allora sì che potremo migliorare e dominare il mondo e quella cosa tanto più difficile... noi
stessi. Allora saremo davvero ATTORI
Elettra. Sofocle
68
L’“amico” cui Craig allude è Max Reinhardt, il famoso regista. [N.d.T.]
140
Vedi tavola 6.
Spesso penso che un ingresso grandioso, imponente, sia comunque lo sfondo migliore per
una tragedia; eppure quando l’archeologo, che trova diletto nei giorni secchi e polverosi del
passato, mi dice che la grandiosità e nobiltà delle linee non hanno importanza e che un piccolo
palcoscenico di legno e delle tende alte dai due metri e mezzo ai tre, purché di buon gusto, possono
far benissimo al caso, mi trovo d’accordo con lui tanto da chiedermi se quelle grandi porte e quei
vasti spazi, quelle ombre e quegli sprazzi improvvisi di luce non siano fuori posto. È chiaro che
tutto sta a vedere se siete venuti a teatro per il dramma o per la letteratura. Se venite per il dramma,
bisogna che esso viva nella sua integrità: non solo per la mente, ma anche per l’occhio e per
l’orecchio.
Se venite per un trattenimento letterario... è meglio che prendiate il primo tram verso casa e
confessiate di aver commesso uno sbaglio.
Giulio Cesare
Atto II, Scena 2
-I
Vedi tavola 7.
Entra Cesare in vestaglia.
Né cielo né terra sono stati in pace stanotte;
tre volte Calpurnia ha gridato nel sonno
"Aiuto! uccidono Cesare!”. Chi è là?
CESARE
Entra un servo.
SERVO Signore?
CESARE Va’ a ordinare
ai sacerdoti di far subito sacrifici
e portami i loro responsi.
SERVO Vado, Signore.
Entra Calpurnia.
Che intenzione avete, Cesare? Di uscire?
Non dovete lasciare la casa, oggi.
CESARE Cesare uscirà: i pericoli mi hanno minacciato
solo alle spalle: appena scorgeranno il volto di Cesare
svaniranno.
CALPURNIA Cesare, non ho mai dato importanza ai presagi
ma ora ne sono atterrita. Vi è uno di là,
oltre quello che abbiamo udito e visto,
che racconta le cose più orride che le guardie abbiano visto.
Una leonessa ha partorito nella strada;
tombe si sono aperte a rendere i loro morti;
feroci infuocati guerrieri han combattuto sulle nuvole
in file e squadroni e schieramento di guerra,
e il loro sangue è piovuto sul Campidoglio;
l’aria era agitata dal clamore della battaglia,
cavalli nitrivano, uomini moribondi gemevano,
spiriti gridavano e stridevano per le strade.
O Cesare, queste cose sono al di là di ogni consuetudine
e io ne ho paura.
CESARE Si può forse evitare il compimento
CALPURNIA
141
di qualcosa se è voluto dagli dèi potenti?
Pure Cesare uscirà: perché questi presagi
sono per tutto il mondo come per Cesare.
CALPURNIA Quando muoiono i mendicanti non si vedono comete;
i cieli stessi danno il segnale della morte dei prìncipi
CESARE I codardi muoiono più volte prima della loro morte;
i coraggiosi provano la morte una volta sola.
Di tutte le meraviglie che ho conosciuto
la più strana mi sembra la paura degli uomini,
visto che la morte, mèta ineluttabile,
verrà quando verrà.
Giulio Cesare. Il Foro
Atto III, Scena 2
Vedi tavola 8.
Il Foro.
In questo disegno vediamo Marc’Antonio parlare a mezza Roma. Egli si sporge allontanandosi
da noi, verso centomila cittadini che appaiono sullo sfondo. Udiamo la sua voce acuta e forte. Di
fronte, nel punto più vicino a noi, regna il silenzio: i cospiratori sono in attesa.
Non vi sono richiami all’architettura romana, prima di tutto perché Shakespeare non tiene
alla precisione dei particolari; e poi, chissà com’era davvero il Foro! Perché tentare di essere precisi
nelle cose del passato dal momento che è impossibile?
Ciò che ritengo essenziale in questa scena è la folla, e i due gruppi, e ho voluto che
apparissero divisi in modo da far avvertire nettamente una separazione. In distanza si scorge il
popolo: se è vero che centomila voci possono sommergerne una, pure, le stesse centomila formano
uno sfondo ottimo per la voce d’una grande personalità d’attore. Del pari, non ho mai saputo che un
tuono lontano, per quanto forte, abbia interrotto una conversazione.
Colui che sta facendo opera di persuasione sulla folla si trova a metà strada.
Quelli contro di cui parla stanno in primo piano.
E si può sentire il loro silenzio.
La scala I
Primo stato d’animo
Vedi tavola 9.
Il dramma, ci insegna Maeterlinck, non è solo quella parte della vita che tratta dei sentimenti
buoni o cattivi degli individui: la vita in sé è molto drammatica anche senza l’intervento dei delitti,
della gelosia e delle grandi passioni. Il dramma, così concepito, ci conduce a una fontana o in un
bosco, ci porta davanti a una fresca corrente, fa cantare un gallo e ci fa vedere quanto tutte queste
cose siano drammatiche. So bene che Shakespeare ce lo ha mostrato qualche secolo prima, ma
averlo ripetuto è un gran bene e non un danno. Maeterlinck doveva aggiungere però che esistono
due tipi di dramma, nettamente distinti. Potrei chiamarli il Dramma di Parole e il Dramma del
Silenzio, e credo che i suoi alberi, le fontane, le correnti e tutto il resto appartengano al Dramma del
Silenzio: drammi, cioè, in cui la parola diventa gretta e inadeguata. Ma, oltre alle opere della
Natura, molti altri elementi son propri del Dramma del Silenzio, e tra questi un posto importante lo
142
occupa la più nobile delle attività umane: l’Architettura. Che sensazione struggente, come di
presenza umana, mi dà una grande città di notte, quando in giro non c’è un’anima viva e tutto è
silenzio! Passeggiare allora è triste e angoscioso; all’alba, invece, diventa eccitante. Ma di tutti i
sogni che l’architetto ha calato nella realtà nessuno è più meraviglioso per me di quei voli di scale,
che salgono e scendono. L’interesse per l’architettura, proprio della mia arte, mi ha portato a
riflettere al modo in cui farli vivere (non parlare) come elementi drammatici. Spinto da questo
desiderio, mi son messo a disegnare drammi in cui la scena era architettonica. Il primo e stato
appunto Le scale.
È composto di quattro disegni che rappresentano sempre lo stesso luogo; cambiano solo le
persone, a seconda dello stato d’animo. Il primo disegno è pieno di luce e di spensieratezza: tre
bambini giocano, simili a degli uccelli svolazzanti sul dorso di un grande ippopotamo addormentato
nelle acque di un fiume africano. Ho segnato da qualche parte che cosa fanno di preciso; ma ora non
lo ricordo e comunque non ha importanza: è un particolare tecnico e non ha valore, se non lo si
vede. Cercate invece di evocare dentro di voi il lieve calpestio dei conigli, il tintinnio di minute
campane d’argento, e intuirete quel che ho voluto esprimere, e vedrete con l’immaginazione i
bizzarri rapidi piccoli movimenti. E passiamo al prossimo.
La scala II
Secondo stato d’animo
Vedi tavola 10.
È la stessa scala, ma ora sembra assopirsi. In una terrazza piatta e profonda ragazzi e ragazze
saltellano simili a lucciole. In primo piano, nel punto più distante dalla terrazza, la terra risponde ai
loro movimenti.
La terra è fatta per danzare.
La scala III
Terzo stato d’animo
Vedi tavola 11.
C’è qualcosa di più vecchio, ora, sulla scala. È sera inoltrata. Il movimento inizia con il
passaggio di una sola figura: un uomo. S’incammina lungo un percorso del labirinto tracciato per
terra. Non riesce a raggiungere il centro. In cima alla scala appare un’altra figura: una donna.
Scende lentamente verso l’uomo, che ora è immobile. Non saprei dire se arriverà a lui o no; quando
ho fatto il disegno, speravo di sì. Insieme potrebbero tentare un altro percorso. Ma, sebbene anche
loro mi interessino, la cosa che più mi sta a cuore è la scala: è sempre presente e le figure la
dominano solo per un momento. Credo che un giorno riuscirò a penetrare il segreto di tali misteri;
comunque posso dirvi fin d’ora che è già molto emozionante indagare. Se la scala fosse una cosa
morta, come sarebbe scialba! Invece vibra di una vita grande, più grande di quella dell’uomo e della
donna.
La scala IV
Quarto stato d’animo
143
Vedi tavola 12.
Questa volta la scala deve sopportare un peso maggiore. È notte fonda. Prima di tutto,
nascondete con le mani i profili luminosi che si stagliano sul suolo; coprite anche le fontane ricurve
in cima alla scalinata. Inoltre, la figura che si appoggia da questa parte, immaginatela dall’altra
parte della scala, cioè all’ombra. Grava su di lui una inutile angoscia, perché l’angoscia è sempre
inutile, e lo vedete agitarsi di qua e di là in questa scalinata del mondo. Ben presto assume la
posizione che ha nel disegno. La testa allora gli cade sul petto e rimane immobile.
Ed ecco che le cose cominciano ad animarsi; dapprima con grande lentezza, poi con
crescente rapidità. In alto, sopra lui sorge la cresta di una fontana come sorge la luna nelle
malinconiche serate d’autunno. S’innalza più e più ancora con grande empito a tratti ma più spesso
gradatamente. Ora appare un’altra fontana: insieme versano il loro essere in silenzio. Quando gli
zampilli sono alla loro massima altezza, ha inizio l’ultimo movimento. Per terra si staglia in una
luce calda il profilo di due grandi finestre, e al centro di una di queste l’ombra di un uomo e di una
donna - la figura sulla scala leva il capo. Il dramma è finito.
Macbeth e Rosmersholm
Vedi tavole 13 e 14.
Parlerò di questo disegno e di quello successivo contemporaneamente. Sono destinati a due
tipi di dramma completamente opposti: Shakespeare e Ibsen. Il primo è per la scena del
sonnambulismo in Macbeth e il secondo per la stanza in Rosmersholm.
Il primo è per una nobile tragedia classica, il secondo per un moderno dramma domestico. In
entrambi i casi la catastrofe investe un’intera casa, la casa di Macbeth e di Rosmer, ed è provocata
da una donna. Quel che non riesco a spiegarmi è perché la bellezza, il mistero e la forza di Ibsen
vengono eclissati dal mistero e dalla forza ben più grandi di Shakespeare. Vicino a lui Ibsen, che
paragonato a un autore moderno sembra un gigante, sparisce. Dove? Nella sua particolare, piccola
casa; mentre Shakespeare sale sempre più in alto.
In che cosa consiste dunque lo straordinario divario tra i due scrittori? Non basta qualche
secolo di distanza per spiegarlo. Per Ibsen si tratta di questo: Shakespeare era un artista, Ibsen non
lo è. Ibsen è un uomo straordinario, uno degli uomini più straordinari del XIX secolo; risolve
problemi che gli altri non possono o non vogliono risolvere; pone domande che nessun altro ha mai
posto, eppure, messo in confronto con Shakespeare, perde ogni importanza; sembra timoroso, in un
certo senso, di essere banale, ordinario, quel che noi chiamiamo semplice; e questo perché non è un
artista. Non bisogna fare paragoni, dicono, ma io non ne sono così sicuro; credo anzi che sia
necessario e utile. Se non si fissa per la letteratura drammatica un punto di riferimento a cui
riportare le varie opere, il mondo accoglierà lavori di decima invece che di prima qualità - e la
prima qualità non è Shakespeare ma Eschilo. Eschilo però si rifiuta di entrare in un teatro chiuso,
con la luce artificiale, e si rifiuta di essere capito a fondo se non dai greci - da quei greci che sono
morti. Ma è molto anche quello che possiamo capire noi inglesi: cioè che il nostro miglior punto di
riferimento è quel misto di arte letteraria e teatrale che Shakespeare ci ha dato sotto forma di
dramma. Per questo, non ho mai osato ancora disegnare una scena per Eschilo, benché abbia letto la
sua Trilogia sa il cielo quante volte. Oggi rappresentano le sue tragedie in teatri chiusi: si
pavoneggiano, gesticolano e azzardano perfino a recitarle in greco. Perché non lasciare in pace il
vecchio monumento? Sta sgretolandosi; meglio non toccarlo, meglio costruire da un’altra parte,
prendendolo come punto di riferimento.
144
Schermi
Vedi tavola 15.
"Lo spettacolo ha senza dubbio grande efficacia sull’animo degli
spettatori, ma non ha niente a che fare con la tragedia e nemmeno
con l’arte della poesia in generale. Perché il fine proprio della
tragedia è conseguibile anche senza rappresentazione scenica e
senza attori e inoltre il produrre degli effetti spettacolari dipende più
dall’arte del macchinista che non da quella del poeta”.
Aristotele, Poetica, VI.i.19
Quando leggiamo queste parole dobbiamo tener presente che Aristotele apre il discorso
affermando che l’arte è imitazione. È chiaro che si tratta di un’esagerazione, tant’è vero che si
potrebbe sostenere proprio il contrario. Aristotele esagera anche a proposito dello spettacolo, e se
non è certo un cattivo scrittore per questo, tuttavia scrittori che desiderano essere considerati grandi
devono star attenti a scegliere la parola esatta69. Qui Aristotele parla delle scene in cui vengono
rappresentate tragedie o drammi. Perché allora usa la parola "Spettacolo”? Perché parla anche di
effetti spettacolari? In questo modo ci dà l’impressione di trattare una cosa banale e volgare, mentre
sappiamo che la scena può essere bella e non soltanto per gli effetti spettacolari. Le scene di
Taormina pervenuteci sono belle. Forse Aristotele si riferisce a una forma degenerata di spettacolo,
ma perché scegliere proprio un brutto esempio di arte scenica per raffrontarla con la bella arte
poetica? È possibile che Aristotele non si comporti lealmente? Certo è che era meglio allora parlare
dello spettacolo come di un nemico dell’arte poetica, e della poesia come di un nemico dell’arte
dello spettacolo; ma collocare su un piedistallo l’arte della poesia, e affermare che quel collega
volgare dello spettacolo non ha niente a che fare con un così elevato personaggio è assurdo e
parziale insieme.
Cosa c’entri tutto ciò con i disegni qui a lato, mi sfugge del tutto; ma dal momento che sulla
scena non compaiono figure, non si svolge nessun’azione, nessun discorso, suppongo che quando lo
eseguii sentivo di aver allontanato lo spettacolo o la scena dal regno della poesia, e di aver
prevenuto quindi una futura contaminazione con l’arte poetica.
Ricordo. Me lo stavo proprio dimenticando. I nemici vi faranno sempre dimenticare gli
amici per un momento.
Il mio amico W. B. Yeats dice che la scena non è affatto staccata dall’arte poetica. Cosa si
deve fare per questa scena disgraziata, dal momento che Aristotele minaccia e Yeats ne fa il gesto?
Si è mai visto uno spettacolo simile a quello che per secoli ha dato questa poverina? Ho attraversato
Londra senza trovare un’altra donna così misera, caduta così in basso. E per questa ragione, intendo
fare tutto il possibile per portarla più in alto di qualsiasi altra.
Macbeth
Vedi tavola 16.
Nelle Conversazioni con Eckermann, Goethe dice a un certo punto:
"La tinta dello scenario dovrebbe di norma accordarsi con i costumi degli attori; lo scenario
di Beuther, per esempio, tende sempre più o meno allo scuro e fa risaltare in tutta la loro vivacità le
stoffe dei vestiti”.
69
Forse la colpa è dei traduttori di Aristotele.
145
i
"Se invece lo scenografo è obbligato a rinunciare a questa tonalità indefinita che va bene
con tutto, e a dipingere una sala rossa o gialla, una tenda bianca, un giardino verde, in questo caso
sono gli attori che devono prendere la precauzione di non indossare costumi degli stessi colori. Se
un attore con giacca rossa e pantaloni verdi cammina in una stanza rossa, la parte superiore del
corpo sparisce e restano solo le gambe; se cammina in un giardino verde, scompaiono le gambe e
resta solo il busto. Ho visto un attore con giacca bianca e pantaloni molto scuri, visibile metà per
volta, a seconda che si trovasse di fronte a una tenda bianca o a uno sfondo scuro. Comunque lo
scenografo, anche quando rappresenta una stanza rossa o gialla, o dell’erba, dovrebbe sempre
attenersi a tinte piuttosto deboli ed evanescenti, in modo che i costumi possano intonarsi e
risaltare”.
Faremmo bene a studiare a fondo questi suggerimenti, a provarli in palcoscenico e a
osservare i risultati. Non occorre un grande sforzo per capire che contro uno sfondo nero sta bene
un costume bianco, e contro uno sfondo chiaro, uno nero. Questo se si vuol far risaltare la figura;
ma se vogliamo che si immerga, o addirittura si perda nella scena? Macbeth che vaga di notte
intorno al suo castello sembra formare tutt’uno con esso; ricordo che, quando Irving lo interpretava,
aveva indosso un costume quasi simile a quello delle pareti. Irving andava contro il consiglio di
Goethe eppure aveva ragione. Ma nemmeno Goethe aveva torto: poiché in verità c’è qualcosa da
imparare da ogni maestro; e anche se l’uno contraddice l’altro, tutti hanno una parte di ragione. La
lezione da trarre è che non bisogna mai essere troppo sicuri; in un caso simile, conviene affidarsi al
proprio istinto, solo però se si conosce tutto lo scibile sull’argomento. La cultura non fa male e non
rende l’istinto meno penetrante. La conoscenza è il vero nutrimento dell’istinto.
Vorrei potervi offrire qualcosa di più che briciole, ma la scenografia non vale molto più del
pane secco, nel migliore dei casi.
Macbeth
Atto I, Scena 1
Vedi tavole 17 e 18.
Questo disegno è stato eseguito per la stessa scena e rappresenta lo stesso soggetto del
disegno precedente, pur differendo in alcuni particolari. Un attore-direttore, di cui non dirò il nome,
quando glielo mostrai lo fissò come se gli avessi fatto vedere un fantasma e mi chiese che roba era.
Gli risposi che era un disegno per la prima scena del primo atto di Macbeth, che le tre streghe si
sarebbero raccolte ai piedi del pilastro, e così via. Non gli dissi che quel pilastro diritto doveva dare
agli spettatori, all’inizio del dramma, la stessa impressione che Beethoven dà all’inizio della
Eroica. Sentii che per lui ci voleva qualcosa di più concreto e infatti me lo dimostrò subito.
“Avreste la gentilezza di spiegarmi”, domandò, “cosa vorrebbe rappresentare?". Una sì cortese
domanda richiede naturalmente un’altrettanto cortese risposta: perciò gli dissi che c’era un’unica
ragione per cui quel pilastro si trovava lì: rappresentava la pietra di Scone presso cui venivano
incoronati i re di Scozia. “Molto interessante” fu il suo commento allora. Per accontentarlo,
insomma, ho dovuto sfornargli lì per lì un fatto storico come sfondo a un disegno ispirato
unicamente alla fantasia e all’immaginazione. Ormai ho fatto l’abitudine a queste cose, e ho sempre
una risposta stupida per una domanda stupida. Brutto affare per un giovane di ventun anni se si
fosse lasciato convincere da un uomo famoso a dare rima e ragione a cose che non sono state fatte
per aver rima e ragione. A onor del vero, l’attore-direttore di cui ho parlato non è affatto un caso
unico; direi anzi che è in buona compagnia, tant’è che un altro tipo simile l’ho conosciuto io stesso
a Berlino.
146
Amleto
Vedi tavola 19.
È la seconda scena del I atto dell’Amleto messo in scena da me, con la collaborazione di
Stanislavskij, nell’inverno del 1911 al Teatro d’Arte di Mosca. Vedete il palcoscenico diviso da una
barriera. Da una parte siede Amleto immerso in un sogno, dall’altra parte vedete il suo sogno. È
come se lo vedeste con la fantasia di Amleto. Ciò che gli sta dietro assomiglia a oro fuso. È la Corte
del Re e della Regina di Danimarca. È la caricatura grottesca di una specie di vile regalità. Il Re
parla come se fosse un automa; morde le parole con le mascelle e le emette con un grugnito feroce.
Leggetele e vi accorgerete che sono una vera caricatura, e dovrebbero essere pronunciate come tali.
Non è una cosa reale: è una visione. Non importa come è fatta la barriera che divide Amleto dalla
Corte; quel che importa è che a lui appare come le tombe, avvolte nei sudari, delle sue speranze: in
mezzo a esse giace il corpo del padre - assassinato.
RE
Per quanto il ricordo della morte del nostro caro fratello Amleto
sia ancora acerbo e ben s’addica
ai nostri cuori il cordoglio
e che tutto il regno si contragga
in una sola espressione di angoscia,
tuttavia tanto ha lottato la temperanza con la natura
che con più rassegnato dolore pensiamo a lui,
in modo da non dimenticare noi stessi.
Pertanto la nostra sorella, un giorno,
ora regina, l’imperiale erede di questo stato guerriero
abbiamo presa in moglie, con gioia disperata, per così dire,
con un occhio lieto e uno lacrimoso,
con letizia nei funerali, e lutto nel matrimonio,
pesando esattamente diletto e duolo;
ma non per questo abbiamo messo da parte i vostri
saggi consigli, che ci sono stati sempre accanto
in questo negozio. Grazie di tutto.
Orbene, come sapete, il giovane Fortebraccio
con scarsa considerazione del nostro valore
o pensando che la morte del nostro caro fratello
abbia messo in subbuglio o disordine il nostro stato,
preso da un sogno di rivalsa,
non ha mancato di infastidirci con un messaggio
che reclama la consegna di quelle terre
perdute da suo padre, nella forma più legale,
e acquistate dal nostro valoroso fratello. Di lui non
c’è altro da dire.
Schermi
Disposizione che avevano nell’ultimo atto di Amleto
Vedi tavola 20.
La fine di un libro e l’inizio d’un nuovo capitolo della Scenografia. Spero di vedere il giorno
in cui il teatro sarà di nuovo e davvero teatro. Per il momento lo pretende soltanto, perciò ogni
pretendente è il benvenuto nella cittadella di cartone, e solo la simulazione è ritenuta genuina. Tutto
cospira contro l’arte, contro la verità, e in favore della simulazione. Le emozioni sono finte, sono
scimmiottate, non trasformate dalla magia dell’artista in forme e in disegni compiuti e belli, in
poemi. Vengon prese così come sono, riflesse in uno specchio tenuto piuttosto basso (perché le
147
braccia cominciano a stancarsi) e questo riflesso lo chiamano arte; ma è la più vana simulazione
d’arte che ci possa essere; e quel che è peggio, è una simulazione a una parodia della vita stessa.
Sottoposta a questa forma moderna di tirannia la vita è diventata una cosa di nessuna
importanza che si scimmiotta facilmente, che si mette e si leva come un paio di scarpe da tennis.
E oggi il teatro documenta per le età future, per i figli dei nostri figli e per i loro figli, le
cause della nostra infermità: Immaginazione sterile, Emozioni fiacche; mani goffe e voci fievoli.
Non manca chi considera proprio dovere sollevare il morale della nostra epoca e ci assicura
che tutto è come dovrebbe essere e che se l’Immaginazione e le Emozioni sono deboli, l’arte deve
documentarlo fedelmente per le età future. Sorprendente punto di vista. L’arte viene a essere come
un occhio che indugia sull’orlo della distruzione; simile a Narciso, corteggia se stesso e le proprie
insulsaggini e si esalta nella stupida riflessione di una più stupida realtà.
L’Immaginazione e le Emozioni non devono servire per imitare, ma per creare.
L’Immaginazione e le Emozioni che possono creare un’epoca, tramite l’arte, si abbasserebbero
dunque a imitarla? L’arte è inutile, se resta dietro agli avvenimenti: deve precederli, deve crearli.
Quando scegliamo un re, lo facciamo con una certa arte, quando lo incoroniamo, no. Il resoconto
dell’Incoronazione è compito dei giornalisti: schierati in prima linea, imbastiscono con false
emozioni e senza un briciolo d’immaginazione la cronaca vera di un avvenimento tanto puerile
quanto inadeguato. Mettete in prima linea l’Immaginazione invece e vedrete che la cerimonia sarà
tale da ispirare lo stesso re e la cronaca ispirerà il popolo.
Quando costruiamo una città non teniamo conto dell’arte; i documenti fotografici e
calligrafici che prendiamo alla fine, saranno lo zimbello delle genti future, e serviranno loro da
ammonimento. Saranno la prova di quanto sia stolto prima sbagliare e poi, quand’è troppo tardi,
pentirsene immensamente; la testimonianza di come non abbiamo il coraggio di affrontare la realtà
delle nazioni, delle città, dei popoli, e persino delle nostre vite - per l’unica ragione che ci sembra
troppo caro - e come alla fine siamo costretti a pagare un prezzo mille volte maggiore solo perché
non ci siamo affidati in tempo all’Immaginazione e alle Emozioni.
Spero che gli uomini di teatro, se non gli altri, ne siano capaci; a loro ricordo che l’Arte del
Teatro è l’unica che ancora sia parte della nostra vita; non solo è profondamente radicata nel cuore
della gente, ma il suo cuore immaginativo, il suo cuore universale è il cuore della gente.
“Popolare” è una parola che ha perso oggi il suo significato - o vuol dire soltanto volgare ma noi siamo sicuri che il suo vero senso implichi il concetto di un Ideale.
Ne siamo sicuri. Altrimenti, non avremmo forse abbandonato la partita della vita, secoli fa?
L’Ideale, l’Ideale popolare del teatro popolare, dovrebbe essere quello di ricreare una vera
scena, una vita in grado di infondere nel popolo rinnovate energie che solo l’Immaginazione e gli
uomini di Immaginazione possono risvegliare: le prediche non servono a niente.
La gente sa... non c’è bisogno di mentire, c’è ancora meno bisogno di sprecare milioni per
mentire a noi stessi. Ci sono giornali, grandi e potenti, che ci van ripetendo ogni giorno le stesse
menzogne: che sono potenti e che guidano il popolo.
In realtà sono il suo zimbello - che lo sappiano finalmente. È una pia illusione credere che il
popolo, che ha sempre odiato ogni forma di tirannia, sia tanto sciocco da accettare questa solo
perché è a buon mercato.
Oggi, come sempre in passato, c’è un unico potere che conta. È il Potere
dell’Immaginazione, ed è davvero Sovrano. E potere dell’Immaginazione tiene in pugno il Re come
il Popolo, il Ricco come il Povero, perché per lui son tutti alla pari, tutti suoi figli; non ha
preferenze, se non e sempre per la bellezza. Punisce, perdona, anzi perdona sempre, anche se
punisce. È l’unico potere davvero buono. Ognuno ne ha una porzione - una porzione eguale - ma
mentre alcuni l’hanno serbata più gelosamente dell’oro, altri l’hanno venduta per una parte di
miniera. I primi tuttavia son più numerosi e sono legati tra loro dai vincoli più forti e indissolubili
che siano mai esistiti. Lunga vita al Re dei Re.
148
Conclusione
L’aver reso popolare la Bruttezza, l’aver calunniato la Bellezza, questi sono i risultati del
Teatro Realistico. I miei disegni vogliono essere una protesta contro il Teatro Realistico e la sua
anarchia.
Il moderno Teatro Realistico, dimentico di tutte le leggi dell’Arte, dice di riflettere i tempi;
in realtà li riflette solo in parte: tira il sipario e ci fa vedere una confusa, grossolana e odiosa
caricatura dell’Uomo e della Vita.
Lo scopo dell’arte non è mai stato quello di riflettere e rendere più brutte le cose brutte, ma
quello di trasformare e di abbellire ancor più le cose belle; e, insieme, il suo dolce influsso ci
protegge dalle oscure angosce della nostra debolezza.
Il Teatro Realistico concorre a diffondere l’irrequietezza, nemica di ogni cosa.
Il Teatro (inteso come Arte e come Istituzione) deve infondere calma e riflessione negli
uomini, deve ispirarli con la sua bellezza.
Il Realismo Fotografico e quello Fonografico, con la loro grottesca e falsa rappresentazione
della vita esteriore, visibile, priva di essenza divina, di spirito, di bellezza, offendono l’intelligenza
umana.
All’artista non importa il soggetto da trattare; il suo piacere consiste nell’illuminare tutto
quel che tocca in modo da farlo brillare e risplendere. Basta uno sguardo alle opere dei Maestri per
rendersene conto.
Ma il moderno Teatro Realistico non paga lo scotto ai Maestri, anche se è a conoscenza
dell’esistenza delle loro opere.
Il Realismo contiene i germi della Rivolta e se il cuore dell’uomo può provare pietà verso
coloro il cui fato sembra compiersi inesorabilmente, l’arte, con la sua terribile influenza, non deve
prestarsi in alcun modo alla distruzione di quel giusto Equilibrio, che l’umanità aspira a creare e a
serbare. Non vi è veleno più rapido di quello che corrode la mente, e il Realismo - spergiuro,
traditore dell’Immaginazione, promotore dell’idolatria della bruttezza - è un veleno.
Apparve per la prima volta a Parigi, ma solo dopo il 1789. La folla ci godeva, ma le persone
intelligenti ne erano disgustate.
Da lì passò in Russia, in Germania, in Portogallo e in altre terre irrequiete; non si spinse in
Inghilterra, né in America e nemmeno in Islanda, forse perché in questi paesi il Teatro non ha
bisogno del Realismo per essere volgare.
Temerario e pericoloso, è una Rivolta contro le Leggi più vere dell’arte del Teatro.
Temerario perché è impossibile riprodurre la natura.
Pericoloso perché è una minaccia contro l’ordine costituito. Il Teatro del Realismo
riecheggia qualunque bisbiglio di rivolta; le espressioni torve, i movimenti trasandati, le scene
oscure, al chiuso, le esclamazioni spasmodiche degli attori, quell’atmosfera stranamente smorzata,
ogni suo elemento insomma contribuisce a dare un’impressione sinistra.
Ma tutto questo è falso e indegno del teatro, sia come Istituzione che come Arte.
La nostra unica speranza è riposta nella Libertà del teatro.
Solo con la libertà di scegliere e di trattare i propri temi, lontano dalle imposizioni delle
altre arti, il teatro può riprendersi.
149
Scena
Al vecchio BACH
150
L’arte adopera i propri materiali non per travestire i pensieri ma per esprimerli
¶
1. Poiché le parole hanno perduto sì gran parte del loro significato - sei diverse parole
indicano spesso la stessa cosa, una parola talvolta indica sei diverse cose - è più che naturale che
questo mondo abbia dovuto accettare per vero il detto sorto verso il diciottesimo secolo, che
Voltaire espresse brillantemente: “ils n’emploient les paroles, que pour déguiser leurs pensées”.
Il mondo non poteva farci niente - il linguaggio era ancora una cosa troppo graziosa, troppo
facile, troppo piccola. Perfino i bambini se ne servono subito per dire bugie... eppure alla parola si
crede.
Ma né i fanciulli né gli uomini saggi sono capaci di mentire in modo altrettanto facile e
grazioso con i gesti. Forse il piccolo animale si è impadronito, molto tempo fa, di tale sottile
astuzia... la natura è sempre un incanto e una sorpresa ma l’uomo ancora no.
Per l’uomo, le parole sono lo strumento più facile e immediato per mentire. Così ora, in questo
ventesimo secolo, quasi ogni frase è una menzogna. Non vorrei spingermi fino a dover ammettere
per scherzo che una frase del genere sia un’arte. Sarei più propenso a chiamarla una porcheria.
Un giorno una cosa puramente naturale diventò arte; ma quando superò i termini naturali
della sua esistenza, esaurite tutte le sue riserve di fiato, si fece nera in volto; l’argento del
linguaggio venne grattato via e arrivammo al piombo che stava sotto, e dentro al piombo... c’erano
le bugie.
***
Così ora che desidero parlarvi degli elementi che si mettono sul palcoscenico per
rappresentare il luogo70 nel quale si suppone debba avvenire il dramma, mi trovo imbarazzato dalla
mancanza di parole esatte con cui descriverli, perciò ognuno comprenderà, oltre tutto, quel che io
non intendo dire.
Se io uso una sola, fra le diverse parole, tre di voi intenderanno una cosa, tre di voi un’altra,
e altri tre... ma sono troppo ottimista, i miei lettori non arriveranno certo a nove.
Perché se è vero, purtroppo, che scriviamo e adoperiamo le parole soltanto per mascherare i
pensieri, d’altra parte le leggiamo con precisione per la ragione contraria, cioè per apprendere cose
che non abbiamo veduto e per udire cose di cui non abbiamo sentito parlare da coloro che hanno
veduto e udito.
Ecco perché leggiamo; a meno che non siamo dei piccoli, ridicoli uomini che si fanno
calpestare assai presto e che piangono troppo presto; vecchi piccoli uomini, che desiderano essere
padroni dei loro vicini, di se stessi, della loro vita, della natura, ma non ne sono capaci; però, oh
quanto sono persuasi (l’antica aria ce lo racconta con la chiarezza di uno squillante fischio di treno
“stiamo attraversando un tunnel”)... persuasi che tutta la vita non è che cenere... l’uomo un mulo o
un porco, la donna un gatto o una gallina, e la prima regola della natura umana il desiderio di
mangiare.
Ma sei uomini e donne, diciamo tre per sesso, leggeranno quel che scrivo e udranno
qualcosa che non è travestito. È per questi sei che voglio tentare. Però debbono accontentarsi;
parleremo di argomenti secondari, l’argomento più importante è nei disegni... e questi debbon
parlare da sé, perché io non ne parlerò.
***
70
“Un luogo piacevole”, disse un mio caro vecchio amico guardando il modello di palcoscenico che descriverò
appresso; ho sempre pensato che le parola più appropriata, molto migliore di scena, sia luogo, se sembra reale. Scena va
bene se sembra falsa.
151
:
¶
2. Il luogo, in cui si suppone si svolga il dramma davanti ai vostri occhi, può essere Atene nel
100 a. C., o una strada in Atene nel 400 d. C., Roma nel 100 d. C., o una casa in Roma nel 456 d.C.;
può essere Roma oggi, nel 1922.
Oppure può essere una cabina di un bastimento sul mare o nel porto, può essere un canale a
Venezia, una brughiera nello Yorkshire; oppure può essere l’ufficio di un editore, o una chiesa a
Oxford, una casa sulle colline lungo lo Yang-Tse-Kiang, una foresta di cedri vicino Pisa, una stanza
in Rue de Bagnolet nel 1752... e mille e mille altri luoghi.
Può essere qualsiasi luogo: potrebbe essere persino un luogo fuori del mondo - come, ad
esempio nel Faust di Goethe, nel Manfred di Byron, nella Tempesta di Shakespeare. Può essere un
quartiere popolare, un palazzo, o il Cielo o l’Inferno (benché in tal caso bisogna esser molto cauti
per non offendere gli scettici).
¶
Abbiamo dato un nome a questo Luogo; e qui cominciano i guai, perché sembra che un solo
nome non sia sufficiente, quindi gli abbiamo dato più nomi, e la confusione depone un’altra corona
sulla tomba dell’ordine. La confusione depone sempre corone del genere: che fantasma... con quei
gesti ironici e quel ghigno... proprio come la morte in persona.
Abbiamo chiamato questo Luogo: Scena, Scenario, Décors, Decorazioni. A me, e forse
anche a voi, sembra che tutte queste parole bisticcino fra loro.
Tutta questa confusione è sorta perché gente diversa aveva una nozione diversa di che cosa
fosse il Dramma e comunque desiderava cambiarlo.
Soffermiamoci un momento a riflettere su questi mutamenti: ma in fretta, quasi fossero il
prologo di una vecchia commedia.
Il prologo
Primo Dramma. Classico (Greco o Romano). Pagano.
Un luogo - un tempo - un’azione.
(Unità di luogo, di tempo e di azione - non di scena, tempo e azione.)
All’aria aperta: ampi teatri: lo stesso Dramma è per la Massa e per i Pochi. È Sacro o Profano Tragedia o Commedia - Dramma non “comodo”.
Danza - Canto - Linguaggio - Maschere - Architettura convengono in questo Dramma.
Meditato - progettato con grandiosità.
Il linguaggio usato è quello che può essere compreso da tutti nel teatro.
Percorre tutto il mondo conosciuto.
Secondo Dramma. Medievale. Cristiano.
L’unità di luogo, tempo e azione è scomparsa.
Di solito viene rappresentato nelle chiese.
Il sacro e il profano cominciano a fondersi.
Ancora un Dramma non “comodo”.
Gli stessi elementi - Danza - Canto - Linguaggio - Maschere e Architettura convergono nel
crearlo. Meditato - progettato con grandiosità.
Il linguaggio usato è quello che non può essere compreso dalle masse ignoranti che affollano
l’edificio.
Domina l’Europa.
Terzo Dramma. Italiano. Commedia dell’Arte. Crede in tutto.
Ritorna l’unità di luogo, tempo e azione ed è considerata preziosa.
Viene rappresentato nelle strade.
È una Commedia Profano-Grottesca.
Ancora un Dramma non “comodo”.
152
Gli stessi elementi concorrono a formarlo, ma in un modo spontaneo, niente di meditato, poco
di progettato; improvvisazione.
Il linguaggio è quello dell’uomo della strada.
Si propaga come un fuoco in tutta Europa.
Quarto Dramma .......... ? Non crede in nulla.
Il terzo Dramma è divenuto stabile - si è seduto - comincia a essere “comodo”.
Gli stessi elementi di prima eccetto l’Architettura: scene dipinte la sostituiscono.
Ambiente interno.
Luce artificiale per la prima volta.
¶
3. E col cambiamento del Dramma venne il cambio della scena. Il cambiamento nel Dramma
era avvenuto per ragioni climatiche.
Il Dramma era andato al chiuso nella stagione fredda, perché l’uomo, sempre tanto
impaziente di divertirsi nella stagione sbagliata, non poteva attendere l’arrivo della stagione calda.
L’errore non era dell’artista: era dovuto al cattivo governo.
¶
Il Dramma, si dice - ed è facile crederlo -, sbocciò da alcuni spontanei giochi e risate durante
i mesi brillanti dell’anno nei paesi del Sud.
È probabile, perché vi è un significato nell’estasi che si genera con un tempo simile, all’aria
aperta, si prova un desiderio di fare qualcosa, cantare e danzare, dinanzi agli Dèi ai quali allora si
attribuivano tutti questi benefizi: il caldo, l’allegria dei cuori, l’affetto degli amici, le vittorie sui
nemici, l’acqua!... l’acqua!... il sole il cielo e le notti fresche... il vino!... il grano!... e l’abbondanza.
A quei liberi uomini dei nostri padri non era mai capitato di starsene seduti egoisticamente a
scrivere le proprie memorie per spiegare al pubblico che il grano, il vino, l’acqua e tutto il resto non
erano altro che il risultato della loro prudenza e della loro energia; secondo loro c’erano sempre uno
o due Dèi che avevano fatto tutto. Lode, allora, e allegria di fronte al Dio.
(Ora pensate un momento a Strindberg, a Becque, a Shaw o a qualsiasi altro moderno! Sono
o non sono un progresso sugli antichi?
Questi badano al popolo: si mettono a discutere con la gente, le danno colpetti sulla schiena,
sono scrittori per famiglia, i nostri progenitori invece guidavano il popolo).
Così la scena di quei primi Drammi fu posta all’aria aperta.
Fatta di quella dura materia che sola è capace di competere vittoriosamente con il sole, il
vento, la pioggia e le ingiurie del tempo... la Pietra.
¶
L’intero Teatro era di pietra - l’intero Teatro era la Scena. Una parte conteneva gli spettatori,
un’altra gli attori; ma tutto l’insieme era Scena - il Luogo per il Dramma71.
La separazione fra attore e spettatore non era messa in risalto - era osservata reciprocamente
- in silenzio.
Non c’era sipario. Il luogo chiamato Skene (scena) era il più lontano dagli spettatori - ed era
il muro posteriore dell’intero Luogo o Teatro.
Gli attori non entravano in scena né uscivano lungo questo muro come se fossero piatti,
dipinti su quei loro inimitabili vasi: non entravano come gatti bianchi in una stanza silenziosa,
senza essere né visti né uditi, venivano direttamente verso gli spettatori, proprio al centro, vicino a
loro; e cantavano, saltavano, rendevano percettibili insomma le tre dimensioni del luogo.
¶
La loro Skene fu davvero la Scena per la prima, e (penso) per l’ultima volta nella Storia del
Mondo.
71
“Era difficile che una città greca fosse tanto piccola o tanto sperduta da non avere un teatro e delle feste
drammatiche”. Flickinger.
153
Senza scenario, senza décors. Pietra: bianca, rossa, gialla, bruna, nera, blu, verde... chissà
che colore72; perché i greci non avevano certo dimenticato il colore. Ma non era il colore che si
porta col secchio - quello che usa il pittore da cavalletto disoccupato, perché i pittori greci erano
sempre occupati in Grecia, sempre al loro posto... fuori del Teatro.
¶
La loro Scena era una cosa genuina, un’opera di architettura inalterabile eccetto che per dei
particolari insignificanti; eccetto per l’eterno mutamento che passava sul suo volto da un mattino
all’altro come passavano il sole e la luna.
Il loro Dramma era trionfante... trapassò trionfalmente senza contorcimenti.
¶
4. La scena che appare successivamente in Europa è anch’essa architettonica - perché anche
il dramma che appare ora è di tipo religioso, e noi Europei, essendo a quel tempo giovani nei
sentimenti, avevamo l’antico piacere di fare le cose come si deve.
Questo vecchio principio del fare le cose come si deve è stato nostro finché abbiamo avuto
qualcuno o qualcosa al di fuori di noi per cui farle.
Un Dio - ecco la realtà per cui potevamo perdere la consapevolezza di noi stessi - aveva
annullato ogni egoismo, per questo eravamo nella condizione adatta per fare qualcosa di degno.
Tale condizione mi sembra l’unica in cui un uomo o una nazione possano esprimere un’arte
davvero grande.
¶
Questa seconda scena architettonica che apparve in Europa era la Chiesa.
Non era soltanto una piattaforma innalzata - una scena in fondo alla chiesa: era l’intera
chiesa.
La Chiesa era Teatro e Palcoscenico. Luogo per gli spettatori e per gli attori, e spettatori e
attori insieme erano uniti come adoratori - gioiosi - eccitati - ardenti di gratitudine verso qualcosa al
di fuori di loro.
Perché andare in chiesa - perché andare ad assistere a un dramma sia esso tragico o gaio, se
non ci andate con gioia come bambini che corrono a dar baci alla mamma?
Non vado più in chiesa o a teatro se non c’è una simile eccitazione.
Eppure continuo ad andare nelle chiese e nei teatri.
¶
In questa Chiesa-Teatro che noi Europei facemmo per ringraziare Dio, tutto era davvero
stupendo, davvero lussuoso: gioielli, argento, e oro... una festa di tutto: musica... un mare di musica;
travagliato, ma tuttavia trionfante. Si parlava latino... nessuno comprendeva eccetto i pochi. Tutto
era genuino - ancora genuino - animato di realtà.
Tutto bene ancora per il Dramma e per la Scena73.
72
Avete mai visto le mura della chiesa di S. Marco a Venezia?
A sessanta passi danno l’impressione di essere ornate con morbidi drappeggi di seta, dai disegni elaborati.
Da vicino ci si accorge che si tratta di lastre piane di pietra - ma che pietra: come selezionata, come intagliata, come
dislocata.
Il miracolo è lo stile, non la pietra.
Altrettanto splendido e, non ne dubito, perfino di più era l’archetipo dei Greci dai quali Venezia ha appreso tutto.
73
Non menziono i teatri inutili e le scene di quest’età che furono concepiti per disperazione - un’assurda disperazione
che scaturì da una fatale ostinazione, da una rivolta. I palcoscenici per le moralità e per i "misteri” si trovavano fuori
della chiesa -e fuori posto. II lavoro che vi si svolgeva sopra era un tipo di lavoro puerile; il linguaggio volgare ululato
o blaterato, mentre il bel latino cantato e recitato era stato respinto da alcuni rivoluzionari in una chiesa non perfetta, ma
sempre molto più perfetta di quella che avrebbero trovato dopo... un palcoscenico, una scena, un Dramma di gran lunga
più perfetti.
E. K. Chambers - il cui primo capitolo del secondo volume di The Medieval Stage non finisce di eccitarmi, sebbene
sia storia della più spoglia - ci racconta con chiarezza che cosa fossero questo solenne gaio Dramma, il palcoscenico e
la scena. Fin dal 1903, quando il suo libro apparve per la prima volta in Inghilterra, ho contratto con lui un debito di
gratitudine che ripago rivolgendomi di nuovo e continuamente, almeno tre o quattro volte all’anno, al suo libro. È il
miglior lavoro inglese esistente oggi sull’argomento.
154
¶
5. Anche la terza scena europea era genuina.
Era il muro liscio di una strada, o la parete di una cantina; la loggia della piazza cittadina,
oppure una facciata minore o l’ala di un palazzo.
Tutto va ancora bene. Non è la rivoluzione - è l’inizio. Abbiamo fatto delle concessioni, ma
abbiamo aperto altre possibilità dinanzi a noi.
I toni, i movimenti, gli sguardi tormentosi entrati a forza nel Dramma nel suo ultimo
sviluppo erano diventati una fatica per i nervi. Crescevamo irritabili e tormentati. Non avevamo
dimenticato il trionfante “Tollite portas”... ma rabbrividivamo perché... abbiamo timore perfino di
dirlo... il volto sanguinante e il corpo martoriato del Figlio era troppo... troppi volti e corpi simili ci
furono dati da vedere - corpi martoriati, bocche contratte, dolore e pena, e l’incenso ci soffocava...
la tristezza scendeva su di noi.
Vogliamo uscir fuori, tentiamo di cercare la porta, usciamo..., siamo usciti: l’aria fresca...
“grazie a Dio”.
E per un certo tempo facciamo a meno del vecchio tragico Dramma: nessuna
preoccupazione - dimentichiamolo pure... tutto era troppo terribile da ricordare... era divenuto
troppo terribile da vedere. Nient’altro - la cerimonia stessa, un tempo così severa e nobile e così
austeramente presentata, ci dava una profonda emozione - ma poi subentrò il compromesso nel
modo di rappresentarla... e arrivederci.
¶
E ora, stando seduti alla porta di casa, al sole, un giorno vediamo per strada, di fronte a un
muro grigio chiaro, tre strane figure - le fissiamo attentamente facendoci ombra agli occhi.
Assomigliano proprio a... no, è stata solo un’orribile fantasticheria, dimentichiamola... e torniamo
dentro.
Il giorno dopo la stessa cosa - con risate, e la gente che guarda e ride. Esco, mi accosto di
più. Le stesse tre strane figure che si dimenano e gesticolano... in realtà non sono affatto simili a
quelle immagini con i volti straziati e le ginocchia spezzate e ora che sono ancora più vicino vedo
quanto fosse assurda la mia idea... ridono continuamente. La miseria e l’agonia non ridono...
soltanto i vincitori ridono - eppure quando dormo mi sembra di avere la visione dolorosa di un
martire.
¶
Questi sono i nuovi attori, noi i nuovi spettatori, atterriti e sghignazzanti insieme; il nostro
teatro la strada; la nostra scena il cumulo di terra di fronte al muro grigio chiaro; i nostri sedili... i
nostri stessi calcagni o una pietra.
Era nata la Commedia dell’Arte.
¶
6. La Quarta Scena.
“Bisogna fare qualcosa, mi pare” gridò il Duca accorgendosi un pomeriggio che la piazza
principale era affollata da tutti i suoi seguaci, dagli amici, dalla sua stessa famiglia “non hanno
nemmeno dei sedili” - e tutti stavano a guardare cinque grandi attori che recitavano su una nuda
piattaforma... “bisogna proprio fare qualcosa”; e procurò i sedili per il giorno dopo. Così sorse la
quarta scena con un bel palcoscenico con il tetto sopra e tutti i tipi di macchinari e ogni protezione
possibile offerta a Donna Bianca della Bella.
Il Duca ci rimise tutto il tempo libero... e alcuni milioni di ducati... “che cosa?” disse, “o si
fa bene, o non si fa per niente”. Che bella cosa!
¶
Questo quarto palcoscenico con la sua Scena era il riconoscimento da parte dell’aristocrazia
dell’esistenza di grandi attori - ed era un regalo per il popolo.
Una scena più sontuosa non sarebbe concepibile. Non nobile come la scena greca, non così
scostante come divenne la scena nelle chiese, non tragicomica come la scena nelle strade dei
grotteschi comici sbrindellati: era una improvvisazione positiva, meditata, brillante e piena di
155
difetti. I migliori architetti, pittori, poeti e ingegneri furono fatti venire dal Duca da ogni parte
d’Italia; e se il principe dimorava in Francia, come Enrico IV, venivano chiamati dall’Italia; e se,
come Filippo, dimorava in Spagna, dovevano andare in Spagna.
Non aveva fatto a tempo il primo Duca a comportarsi da Duca che subito altri sei o sette si
misero a imitarlo; e poi un Cardinale, uno o due Re, e infine un Imperatore. D’un tratto si andò
diffondendo questa idea di comportarsi da Duca, da Re, finché ogni Corte ebbe uno, due, e a volte
quattro teatri. Come a Parma nel 1690, quando il Duca Farnese aveva due teatri nel palazzo, due nei
giardini e due nella città, e tra il 20 e il 25 maggio vi furono spettacoli in quattro teatri74.
Se dubitate che questa Quarta Scena sia stata davvero così splendida non avete che da
visitare Parma e ve ne convincerete. La città è in tutto uguale a quella di una volta. Non avete che
da guardare le opere del Serlio, del Palladio, dell’Arnaldi, del Sirigatti e dei loro seguaci per trovare
le parti mancanti.
L’Italia ci ha dato il terzo e quarto Palcoscenico e le loro Scene.
L’idea di durata non sopravvisse ai suoi stessi inventori. La richiesta comune era: cambiare,
e si provvide a cambiare.
Cambiamento di luogo, e perciò cambiamento di scena. E anche cambiamento di tempo...
Portate il mare sui nostri palcoscenici... il mondo... le stelle e i venti...
Adesso cambia - presto... il mondo sotterra.
Adesso le dimore degli Dèi...
Adesso il palazzo di Xaxiemes, Imperatore di Troia...
Adesso la sorgente del fiume Tevere...
E non occorre più che il tutto sembri svolgersi in un giorno o in quattro ore. L’azione copre
sei giorni e più; si lascia un anno d’intervallo fra le scene (Shakespeare).
¶
Questo quarto palcoscenico in genere era costruito in legno.
A volte gli altri muri dell’edificio erano costruiti di solida pietra o mattone, ma all’interno
spesso non vi era che legno - o tela - o materiale distruttibile. Ma una virtù antica è così tenace che
gli uomini di allora non riuscirono a evitare che le loro cose più deboli fossero di gran lunga più
forti e più durevoli dei nostri migliori tentativi.
Naturalmente il Palcoscenico e la Scena shakespeariani sono un’unica cosa, senza relazione
alcuna con questo quarto palcoscenico. Il teatro elisabettiano era opera di un costruttore molto
pratico e preparato. Gli architetti inglesi non avevano avuto né tempo né modo di interessarsi alla
progettazione dei teatri come in Italia, e così Shakespeare, arrivando tutto d’un tratto, non trovò un
vero Teatro, quale avremmo voluto preparargli se solo ci avesse avvertito in tempo.
Se un architetto inglese si fosse interessato a un tal lavoro, mentre Shakespeare era in vita o
subito dopo la morte, adesso probabilmente avremmo dei nobili edifici come quelli costruiti in
Italia dal Palladio, dall’Alliotti e dallo Scamozzi, e un tipo di costruzione che ci avrebbe indicato
come Shakespeare voleva che fossero rappresentati i suoi drammi. John Thyme e John Shute erano
vivi ed entrambi capaci, immagino, di ideare e costruire un edificio teatrale; o se non loro, Robert
Adams o John Smithson, e anche Inigo Jones. Avevamo gli architetti, ma affidammo il lavoro a dei
costruttori che ci dettero una costruzione in legno, eccellente, ma anonima, qualcosa di simile al
cortile di una locanda o a una arena per gli spettacoli degli orsi, che non era inadatta, ma non era
nemmeno all’altezza di quel particolare unico tipo di dramma del quale eravamo appena entrati in
possesso.
74
Dal 20 al 25 maggio il duca Ranuccio II presentò quattro opere nel modo più grandioso di cui si abbia notizia per
quei tempi. Una, Il Favore degli Dei, venne data di sera sul palcoscenico del Teatro Farnese nel Palazzo. Questo teatro
conteneva 4.500 posti a sedere, ed esiste ancora. La seconda opera venne data di giorno su di un palcoscenico costruito
su di un grande bacino d’acqua chiamato “la Grande Peschiera”. Il pubblico sedeva in un teatro appositamente costruito
- presenti diecimila spettatori - fu rappresentata La Gloria d’Amore. Le altre due opere, L’Età dell’Oro e L’Idea di
Tutte le Perfezioni, furono rappresentate nel Teatrino Farnese. Questo piccolo teatro conteneva 2.000 spettatori.
156
“Una pubblica autorità male alloggiata viene male stimata” ha detto di recente un nostro Sovrano,
parlando dell’architettura civile in relazione alla vita pubblica - il dramma di Shakespeare oggi
viene stimato addirittura meno che male da parte del pubblico.
Senza dubbio, la semplice e chiara intelligenza di uno studioso può considerare la capanna
di fango dell’uomo primitivo un’abitazione più degna, per un uomo nobile o un nobile pensiero, di
quanto non lo sia un palazzo costruito con un materiale più prezioso dal Bramante o dal Palladio.
È probabile che i palazzi italiani, i templi indiani, il Partenone, il Teatro di Dioniso, non
siano abbastanza semplici per le grandi menti.
Eppure sarebbe stupendo trovare un maestro inglese che ideasse un edificio ancor più nobile
e semplice, per il nostro Dramma shakespeariano.
A Durham, Lincoln e Canterbury gli architetti hanno costruito reliquari per i nostri libri
sacri, ma per il nostro libro umano non è stata fatta nessuna dimora acconcia.
I lettori di Shakespeare dovrebbero essere in grado di decidere con esattezza che tipo di casa
richiedano i suoi libri, ma leggere Lear e La tempesta ed essere ancora balbuzienti è un vero
peccato.
Forse, se vi prestassimo maggiore attenzione troveremmo le giuste misure, le proporzioni
adeguate e creeremmo una forma che potrebbe reggere per sempre il paragone con la più nobile
delle forme.
Non so, ma posso solo dire che non è possibile parlare della scarsa importanza del
palcoscenico e della scena creati nel sedicesimo secolo per il nostro grande inglese, e mi si deve
scusare se il mio amore costante e la mia reverenza per il Dramma inglese mi spingono a priori a
richiedere in suo favore i migliori teatri d’Europa, e a rifiutare ogni ripiego.
In questo quarto teatro del sedicesimo secolo venne sulla scena la Prospettiva. La
Prospettiva era stata scoperta di recente in Italia75 da Paolo Uccello intorno al 1450, o dal suo
maestro o dal maestro del suo maestro.
Scoperta allora o no, nel 1500-1550 divenne un trucco di grande effetto molto usato sul
palcoscenico... nuovo per molti, che l’osservavano allora per la prima volta.
I costruttori di scene se ne impadronirono quasi fosse un bel gioco e l’ostentarono a destra e
a manca, e continuarono a giocarci fino a ieri.
Ebbene, cosa l’aveva resa così popolare? cosa impedì a noi tutti di fischiarla? Fu Sua
Altezza Serenissima il Duca.
In ogni teatro costruito in quei giorni c’era sempre un punto (e uno solo) dal quale la scena
prospettica sembrava azzeccata, una realtà perfetta.
Non era un punto fisso... ma era unico, e l’architetto (che era anche scenografo) costruiva
l’auditorio, sistemava i palchi, le balconate, i sedili, in modo da lasciargli uno spazio libero intorno.
Gli sistemava sopra una pedana, senza badare dove capitava, la trascinava in avanti, la spingeva
indietro, finché non trovava il punto perfetto da cui guardare la prospettiva.
Una volta trovato il punto, inchiodava, come previsto, la pedana per terra e ci piazzava un
seggio per il Duca... per l’uomo che aveva reso possibile tutte quelle splendide feste...
La scenografia prospettica, dunque, è sorta esclusivamente allo scopo di far gustare
all’Autorità lo spettacolo in modo conveniente e piacevole.
In nessun altro punto del teatro era possibile ottenere una veduta così perfetta: bastava che
uno si spostasse leggermente sulla destra o sulla sinistra, avanti o indietro, e l’effetto cominciava a
sembrare un po’ strano; se si spingeva un po’ più lontano, nord sud est o ovest, appariva un po’
troppo originale; ancora più lontano, appariva eccentrico e alla fine diventava addirittura ridicolo.
75
Così afferma Vasari. Io, però, ho visto molte singolari Prospettive Teatrali a Pompei; e lì ho cominciato a
comprendere, seppure oscuramente, quale doveva essere l’aspetto di un Teatro Romano, del suo palcoscenico e della
sua scena.
157
.-,4
Ma il potere dell’idea di Regalità, il potere personale del Sovrano e l’innata cortesia dei
sudditi erano così grandi che, se pure c’erano uno o due persone tanto abiette da rimanerci male, la
popolazione intera era convinta che tutto andasse per il meglio.
Si mormorava in giro: “Il Duca non ha mai visto come vediamo noi - il suo punto di vista è
perfetto”; gli artisti dettero le spiegazioni al popolo e i padroni le dettero ai servi, saltaron fuori
perfino dei giocattoli che mostravano quel punto... “tieni il giocattolo così e vedrai dallo stesso
punto del Duca” “Ah lui vede così?” “Si!” “Allora tutto va bene”. Sapevano che lui non si
lamentava e tanto bastava.
Sapevano che i loro diversi punti di vista non erano come il suo; che dai loro sedili tutta
l’architettura appariva contorta: colonne, archi, scale, era tutto spostato: ma non avevano niente in
contrario, purché il Duca fosse contento; erano disposti a non accorgersi di niente, a non dire niente.
Così italiani, così spiritosi, indifferenti, grandi.
Una patata, o un pendolo (e conosco uomini di tal fatta) pensano forse che tutto questo è
stupido, e non grande; ma costoro devono ancora discutere la cosa con la razza umana, perché la
mia idea di felicità non è quella di una patata o di un meccanismo. Sono contento della gioia di un
altro, purché voglia bene all’altro. Se il Duca non si diverte davvero nel teatro che gli abbiamo
costruito, io e i miei amici non siamo contenti; tu patata, e tu macchina, lo siete: meno male!76
E per qualche secolo tutti vissero felici e contenti.
E in verità se gli Architetti e i Duchi fossero rimasti quelli che erano, forse la scena
prospettica non sarebbe divenuta quella che divenne venti anni dopo.
Ma, intorno all’anno 1789, una certa agitazione a Parigi ha cominciato a turbare la vista
degli europei - e ora un buon scenario prospettico, quella quarta scena, praticamente non esiste più.
Sento dire che il Popolo diventa più forte di anno in anno. Non sono mai riuscito a capire
esattamente cosa significhi, perché non mi sono mai accorto che i popoli della Grecia, dell’Italia,
dell’Egitto, di Roma, della Francia, fossero tanto deboli nei tempi antichi.
Tuttavia, se diventano più forti, mi è difficile resistere all’idea che debbano, nello stesso
tempo, diventare più buoni; allora ricorderanno certamente che l’ultimo Teatro, con la sua Scena,
era un regalo del Duca, e nella loro forza di recente acquisita troveranno certamente la grazia di
regalare il prossimo Teatro all’intera Aristocrazia.
Perché, in parole povere, non ci sono stati che quattro Teatri, quattro Scene, quattro
Drammi, in Europa.
Il primo era il migliore di tutti, ma l’ultimo era pur sempre tanto bello... e i due nel mezzo,
immensi77.
¶
7. Quattro disegni qui accanto vi mostreranno i quattro palcoscenici uno vicino all’altro”78.
76
In italiano nel testo. [N.d.T.]
Fu in questo Teatro del Duca e per questa quarta scena che cominciarono a essere impiegati i macchinari; non per la
prima volta, perché dei meccanismi erano stati usati nel Teatro greco e nella Chiesa. Ma sembra che i loro macchinari
venissero trasportati in scena e poi portati via; non erano infissi... mentre nel sedicesimo e diciassettesimo secolo le
macchine divennero fisse.
I macchinari fissi, che impediscono la mobilità della scena, dovevano essere una maledizione per il Dramma.
Furono adoperati nel diciottesimo secolo per facilitare le cose, per rendere più facili i cambiamenti di scena. Li hanno
resi solo più difficili. Ebbero un tale effetto sul nostro lavoro di palcoscenico che durante l’Ottocento non si poteva
cambiare niente... tutto divenne una ripetizione. Wagner, che si suppone abbia riformato ogni cosa, agì come tutti i
riformatori... accettò le cose come erano e fece piccole innovazioni.
I macchinari controllavano ancora la scena.
Alexander Hevesi ha indicato nel macchinista il nemico del Teatro: lui e il realista. Dovremmo riuscire a
comprendere la verità delle sue parole. Ci sono altri e migliori campi d’azione per il macchinista. L’arte dovrebbe
escludere ogni meccanismo.
77
158
Infinite variazioni su questi quattro temi esistono nelle collezioni pubbliche e private di libri,
stampe e disegni, e lo studioso, se ne ha la pazienza, potrà vederne altre.
Il mio scopo non è quello di addentrarmi nell’argomento come uno storico - non ne sarei
nemmeno capace, del resto. Desidero solo attrarre la vostra attenzione su questi quattro disegni,
perché possiate vedere la cosa come la vede un uomo di teatro, non come un uomo di teatro di una
scuola ristretta o particolare, ma come un uomo di teatro qualunque, che è arrivato a comprendere,
dopo trent’anni di studio e di esperienze teatrali, che ogni palcoscenico ha un suo posto, e che ogni
palcoscenico, ogni scena, è ammirevole nel suo posto, ma fuori di esso è semplicemente nulla.
Qualche volta il palcoscenico ha offeso il gusto, ma, in ultima analisi, trovo che non lo ha
offeso più della pittura, della scultura, della musica, dell’architettura e delle lettere. Tutte le arti e
ogni parte dell’arte, quando sono fuor di posto, offendono il gusto. Ogni opera d’arte deve stare al
suo giusto posto, deve apparire al momento giusto, deve avere una ragione per apparire, e tutto va
bene...
E dovrebbe essere un piacere per chi lavora nell’Arte Drammatica vedere che niente è fuori
di posto... e nessuno è fuor di posto.
Dovrebbe essere un piacere e un dovere per tutti rimettere di nuovo in ordine il Dramma, e il
Maestro del Dramma al suo posto - in testa a tutti.
¶
8. E chi è questo Maestro e quali sono i suoi compiti?
Egli è il migliore.
Ebbene, il migliore nel Dramma deve essere il migliore nei Teatri e nelle Rappresentazioni.
Una volta è Molière, l’attore-scrittore. Un’altra volta Sofocle, danzatore-attore-scrittore. La
terza volta è Andreini, soltanto attore. La quarta è Shakespeare, attore-scrittore. In ogni epoca il
migliore come vedete era sempre attore. Dicono che Molière non fosse un buon attore; cosa
vogliano dire, non so; che Shakespeare non fosse un grande attore, che abbia recitato soltanto in
parti secondarie... può darsi. Sia l’uno che l’altro erano in un teatro; ognuno in un solo teatro... non
saltavano da una compagnia all’altra... diedero al tempo e alla natura la possibilità di svilupparsi;
crebbero come le piante, fiorirono, produssero frutti.
Tutti costoro pensavano in termini di palcoscenico, vivevano il teatro; portarono l’uomo, i
monti, le passioni, il sole, la luce, i sogni, i fantasmi nel teatro, non soltanto mediante le parole, ma
con tutti i mezzi che riuscirono a inventare - e così sarà sempre fino alla fine dei tempi.
E se un giorno accadesse che uno che ha talento di attore fosse anche architetto (come lo
furono Albergati nel 1480 e Ariosti nel 1530), costui potrebbe unire le sue due qualità nel creare il
Dramma in una maniera sua particolare - sì, anche rompendo le piccole tradizioni. È permesso.
E se fosse attore o pittore o scrittore, potrebbe anch’egli usare queste tre qualità per creare il
Dramma... e una quarta, se la possiede. Ma nessuno che non sia in primo luogo attore può sperare di
creare il Dramma.
Questo è ciò che intendo dire quando parlo del Maestro del Dramma come di un uomo di
teatro.
78
II disegno che vi do della Prima Scena è il migliore che son riuscito a trovare. Perché migliore? perché mostra le
mura del palcoscenico in pietra: è architettonico.
Naturalmente fra il palcoscenico greco e quello romano - che sono parti de1la Prima Scena - sussistevano delle
differenze, ma si trattava per lo più di differenze di elaborazione. Le cose essenziali erano le stesse: il luogo, il fatto che
il teatro era tutto di pietra, che era architettotico, che la “Scena” era congiunta alle altre due parti: “l’Orchestra” e
“l’Arena”.
Nel suo Saggio intorno al Teatro dei Greci, a proposito di questa scena, Robustiano Gironi dice:
“... La scena dei Greci era perfettamente simile a quella dei Romani”.
Può essere stata e può non essere stata "perfettamente” simile.
Nessuno potrebbe giurarlo - neppure il grande tedesco Dörpfeld - perché sembra che nessuno si sia imbattuto nella
vera Scena Greca in funzione.
Perciò io vi do questo disegno della scena Classica “par excellence”.
159
Anche altri possono scrivere commedie, e spesso perfino eccellenti, come lo sono She
Stoops to Conquer o On ne badine pas avec l’amour, ma sono commedie prive del tocco genuino
del Drammaturgo di razza pura79. Non sosterrei mai che un pittore o uno scrittore siano in grado di
essere dei veri Drammaturghi, usando i poteri che hanno sul Disegno e sulle Parole e questi
soltanto. Non l’ho mai affermato. E se mi hanno presentato come un propugnatore di tali idee, è
perché mi hanno sempre frainteso.
Ho udito perfino un grande commediografo dire pubblicamente che io sono un pittore... e
che i miei disegni sono tutto quello che mi interessa.
Ho fatto delle scene, perché ne vedo la necessità; ho del talento, per disegnare il Luogo o la
Scena in cui si deve svolgere il dramma.
Ma io sono stato e sono innanzitutto un attore: e so anche scrivere un po’. E non considero
tempo perso quello trascorso nel qualificarmi come maestro (anche se forse solo un piccolo
maestro) di Teatro - e così, forse, del Dramma. Ciò basti per scusarmi delle mie manchevolezze.
¶
9. E ora passeremo a considerare quali sono i compiti del Maestro del Dramma e del Teatro.
Oggi sono: innanzitutto, riconoscere che il Teatro come luogo di lavoro - con il
palcoscenico, le scene, gli attori e gli altri assistenti - è a dir poco una faccenda ingombrante,
disordinata e assai poco pratica, e poi (a mio parere) mettersi al lavoro per semplificarlo e per
rielaborarlo, ma sempre con la massima precauzione. Per semplificare una faccenda del genere è
necessario del tempo. Non lo si può fare in un mese - né in dieci mesi, e forse neppure in dieci anni.
E per semplificare il teatro bisogna prima che impariate a conoscerlo assai bene, in modo da
non buttar via una parte essenziale del meccanismo quando procedete all’eliminazione.
La semplificazione della scena è stato il lavoro a cui mi sono dedicato durante gli ultimi
venticinque anni.
E penso di aver fatto quel che mi ero proposto di fare80.
Rimane da vedere ora se mi resta il tempo di fare quel che avevo ancora in programma.
Dunque, ciò che ho semplificato non sono stati soltanto particolari scenici, effetti di luce,
pezzi di costume e commenti musicali.
Ho semplificato le possibilità del Dramma.
Nessuna scena a cui ho lavorato è stata strutturata come se fosse fine a se stessa. Ho tenuto
presente sempre e soltanto il movimento del Dramma... degli attori... dei passaggi drammatici...
quei lunghi, lenti movimenti e quei “raggi improvvisi” (Coleridge). Andando avanti, ho visto che le
cose possono, e quindi devono, recitare un proprio ruolo come le persone: che esse si accordano con
gli attori e offrono loro il destro di servirsene, come testimoniano le sedie nelle commedie di
Molière. Non sono soltanto tre o quattro sedie morte, poste al centro del palcoscenico. Tuttavia non
mancano scrittori che ci invitano a osservare la povertà del suo palcoscenico: soltanto tre sedie,
dicono. Son forse matti costoro? Non sanno come Molière le fece recitare, quanto esse siano vive, e
come lavorino insieme agli attori?
79
Le eccezioni non finiranno mai di confermare la regola e così abbiamo in Goldoni, Rossini e pochi altri, individui i
cui lavori teatrali sembrano fatti da attori.
80
Semplificare il palcoscenico: con questo non intendo la macchineria, la scenografia o le luci. Intendo l’intero
palcoscenico, dagli attori e dalle scene fino ai programmi e ai guardaroba. Questo è il palcoscenico: niente meno di
questo. Nessuna parte per me è più importante di un’altra. Ognuna, a tempo debito, dev’essere messa a posto per far
funzionare l’intero meccanismo.
E quando ho sistemato la scena - anche mettendoci qualche anno - devo ancora mostrarla agli attori e questi devono
imparare a usarla. Fatta per gli attori, essa desidera da loro un’uguale deferenza e simpatia. Gli attori non possono
essere “semplicemente lasciati liberi” nella mia scena... non più di quanto possono essere lasciati liberi di recitare i
versi come fossero prosa. Il lasciar libera una parte di questa macchina significa rovinarla. Non un solo ingranaggio
deve essere fuori posto... non un bullone deve mancare... non si deve perdere neanche un chiodo. E per vedere che tutto
sia in ordine e che resti in ordine prima dell’inizio e durante il lavoro, il maestro di questa nave drammatica deve
essero il solo comandante. Un giorno si arriverà a capirlo, per il momento non ancora.
160
Le sedie e le tavole nelle commedie moderne, di cui si lamenta la grande attrice italiana,
sono morte: ce ne possono essere sei o anche sedici di più, o sei di meno, tutto rimane come prima...
una scena morta... una maledizione per gli attori e per la recitazione.
Una stanza cosiddetta “autentica”: ecco quel che presentiamo sulla scena al giorno d’oggi...
autentica e tuttavia inesorabilmente morta, senza espressione, incapace di recitare.
Le sedie di Molière, le tavole, gli accessori d’ogni genere, erano pochi; egli aveva imparato
dall’Italia che dovevano essere pochi per essere ascoltati; e che ciascuno di loro doveva parlare al
momento giusto.
Anche gli accessori shakespeariani potevano parlare, sebbene Cromwell e i suoi puritani
abbiano deturpato il loro linguaggio e ci abbiano quasi snaturato l’intero dramma shakespeariano.
La tradizione, una volta perduta, non ha mai più riacquistato la sua forza originaria.
¶
Così dunque, la creazione di un palcoscenico più semplice è il primo dovere di un Maestro
del Dramma.
Ma non bisogna eliminare l’elettricità a causa dei suoi difetti, non bisogna ritornare alle
candele di sego; non bisogna ritornare alle maschere; non bisogna evitare niente; non bisogna
ritornare a niente: bisogna fare così:
Bisogna passare in rivista tutte le cose del teatro conosciute o note un tempo, che possono
essere utili in palcoscenico... provarle in privato, buttar via quelle che sembrane vuote e inutili, e
trattenere tutte quelle che superano la prova.
Che prova? - La prova se sono capaci o no di esprimere. Questo e nulla più. Dobbiamo
chiederci:
Una candela di cera serve a esprimere il sorgere del sole? Se sì, allora usatela. Non serve?
Buttatela via. Ma provatela prima, non scartate nulla finché non l’avete provato. Una maschera
serve a esprimere questa o quella emozione umana? Se serve, usatela, se no, gettatela via. Il canto
fermo serve a qualche scopo? Se sì, a quale scopo? ha un valore? Allora serbatelo: in caso contrario
buttatelo via.
Questo o quel tipo di gestire serve? conservatelo o tralasciatelo. Si può insegnare agli attori?
fino a che punto? Quale palcoscenico è adatto per una commedia di un certo tipo, qual è il migliore,
qual è il meno buono? Scegliete il migliore. Non esiste? Costruitelo. Qualunque sia la risposta,
regolatevi in conseguenza. Queste e cento altre cognizioni, speranze, timori, vanno tutti esaminati
per semplificare quel meccanismo che ha nome Teatro81. Tutto ciò sarà assai caro - immaginate
forse voi. Non si può fare affidamento sulle fantasticherie, i fatti son più sicuri, e i fatti mostrano
che evitare di provare ogni cosa è il metodo più caro.
¶
Ma ora riflettete: supponete che una maschera vada bene in un dramma e non in un altro.
Vada bene in una commedia di Shaw e non in una tragedia di Sofocle; stupendamente bene in una
nuova forma di dramma e abbastanza bene in Ibsen.
81
Ma quel che io chiedo e quel che l’arte chiede e quel che il Popolo della Nazione che paga per i Teatri ha il diritto di
chiedere è che il maestro della scena sia la sola voce in capitolo... e che le decisioni su cosa si debba fare non siano
prese da un certo numero di guardiani casuali del palcoscenico, ma soltanto dal maestro... sicuro, neanche dalla
maestra.
Vi sfido a creare un lavoro d’arte in teatro quando non vi sia una sola mente e una sola voce a comandare.
La mia è la vecchia idea, non mia soltanto. Se voi avete 100 lavoratori sotto di voi, o se ne avete 1000, teneteli
sempre occupati. Date loro agio di scoprire il lavoro che ciascuno può far meglio, e assegnateglielo. È l’unico che gli
possa far piacere. Chi lavora oggi nei teatri non sempre fa ciò che gli piace. Egli ama il teatro - di questo siamo sicuri ma non sempre ama il suo lavoro. Quando io avrò un teatro, intendo scoprire se l’attore sia bravo in qualche altra cosa
oltre che nella recitazione e, se c’è qualcosa in cui riesce meglio e che gli piaccia, sarà esonerato dalla recitazione e si
metterà a fare ciò che lo interessa. Così potrà diventare un gran nome mentre prima (come attore) poteva solo diventare
un fallito. Quando avrò un teatro non intendo entrarci armato con un piano meccanicamente prestabilito. Il teatro è
come un giardino - le cose vi debbono crescere in accordo con le leggi della natura aiutate dalla modesta abilità dei
giardinieri.
161
Vi chiedo solo di supporlo.
Bene: dobbiamo allora respingere e accettare insieme la Maschera; e questa scoperta ci
mostra che non c’è niente che si possa respingere del tutto. Dobbiamo accettare tutto, ma non
accettarlo indiscriminatamente. Così ci rendiamo conto inoltre che non esiste un’accettazione o una
negazione completa a cui bisogna aderire, ma un ordine, uno sviluppo, una crescita. Il nostro
Teatro, ripeto, è come un organismo che si sviluppa.
Bisogna soltanto far ordine una volta di più nelle nostre scene, mettere insieme tutte le sei
parti del rompicapo che sono state confuse in un modo o nell’altro in una scatola, e dopo possiamo
dire di essere pronti a servire il Pubblico.
Ebbene, se avete pratica di organizzazione saprete che non la si può attuare in fretta (a meno
che non siate un riformatore), e che non la si può portare a termine sulla carta con penna e calamaio
benché questo possa essere un modo per cominciare. Io l’ho iniziata venticinque anni or sono. Ciò
che ho cominciato può essere completato soltanto sotto la mia direzione, in scuole che si dedichino
all’esame di tutto questo materiale, da uomini che si interessino e che siano pratici dei diversi rami
dell’Arte Drammatica di tutto il mondo.
Questo lavoro non può essere cominciato da un uomo, per poi essere ripreso e tradotto in
pratica da un altro senza che perda tutto il suo valore essenziale. Non si può fare così. Lo sviluppo
di un’idea o di un piano, per avere un valore, deve venir completato sotto la supervisione
dell’ideatore. Ma sembra che questo principio non sia sufficientemente chiaro, a tutt’oggi.
¶
Il Maestro del Teatro e del Dramma, dopo aver semplificato il suo progetto, deve ora
decidere quale via seguire per consegnare la merce alla gente.
Ci sono due vie: la vecchia e la nuova.
La più vecchia (spero ancora che sia la più giovane) è di mettere ogni scoperta al servizio di
un Sovrano82 o più Sovrani. (Patrono era il vecchio e rispettato titolo).
Il Sovrano o i Sovrani si accorgeranno che tali scoperte offerte al popolo infine vanno anche
a vantaggio loro. Uomini del genere sono esistiti, ma non molto frequentemente. Più spesso invece
sono di ostacolo per il Maestro teatrale e gli impongono il loro pesante e sciocco egoismo. È fatale,
perché il teatro costa troppo. Allora si apre un’altra strada, che consiste nel semplice affare.
E - spiacente doverlo ammettere - mi sembra che sia la migliore.
Non è detto che gli affari corrompano l’arte; non hanno nessun diritto di cambiarla, non è
compito dell’uomo d’affari cambiare l’arte: è compito dell’artista. Se chiarisce con fermezza la sua
posizione fin dall’inizio, e se rifiuta condizioni nocive per l’arte, gli uomini d’affari assennati
comprenderanno e consentiranno.
Ma se così non fosse, non per questo l’artista deve corrompere la propria arte: può infatti
diventare lui stesso uomo d’affari, dopo aver finito il suo lavoro d’artista.
Così il Maestro di Arte Teatrale ha una chiara visione del compito che l’aspetta dopo:
portare il teatro al popolo senza alcun aiuto. Vi sono dei modi di fare ciò che ci appaiono chiari solo
dopo che abbiamo affermato il nostro diritto a riconoscerci primi nel nostro campo.
Essere primi in questo campo a possedere i Beni significa essere maestri della Scena.
¶
10. Fin qui le nostre ricerche sullo sviluppo della Scena ci hanno fatto vedere che ci sono
stati quattro periodi distinti... Ora ci indicano il quinto periodo.
E che periodo.
È questo un periodo di internazionalismo: ogni tipo di scena è “sul mercato”.
Dobbiamo accettarlo, semplificarlo, come ho detto.
Sarebbe inutile andare in giro per gli otto o novecento teatri esistenti per richiedere ai
direttori delle riforme.
82
Mussolini si è recato a far visita a Eleonora Duse per discutere con lei la maniera migliore per ottenere che il teatro
italiano rappresenti la vita spirituale della nazione. “Daily journal”, 4 dicembre 1922.
162
Io non sono mai stato un riformatore, ma molti direttori lo sono. Alcuni sono giustamente
famosi per le loro riforme: Stanislawskij, Reinhardt, Rouché, Copeau, Barker, Gessner, Antoine,
Scandiani, e altri prima di loro... Irving, il Duca di Meiningen, Barnay, Talma, e un’altra dozzina.
Sono stati tutti dei riformatori.
Ma tutto ciò concerne il loro credito personale come direttori: non potrà mai essere versato
sul loro conto di artisti. La questione riguarda i fini che ciascuno ha; al più, rivela le singole
capacità di afferrare al volo le cose.
Gli artisti che hanno istinto creativo non riformano mai le cose... le creano. Le riforme
sembrano loro una perdita di tempo. Perché perdere un’ora a dipanare una matassa di stringhe
quando in cinque minuti l’artista può farne una nuova balla?
E ora, col vostro permesso, voglio giungere alla quinta scena: la scena creata da me83.
¶
La scena di cui vi parlerò non è quella che appare nei disegni riprodotti in questo libro*, ma
è scaturita da essi.
Poiché questo libro non sarà pubblicato in una edizione popolare, e quindi andrà in mano
solo a coloro che conoscono altri miei libri e hanno avuto il tempo di studiarli, non tenterò di
spiegare questi disegni più di quanto chiedereste a un musicista di spiegare una “fuga” da lui
composta. Li ho fatti nel 1907 mentre scrivevo il mio libro L’Arte del Teatro, quel libro che
contiene il saggio “L’attore e la Supermarionetta” e “Gli artisti del Teatro dell’Avvenire”.
A questo posso aggiungere che questi disegni Sono UNA scena, non venti scene: una scena.
Non vi sono palcoscenici fatti di tela e legno e illuminati artificialmente da lampade e riflettori.
Sono illuminati dal sole. Sono reali, non artificiali.
¶
Se avessero ritenuto che valeva la pena di venirmi in aiuto fra il 1900 e il 1904, quando
allestivo i miei primi lavori scenici a Londra - diressi, disegnai e provai cinque complete messe in
scena per Londra - ora avrei realizzato praticamente le scene che qui appaiono nei disegni. Sono
veramente addolorato di potervi offrire così poco quando desideravo proprio offrirvi tanto... tutto.
Non è colpa di nessuno, se non mia e vostra. Mia, che non sono nato russo o spagnolo, vostra che
avete imparato ad abbandonare i vostri artisti. Non ci si può far niente, tutto è immutabile e tutto è
giusto così com’è; dovunque, in Europa e in America, l’insegnamento di trascurare i beni propri è
inculcato nel genere umano. Qualche altro ne spiegherà il perché. Gli italiani un giorno impararono
a non sostenere il loro Marconi; noi in Inghilterra fummo i primi ad aiutarlo. Darwin portò agli
inglesi una semplicissima scoperta - che avanza come semplice ipotesi - e immediatamente tutti
impararono a farla a pezzi con i denti e con le unghie. Giunge Wagner con le mani colme di cose
meravigliose ed è respinto dalla Germania. Nietzsche in Germania aprì la bocca profetica: e di
colpo un pugno di ferro gli chiuse la strozza. Respingere Byron e accettare Wordsworth-Southey è
costato molto alla nostra nazione. In cifre tonde è costato quasi una corona. Perseguitare Voltaire e
vezzeggiare Beaumarchais è costato più di un franco - più di ottanta milioni - e costato la vita
dell’ancien régime. Respingere all’ingrosso il genuino e accettare il falso senza alcuna
discriminazione, come si fa al giorno d’oggi, è un’imprudenza.
L’errore è di andare da un estremo all’altro, anche per quanto riguarda ciò che è genuino;
perché il fardello finisce poi per ricadere sulla nazione e chi ci rimette è il popolo. Sarebbe meglio
prendere delle vie di mezzo.
¶
Insomma, vi avrei dato la cosa in se stessa, nella sua realtà, non la sua immagine soltanto, se
solo fossi stato utilizzato dopo aver mostrato cos’ero capace di fare. Eppure, a dispetto di tanta
83
Ho costruito questa scena (che è stata detta “Le Mille scene in Una”) per il mio teatro.
Non sono, ahimé, un fornitore di scenari per altra gente.
Non lo sono proprio.
*
Parzialmente riprodotti nelle tavole 21-26.
163
indifferenza sono stato in grado di portare il lavoro un passo avanti verso la realtà, portandolo un
passo indietro.
Così. Queste acqueforti le possiamo chiamare il lavoro-genitrice da cui è nato un altro
lavoro. Più piccolo, con minori ambizioni, minori pretese, eppure somigliante in un certo modo alla
sua genitrice.
È nato come prodotto secondario dei venti disegni.
Questa scena minore, “Le Mille scene in Una”, l’ho adoperata una volta in un teatro a
Mosca per rappresentare l’Amleto84, ed è stata utilizzata da W. B. Yeats, al quale sono stato
orgoglioso di offrirla, per alcuni spettacoli nel suo vecchio Abbey Theatre.
Ma, sebbene in totale sia stata adoperata per cinquecento spettacoli circa, suppongo non è
mai stata adoperata secondo i miei desideri, tranne che per due grandi palcoscenici-modello che ho
costruito a Firenze.
Su questi palcoscenici le ho dato modo di vivere, e si è comportata bene. A Mosca o a
Dublino invece non è stata davvero libera di essere se stessa, e non posso credere che sia andata
bene.
Questa scena infatti ha una propria vita... non una vita che in qualche modo vada contro alla
vita del Dramma. L’ho creata proprio perché serva il Dramma, e così fa: serve l’intero Dramma
poetico, e forse un giorno scoprirò che può persino rendersi più utile.
La chiamo la quinta scena perché va incontro alle esigenze dello spirito moderno: lo spirito
dell’incessante mutamento. Gli scenari che abbiamo usato in teatro per secoli erano soltanto i
vecchi statici scenari fatti per essere cambiati. Tutt’altra cosa quindi da una scena che per sua natura
sia mobile.
Tale scena ha inoltre un volto (io lo chiamo così), un volto espressivo. La sua superficie
riceve la luce, e, a seconda che la luce cambi posizione, compia altri mutamenti, e la scena stessa
vari le sue posizioni - la luce e la scena si muovono di concerto come in un duetto, ed eseguono
delle figurazioni come in una danza - il suo volto esprime ogni emozione che io desidero farle
esprimere. Sempre conscia che, come sfondo al dramma, o alla recitazione, deve svolgere il proprio
ruolo in modo discreto, mentre di tanto in tanto può farsi avanti e recitare una parte più importante
(spero di essere artista quanto basta per capire quand’è il momento).
Basta così.
Spero che non sia troppo poco o troppo.
¶
11. Non è necessario abbassare il sipario durante lo spettacolo per passare dalla prima scena
alla seconda, poi alla terza fino a raggiungere la sedicesima.
La scena si regge da sola, ed è monocroma. Il colore è dato esclusivamente dalla luce; a
volte ho ottenuto tanti di quei colori che nessuna tavolozza potrà mai produrre. Potrei dire di non
aver mai visto ottenere in nessuna scena di nessun teatro colori così ricchi...
Mi soffermo su questo punto perché i diciannove disegni in bianco e nero della
scena-genitrice di questo libro possono indurvi a supporre che io inizi e finisca col bianco, col
grigio e col nero.
84
Shakespeare e i Drammi più poetici, per essere recitati, hanno il massimo bisogno di una scena di natura particolare...
una scena con il volto mobile.
A ben pensarci, Shakespeare non ha ancora avuto una scena speciale per le sue opere.
Ho tentato di farne una: una scena per il Dramma poetico, di qualunque argomento esso tratti.
Spesso si è detto e si continuerà ancora a dire che Shakespeare creava le sue scene da solo, adoperando le parole per
evocare dinanzi alla nostra immaginazione delle scene.
Ma se è così, egli usa le parole anche per evocare dinanzi a noi i personaggi, i loro costumi e tutto il resto.
Dobbiamo dunque rifiutare di rendere visibile tutto?
Dobbiamo serbare Shakespeare per leggerlo in silenzio a casa? Se è così allora egli non è più adatto per le scene e
tutto è a posto. Ma se viene rappresentato da attori, non soltanto a parole, in costumi veri che indichino un certo periodo
- allora lasciateci circondarli di una scena che suggerisca il luogo. O soltanto parole, o tutto dev’esser reso visibile.
Questa è l’unica conclusione logica del problema.
164
¶
Riprendiamo il discorso, questa è la quinta scena, una scena di forma e colore, priva di
pittura e di disegni, una scena semplificata a cui è aggiunta la mobilità.
E ora una parola sulla parola “semplificata”... Lasciatemi spiegare cosa intendo esattamente.
Una volta il mondo adoperava penne di canna, poi penne d’oca, infine penne di ferro.
Queste ultime le intinsero in boccette d’inchiostro. Bisognava intingere più volte la penna
nell’inchiostro per poter scrivere una pagina intera.
Qualcuno allora inventò la penna stilografica. Ora si può scrivere una lettera intera senza
mai intingere la penna.
Il mondo inventò allora la macchina da scrivere.
Vorrei paragonare la mia scena alla penna stilografica e non alla macchina da scrivere.
Non è una rotella di un meccanismo; è un semplice congegno dalla forma di schermo,
angolare, piano.
Perché questa forma? perché schermi o pannelli o muri uniformi, lisci?
Ve lo dirò. Immaginate che davanti a voi io faccia rapidamente quel che ho messo tanti
lunghi anni a fare. Immaginatemi dunque alla ricerca della forma essenziale dell’abitazione umana,
così da poter costruire poi l’abitazione-palcoscenico per l’uomo del palcoscenico.
Eseguo rapidamente 250 modelli delle sue varie abitazioni su tutta la terra. Ne faccio due
come quelle che usava nel 5000 a. C., tre nel 2000 a. C., cinque nel 500 a. C., dieci nel 100 a. C.,
venti nel 100 d. C., trenta nel 1000 d. C., sessanta nel 1500 d. C., cinquanta nel 1700 d. C., settanta
nel 1900 d. C.
Le metto in fila, le studio.
Il mio scopo è di gettar via ogni parte di ogni abitazione che non si trovi in tutte le altre.
Perché?
Per scoprire le parti che dall’anno uno tutti gli uomini hanno considerato essenziali.
Perché?
Per costruire una scena.
Perché?
Perché il costruire scene è un’attività artistica e non un fabbricar giocattoli.
Non voglio la confusione di un asilo infantile nel mio teatro.
Non voglio perdere ogni anno migliaia di sterline nel solito bric-à-brac del teatro moderno.
È una perdita di denaro, di legno, di tela, e io non voglio disperdere le forze e la
caratteristica dello spettatore in quanto spettatore e le capacità dell’artista in quanto artista. L’artista
deve parlare agli spettatori attraverso la scena, non deve ostentare di fronte al pubblico una grande
casa di bambole.
Dopo aver eliminato in duecentocinquanta modelli ogni particolare che non si ritrova in tutti
gli altri, adesso ha solo le parti essenziali che formano l’abitazione dell’uomo. Rimangono le pareti.
Il pavimento.
II soffitto... e nient’altro.
E che forma hanno?
Ci sono colonne sopra o vicino? protuberanze? nel soffitto, per esempio? qualche cornice,
qualche bordo? ci sono porte, finestre, rialzi, e così via? No. Perché non ne ho trovati in tutti i
modelli... Ho trovato che le uniche cose presenti in tutte le abitazioni umane sono un pavimento
piano, mura piane, un soffitto piano.
Il soffitto piano è l’unica parte dell’abitazione umana che ha cominciato subito a cambiare.
¶
Ora capite dunque com’è che i miei schermi, la mia SCENA, è composta di pareti piane,
uniformi. Desideravo ridurre la scena alle sue parti essenziali e ho visto che si è ridotta da sola. Ho
fatto solo quello che la scena stessa richiedeva.
Fu allora che vi aggiunsi la mobilità.
Perché?
165
In primo luogo perché la richiedeva, in secondo luogo perché continuava a richiederla. La
richiedeva a favore dell’attore. La mobilità gli permette di muoversi in scene di forme diverse, ogni
sera, fin quando vuole. Supponete che non si senta a suo agio in questa forma, può cambiarla e
ricambiarla. Come se avesse cento paia di guanti: può trovare con facilità un paio adatto e che gli
piaccia.
Essendo un congegno e non un’abitazione reale, la scena richiedeva che la facessi in modo da
sembrare ora l’interno ora l’esterno di ogni abitazione conosciuta al mondo: capanna di fango o
tempio, Palais de Versailles o bottega di Mr. Harrod.
Può essere questi quattro luoghi diversi?
Può sembrare simile a tutti e quattro... può sembrare simile ad altri quattrocento; ha anzi una
grande rassomiglianza con quattrocento luoghi.
Non voglio dire con questo che ogni volta vi mostrerò la carta da parati dell’ufficio di Mr.
Harrod... o gli ori del Palais de Versailles, o i marmi del tempio o il fango della capanna... No; vi
darò la forma di questi quattro luoghi, la luce tipica di ognuno di essi e tre o quattro particolari - qui
una porta in più, un paravento e lì un’alcova - che vi faranno credere di vedere quel che desidero
farvi vedere.
E se non vediamo quel che tu vuoi? mi chiederete.
Ci saranno trenta su ottanta che non vedranno come gli altri cinquanta: non posso farci
niente... è sempre stato così.
Diverse persone, vedendo Irving nella parte di Mathias in The Bells o Coquelin nella parte
di Jourdain, vedono Mathias e Jourdain.
Poche altre vedono soltanto Coquelin e Irving. Ma se, da vero amatore, andate a teatro per
vedere ciò che vogliamo mostrarvi, vedrete se siamo o no bravi operai del Teatro.
Cosa fa questo strano congegno?
Come funziona?
Così: si muove in parte o completamente per ricevere il gioco della luce85.
In queste parole è sintetizzato tutto.
È tutta una faccenda di luce?
Cerchiamo di non essere così frettolosi con il solito “è tutta una faccenda di...”. Temo di non
poter dire che tutto è una faccenda di un qualche cosa.
La semplicità e la perfezione non si raggiungono con un procedimento più rapido di quello
con cui un corridore o un nuotatore perfetto raggiungono la semplicità e la perfezione necessaria
per superare gli altri... e per il corridore e il nuotatore non è tutta una faccenda di questo o di
quello... al contrario, si tratta di badare a cento cose nello stesso tempo.
¶
Andiamo avanti. Nel creare una scena per un Dramma degno di essere visto e ascoltato, non
dobbiamo mai dimenticare che cosa richiedono gli spettatori.
Una delle prime esigenze del pubblico è di vedere e udire l’attore che recita, e di vederne
specialmente il volto (o la maschera), le mani e la persona.
Perciò ogni teoria che tenti di stabilire l’uso della luce in relazione alla scena, senza stabilire
il rapporto luce-recitazione, è priva di valore86.
A questo punto ci sono dei princìpi generali che sarà utile ricordare.
***
85
Non ha nulla a che vedere con la pittura: quel che sui vecchi scenari è dipinto, io lo dipingo con la luce: senza
servirmi affatto di colori.
86
Poiché l’attore e la scena sono una cosa sola, di fronte a noi debbono apparire come una sola cosa, altrimenti vedendo
due cose che si sovrappongono non apprezzeremmo più né l’una né l’altra. Il loro valore consiste nell’essere un tutto
unico.
Essendo un tutto unico, il Dramma, l’Attore, la Scena, debbono essere visti e uditi come un tutto unico, altrimenti
guarderemo ora l’uno ora l’altro rovinando il tutto.
166
1. Potete vedere un volto, una mano, un vaso, una statua, meglio su uno sfondo piatto e
incolore che su uno sfondo su cui sia dipinto o scolpito un modello colorato o qualche altro oggetto.
***
2. L’ombra di una cosa (volto, mano, o statua) è visibile senza difficoltà e senza che ci si
distragga, pur essendo visibile come la cosa stessa.
***
3. Quando il volto, la mano, o la statua vengono rimossi, uno schermo piano è una cosa
inerte da guardare. L’occhio si stanca.
***
4. L’occhio non può guardare due oggetti nello stesso istante. Quando ascoltiamo uno che
parla, sia esso in una stanza o in una sala o in un teatro, vediamo una cosa sola: il suo volto.
***
5. A teatro i nostri occhi seguono colui che parla; perciò quando sono in due a parlare, di
solito è bene che siano il più vicino possibile l’uno all’altro.
***
6. È essenziale che vadano d’accordo nel loro lavoro. Ogni frattura verrebbe
immediatamente avvertita, e non guarderemmo più nessuno dei due attori: i nostri pensieri
vagherebbero sullo scenario.
***
7. Lo schermo su cui un attore è meglio visibile è quello bianco, perché lo si può scurire fino
a qualsiasi tono di grigio, lo si può colorare di tutti i colori, fino al nero; e senza variare il colore del
volto, delle mani o della figura dell’attore.
***
8. Il volto dell’attore non ha alcun bisogno di essere relegato nell’ombra e di diminuire le
sue capacità espressive fino a renderle quasi nulle... Tanto varrebbe allora eliminarle del tutto.
***
9. Fino al giorno in cui l’attore non perse la capacità di esprimersi e di recitare e non
cominciò a disprezzare il buon uso della scena e della luce, non c’era mai stato bisogno di dare allo
scenario un’eccessiva preponderanza.
***
167
10. L’uso della luce è fatto per aiutare l’attore e collaborare con lui, se egli vuol prenderlo in
considerazione. Perché la luce può essere usata in molti modi drammatici, spetta all’attore arrivare a
conoscerne una cinquantina e più al giorno. Al giorno d’oggi egli ne conosce sei all’incirca.
***
11. L’uso della luce per l’attore va studiato solo dall’attore stesso, che osserverà come la
luce recita la sua difficile parte nella realtà della vita. Se l’osserverà, si renderà conto che
l’illuminazione scenica può essere il miglior amico sul lavoro. Come ausilio alle sue osservazioni il
trattato sulla luce di Leonardo da Vinci può aiutare un attore che sia già avanti con gli studi.
***
¶
Definito un certo uso della luce nei rapporti con l’attore, passiamo a definire i rapporti di luce
e scena.
La scena si muove per ricevere il gioco della luce.
La scena e la luce, come ho detto, sono simili a due danzatori o a due cantanti in perfetto
accordo tra loro.
La scena offre la forma più semplice che si possa ottenere con angoli e pareti piane e la luce
scorre ovunque.
Non bisogna semplicemente montare la scena sul palcoscenico (sebbene essa si regga
comunque da sola), senza pensare come debba essere disposta e non bisogna illuminarla senza
prima pensare quale luce darle, e da dove farla venire, e che compito darle.
La difficoltà consiste nel piazzare la scena, nell’eseguire i movimenti perché riceva la luce,
nel piazzare e nel dirigere la luce.
D’altra parte, il rapporto della luce con questa scena è molto simile a quello dell’archetto col
violino, o della penna con la carta.
Perché la luce si muove sopra la scena; non sta sempre ferma in un punto fisso...
muovendosi produce una musica visiva. Durante l’intero svolgersi del Dramma la luce ora
accarezza ora colpisce, diluvia o goccia, non è mai immobile, anche se spesso i suoi movimenti non
sono individuabili fino alla fine dell’atto, quando ci accorgiamo che la luce è totalmente cambiata.
Dunque la scena e la luce si muovono.
Nella mia scena posso disporre di tanti pannelli e di tante lampade quante voglio.
Per il momento immaginiamo una scena con cinque pannelli e dieci lampade.
Dopo averne provate un certo numero sul palcoscenico-modello nella mia stanza mi reco al
mio teatro che ha schermi più grandi e tutte le lampade. Dispongo gli schermi nella prima
posizione. Passo quindi al vaglio ogni schermo, per meglio dire, saranno otto o dieci manipolatori
di schermi a provarli per vedere se sono snodabili e se ogni pannello è in perfetto stato. Fatto questo
mi reco di persona alla cabina elettrica per provare ogni interruttore, ogni lampada, la forza della
luce, la scorrevolezza delle pulegge, delle ruote, delle scanalature ecc...
Quando mi sono ben assicurato che schermi e lampade sono perfettamente a posto, comincio
le prove.
Il testo viene letto allo stesso ritmo in cui sarà recitato e a ogni parola prestabilita si muove
un elemento semplice o doppio delle schermo; contemporaneamente una delle lampade comincerà a
far luce a una intensità data, da una certa posizione, in una direzione prestabilita.
A ogni parola uno o più elementi si muovono, avanzano, retrocedono, si ripiegano o si
spiegano, impercettibilmente, o, a volte, in modo più marcato, mentre contemporaneamente altre
lampade cominceranno a funzionare, a cambiare posizione, intensità, direzione87.
87
Posso insegnarvi quest’arte, ma non in fretta, poiché io ho speso degli anni per arrivarci.
168
I miei schermi possono passare da un punto all’altro del palcoscenico e niente ostacola il
loro passaggio.
La luce può passare da una posizione all’altra in aria o sul palcoscenico e posarsi su
qualsiasi punto io voglia.
Come si possano realizzare queste due semplici cose ve lo mostrerò, con diagrammi ben
chiari, l’anno dopo che li avrò in esecuzione in diverse commedie88.
Mi dispiace moltissimo non poterveli mostrare qui, ora... ma se lo facessi il mio sistema
d’illuminazione col suo semplice congegno sarebbe immediatamente captato da qualche
sempre-vigile direttore di teatro o da un suo assistente, che ve lo presenterebbe rimanipolato in una
forma ben accetta ai baggiani di cui parla Shakespeare, ma che certamente non potrebbe piacere a
voi.
Questo è uno degli accorgimenti che adopererò per farvi un favore fino a quando non
potremo avere un teatro in cui voi verrete come spettatori e io lavorerò “al vostro servizio” come
artista.
Basti aggiungere che posso illuminare il volto, le mani e la persona di un dato attore, in
qualsiasi parte del palcoscenico egli sia, senza illuminare la scena, e che posso dipingere con la luce
ogni punto della scena senza mettere da parte l’attore neppure per un attimo.
E questo non avrei potuto affermarlo otto anni fa.
Ve lo posso dire ora perché è negli ultimi quattro anni che ho scoperto come ottenerlo.
Quanto all’altro problema, se sia desiderabile e necessario illuminare sempre con la stessa
intensità di luce l’attore a ogni momento della rappresentazione, credo sia uno di quei problemi che
oggi si possono risolvere solo insieme con l’attore... nessuno è più ragionevole di lui quando il
teatro funziona e tutto va liscio.
¶
Una piccola aggiunta ancora e ho finito.
Posso colorare i miei schermi o la figura dell’attore con lo stesso grado di luminosità e con
la stessa intensità e qualità di luce che un pittore adopera per i suoi quadri. Io uso soltanto la luce...
lui usa i pennelli.
Io sono limitato dal mio mezzo come lui dal suo; tutti e due dobbiamo obbedire agli strumenti
e ai materiali che adoperiamo. Lui non può fare altro che dipingere coi colori su di una superficie
liscia. Io non posso far altro che proiettare la luce sui miei schermi e sulle figure.
La differenza è che mentre lui si è trovato la materia e gli strumenti già belli e scoperti e ha
avuto un metodo tradizionale come maestro, io ho dovuto cercarmi la materia e gli strumenti adatti
e sono stato costretto a inventare un sistema per utilizzarli.
Perciò se non ho ancora un sistema perfetto come il suo nell’adoperare i miei strumenti, e se
non riuscirò a raggiungerlo prima di esser costretto a smettere il lavoro, altri a cui affiderò i miei
progetti e i miei esperimenti devono proseguire dopo di me la mia opera e scoprire metodi migliori,
se ne saranno capaci.
È per questa ragione fondamentale, per salvare, per non disperdere le mie scoperte, che
spero con tutto il cuore di avere un laboratorio e degli assistenti che possano portare avanti il lavoro
dopo la mia morte. A nessun altro affiderò quel che spero di non essere stato troppo presuntuoso nel
considerare non privo di valore.
88
Dovrete imparare la natura di questa scena... il modo in cui si può muovere e il modo in cui non può, le sue
possibilità, le sue limitazioni. Dovrete apprendere la posizione migliore per la luce solare o elettrica; i mezzi migliori
per far recitare la luce sulla scena, colorandola, controllandola.
Ecco quel che posso insegnarvi, perché è ciò che ho sperimentato giorno per giorno, per impararlo io stesso.
Dopo che sarà accettata questa piccola scena di schermi con il suo piccolo sistema di illuminazione, mi metterò a
sviluppare questa scena più grande che vi ho mostrato nelle acqueforti. È un’impresa molto più difficile, ma chiedere di
vederla attuata quando la versione più piccola di qualcosa di simile attende ancora di esser realizzata nel teatro inglese e in un teatro mio - è guardare un po’ troppo lontano.
169
Quanto ho scritto rimane a testimoniare che ho reso pubblico il mio bisogno di aiuto e di
mezzi per salvare le mie scoperte per quelli che verranno dopo di me.
O forse servirà a testimoniare il contrario.
Gordon Craig
1922
170
Indice
Pagina
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Introduzione
L’itinerario di Gordon Craig
L’Arte del Teatro
Gli artisti del teatro dell’avvenire
L’attore. - Il direttore di scena. - La scena e il movimento. L’avvenire - una speranza
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L’Attore e la Supermarionetta
Di alcune cattive tendenze del teatro moderno
Testi e autori drammatici, dipinti e pittori nel teatro
Il teatro in Russia, in Germania e in Inghilterra. Due lettere a John Semar.
I. Il teatro in Germania e in Inghilterra. - II. Il teatro in Russia e in Inghilterra
000 L’Arte del Teatro
Primo dialogo fra un uomo del mestiere - il regista, e un frequentatore di teatro - lo
spettatore
000 L’Arte del Teatro
Secondo dialogo fra un frequentatore di teatro e un regista
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Gli spettri nelle tragedie di Shakespeare
1 drammi di Shakespeare
Il Realismo e l’attore
I teatri all’aperto
Il simbolismo
Lo squisito e il prezioso
Per un nuovo teatro
Scena
171