Istituto MEME: Cosa vuol dire emozione? Musicoterapia nell

UNIVERSITE EUROPEENNE JEAN MONNET
ASSOCIATION INTERNATIONALE SANS BUT LUCRATIF
BRUXELLES - BELGIQUE
THESE FINALE EN
MUSICOTHÈRAPIE
COSA VUOL DIRE EMOZIONE?
Musicoterapia nell’educazione alle emozioni
Relatore Dott.ssa Roberta Frison
Bruxelles, Ottobre 2010
Silvia Cavatorta
Matr. 2406
ISTITUTO MEME S.R.L. MODENA - ASSOCIATO UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
SILVIA CAVATORTA – SST IN MUSICOTERAPIA – TERZO ANNO - A.A. 2009 - 2010
Indice dei Contenuti
Introduzione
3
1. Musicoterapia e Scuola
4
2. C’era una volta la Musicoterapia…
9
3. Cosa vuol dire Emozione?
17
3.1. I modelli di riferimento
25
3.2. Setting
30
3.3. Gli strumenti tecnici
33
3.3.1 Il Corpo
33
3.3.2. La Voce
36
3.3.3. Gli Strumenti Musicali
41
3.4. Le Tecniche
46
3.5. Tempi
48
3.6. Diario delle attività
48
3.6.1. La gioia
50
3.6.2. La tristezza
53
3.6.3. La paura
60
3.6.4. La rabbia
65
3.6.5. Incontri dedicati ai genitori
71
3.6.6. Il telo dell’amicizia
74
3.6.7. Un concerto per la nuvola Olga
76
3.7. In conclusione
80
Coda
82
Bibliografia
83
Sitografia
84
2
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SILVIA CAVATORTA – SST IN MUSICOTERAPIA – TERZO ANNO - A.A. 2009 - 2010
Introduzione
"Emozione: movimento straordinario che agita il corpo e lo spirito, e che ne turba il temperamento
o l'equilibrio. La febbre comincia e finisce con un piccolo turbamento del polso. Quando si compie
uno sforzo violento, si prova emozione in tutto il corpo. Un amante prova emozione alla vista
dell'amata, un codardo alla vista del proprio nemico."
Al giorno d'oggi, forse, tale definizione fa sorridere ma il sorriso è presto destinato a trasformarsi
in stupore quando, come evidenziano Christophe André e François Le lord nel testo "La forza delle
emozioni" (2001), ci si rende conto che in essa sono presenti le caratteristiche essenziali in base
alle quali la moderna scienza definisce un'emozione:
Un'emozione è un movimento, cioè un cambiamento rispetto ad uno stato di immobilità iniziale.
Un'emozione comprende dei fenomeni fisici "in tutto il corpo" (componente fisiologica delle
emozioni).
L'emozione agita lo spirito, ci fa pensare in maniera differente (componente cognitiva
dell'emozione).
L'emozione è una reazione ad un avvenimento.
(…) Infine, anche se dalla definizione lo si può solamente supporre, l'emozione ci prepara e spesso
ci spinge all'azione (componente comportamentale dell'emozione)”.1
Gli elementi citati in questa definizione possono far intuire quanto una corretta educazione alle
emozioni possa essere utile ai bambini in età prescolare che sono, per definizione, esseri fisici in
movimento e “spiriti in agitazione” reattivi a ogni tipo di evento.
I bambini di questa età sono infatti perfette immagini “in 3D” delle emozioni: come loro sono forti,
vitali, fisici, alle volte faticosi, spossanti, struggenti o travolgenti.
Ma data la giovane età e la conseguente scarsità di esperienze di vita maturate, sono anche quelli
che più faticano a gestire una vita emotiva, soprattutto considerando le vite emotive sempre più
difficoltose ed “adulte” che sempre più spesso i nostri bambini sono costretti a vivere e alle volte
purtroppo a subire.
Il progetto nasce con questo primo intento: “instradare” i bambini, con l’aiuto, l’appoggio e il
fondamentale contributo dei loro genitori e delle loro maestre, nel viaggio verso il capirsi e il capire,
verso il leggersi e il saper leggere e verso la grande libertà di concedersi di vivere appieno e in
modo cosciente tutte le emozioni che la vita avrà la fantasia di regalare loro.
1
Le emozioni nascoste, da Unità di apprendimento, Circolo Didattico di Leno - Provincia di Brescia,
217.57.226.155/riforma/.../psp-ua/udainfanzia-le%20emozioni.doc, aprile 2010.
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1. Musicoterapia e Scuola
Prima di affrontare questo argomento per tanti versi spinoso, credo sia bene partire da una delle più
celebri definizioni di musicoterapia, la mia preferita, quella data Bruscia nel suo “Definire la
musicoterapia” del 1989 (trad. italiana del 1992): “la musicoterapia è un processo sistematico di
intervento ove il terapista aiuta il cliente a migliorare il proprio stato di salute utilizzando le
esperienze musicali e i rapporti che si sviluppano attraverso di esse come forze dinamiche del
cambiamento”.
Questa definizione ci è utile per capire una cosa basilare: la musicoterapia è un percorso (processo
sistematico d’intervento) attuato da un professionista (il terapista) in grado di utilizzare la musica e
soprattutto i rapporti che si sviluppano attraverso di essa (le forze dinamiche del cambiamento) allo
scopo di accompagnare le persone coinvolte nel percorso (quelle che Bruscia chiama “il cliente”)
verso un migliorato senso di benessere, termine che in ambito scolastico può andare dal promuovere
nei bambini la capacità di socializzazione, all’acquisizione di fiducia in se stessi e negli altri,
all’aumentare, costruire o ricostruire di rispetto per se stessi e per gli altri, all’integrazione di
soggetti diversamente abili, alla sviluppo della creatività e dell’espressione di se stessi.
Alla base di tutto ci sono quindi gli elementi fondamentali della musicoterapia: la musica, e
volontariamente, data la vastità dell’argomento, non uso un termine meno vago, e la relazione che
all’interno di un percorso strutturato si crea attraverso di essa.
Attraverso l’uso della voce, dello strumento, del corpo, attraverso l’ascolto, attraverso tutti i modelli
e le tecniche che consentono un uso “strutturato” di questi elementi, si attuano quelle “forze
dinamiche del cambiamento”, per dirla con Bruscia, quel processo trasformativo che permette al
musicoterapista di entrare in relazione con la persona “oggetto-soggetto” dell’intervento e di
puntare al raggiungimento di obiettivi volti migliorare, mantenere o recuperare la qualità della vita.
Grazie alla ricerca ed all’evoluzione delle tecniche di indagine, oggi sappiamo molto su come
funziona il nostro corpo, come funziona la nostra mente e sul grande ruolo di ciò che è emozionale
(e, allargando il campo, musicale) in tutto questo, ma non dimentichiamo che i benefici effetti
psichici, fisici e sociali del suono sono conosciuti dalla più remota antichità.
“Dalla radice greca della parola “therapeia”, che significa “assistere”, “aiutare”, “prendersi
cura”, molto si comprende di questa natura e di quanto possa essere linkata ad una definizione
molto allargata di “musica”: l’arte dell’organizzazione temporale dei suoni e delle sue varie
componenti fisiche ed esperienziali, allo scopo di creare ed interpretare forme espressive che
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rinforzino, elaborino, diano significato all’esperienza della vita umana, ha nella musicoterapia il
suo concetto più ampio”.2
Questi elementi basilari dell’intervento musicoterapico purtroppo spesso sfuggono alle istituzioni
scolastiche.
Il rapporto fra scuola e musicoterapia è infatti un rapporto non semplice ed alle volte basato su
grossi errori epistemologici.
Animazione musicale, didattica musicale, canto corale, drammatizzazione musicale, corso Orff,
laboratorio strumentale, attività dedicate alla creazione di strumenti musicali (in una scuola
dell’infanzia è stato proposto ai bambini addirittura un corso di liuteria), musicoterapia o, come mi
è capitato di leggere in una scuola elementare, corso di musicoterapia… nelle scuole si vede di tutto
e tutto fa parte dello stesso brodo primordiale che rientra nel pentolone musica.
Per chiunque lavori nelle scuole è chiaro, almeno per sentito dire, che la musica “fa bene” ma come,
perché, per chi e in base a cosa e nel raggiungimento di quali obiettivi spesso resta un mistero.
Un mistero pericoloso che genera confusione ed incomprensioni.
E così può succedere di vivere il leggero sgomento del musicoterapista (nel mio caso futura
musicoterapista) che, ad esempio, viene chiamato per un intervento volto all’integrazione di un
bambino autistico all’interno della propria classe e in sede di progettazione si sente chiedere solo
come intende organizzare il saggio finale.
È chiaro che parlando di espressione musicale non bisogna dimenticare che questa possiede sempre
anche un suo contenuto estetico (in ambito scolastico spesso espresso nel “saggio finale”) che ha
una sua importanza ma che non rappresenta e non deve rappresentare un punto di arrivo.
Questa considerazione non vuole essere una critica o una ridicolizzazione della realtà scolastica,
vuole solo sottolineare l’evidenza della varietà di richieste, bisogni, priorità e pensieri con cui chi
opera nelle scuole si trova spesso a fare i conti.
Il lavoro di noi adulti che operiamo nella scuola dovrebbe essere basato, oltre che sulle singole
professionalità, anche su un dialogo e un confronto produttivo ed aperto dal momento che tutti,
insegnanti, educatori, esperti, operatori, agiamo con lo stesso obiettivo: aiutare meglio che possiamo
i bambini che ci sono stati affidati a crescere meglio che possono.
Come sappiamo la differenza, di vedute, di idee, di punti di partenza, di priorità, è una grande
ricchezza che può offrire punti di vista differenti e diverse visioni della stessa cosa ma come fare
quando questa differenza è eccessiva, quando ciò che è fondamentale per una parte è folle per
un’altra?
2
R. M. Sarri, Musicoterapia fra le righe, www.edumus.com, novembre 2009.
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Non sono qui per proporre soluzioni, ma forse cominciare a fare un po’ di chiarezza soprattutto fra
ciò che distingue la didattica musicale dalla musicoterapia, potrebbe essere un punto di partenza.
Fra i tanti elementi che compongono il “puzzle scuola”, infatti, c’è anche la musicoterapia, confusa
a volte con l’educazione musicale, a volte con l’animazione musicale, a volte con il canto corale.
E la confusione non è casuale: cosa distingue l’intervento musicoterapico da un incontro di didattica
musicale e cosa distingue i due mondi se spesso i materiali a disposizione, corpo, voce, suono,
strumenti, ascolto, sono gli stessi?
La musicoterapia “si attiva attraverso una metodologia centrata sulla relazione, sul bambino tutto
intero (inteso cioè come unità psicofisica), sulla osservazione diretta, sul muovere da ciò che il
bambino ci propone; le sue tecniche non mirano all'istruzione esercitativa e ripetitiva, ma alla
libera espressione e comunicazione e all'autoapprendimento (cioè all'apprendimento attraverso
l'esperienza); i suoi fini sono quelli di armonizzare gli aspetti della personalità, mettere in atto ciò
che è in potenza, migliorare la qualità dell'elaborazione dell'esperienza in qualsiasi condizione il
soggetto si trovi.
C'è quindi una differenza di fondo tra educazione musicale e musicoterapia: nella prima vi è
racchiusa l'idea pedagogica di informare, di istruire e formare il bambino alla musica; nella
seconda c'è un'operatività rivolta al bambino con modi e mezzi appartenenti al mondo della musica
e dei suoni, che offre un'occasione di crescita nel delicato processo di sviluppo della personalità”.3
Come appare chiaro, è la finalità dell’intervento a fare la differenza fra didattica musicale e
musicoterapia.
Mentre la didattica musicale ha l’obiettivo di educare alla musica, la musicoterapia ha come
obiettivo primario la promozione del benessere dell’intera persona, composta da corpo, mente, e
spirito e letta in una visione bio – psico – sociale.
La musicoterapia nella scuola spesso viene richiesta per favorire l’integrazione di bambini con
situazioni di handicap o disagio, ma può capitare, come nel caso dell’intervento oggetto di questa
tesi, che venga richiesta a scopo preventivo ed “armonizzante”.
Viene richiesta in realtà ancora molto poco ed alle volte in modo quasi casuale (mi è capitato di
sentir dire “ma si, proviamo anche questa”) e se uniamo una certa vaghezza di informazioni che
circolano intorno alla musicoterapia ai ben noti problemi di budget che sempre più affliggono le
scuole, possiamo forse cominciare ad intuire alcuni dei perché di questa situazione.
Nelle scuole la musicoterapia dovrebbe essere un elemento stabile e permanente volto “alla
creazione e conservazione di un ambiente “ecologicamente adatto” al confronto, alla discussione,
alla valorizzazione di ciò che è diverso (tutto!), alla formazione di competenze ed alla crescita:
3
www.scuole.provincia.ps.it, aprile 2010.
6
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l’esperienza umana e vitale col suono deve essere patrimonio della totalità dei bambini, dei ragazzi
che oggi si trovano a percorrere l’avventura del cammino scolastico, per quanto lungo esso possa
essere, e, perché no!, anche di chiunque lo voglia all’interno della scuola.
Si lavora, si gioca, ci si incontra con la musica e col suono in base a dove siamo, con chi siamo, nel
momento presente dell’ “hic et nunc”.
Così il bambino o la bambina (con handicap e non) entrano in relazione con la classe, con
l’insegnante, con “l’amico musicale” in mille modi diversi e tutti scoprono le risorse di questi
modi, i quali costituiscono anche opportunità di formazione, di relazione, di confronto, di
contaminazione, di mutazione pacifica, creativa e non violenta”.4
All’interno di questo “contenitore di possibilità” che dovrebbe essere l’inserimento della
musicoterapia a scuola sono preziose le figure (l’insegnante, l’educatore, l’operatore) che
affiancano il musicoterapista nel suo lavoro.
“Dopotutto
l’armonizzazione
delle
varie
identità
sonore
di
ogni
persona
comporta
l’armonizzazione anche delle identità proprie, delle professionalità, degli ambienti e di quanto
altro è necessario per una sana e pacifica collaborazione”.5
Per quanto mi riguarda, il fatto di essere insegnante di musica e musicoterapista (in formazione) mi
mette in una posizione privilegiata e mi da qualche mezzo in più capire le necessità e i bisogni di
entrambi i ruoli, necessità e bisogni che alle volte si sovrappongono così come il mio essere
insegnante alle volte si mescola con il mio essere, o diventare, musicoterapista.
Soprattutto durante il primo anno di formazione mi sono chiesta spesso se questa “mescolanza”
possa generare confusione, magari anche solo dentro di me, ma devo dire che partendo dal
presupposto di aver chiaro l’obiettivo ultimo dell’intervento, credo che questa contaminazione
rappresenti in realtà una possibilità di arricchimento per entrambi i ruoli.
“Se volessimo dare una definizione di cosa significhi fare musicoterapia a scuola, per un
insegnante, posso affermare che è "l'opportunità che si presenta agli insegnanti di musica con
competenze musicoterapiche di fare il proprio mestiere d'insegnanti in maniera più illuminata,
creativa e completa (...), intervenendo non solo direttamente sull'apprendimento di una materia, la
musica per l'appunto, ma anche e soprattutto creando le premesse per una positiva esperienza
scolastica, sia dal punto di vista dei vissuti che di quello dei risultati.
(…) Potremmo affermare, dunque, che anche se in ambito scolastico gli interventi sono
principalmente di carattere educativo-preventivo, si può parlare di educazione curativa, ponendosi
nell'ottica di un insegnante che utilizzi tutte le risorse a sua disposizione (tempo, spazi, materiali, se
4
R. M. Sarri, Musicoterapia e scuola, www.edumus.com, aprile 2010.
5
Ibidem.
7
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stesso, ...) non solo per le attività di insegnamento-apprendimento ma anche e soprattutto per
l'educazione globale del bambino e per la sua cura, intendendo col termine curare il ricostituire
una condizione di armonia psicofisica o costruirne una nuova”.6
Portare la musicoterapia a scuola, soprattutto in una scuola come quella oggetto di questa tesi, i cui
bambini non presentano problemi di deficit, patologie diagnosticate da contrastare o particolari
problemi di integrazione, è una scelta che fatalmente investe l'intera utenza scolastica in tutta la sua
poliedricità.
Nasce da qui la necessità di pensare a un progetto rivolto, come in questo caso, alla prevenzione:
prevenzione della non comunicazione, prevenzione del non ascolto, prevenzione dell’anaffettività,
prevenzione di quella sorta di ignoranza emotiva che sempre più spesso in giro per le scuole (e non
solo) vediamo e tocchiamo con mano.
“Prevenzione è potenziare lo sviluppo di valenze positive che gli alunni posseggono e che sono
trascurate; è educazione all'ascolto in senso positivo, provocando l'attivazione di canali espressivi
e comunicativi che di solito non sono valorizzati.
(…) Scuola e musicoterapia possono avere in comune il tema dell'ascolto, non di quello passivo dei
brani o delle lezioni, ma l'ascolto della persona-alunno.
Aiutare la persona-alunno a mettersi in comunicazione anche attraverso gli aspetti non semantici
della comunicazione, significa educare il singolo soggetto al riconoscimento delle capacità
espressive sonore del proprio corpo e del patrimonio di esperienze sonore accumulato che lo
caratterizza”.7
Attraverso attività di ascolto, di manipolazione di oggetti sonori e di invenzione/costruzione di
strumenti musicali, attraverso piccoli momenti di improvvisazione, attraverso drammatizzazioni
sonore (ne è un esempio la storia della nuvola Olga che chiude questo lavoro), attraverso la scoperta
sonora del proprio corpo, della propria anima e del proprio cuore si spingono i bambini, e se siamo
fortunati anche gli adulti che gravitano intorno a loro, a vivere esperienze importanti sotto il punto
di vista emotivo, relazionale e, perché no, estetico.
“L’autostima, la consapevolezza, il gioco, il divertimento, lo stare insieme generati da esperienze
estetiche sonore (e non) consentono al bambino di sperimentarsi, vedersi da molti punti di vista
diversi, capire il mondo intorno a lui e le persone che lo formano”.8
6
L. Tatulli, La musicoterapia va a scuola. Sì. Ma come?, www.musicoterapie.over-blog.com, aprile 2010.
7
L. Tatulli, ibidem, www.musicoterapie.over-blog.com, aprile 2010.
8
R. M. Sarri, Musicoterapia e scuola, www.edumus.com, aprile 2010.
8
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2. C’era una volta la Musicoterapia…
Quante volte a scuola si sente dire “la musica va fatta perché fa bene”.
Partendo dal presupposto che questo è uno dei pochi luoghi comini che mi trova tendenzialmente
abbastanza concorde, credo che a questo punto sia bene chiarire che il rapporto fra musica e
promozione del benessere è vecchio quanto il mondo.
Il termine musicoterapia viene infatti da lontano e deriva dall’unione delle parole greche musikè e
therapeia.
Musikè significa “arte delle muse” ed indicava ogni attività “governata” dalle Muse, in particolare
quelle in cui vi era un’unione tra musica, poesia e danza.
Il termine Musikè però veniva usato anche in senso più ampio, per indicare la funzione che le arti
avevano nel processo educativo, etico e catartico all’interno della società.
Con la parola Therapeia si indica invece l’assistenza, la cura e la guarigione.9
Probabilmente per gli antichi queste parole erano già in qualche modo sinonimi dal momento che
l’uso della musica e la conoscenza dei suoi effetti “terapeutici” sull’uomo si perde nella storia e
nelle antiche culture musica, medicina e “psicoterapia” (parlando di antiche culture le virgolette
sono d’obbligo) erano infatti un tutto indifferenziato e questo porta a pensare che un embrione di
musicoterapia esistita praticamente da sempre.
“In Europa già Ippocrate conduceva i deviati psichici nel tempio e faceva ascoltare loro la musica.
Presso le genti turche sciamanesimo e musicoterapia son legati da millenni.
(…) La danza e la musica erano molto diffuse fra gli sciamani dell'Asia centarle e soprattutto
strettamente connesse con le loro terapie”.10
Nella Bibbia si racconta che Davide guarì con la sua arpa Re Saul dalla depressione e diversi
narratori greci hanno descritto come, attraverso il suono della lira, Alessandro il Grande abbia
recuperato la sua salute mentale.11
Anche nella Grecia antica, così come nella maggior parte delle civiltà di tutto il mondo e come
ancora oggi spesso avviene nel lavoro con i bambini, la musica ebbe in origine un significato
magico e possiamo trovare leggende e miti legati a musici e cantori a cui la musica dava un potere
soprannaturale.
Tipico a questo riguardo è il mito di Anfione, che ricevette da Ermes (che, secondo la mitologia,
creò la lira per Apollo svuotando il guscio di una tartaruga e applicando nella parte cava delle
9
G. Scaramuzzo, La mesotes nella therapeia, www.host.uniroma3.it, settembre 2009, pp. 1-2.
G. Mandel Khân, Breve storia della Musicoterapia sufi, www.puntosufi.it, novembre 2009.
11
M. Stefanelli, Cos’è la musicoterapia – Prospettiva storica, www.marcostefanelli.com, settembre 2009.
10
9
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budella di bue ben tese12) il dono divino della musica o ne fu addirittura l'inventore lui stesso e che,
grazie al suono della sua lira, fece scivolare le pietre giù dal monte Citerone perchè le pietre stesse
costruissero le mura della città di Tebe.13
Altro esempio tratto dalla mitologia è quello di Orfeo, che ricevette in dono la sua lira dal Dio
Apollo, fu iniziato all’uso dello strumento dalle muse ed usò questo strumento per toccare il cuore
di Ade e Persefone, signori degli inferi, ai quali si rivolse per riportare in vita l’amata sposa
Euridice, uccisa dal morso di un serpente.14
Questi esempi, pur evidenziando l’importanza della musica nella cultura e nella mitologia greca e
come alla musica fosse spesso affiancato un significato “magico”, non sono ancora esempi di
utilizzo “terapeutico” della musica.
È infatti nel circolo dei pitagorici che si comincia a parlare di uso terapeutico della musica. 15
Pitagora (circa 571 a.C. - 496 a.C.), matematico e filosofo greco, individuò nei numeri l’elemento
unico in grado di spiegare la causa dei fenomeni attribuendo loro la facoltà di “regolatore” del
mondo intero.
Per Pitagora e, soprattutto, per i pitagorici, ritenuti i creatori della matematica come scienza, il
numero non era soltanto la forma che governa la combinazione delle cose, ma la materia stessa e
l’essenza delle cose.
Se le cose sono fatte di numeri, il mondo è una sorta di ordine misurabile.16
In quest’ottica si inserisce il rapporto fra Pitagora e la musica.
Il filosofo Boezio17 (circa 480 – 525), la cui opera fu fondamentale per la conservazione e la
trasmissione al mondo latino della cultura filosofica greca, “racconta che Pitagora, passando
davanti al negozio di un fabbro, fu colpito dal fatto che i suoni provocati dal battere di differenti
martelli sull’incudine formavano quasi un’armonia musicale.
Entrò nella bottega e chiese agli artigiani di scambiarsi i martelli: l’effetto musicale era lo stesso.
Pesò i martelli e trovò che i pesi stavano tra loro come i numeri 12, 9, 8, 6.
Gli intervalli musicali trovati da Pitagora sono detti quarta, quinta e ottava (contata dalla nota
emessa dal martello più pesante).
Pitagora continuò gli esperimenti e studiò la relazione tra la lunghezza di una corda vibrante e il
suono che produce: se si accorcia una corda a 3/4 della sua lunghezza si sente la quarta, se la si
12
Cfr. www.elicriso.it, dicembre 2009.
Cfr. www.ladante.it, dicembre 2009.
14
Cfr. www.elicriso.it, dicembre 2009.
15
Cfr. R. M. Sarri, Storia della musicoterapia. Accenni ed approfondimenti a cavallo dei secoli, www.edumus.com,
novembre 2009.
16
Cfr. M. R. Valente (a cura di), Pitagora filosofo e matematico, www.matmedia.it, dicembre 2009.
17
Cfr. www.unisi.it, dicembre 2009.
13
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accorcia a 2/3 si sente la quinta e se la si accorcia a 1/ 2 si sente l’ottava”.18
Approfondendo i suoi studi e il suo interesse per la musica, Pitagora sviluppò addirittura specifiche
“armonie” per guarire il corpo e la mente, oltre a dedicarsi all’indicazione delle funzioni della
musica, che descrive come19:

funzione di adattamento: la musica deve adattarsi alla personalità dell'individuo, ma anche
l'individuo deve essere in grado di adattarsi ed accettare musiche diverse e lontane dalla sua
personalità;

funzione di cambiamento: la musica può modificare lo stato d'animo dell'individuo,
consentendogli una maggiore accettazione di sé ed un maggiore uso delle proprie capacità e
possibilità;

funzione di purificazione: la musica può liberare l'anima e il corpo dalle tensioni.
Anche Platone20 (circa 427 a.C. – 348 a.C.) ed Aristotele21 (circa 384 a.C. - 322 a.C.) furono, oltre
che pensatori e filosofi, anche musicoterapeuti “ante litteram”, convinti che la musica e gli elementi
del linguaggio musicale contribuissero a migliorare negli uomini la calma interiore, la serenità e la
“qualità” morale.
Il pensiero platonico poggiava su cinque costanti:22

il mondo è costituito secondo principi musicali;

la musica ha un potere incantatorio sulla parte irrazionale dell'Io;

la vita intera dell'uomo è dominata dall'armonia e dal ritmo;

una giusta educazione musicale può garantire la formazione del carattere;

la filosofia è l'espressione più alta della musica.
Poco distante è il pensiero di Aristotele, che investiva la musica di un potere liberatorio, alleviante e
catartico delle tensioni psichiche oltre che della capacità di migliorare la “forza etica” degli esseri
umani.
Gli effetti della musica e, soprattutto, dei vari “tipi di musica” sulle emozioni degli ascoltatori fu un
argomento molto discusso dai teorici dalla seconda metà del quinto secolo in avanti, tanto che anche
Socrate (circa 469 a.C. - 399 a.C.) scrisse in merito a questo argomento.23
I modi e ritmi usati in Grecia erano intimamente connessi con le varie qualità morali: questi modelli
formavano il carattere nei giovani e tiravano fuori risorse sconosciute negli adulti.24
18
M. R. Valente (a cura di), Pitagora filosofo e matematico, www.matmedia.it, dicembre 2009.
R. McClellan, Musica per guarire: storia, teoria e pratica degli usi terapeutici del suono e della musica, Editori
Riuniti, Roma, 2002, pp. 147 – 149.
20
Cfr. D. Fusaro (a cura di), Platone, www.filosofico.net, dicembre 2009.
21
Cfr. D. Fusaro (a cura di), Aristotele, www.filosofico.net, dicembre 2009.
22
R. McClellan, Musica per guarire: storia, teoria e pratica degli usi terapeutici del suono e della musica, Editori
Riuniti, Roma, 2002, pp.147 – 149.
23
A. Paolucci, Socrate, appunti n. 3, www.amedeopaolucci.it, dicembre 2009.
19
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Damone, musicista e musicologo vissuto nel V secolo a.C., credeva nel potere della musica di
influenzare gli stati d'animo, diede un contributo importantissimo alla storia della teoria musicale
della Grecia classica e influenzò profondamente gli studi di Platone, “descrive sei differenti scale
modali, specificando le note e gli intervalli in ognuna di esse e pronunciandosi sulle loro qualità
morali.
Fece lo stesso con ritmi e tempi, raccomandandone alcuni e condannandone altri che, si diceva,
instillassero aggressività, odio od altre indesiderabili qualità”.25
L’idea della musica e dei suoi effetti vede nella Roma antica e nei suoi teorici la naturale
continuazione delle tradizioni elleniche che riconoscevano alla musica il potere di calmare l'anima e
di rassicurare lo spirito.
Ma questa idea aveva anche i suoi detrattori: nella grande tradizione di medicina scientifica
dell’epoca, l’uso della musica per “trattare” i mali del corpo non è quasi citato o, le volte che viene
ricordato, viene fatto per screditarlo.26
“D'altro canto c'era chi intanto elaborava teorie molto nuove per il tempo, come la convinzione che
l'anima era l’armonia e il corpo era lo strumento musicale, per cui, esattamente come la lira,
andava “accordato”. 27
Da quanto emerso fin qui è evidente che l'impiego della musica a scopi curativi sembra aver avuto
un’importanza decisa in numerose culture: dalla Grecia antica con le sua mitologia alle tradizioni
della Roma imperiale, dai riti degli indiani d'America, passando per la cultura cinese e tibetana per
giungere fino a quelle ebraica e cristiana, la musica sembra essere sempre stata protagonista di molti
processi di guarigione.28
Antichi papiri egizi di medicina risalenti circa al 1500 a.C. descrivono l’effetto terapeutico della
musica sul corpo umano.29
In diverse popolazioni primitive pare fosse nota la cura delle malattie attraverso suoni e canti da
parte di sciamani e stregoni e le rare culture “primitive” che sopravvivono ancora oggi parimenti
conoscono lo straordinario potere di guarigione racchiuso all'interno del suono.
Infatti, nelle tradizioni delle culture sciamaniche possiamo trovare rituali che ci permettono di
immaginare “l’ambiente sonoro” che accompagnava simili cerimonie agli albori della civiltà.
24
Cfr. R. M. Sarri, Storia della musicoterapia. Accenni ed approfondimenti a cavallo dei secoli, www.edumus.com,
novembre 2009.
25
R. M. Sarri, ibidem, www.edumus.com, novembre 2009.
26
Cfr. R. M. Sarri, ibidem, www.edumus.com, novembre 2009.
27
R. M. Sarri, ibidem, www.edumus.com, novembre 2009.
28
R. McClellan, Musica per guarire: storia, teoria e pratica degli usi terapeutici del suono e della musica, Editori
Riuniti, Roma, 2002, p. 142 – 143.
29
R. McClellan, ibidem, p.145 – 146.
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Le melodie erano probabilmente molto semplici, con una forte presenza ritmica, cantilenanti,
ripetute dallo sciamano e dai membri della famiglia o della tribù.
La funzione di questi canti era quella di indurre uno stato di profondo rilassamento nella persona "in
cura", che sentiva così di essere appoggiata e sostenuta nella sua lotta contro la malattia.
Un collegamento di questo uso “sciamanico” della voce con i nostri giorni credo possa essere
rappresentato dal canto carnatico, pratica che sempre più spesso accompagna le donne durante la
gravidanza e soprattutto durante il travaglio.
Questo canto, “musica che si modula sull'onda dell'espirazione, con effetti molto profondi a livello
psichico ed emotivo”30, affina la consapevolezza della respirazione addominale, aiuta il contatto col
bambino, distende la gola, il diaframma e la zona perineale.
Durante il travaglio il canto carnatico aiuta la donna ad andare incontro alla doglia senza opporvisi,
instaurando un meccanismo per cui la potenza dell'energia del parto viene assecondata e non
contrastata.
Tornando ai tempi remoti, nel medioevo europeo i monaci erano i depositari sia della scienza
medica che della musica.
Significativo e non casuale in questo senso è l'esempio di Notker Balbulus (Notker il Balbuziente,
Jonswil, Svizzera, 840 circa - S. Gallo, 912), monaco benedettino citato nelle fonti dell’epoca come
medico (medicus e più tardi anche physicus), musico e poeta attivo nell’Abbazia di San Gallo che
potenziò l’unione fra scienza medica e musica legando l’uso di composizioni musicali ad hoc
all’assistenza ai malati e ai bisognosi.31
Con il Rinascimento in Europa prende vigore l'influsso laico della Scuola Medica di Salerno, prima
e più importante istituzione medica d'Europa e successivamente dell’Università di Montpellier,
affermato centro di cultura medica dell’epoca.
Deve la sua formazione ad entrambi questi istituti culturali Arnaldo da Villanova detto “Il
Catalano” (1235 – 1315) che creò la nozione di “simpatia universale”, stabilendo i rapporti di
vibrazione che si creano tra i corpi sonori e il corpo umano.
Sull’onda di questi studi nei secoli successivi si incominciarono a scoprire relazioni tra ritmi
corporei e ritmi musicali, fra pulsazioni e battute musicali, tra ritmo del respiro e ritmo musicale.
Uno dei primi testi trattanti il rapporto fra musica e fisiologia umana risale al 1748, quando Louis
Roger, medico di Montpellier, pubblicò il "Traité des effects de la musique sur le corps humain"
(Trattato sugli effetti della musica sul corpo umano) nel quale l’autore paragona il corpo umano,
con il suo alternarsi di parti cave e dense, a più strumenti musicali.32
30
M. Stefanelli, Nada Yoga – lo yoga del suono, www.marcostefanelli.com, aprile 2010.
F. Burrai, La musicoterapia, p. 1, www.evidencebasednursing.it, settembre 2009.
32
Cfr. R. McClellan, Musica per guarire: storia, teoria e pratica degli usi terapeutici del suono e della musica, Editori
31
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Verso la fine del 1880 molti medici e studiosi s’interessarono allo studio degli effetti della musica
sui livello fisici e biologici dell’uomo.
“M. Gétry e Hector Berlioz fecero interessanti osservazioni sull’azione della musica sul polso e
sulla circolazione. Maller, un fisiologo,riferisce che il rullo del tamburo aumenta il flusso
sanguigno che sgorga da una vena aperta. J. Dogel pubblicò in Russia lavori che possono essere
considerati di livello scientifico, riguardo l’influenza della musica sulla circolazione sanguigna.
(…) Il fisiologo francese Féré de la Salpetière studiò l’influenza della musica sulla capacità di
lavoro dell’uomo.
(…) Un’esperienza storica fu realizzata dal fisiologo italiano Patrici che (…) potè individuare con
precisione l’effetto della musica sulla circolazione del sangue nel cervello”.33
Nonostante l’interesse per l’argomento, la validità della musica come “terapia” così come era
riconosciuta dagli antichi ha vissuto un lungo periodo buio, forse in conseguenza dell’avvento della
tecnologia, per poi riapparire agli inizi del novecento.
Va infatti riportato che, nonostante le origini remote del rapporto fra musica e benessere olistico,
l'applicazione ed il riconoscimento di questo tipo di terapia è molto recente.
I primi “esperimenti musicoterapici” volontari furono effettuati negli Stati Uniti in particolare su
gruppi di reduci della seconda guerra mondiale.
Negli ospedali da campo si diffuse l'usanza di utilizzare la musica durante le degenze attraverso la
presenza di figure ”canore" che sostenevano emotivamente i feriti cantando loro canzoni della terra
natia.
Il successo fu immediato e si moltiplicarono tecniche e metodologie, parallelamente all'ampliarsi
del campo di applicazione.
Il primo corso universitario di Musicoterapia si svolse nel 1919 presso la Columbia University
(USA) e nel 1944 nello stato del Michigan venne inaugurato il primo corso quadriennale di
specializzazione.34
Poco dopo furono fondate tre delle più importanti organizzazioni di musicoterapia: la National
Association for Music Therapy, l’American Association for Music Therapy e, nel 1970, l’American
Association of Music Therapists.
A partire da questo momento l’interesse per la musicoterapia divenne sempre più cospicuo e lo
studio di questa disciplina si diffuse dagli Stati Uniti a molti altri paesi del mondo.
Riuniti, Roma, 2002, pp. 151 – 153.
R. Benenzon, Manuale di Musicoterapia, Borla, Roma, 2005, pp.26 – 27.
34
Cfr. R. McClellan, Musica per guarire: storia, teoria e pratica degli usi terapeutici del suono e della musica, Editori
Riuniti, Roma, 2002, pp. 153 – 155.
33
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Tra i paesi che per primi seguirono con interesse la musicoterapia si ricordano l'Argentina, il Regno
Unito, la Francia, il Belgio e l'Italia, anche se nel nostro paese questa disciplina si trovava in netto
ritardo rispetto alla situazione straniera.35
I primi passi della Musicoterapia in Italia, intesi come avvio di studi e ricerche organiche intorno a
questa disciplina, risalgono infatti alla metà degli anni ’70 ed in particolare combaciano con il
primo confronto nazionale avvenuto in occasione della Conferenza di Bologna del 1973 e con la
costituzione, nel 1975, dell'Associazione Italiana di Studi di Musicoterapia (A.I.S.Mt.)36.
Qualche anno più tardi Nora Cervi, a quel tempo direttore del Corso di Musica della Pro Civitate
Christiana di Assisi37, fondò il primo Corso Italiano di Formazione che venne inaugurato, come un
semplice esperimento, nel 1981.
Come per ogni nuovo mondo nascente, anche intorno alla musicoterapia in questi primi anni il
dibattito fu acceso e molti e variegati furono i fattori che contribuirono allo sviluppo pratico e
teorico di questa disciplina in Italia.
Da un lato un sempre crescente numero di professionisti iniziavano a diffondere la musicoterapia
all’interno di nuove aree applicative, dall’altro l’infittirsi dei contatti con i rappresentanti della
musicoterapia in Europa e in America contribuì ad arricchire le conoscenze e i riferimenti teorici
anche grazie alla diffusione di testi in lingua originale o tradotti (per esempio, gli scritti, le lezioni e
le supervisioni di Alvin, Benenzon, Bruscia, Bunt, Lecourt, Nordoff-Robbins, Priestley e Wigram).
Gradualmente la musicoterapia diventò una pratica riconosciuta, accreditata e diffusa in vari ambiti
in tutto il Paese e i musicoterapeuti cominciarono a essere presenti all’interno di equipe operanti in
contesti socio-educativi, riabilitativi e terapeutici.
Nella inevitabile confusione causata da tutto questo movimento, gli operatori più responsabili
iniziarono a sentire la necessità di dare una regolamentazione della professione, fondamentale per
tutelare se stessi in quanto categoria professionale riconosciuta, per difendere il proprio lavoro dalla
proliferazione di figure improvvisate e inaffidabili e per promuovere e diffondere la conoscenza
della disciplina.
Nacquero così le prime associazioni che iniziarono a riunire a livello locale tutti quei professionisti
che desideravano il riconoscimento di quella che per molti era diventata un’occupazione a tempo
pieno, ma che tuttavia spesso, per riuscire ad avere l’opportunità di inserirsi nei vari contesti
lavorativi, erano costretti ad assimilare a ruoli troppo generici o professionalmente diversi
(animatore, educatore, insegnate).
35
Cfr. www.musictherapyworld.de, marzo 2010.
Cfr. A. Antonietti, E. Buffatti, L. Farruggio, P. Lazzati, La musicoterapia in Italia, da Musicoterapia: guida di
orientamento, www.cepad.unicatt.it, settembre 2009.
37
Cfr. www.musicoterapiassisi.it, marzo 2010.
36
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Nonostante la figura del musicoterapista professionista sia oggi sempre più richiesta e contemplata
in diversi ambiti (preventivo- educativo, riabilitativo e terapeutico), la formazione in Musicoterapia
in Italia non è tuttora ben regolamentata, dando così motivo alle istituzioni competenti di non
conferirle un titolo e un riconoscimento ufficiale.
A tale scopo nasce nel 1996 la CONFIAM (Confederazione Italiana di Associazioni di
Musicoterapia), come organismo interistituzionale che ha posto l'attenzione sulla formazione degli
operatori come passe-partout nodale per un successivo riconoscimento professionale.
Scopo dell’unione è che la musicoterapia sia annoverata tra le nuove professioni del settore sociomedicale, il cui esercizio deve essere regolamentato e riconosciuto dalle rispettive associazioni di
categoria incaricate in questo compito dal governo.
Da quei lontani anni ’70 ad oggi anche in Italia sono sorte moltissime scuole che hanno formato
altrettanti professionisti; è nata e si è sviluppata una vasta letteratura e, soprattutto, in diversi ambiti
(riabilitativo, terapeutico, scolastico e di prevenzione del disagio) sta nascendo una certa coscienza
circa l’importanza e la validità dell’uso della musica e in generale delle artiterapie, con tutte le
potenzialità espressive, simboliche e comunicative.
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3. Cosa vuol dire “Emozione”?
Musicoterapia nell’educazione alle emozioni
Il progetto “Cosa vuol dire Emozione?”, dedicato alla scoperta e al riconoscimento delle emozioni
ed all’educazione all’emotività, è stato richiesto da una Scuola dell’Infanzia di Parma e si è rivolto a
tutti i 75 bambini presenti nella struttura, compresi fra i 2 anni e mezzo dei più piccoli e i 6 dei più
grandi.
Nessuno dei bambini a cui è dedicato l’intervento presenta deficit, patologie o disabilità.
Sono presenti tre bambini stranieri, fortunatamente nessuno di loro fatica ad integrarsi.
Pertanto l’intervento si esplica in un ambito prettamente preventivo, in un contesto nel quale non
esistono particolari patologie su cui intervenire ma la “terapia” viene vissuta e proposta come
portatrice di benessere psicofisico per chi la fruisce e quindi preventiva alla nascita di eventuali
disagi.
“Il termine “emozione” deriva dal tardo latino e-movere, che significa smuovere: è stato creato nel
corso del XVII secolo per indicare uno stato di agitazione interna che turba il naturale andamento
della vita e assumerà il significato attuale solo duecento anni dopo, a partire dal XIX secolo”.38
I bambini vivono le emozioni intensamente, in modo istintivo e non mediato:
“sono felice quando la mamma mi compra un gioco nuovo;
sono triste quando la mamma mi sgrida;
sono arrabbiato quando i bimbi non mi fanno giocare col gioco che mi piace;
ho paura del buio e del temporale”.39
Non tutti però riescono a dare loro una connotazione precisa o ad esprimerle liberamente.
Molti bambini non distinguono le emozioni, altri non le vivono ma non le riconoscono, altri ancora
tengono per sé le emozioni dolorose o quelle che considerano vergognose, come per esempio la
paura.
“Educare emotivamente equivale a fornire strumenti cognitivi, linguistici, emotivi ed abilità sociali
con cui nominare, significare, armonizzare, costruire un mondo di eventi e momenti emotivi che
accadono dentro la persona e fra le persone”.40
Il progetto prende quindi il via da questa premessa epistemologica: riconoscere ciò che si sta
provando è fondamentale per arrivare alla comprensione ed alla gestione delle proprie emozioni ed
al riconoscimento delle emozioni altrui senza dimenticare la ricaduta preventiva, che può essere a
38
R. Frison (a cura di), Thinking about feeling and feeling about thinking - Un’introduzione alla conoscenza delle
emozioni, Prima lezione - Che cosa sono le emozioni, Dispensa Istituto MEME, A.A. 2009 – 2010.
39
Tratto dalle frasi dei bambini.
40
R. M. Lombardo, Educazione alle emozioni e film educativi, www.psychomedia.it, gennaio 2010.
17
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breve o a lungo termine, nei confronti di tutti quei disagi legati ai disturbi emozionali che oggi
sempre più spesso bambini e ragazzi si trovano a dover affrontare.
“Oggi ci accorgiamo che i bambini hanno disturbi emozionali che un tempo erano tipici dell’età
adulta. Sono sempre più frequenti i casi di fobia scolastica, ansia generalizzata, disturbi
dell’umore, disturbi depressivi, timidezza patologica, alessitimia cioè incapacità di parlare di
emozioni.
Sono in aumento anche i bambini che appaiono piatti sul piano emotivo: non si entusiasmano, non
si arrabbiano, appaiono indifferenti a qualunque evento.
L’iperstimolazione subita dai bambini ad opera della televisione o dei videogiochi sembra portarli
ad una condizione di “assuefazione emotiva”.
I modelli comportamentali proposti di mass-media non insegnano una adeguata gestione delle
emozioni ed anche i modelli positivi che i bambini possono trovare a scuola incidono in modo
minore sul loro sviluppo di quanto si pensi, considerando il dato statistico relativo alla quantità di
ore giornaliere che ogni bambino dedica alla televisione. Un percorso di educazione emotiva è
quindi utile per contrastare la presentazione di modelli inadeguati”.41
L’interesse per il mondo delle emozioni non è nuovo.
Già nella seconda metà dell'800 antropologi come Darwin e James avevano avvertito la necessità di
studiare le emozioni, distinguendole in fondamentali e secondarie, studiandone i caratteri somatici e
la loro manifestazione all’interno delle diverse culture, individuando i contesti da cui le emozioni
partono ipotizzando, con evidente anticipo, il rapporto fra cervello ed emozioni oltre che quello tra
emozioni e contesto.
Ma prima di cominciare questo piccolo viaggio all’interno del mondo delle emozioni è bene chiarire
che cosa sono.
In pratica, cosa vuol dire Emozione?
Le psicologhe Valentina D’Urso e Rosanna Trentin sostengono che “A quanto pare, tutti sanno che
cos'è un'emozione fino a quando non si prova a definirla”42
Pur non essendo una definizione semplice da dare, possiamo dire che l’emozione è uno stato
affettivo intenso e di breve durata che si manifesta attraverso il verificarsi contemporaneo di tre
elementi: sensazioni corporee, atti comportamentali e pensieri.
41
42
D. Fedeli, Perché educare alle emozioni, dispensa Istituto MEME, p. 1, Modena, A. A 2009 – 2010.
R. Frison (a cura di) Le emozioni, dispensa Istituto MEME, Modena, A.A 2009 – 2010.
18
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Immagine tratta da D. Fedeli, Perché educare alle emozioni, dispensa Istituto MEME, p. 1, Modena, A. A 2009 –
2010.
Sensazioni corporee: chi prova un’emozione avverte alterazioni corporee più o meno intense, come
ad esempio l’aumento del battito cardiaco, una certa tensione muscolare, una respirazione affannata,
sudorazione, rossore della pelle, ecc.
Atti comportamentali: la persona mette in atto una serie di azioni facilmente riconoscibili per chi le
osserva e associabili all’emozione vissuta come ad esempio alzare la voce, gesticolare, lanciare
oggetti, piangere, ridere, ecc.
Pensieri: vale a dire quello che si pensa mentre si prova l’emozione, che possono essere contenuti
di pensiero ma anche processi cognitivi (pensieri che procedono lentamente o idee che si
susseguono con estrema rapidità).43
Ma come si sviluppa un’emozione?
Già a partire dal secolo scorso gli studiosi, ed in particolare lo psicologo americano William James,
hanno cominciato ad interrogarsi in merito a cosa succede in un individuo quando questo percepisce
uno stimolo emotigeno ed, in particolare, il dibattito convergeva su una questione.
Quale delle due sequenze sotto riportate è quella corretta?
1. STIMOLO EMOTIGENO
EMOZIONE
RISPOSTA
(fisiologica,
comportamentale, ecc)
2. STIMOLO EMOTIGENO
RISPOSTA (fisiologica, comportamentale, ecc)
EMOZIONE44
43
44
Cfr. D. Fedeli, Perché educare alle emozioni, dispensa Istituto MEME, p. 1, Modena, A. A 2009 – 2010.
Cfr, D. Fedeli, dispensa Istituto MEME, p. 2, Modena, A. A 2009 – 2010.
19
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La conclusione scientifica cui si è arrivati è che la seconda successione è quella corretta e la risposta
comportamentale viene prima della consapevolezza emotiva.
Ciò significa che la risposta della persona ad uno stimolo emotigeno è compiuta prima che la
persona stessa si renda conto di cosa stia succedendo.45
“Per spiegare come si sviluppa l’emozione è necessario possedere alcune conoscenze sul
funzionamento del cervello umano.
Il cervello umano può essere diviso schematicamente in due parti.
La parte più esterna è la corteccia cerebrale, la sede dei processi cognitivi superiori; le parti più
interne e più profonde del cervello, le più antiche come strutture, presiedono a compiti inerenti la
sopravvivenza ed agiscono al di fuori della nostra consapevolezza.
Si tratta del “sistema limbico” all’interno del quale troviamo l’amigdala considerata dagli studiosi
responsabile delle risposte fisiologiche e comportamentali tipiche delle emozioni.
Il sistema limbico ci permette di reagire immediatamente a degli stimoli prima che la corteccia
cerebrale li abbia valutati. Ciò serve a garantire la sopravvivenza dell’individuo di fronte a
situazioni pericolose. Il sistema limbico è però impreciso perché la sua risposta si basa su poche
informazioni è può talvolta indurre in errore. Inoltre le risposte emozionali attivate dalle strutture
limbiche sono caratterizzate da rigidità, sono innate, rapide e programmate. La parte del cervello
che gestisce le emozioni è più rapida dell’altra e sfugge alla consapevolezza”.46
L’emozione è quindi un processo che:47
• Insorge in relazione a specifici eventi, detti antecedenti situazionali (causa delle emozioni);
• Dipende da specifiche strutture neurologiche quali:
- il sistema nervoso autonomo (simpatico-parasimpatico)
- il sistema endocrino
• Comporta delle modificazioni fisiologiche (modificazione del battito cardiaco, maggiore
sudorazione, pelle d’oca, ecc.);
• Comporta manifestazioni fisiche visibili ed è quindi riconoscibile dagli altri (ad esempio: il
rossore della pelle);
• Prepara o inibisce alcuni comportamenti;
• Influenza alcuni processi cognitivi come l’attenzione, la memoria, il linguaggio e il pensiero.
• Assolve a funzioni adattive.
Per lungo tempo lo studio delle emozioni è stato trascurato dal mondo scientifico e messo in
45
Ibidem.
D. Fedeli, ibidem, dispensa Istituto MEME, p. 2, Modena, A. A 2009 – 2010.
47
Cfr. R. Frison (a cura di) Le emozioni, dispensa Istituto MEME, Modena, A.A 2009 – 2010.
46
20
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secondo piano rispetto allo studio di altre funzioni della mente.
Era infatti opinione diffusa che le emozioni fossero un aspetto secondario e meno nobile della vita
mentale di un individuo che invece andava studiata, considerata ed analizzata esclusivamente nella
sua componente razionale.
Negli ultimi anni però lo studio scientifico delle emozioni ha subito un notevole sviluppo che ha
prodotto una quantità di nuove conoscenze provenienti soprattutto dalla neurobiologia e dalla
psicologia sperimentale.48
In particolare, a partire dal 1996, anno in cui divennero noti anche in Italia i risultati degli studi
sull'intelligenza emotiva condotti da Goleman49, la necessità di addentrarsi nel mondo
dell'educazione emotiva ha trovato numerosi sostenitori anche fra gli operatori scolastici,
confermando un bisogno di fondo che è a tutt’oggi pressoché impossibile non avvertire:
rialfabetizzare questi nostri giorni un po' analfabeti dal punto di vista emotivo.
“La facilitazione dell'esperienza emotiva, nell'autocoscienza del sé e nella relazione come scontroincontro con l'altro diventa quindi obiettivo di un'educazione all'emotività che non tende infatti a
comprimere le emozioni ma, piuttosto, a renderle comprensibili, accettabili, nominabili, fruibili e
condivisibili da tutti e con chiarezza; competenza prosociale e intrapsichica quindi come
consapevolezza di quello che ogni individuo vive, con se stesso e con gli altri e quindi, direi di
metacognizione emozionale”.50
Viviamo in un’epoca che pare abbia dimenticato la necessità di vivere momenti di conoscenza di sè
e delle proprie emozioni.
La capacità di riconoscere le proprie emozioni dando loro un nome è un passaggio fondamentale
per raggiungere sia una corretta consapevolezza di sé mentre la capacità di dare il “giusto nome”
alle e mozioni che viviamo è il primo passo per arrivare a un buon livello di gestione delle proprie
emozioni.
È bene chiarire che imparare a gestire le emozioni non significa assolutamente sopprimerle,
soffocarle o negarle, significa invece essere in grado di vivere, percepire, conoscere e riconoscere le
proprie emozioni senza nulla togliere alla loro intensità, ma gestendole ed esprimendole in modo
appropriato ed efficace.
Le responsabilità dell’ignoranza emotiva che sembra caratterizzare il nostro tempo sono da ricercare
un po’ ovunque: nella famiglia, sempre più debole e sempre più allo sbando, nell’assetto che la
società “civile” si è data, nelle corse ad ostacoli che caratterizzano i tempi delle nostre giornate,
nelle barriere che ognuno purtroppo deve ergere per difendersi, nella gestione sempre più complessa
48
Cfr. R. Frison (a cura di) ibidem, dispensa Istituto MEME, Modena, A.A 2009 – 2010.
D. Goleman, Intelligenza emotiva, Bur Biblioteca Universale Rizzoli, 1999.
50
R. M. Lombardo, ibidem, www.psychomedia.it, gennaio 2010.
49
21
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dei rapporti umani, nella mancanza di ascolto, di comunicazione e di capacità di “mettersi nei panni
altrui”.
Non ultima, anche la scuola ha la sua responsabilità in quanto ambito nel quale tutto ciò che
riguarda la parte emotiva di noi e la conseguente educazione emotiva è stato a lungo trascurato a
vantaggio di apprendimenti legati elusivamente al piano cognitivo ritenuti, a torto più, importanti.
E nel quotidiano scolastico e familiare questo si concretizza sempre più spesso e con sempre
maggiore evidenza in situazioni di confusione emotiva e di disagio a cui genitori ed insegnanti
devono oggi essere in grado di far fronte.
“Spesso i bambini vengono giudicati iperattivi, come molti adulti del resto, e solo un lavoro lungo,
a volte di vero e proprio intervento psicoterapeutico, porta a comprendere che dietro
quell'iperattività c'è, ad esempio, la stanchezza, altre volte la rabbia, altre ancora dolore o anche
vitalità, entusiasmo, gioia di vivere”.51
Oggi molti bambini non riescono a discriminare le emozioni che provano, confondendole e
tendendo a reprimerle quando notano che sono poco accettate dagli altri.
Ma sappiamo che sopprimere un'emozione non significa averne “risolti gli effetti” ma piuttosto
seppellirla in fondo alla coscienza, circondandola di barriere e divieti interiori, rendendola in
qualche modo inaccessibile ad un lavoro su se stessi che le dia un posto, un ruolo, un senso, un
significato, una comprensione ed, alla fine, un’elaborazione.
Saper riconoscere, capire e quindi contenere le proprie emozioni è fondamentale per avere una vita
piena: riconoscere che in alcuni momenti possiamo provare qualcosa di spiacevole ma non per
questo valiamo meno è la base per un'esistenza tranquilla e felice e in questa ottica nasce il progetto
“Cosa vuol dire emozione?” proposto nella Scuola dell’Infanzia.
L’intervento ha avuto come obiettivo primario il mettere i bambini in condizione di acquisire un
principio di “competenza emotiva”, capacità basata su alcuni elementi quali:
- la consapevolezza dei propri stati emotivi: capacità di individuare una o più emozioni,
etichettandole correttamente;
- la capacità di individuare le emozioni altrui sulla base di indizi espressivi e attraverso la decodifica
delle espressioni facciali, degli aspetti prosodici della voce e della postura;
- l’abilità di padroneggiare i termini e le espressioni relative alle emozioni, in altre parole la
capacità di comprendere e descrivere le proprie emozioni proprie e quelle altrui;
- la capacità di coinvolgimento empatico: l’empatia, cioè la capacità di immedesimarsi nelle
esperienze emotive altrui, non è una competenza innata ma si sviluppa con l’età e dipende dalle
esperienze affettive vissute dal soggetto;
51
R. M. Lombardo, ibidem, www.psychomedia.it, gennaio 2010.
22
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- la capacità di capire che il proprio comportamento emotivo può avere effetto sugli altri;
- la capacità di fronteggiare, esprimere efficacemente e gestire anche le emozioni giudicate “brutte”,
spiacevoli o disturbanti;52
Un percorso di maturazione affettiva armonico dovrebbe prevedere lo sviluppo di una presa di
coscienza relativamente a tutte le emozioni, da quelle fondamentali a quelle specifiche, ma in
questo progetto, data l’età dei piccoli a cui è stato dedicato, sono state affrontate solo alcune delle
emozioni fondamentali, parte del bagaglio emotivo di tutti gli uomini e presenti in tutte le culture,
universali, innate ed identificate in gioia, tristezza, paura e rabbia.
"Le emozioni fondamentali (o emozioni elementari) sono processi di tipo reattivo, specializzati
dall'evoluzione e aventi ben definiti correlati neuroanatomici.
(…) Ognuno dei sistemi associati a tali processi ha la funzione di risolvere una ristretta classe di
problemi. Ad esempio, la paura primordiale, quella che ci fa scattare non appena sentiamo un
rumore improvviso, permette di reagire alle situazioni di pericolo, e fornisce istantaneamente le
risorse per affrontarle.
Per questo motivo, tali sistemi emotivi sono già presenti in molti animali inferiori e sono perciò
quelle più antiche dal punto di vista evolutivo.
Le emozioni fondamentali sono state inizialmente proposte a partire dallo studio delle espressioni
emotive (ad esempio, le espressioni facciali, o il lessico emotivo) e dell'invarianza di queste rispetto
ai diversi individui e alle differenti culture”.53
Il progetto vuole avere sia un’utilità immediata, mettendo i bambini in condizione di sentire,
conoscere, riconoscere e gestire le proprie emozioni, dando loro significato ed importanza e
mettendoli in condizione di riconoscere le stesse emozioni come patrimonio e possibilità di tutti e,
soprattutto, dei loro genitori (parte del progetto si è infatti rivolta ai genitori che, prima insieme ai
bambini e poi da soli, hanno avuto modo di sperimentare e stesse scoperte “emotive” vissute dai
loro figli) che un’utilità preventiva.
Nella società attuale, in cui le percentuali di consumo di psicofarmaci anche tra i bambini salgono
di anno in anno, in cui si abbassa l’età del primo approccio con alcool e sostanze stupefacenti, in cui
il malessere minorile si concretizza spesso in reati più o meno gravi, credo che un’educazione
affettiva che fornisca chiavi di lettura e possibilità di conoscenza di se stessi e degli altri si renda
assolutamente necessaria.
52
Cfr. R. Frison (a cura di) Le emozioni, dispensa Istituto MEME, Modena, A.A 2009 – 2010.
A. Valitutti, Modellizzazione emotiva nell’esecuzione assistita di compiti complessi, Tesi di laurea in Fisica,
Università degli studi “Federico II” di Napoli, Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali, A.A. 2000 – 2001, p.
10.
53
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“Non credo che si possa più pensare di parlare ai nostri bambini di emozioni negative e positive,
più facile e giusto far passare il concetto di emozioni piacevoli e spiacevoli ma tutte da provare
perché tutte necessariamente legate al vivere.
Il recupero delle emozioni dolorose e spiacevoli quindi come restituzione di una dimensione del
vivere che non è quella degli eroi imbattibili dei videogames e dei film d'azione ma quella più
comune, se pure più difficile, degli uomini comuni, forse meno evoluti ma più capaci di starsi
dentro”.54
Obiettivi dell’intervento:

Offrire possibilità di gratificazione e soddisfazione personale;

Offrire un mezzo di identificazione ed espressione di sé;

Offrire un mezzo di riconoscimento e comprensione delle proprie emozioni e del proprio
personale modo di viverle ed esprimerle;

Offrire un mezzo di riconoscimento e comprensione delle emozioni altrui e del modo di viverle
ed esprimerle del nostro prossimo;

Acquisire un principio di “competenza emotiva”;

Migliorare le capacità d’interazione, socializzazione e integrazione di gruppo;

Rafforzare l’autocontrollo e stimolare l’accettazione di norme comuni e l’assunzione di
responsabilità;

Stimolare la memoria e l’attenzione;

Fornire nuove competenze e abilità.
54
R. M. Lombardo, Educazione alle emozioni e film educativi, www.psychomedia.it, gennaio 2010.
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3.1. I modelli di riferimento
Nella realizzazione di questo progetto ho liberamente attinto alle metodologie di Èmile Jacques
Dalcroze, Thérèse Hirsch e Carl Orff e Gertrud Orff.
Non sarà sfuggito agli addetti ai lavori che leggeranno questo scritto che non tutti i nomi appena
citati appartengono all’ambito prettamente musicoterapico.
C’è una spiegazione: la musicoterapia è una disciplina che ha raggiunto una sua identità di “scienza
autonoma” in tempi recenti, ma nonostante ciò è possibile individuare, già a partire dalla fine
dell’800, idee legate a quella che sarebbe poi diventata la musicoterapia avanzate da autori di
metodi didattici.
Uno di questi è Èmile Jacques Dalcroze (Vienna, 1865 – Ginevra, 1950), musicista, compositore e
pedagogo, padre del metodo che da lui prende il nome basato sull’unione tra musica, corpo, mente e
sfera emotiva.
A Dalcroze ho “rubato” l’importanza del collegamento fra musica e movimento corporeo, potente
mezzo attraverso il quale è possibile vivere il fatto sonoro nella sua immediatezza istintiva, nella
sua forza energetica e nella sua completezza espressiva.
“Riferendosi ad una sua esperienza personale della didattica musicale dell’epoca (Dalcroze) parla
di aver spesso sofferto per il fatto che i maestri non cercano di conoscere le condizioni spirituali,
nervose o emotive dei loro allievi.
Egli sosteneva che la musica doveva diventare un patrimonio di tutti e non solo di un’èlite, sognava
così un metodo educativo dove il corpo diventa esso stesso l’intermediario fra i suoni e il nostro
pensiero e lo strumento diretto dei nostri sentimenti”.55
Nel periodo compreso fra il 1892 e il 1910 Dalcroze fu docente di armonia e solfeggio presso il
Conservatorio di Ginevra.
Qui notò le gravi difficoltà ritmiche e di ascolto che riscontrava nei suoi allievi in Conservatorio e
da qui, all’inizio del ‘900, cominciò a nascere un metodo di insegnamento “alternativo” basato sulla
percezione fisica della musica ed, in particolare, dell’aspetto ritmico della musica: nel metodo
Dalcroze la ritmica, che sviluppa la capacità di risposta spontanea del corpo alla musica attraverso il
movimento, il solfeggio, che educa l’orecchio e la voce e l’improvvisazione che riunisce tutti gli
elementi finora menzionati e libera le potenzialità creative individuali, assumono pari importanza.
Egli perseguì l’unione perfetta tra musica, corpo, mente e sfera emotiva e pose il corpo e il
movimento alla base dei suoi rivoluzionari principi educativi.
55
Nasce la parola musicoterapia, www.artiterapie.net, novembre 2009, p. 65.
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Il lavoro teorico e pratico di Dalcroze ha influito in maniera decisiva non solo sulla pedagogia
musicale, ma anche sulla danza e la coreografia, gettando le basi per un uso educativo e rieducativo
della musica e del movimento.
Il metodo trova applicazioni non soltanto nell’ambito dell’esecuzione musicale e delle arti plastiche
e visive ma anche in quello terapeutico e dell’educazione generale e molte idee legate al metodo
Dalcroze sono tuttora utilizzate in ambito musicoterapico.
Più legata all’ambito musicoterapico è Thérèse Hirsch56, che sottolinea come il corpo sia il primo
veicolo di relazione ed emozione e come la musica, rivolgendosi direttamente al corpo, può aprire
canali comunicativi più istintivi ed immediati rispetto al linguaggio verbale.
Thérèse Hirsch fu tra le prime ad aver proposto una distinzione tra musicoterapia ed educazione
musicale basata sui diversi obiettivi a cui mirano le due discipline: l'educazione "forma i musicisti"
e quindi la musica è considerata come il fine del processo educativo; quando la musica è utilizzata
come mezzo per favorire una miglior qualità della vita di uno o più soggetti, sia in caso di normalità
che in presenza di patologia, allora si può parlare di musicoterapia.
Negli anni Sessanta la Hirsch fu collaboratrice dell'équipe coordinata dal neuropsichiatra Julien De
Ajuriaguerra (1911 – 1993), docente di Clinica Psichiatrica dell'Università di Ginevra e direttore
della Clinica di Bel-Air (istituto che ospita bambini con deficit psichici, mentali e motori molto
gravi), punto di riferimento fondamentale dell’approccio psicomotorio noto per i suoi studi che
interpretano la motricità e la postura come possibili modalità di relazione ed incontro fra il soggetto
con disabilità e la realtà esterna.
Proprio partendo da questi studi e lavorando al seguito di De Ajuriaguerra, la Hirsch inserisce la
musica in un progetto di educazione psicomotoria, integrandovi elementi tratti dal metodo didattico
di Willems e del metodo Dalcroze.
Come già detto, la Hirsch vive il corpo come veicolo di relazione.
In questa prospettiva la musica diviene un fattore riabilitativo in quanto si rivolge direttamente al
corpo, aprendo un canale comunicativo anche con soggetti che, a causa di chiusure o disabilità
fisiche e psichiche, non sono in grado di comunicare attraverso il linguaggio verbale.
La musica è quindi un mezzo espressivo che interessa l'uomo nella globalità delle sue facoltà e
costituisce un linguaggio privilegiato poichè immediato e quindi utile per stabilire un contatto e un
veicolo di comunicazione fra la persona con disabilità e il mondo esterno.
Di Orff è l’idea che “la musica si impara facendola”, idea che è il mio sostegno teorico per tutte le
attività che prevedono l’unione di parola, canto, suono, movimento ed uso di semplici strumenti
ritmici.
56
Cfr. A. Antonietti, E. Buffatti, L. Farruggio, P. Lazzati, Musicoterapia: guida di orientamento, www.cepad.unicatt.it,
novembre 2009.
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Il Metodo Orff – Schulwerk57, utilizza quindi una parola difficile, Orff-Schulwerk, che letteralmente
significa “opera didattica di Carl Orff”, per indicate un’idea semplice: la musica si impara facendola
e non astraendola, traducendo in concreto il bisogno di viverla fisicamente ed emotivamente così
che diventi parte della crescita globale degli individui.
L’Orff-Schulwerk nella sua unione di musica, parola e movimento/danza, rappresenta
un’educazione estetica globale, in quanto rivolta alle abilità motorie, emotive, intellettuali e sociali
della persona; attiva, in quanto stimola l’iniziativa individuale; personalizzata, in quanto parte dalle
inclinazioni e predisposizioni di ogni individuo aiutandolo a svilupparle; sociale, in quanto le
attività sono praticate prevalentemente in contesto di gruppo e aperta, in quanto il “modello
educativo” non vincola ma stimola a prenderne esempio e contemporaneamente a svilupparlo in
modo personale58.
Nel metodo la musica si vive attraverso un’esperienza creativa e collettiva, “un’educazione
elementare estetica”59 che coinvolge tutto ciò che alla musica è e contiene: gesto, movimento,
danza, voce, strumenti musicali.
"Elementare, in latino elementarius, significa intrinseco agli elementi, di sostanza primaria,
attinente alle origini, ai princìpi. Musica elementare non è mai musica sola, essa è collegata a
movimento, danza e parola, è una musica fatta da sé, nella quale si è coinvolti non come ascoltatori
ma come co-esecutori.
Essa è pre-intellettuale, non conosce grandi forme architettoniche, produce ostinati, piccole forme
ripetitive e di rondò. Musica elementare è terrestre, innata, corporea, è musica che chiunque può
sperimentare e apprendere, adeguata al bambino".60
Orff iniziò col riconoscere che la musica, la danza ed il linguaggio sono forme di espressione e
comunicazione umana affini e tuttavia autonome, come veniva già espresso in greco antico con il
termine musiké.61
L’elemento di collegamento fra tutti questi aspetti è costituito principalmente dal ritmo che è una
delle basi dell’Orff-Schulwerk e del pensiero di Orff: "Insegnare il ritmo è difficile. Il ritmo si può
solo liberare, sprigionare. Ritmo non è una entità astratta, ritmo è la vita stessa, ritmo agisce e
provoca, è la forza che unisce linguaggio, musica e movimento".62
57
Cfr. www.orffitaliano.it, settembre 2009.
B. Hanselbach (trad. Orietta Mattio), Il significato del movimento e della danza nell’Orff – Schulwerk, Materiali
Didattici Centro Didattico Musicale Onlus, Roma, ottobre 2003, p. 6.
59
B. Hanselbach (trad. Orietta Mattio), Ibidem, p. 4.
60
C. Orff, Schulwerk, elementare Musik (Schulwerk, musica elementare), Hans Schneider, Tutzing 1976, p.16.
61
B. Hanselbach (trad. Orietta Mattio), Il significato del movimento e della danza nell’Orff – Schulwerk, Materiali
Didattici Centro Didattico Musicale Onlus, Roma, ottobre 2003, p. 4.
62
C. Orff, Schulwerk, elementare Musik (Schulwerk, musica elementare), Hans Schneider, Tutzing 1976, p.17.
58
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L’altro elemento basilare sul quale si fonda il metodo è la promozione della creatività individuale
presente in ogni essere umano, elemento che si manifesta innanzitutto nell’improvvisazione
musicale e fisica.
Per quanto riguarda la danza, intesa nel senso di uso del corpo, argomento di trattazione in questa
sede, nell’Orff-Schulwerk il termine “danza” viene inteso nel suo significato originario come
movimento “espresso” in modo spontaneo o definito che va oltre la sua funzione quotidiana e
comprende sia l’espressione spontanea del singolo individuo sia forme di movimento e di danza
collettive.63
Il materiale elementare della danza non ha confini di tempo e di spazio ed è costituito da diversi tipi
di passi e di andature, da movimenti del tronco e delle braccia, da gesti-suono e movimenti della
testa, da giri e salti.
Questo materiale di base, sia pure con impronte diverse a seconda della cultura di origine,
appartiene ad ogni persona capace di muoversi e viene utilizzato nel danzare su di una musica da
soli, a coppie o in gruppo, in svariate evoluzioni e figurazioni.
I modelli, i giochi di movimento musicali e danzati, le danze per bambini e quelle folcloristiche, i
balli di epoche diverse, i canti accompagnati da danze e le rappresentazioni sceniche, formano la
parte legata alla tradizione nello Schulwerk.
Questo legame con la tradizione non pone però in discussione l’interesse del metodo per la
sperimentazione.
Entrambi questi aspetti hanno il loro posto ed il loro compito nell’Orff-Schulwerk.
Ma Carl Orff non è l’unico Orff al quale ho rubato elementi per la realizzazione di questo progetto.
Gertrud Orff, moglie di Carl Orff e sua collaboratrice, ha adottato principi e tecniche tratte dal
metodo didattico creato del marito Carl creando un metodo musicoterapico basato appunto sui
“pilastri” della metodologia Orff-Schulwerk: il canto, la parola, la manipolazione degli strumenti, il
movimento vissuto come “traduzione fisica” del materiale musicale ed espressione visiva dei moti
interni.
"Movimento, canto, suono, formano un tutto unico: musica elementare, strumentario elementare,
forme elementari di linguaggio e di movimento.
La musica elementare non è mai soltanto musica, essa è legata al movimento, alla danza, alla
parola, è una musica che si deve fare spontaneamente, nella quale si è coinvolti come
collaboratori, non come ascoltatori.
63
B. Hanselbach (trad. Orietta Mattio), Il significato del movimento e della danza nell’Orff – Schulwerk, Materiali
Didattici Centro Didattico Musicale Onlus, Roma, ottobre 2003, p. 5.
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Essa è pre-mentale, non conosce le grandi forme, è terra-terra, naturale, fisica, può essere appresa
da ognuno, vissuta da ognuno a misura di bambino".64
Lo spunto per il ricorso simultaneo a queste forme di espressione è legato, così come avviene nel
metodo didattico Orff-Schulwerk, al significato della parola greca musiké, con la quale si intende
l’unione di suono, parola e movimento o, per dirla con le parole di Gertrud stessa, "articolata
rappresentazione dell'uomo in parole, suoni e movimenti".65
La musica con le sue tre componenti fondamentali, suono, movimento, linguaggio, investe infatti
globalmente il bambino.
Prima di concludere è bene sottolineare che la musicoterapia, quale che sia il metodo o modello di
riferimento, focalizza la sua attenzione sulle molteplici declinazioni del rapporto fra uomo e suono,
utilizzando la musica e gli elementi del linguaggio musicale al fine di migliorare qualitativamente la
condizione bio-psico-sociale dell'individuo.
Il modello bio-psico-sociale è una strategia di approccio alla persona, sviluppatosi negli anni
Ottanta sulla base della concezione multidimensionale della salute descritta nel 1947 dal WHO
(World Health Organization66).
Il modello pone l’individuo, sano o ammalato che sia, al centro di un ampio sistema influenzato da
molteplici variabili.
Il concetto di salute del WHO fa riferimento a componenti fisiche (funzioni, organi strutture),
mentali (stato intellettivo e psicologico), sociali (vita domestica, lavorativa, economica, familiare,
civile) e spirituali (valori) che utilizza per identificare il concetto di benessere (salute nella sua
concezione positiva) e quello di malessere (malattia, problema, disagio ovvero salute nella sua
concezione negativa), concetti di cui è sempre importante tener conto nell’approccio alla persona in
qualsiasi contesto si vada ad operare.67
Per fare un piccolo esempio, per comprendere ed agire sulla situazione che caratterizza o inquina la
vita di un soggetto in un determinato momento, è necessario occuparsi sia degli eventuali problemi
fisici che degli aspetti psicologici, sociali, familiari del soggetto stesso, elementi fra loro interagenti
e in grado di influenzare l’evoluzione della situazione.
Il modello bio-psico-sociale si contrappone al modello bio-medico, secondo il quale la malattia è
riconducibile a variabili biologiche che il medico deve identificare e correggere con interventi
terapeutici mirati.
Il musicoterapeuta si pone in questa ottica di lavoro, intendendo l’individuo come unione di corpo,
64
G. Orff, Musicoterapia-Orff. Un'attiva stimolazione allo sviluppo del bambino, Cittadella Editrice, Assisi, 1982, p. 10
G. Orff, ibidem, p. 8.
66
www.who.int, novembre 2009.
67
Cfr. M. A. Becchi, N. Carulli, Le basi scientifiche dell’approccio bio-psico-sociale. Indicazione per l’acquisizione
delle competenze mediche appropriate, www.salute.toscana.it, novembre 2009.
65
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mente ed emotività e lavorando con esso su di esso verso un rinnovato e migliorato senso di
benessere psico-fisico.
3.2. Setting
Il setting è innanzitutto uno spazio fisico adatto allo svolgimento di attività individuali o di gruppo,
contenente strumenti e oggetti utilizzati durante le varie attività proposte durante gli incontri,
attrezzato con contenitori e piani di lavoro, consente e “contiene” la libertà di espressione e di
movimento.
Oltre che luogo fisico è anche uno “spazio simbolico atto a contenere la relazione tra paziente/i e
terapeuta vissuta nel “qui e ora” dell’intervento. La sua funzione principale è “contenitiva”, in
esso si esprimono liberamente le emozioni, i vissuti, le aspettative, i desideri di tutti i partecipanti,
senza giudizio né critica”.68
Il setting è anche uno spazio di regolamentazione all’interno del quale si stabiliscono le “regole del
gioco”: giorno ed orario degli incontri, durata delle sedute, modalità di partecipazione all’attività.
Il lato regolamentativo del setting conferisce solidità e sicurezza alla relazione garantendo stabilità
ad entrambe le parti del rapporto musicoterapico (sia al musicoterapeuta che al paziente).
Il setting tuttavia non è uno spazio rigidamente strutturato “ma si ridefinisce ad ogni nuovo
percorso, in funzione del tipo di partecipanti, del contesto in cui si va ad operare, degli obiettivi da
raggiungere”.69
All’interno del setting si sviluppa una relazione terapeutica in cui la produzione musicale diventa
l’elemento attraverso il quale la persona parla di se, esternando i propri vissuti emotivi, dando loro
suono e forma e rendendoli così comunicabili, consentendo al terapeuta di accoglierli, elaborarli e
reintegrarli.
All’interno del setting “contenitore” di questo intervento, gli incontri sono stati condotti da me e dal
mio collega Corrado Equilibrati, in compresenza con le insegnanti della Scuola dell’Infanzia e sono
stati dedicati a tutti i bambini presenti nella scuola divisi per gruppi di età e formati da 12 - 15
bambini ciascuno.
La partecipazione regolare ed “attiva” delle maestre agli incontri è stata parte integrante dell’ambito
”normativo” del setting: credo che la presenza dell’insegnante di sezione permetta ai bambini, che
spesso in età prescolare ancora non hanno una concezione precisa del tempo, di avere un
68
S. Cavatorta e D. Vecchi, Il setting, in Manuale di Artiterapie e Musicoterapia, Marco del Bucchia Editore, Lucca,
2009, p. 294.
69
S. Cavatorta e D. Vecchi, ibidem, Marco del Bucchia Editore, Lucca, 2009, p. 295.
30
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collegamento fra il momento dell’incontro e la quotidianità scolastica, di connettere, in altre parole,
il passato con il presente e il presente con il futuro.
Anche la struttura dei gruppi ha avuto una sua regolarità: nella prima parte del progetto i gruppi
sono stati composti da bambini della stessa età e sempre dagli stessi bambini, in modo da dare loro
una doppia stabilità relazionale: tra “ i grandi (gli adulti) e i piccoli” e tra “i piccoli e i piccoli”.
In un secondo momento e in base all’evoluzione degli incontri è stato realizzato un “mescolamento”
dei gruppi che è stato utile per verificare la capacità dei bambini di gestire se stessi e le proprie
emozioni, di adattarsi ogni volta ad altri “altri”.
Questo passaggio, devo dire utile e vincente, è servito per portare i bambini a superare l’idea di
gruppo, fascia di età (i bambini della scuola dell’infanzia sono spesso divisi in gruppi di età
connotati da un colore, da un immagine o da un personaggio) o sezione e per portarli a considerarsi
un grande gruppo nel quale tutti possono interagire, relazionarsi e comunicare con tutti.
Gli incontri si sono svolti nel salone della Scuola dell’Infanzia, una grande stanza sufficientemente
sgombra da permettere di realizzare e gestire attività di movimento anche con un gruppo numeroso
e dotata di angoletti sufficientemente intimi da permettere un lavoro più mirato senza che lo spazio
porti a dispersioni di energia ed attenzione.
Il salone è ben illuminato, anche se non offre la possibilità di gestire ed indirizzare la luce verso un
punto preciso.
Ha però la possibilità di essere oscurato, cosa che ci ha permesso di proporre attività nelle quali si
dava alla luce, o all’assenza di luce, un contenuto comunicativo ed un invito all’azione.
Il salone non contiene strumenti musicali che, in base all’attività da proporre, sono stati selezionati,
portati e disposti nel setting prima dell’inizio dell’incontro.
Le attività che hanno composto gli incontri hanno seguito di volta in volta seguito un percorso che
gradualmente portava a un crescendo di attenzione e di intensità comunicativa per poi decrescere
nell’avvicinarsi al momento dei saluti ed alla conclusione dell’incontro.
Se invece le attività proposte erano di grande intensità emotiva, come è avvenuto quando si sono
affrontate con i bambini emozioni come la paura o la rabbia, l’incontro non si chiudeva con un
decrescendo ma con attività giocose e vivaci che permettessero di sfogare le emozioni vissute.
La gestione del tempo, che all’interno delle scuole è spesso scandita in modo cronometrico, è stata
aiutata da un orologio a muro per me ben visibile ma posto a una distanza sufficiente da non essere
vissuto come disturbante o invadente.
Questo accorgimento, che può sembrare marginale, è invece di fondamentale importanza e mi ha
consentito di non “arrivare troppo lunga” sui tempi, di non dover interrompere le attività in modo
brusco ma di gestire l’incontro con i giusti tempi e concludere con la giusta armonia.
31
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Prima dell’inizio del progetto è stato organizzato un incontro con le insegnanti durante il quale sono
state espresse le loro richieste e le loro necessità.
Altri incontri, fondamentali per valutare con le insegnanti il lavoro in corso, apportare eventuali
modifiche e fare il punto della situazione, hanno continuato ad avvenire con regolarità durante lo
svolgersi del progetto.
Sono inoltre stati organizzati alcuni incontri durante i quali i genitori sono stati informati del
percorso intrapreso dai loro bambini e durante i quali hanno avuto modo di vedere i video realizzati
durante gli incontri e di sperimentare direttamente le esperienze già vissute dai loro bambini,
cogliendone il significato ed il senso e, vivendole ognuno con il suo bagaglio emozionale e, di
conseguenza, condividendone le emozioni.
“I genitori chiedono spiegazioni, espongono dubbi, raccontano eventi significativi della loro vita e
del figlio in modo estemporaneo, suggerito da quello che sta accadendo.
Le credenze dei genitori sono così messe in discussione non per il gusto di discutere ma per gli
eventi che accadono, per procedere verso una crescita interiore in comune”. 70
70
Rapporto con i genitori, in Aspetti teorici, www.musicoterapia.it, dicembre 2009.
32
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SILVIA CAVATORTA – SST IN MUSICOTERAPIA – TERZO ANNO - A.A. 2009 - 2010
3.3. Gli strumenti tecnici
“Ogni elemento in grado di produrre un suono udibile o che produca un movimento suscettibile di
essere vissuto come messaggio e come strumento di comunicazione, farà parte integrante degli
strumenti tecnici della musicoterapia.
Ciò risulta dall’equazione movimento – musica o movimento – suono”.71
Da questa definizione fornita da Benenzon risulta che gli strumenti fondamentali del
musicoterapeuta in realtà non sono molti: il suo corpo e il corpo del paziente, la sua voce e la voce
del paziente, gli strumenti musicali che possono essere tradizionali, etnici, elettronici e/o auto
costruiti dal paziente, dal terapeuta o da entrambi, tutti elementi che hanno fatto parte degli
“strumenti tecnici” utilizzati nel corso di questo lungo intervento.
Ed ecco ritrovata, con abiti diversi ma non meno affascinanti, la Musikè più volte citata all’interno
di questo scritto.
3.3.1 Il Corpo72
Il corpo è il primo veicolo di relazione, comunicazione ed espressione, è il nostro primo contatto
con il mondo, primo mezzo di esplorazione e conoscenza e probabilmente anche la nostra prima
certezza.
Attraverso il corpo, o meglio, attraverso i suoi canali sensoriali, noi percepiamo il mondo.
Sulla base di queste percezioni si sviluppano i processi emotivi e cognitivi che ci insegnano a
comprendere, connettere e ricordare ciò che abbiamo percepito.
Sempre attraverso il corpo noi reagiamo agli stimoli, diamo forma alle nostre impressioni ed
intuizioni e le comunichiamo agli altri.
Il corpo è anche lo “spazio espressivo” delle emozioni: il rossore in viso, il nodo allo stomaco, la
luce degli occhi, le espressioni tipiche della gioia, della paura, della rabbia.
Nella musicoterapia, che spesso ha come obiettivo proprio il lavoro sulle emozioni, l’importanza
del corpo è fondamentale.
Benenzon dice: “Il corpo umano è lo strumento più importante fra tutti quelli che il
musicoterapeuta ha a disposizione”. 73
Ed aggiunge: “Il corpo umano è lo strumento musicale più completo sotto ogni profilo”.74
71
R. Benenzon, Manuale di Musicoterapia, Borla, Roma, 2005, p.65.
Cfr. S. Cavatorta, I materiali per la musicoterapia, in Manuale di Arteterapie e Musicoterapia, Marco de Bucchia
Editore, Lucca 2009, pp. 295 – 308.
73
Cfr. M. Catelli, Il corpo non mente. Attività corporee ed esercizi di musicoterapia, Istituto MEME, Modena, Anno
scolastico 2005-06, p.5.
74
R. Benenzon, Manuale di Musicoterapia, Borla, Roma, 2005, p.69.
72
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In ambito musicoterapico le potenzialità del corpo, che sia quello del musicoterapeuta o che sia
quello dei paziente, sono enormi.
Tutto il “lavoro” del musicoterapeuta e tutto il “lavoro” del paziente passa e si esprime attraverso
questo straordinario mezzo.
Natalina Loria nel suo “Dal corpo allo strumento musicale”75 dice: “La musica passa attraverso il
corpo e permette di esprimere le emozioni più intime.
(…) Il suono proviene dal corpo ed è quindi come se fosse il corpo stesso a parlare.”
Ed aggiunge che il musicoterapeuta “deve imparare a riconoscere appieno il proprio corpo e a
sfruttarne tutte le possibilità sonoro vibrazionali.
Il suo allenamento personale è rivolto ad eliminare blocchi psicologici, pregiudizi ed inibizioni che
potrebbero impedirgli di esprimersi liberamente attraverso il corpo”.
Sappiamo infatti che il corpo umano, la vicinanza, il contatto, può risvegliare vissuti d’ansia e di
allarme che il musico terapeuta deve essere in grado di conoscere in se per poi riconoscere nei
pazienti.
Per questo motivo in alcuni casi l’utilizzo del corpo deve prendere il via da una certa distanza, per
evitare un eventuale contatto fisico troppo stretto che potrebbe generare disagi.
“Battute sulle mani, piccoli schiaffi, mani sulle cosce, stimolando una risposta ritmica, le domande
e risposte hanno tutte una risposta istintiva”.76
Sia i pazienti che i terapeuti ascoltano attraverso il corpo, cantano attraverso il corpo, si muovono su
una musica attraverso il corpo, si avvicinano a uno strumento per esplorarlo attraverso il corpo,
suonano attraverso il corpo, si mettono in contatto attraverso il corpo e, soprattutto, attraverso il
corpo comunicano.
Come ognuno di noi ha avuto modo di sperimentare personalmente, la musica produce il forte
effetto di indurre al movimento.
Per ottenere questo risultato non c’è necessità di alcuna preparazione o competenza o consegna
particolare: sia per far musica che per danzare l’uomo non ha bisogno di nulla all’infuori di se
stesso.77
Il suo corpo è il suo strumento principale.
La musica e la danza hanno origine dall’essenza stessa dell’uomo, dalla pulsazione del cuore e dal
ritmo del respiro, dalla necessità di esprimere se stesso attraverso vie più intime, immediate ed
istintive rispetto al linguaggio verbale.
Cfr. M. Catelli, Il corpo non mente. Attività corporee ed esercizi di musicoterapia, Istituto MEME, Modena, Anno
scolastico 2005-06, p.6.
76
R. Benenzon, Manuale di Musicoterapia, Borla, Roma, 2005, p.69.
77
B. Hanselbach (trad. Orietta Mattio), Il significato del movimento e della danza nell’Orff – Schulwerk, Materiali
Didattici Centro Didattico Musicale Onlus, Roma, ottobre 2003, pp. 2-3.
75
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Il battito cardiaco e la pulsazione che ne deriva sono la radice del ritmo che è proprio e peculiare di
ognuno di noi e sul quale ognuno organizza la via che porta all’espressione di se stessi attraverso il
movimento e la musica: la respirazione diventa melodia, resa udibile dalla voce umana o dal suono
di uno strumento e disegnata con il corpo.
L’esigenza umana alla musica ed al movimento “espressivo” nasce della stessa esigenza
comunicativa che assume a volte una forma più uditiva diventando musica, altre volte una veste più
cinetico-visiva diventando danza e movimento, altre volte invece unisce i linguaggi e il corpo che si
muove è lo stesso che suona così che la creazione musicale risulta del tutto fusa con quella
“coreutica” e l’interprete è un’unica unione di danzatore e musicista.
Può quindi avvenire che un pezzo per percussioni corporee divenga una danza, come ad esempio
avviene nel flamenco, nella quale tutto il corpo è un’orchestra che suona una musica che “si vede”
grazie al movimento e che “si sente” grazie alle percussioni corporee; così come può avvenire che
una melodia eseguita con la voce o con uno strumento divenga una danza nella quale il corpo da
“forma visiva” alla musica.
La musica è suono in movimento, nella danza il movimento è musica resa visibile attraverso il
corpo.
All’interno del progetto “Cosa vuol dire Emozione?” questa sinestesia si è ritrovata ogni volta che
ai bambini è stato chiesto di “muoversi come dice la musica” o di dare una forma fisica a un suono
o a un’atmosfera musicale: il corpo da forma al suono, il movimento da tridimensionalità alla
musica, la musica modella il gesto, la postura, l’espressione.
Un altro uso musicale e musicoterapico del corpo, è quello che vede l’utilizzo delle percussioni
corporee o body percussion, termine con il quale si indicano quell’insieme di sonorità prodotte dal
corpo e per mezzo del corpo (come ad esempio lo schiocco di dita, il battito di mani, il battito di
piedi a terra).
Le percussioni corporee, che in genere utilizzo molto nelle scuole e che ho utilizzato molto anche
all’interno di questo progetto, forniscono la straordinaria possibilità di attuare un collegamento
immediato fra corpo ed espressione sonoro musicale.
Questo avviene grazie al fatto che nelle percussioni corporee il rapporto gesto – suono è diretto e
non prevede le “mediazioni” fisiche che caratterizzano il contatto musicale con lo strumento, nel
quale il passaggio che avviene è sintetizzabile in gesto - strumento – suono.
Questa immediatezza è ulteriormente sottolineata dal fatto che il lavoro sulle percussioni corporee
si basa sull’elemento del linguaggio musicale più fisico ed istintivo: il ritmo.
La presa di coscienza di quali sono le parti del corpo “attive” e “abili a percuotere”, come ad
esempio piedi, mani e dita e di tutte quelle “passive” e “adatte ad essere percosse”, come ad
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esempio cosce, braccia, pancia, petto, guance, ecc. e di come le varie sonorità prodotte dal corpo
possono essere mescolate in una produzione musicale, può essere un buon modo per cominciare un
percorso musicoterapeutico basato sulla scoperta e “riscoperta musicale” del proprio corpo.
I bambini in età prescolare già vivono la scoperta del loro corpo come una magia.
Aggiungere a questa magia l’ulteriore fascino della scoperta del proprio “corpo musicale” ha su di
loro un impatto emotivo e “fascinatorio” notevole.
Ultimo ma non ultimo e da non dimenticare quando si parla del rapporto fra suono e corpo in
movimento è anche il già citato e descritto Metodo Orff – Schulwerk
78
basato sull’unione di
musica, parola e movimento79 ed utilizzatissimo anche all’interno di questo progetto in ogni attività
che ha previsto l’unione di voce, corpo e suono (un esempio della nostra Musikè si può ritrovare
nelle attività che hanno portato alla creazione di “Scende la notte scura scura”, che è voce che narra
su una “passeggiata coreografata” che poi diventa danza per concludersi con l’unione di danza
parola, canto e musica)
3.3.2. La Voce80
La voce è uno strumento molto particolare, dal momento che tutte le sue parti sono contenute
all’interno del nostro corpo.
Esattamente come nel caso degli altri strumenti, per permettere la nascita del suono è necessario un
elemento “eccitante” (nel caso della voce l’aria che fuoriesce grazie alla spinta del diaframma), un
corpo vibrante (in questo caso le corde vocali la cui tensione, lunghezza e spessore determinano
l’altezza del suono) e un “ambiente risonante” (la cassa toracica e la cavità orale, quella nasale e
altre piccole zone distribuite nella scatola cranica).
Ciò che rende unica la voce umana intesa come strumento, e quindi come realtà in cui attraverso il
suono possono incontrarsi anima e corpo, è il fatto che il “risonatore” principale, cioè la bocca, è
mobile ed è quindi possibile modificarne la forma nel corso dell’emissione del suono e, di
conseguenza, modificare le caratteristiche di uno stesso suono emesso.
La voce inoltre ha una fondamentale importanza nell’espressione personale, rispecchiando le
condizioni mentali, fisiche ed emozionali di una persona.
È infatti un gesto espressivo dell’anima, un’occasione di libertà e di comunione con se stessi e con
gli altri.
“Di tutti i fenomeni sonori del corpo umano, la voce e il canto sono i più profondi”.81
78
Cfr. www.orffitaliano.it, settembre 2009.
B. Hanselbach (trad. Orietta Mattio), Il significato del movimento e della danza nell’Orff – Schulwerk, Materiali
Didattici Centro Didattico Musicale Onlus, Roma, ottobre 2003, p. 6.
80
Cfr. S. Cavatorta, I materiali per la musicoterapia, in Manuale di Arteterapie e Musicoterapia, Marco de Bucchia
Editore, Lucca 2009, pp. 308 – 312.
79
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Conoscere e comprendere la propria voce, scoprire come vengono emessi i suoni e in che modo
questo si collega con l’ambiente emotivo di ognuno di noi, è un ottimo modo e un buon punto di
partenza per imparare a ri-conoscere e a “sentire” la persona che abbiamo davanti, percependo i
significati non espressi celati dietro le parole o nascosti nei silenzi.
In più, in gruppo o da soli, il canto può diventare un'attività benefica e liberatoria.
Come già detto nel paragrafo dedicato alle origini della musicoterapia, già gli antichi riconoscevano
alla musica la capacità di esercitare un potere “incantatorio” sulla parte irrazionale dell’uomo, di
procurare benessere e di “ricostituire” l’armonia perduta per esempio a causa di una malattia.
La musica quindi è da sempre riconosciuta come veicolo di comunicazione ed espressione che
agisce sul sistema neurovegetativo e facilita la liberazione delle emozioni e delle risorse creative di
ciascuno.
E questo, a maggior ragione avviene quando il soggetto che si “esprime” musicalmente è lo stesso
che emette fisicamente il suono, come avviene nel canto.
“La sensazione di entusiasmo che si prova alla fine della pratica del canto e che ancora riverbera
nel corpo e nell’aria ha assolutamente a che fare col significato etimologico della parola
entusiasmo, dal greco èn-theos: pieno di un dio, divinamente ispirato.
Questa viva agitazione dell’animo crea una pacifica esplosione vitale: il corpo, protetto dal canto e
disarmato dal canto, riceve pace intima e sconfinata”.82
Come dimostra anche l’utilizzo di una terapia particolare, la cantoterapia che, oltre ad essere un
modo per conoscersi ed esprimere se stessi, può anche essere una forma di rieducazione vocale.
“Se il corpo umano è uno strumento vibratorio trascurato o danneggiato, la pratica del canto può
ristabilirne la sua vitalità originaria”.83
La cantoterapia permette infatti di controllare i muscoli per l’emissione della voce, la pronuncia, il
ritmo, l’intonazione e la velocità dell’eloquio, permettendo di ristabilire la padronanza della voce e
della parola in modo efficace e piacevole per il paziente.
La cantoterapia arriva a risolvere questi problemi attraverso l’applicazione di una serie di tecniche
vocali specifiche (l’interpretazione di brevi frasi con variazione di intensità e volume, l’intonazione
su suoni diversi di parole bisillabiche; la respirazione diaframmatica, ecc…). senza dimenticare
però il primo fondamentale obiettivo: aiutare il paziente promuovendone la socializzazione,
l’integrazione, l’autostima e l’espressione.
“Così, la ritrovata padronanza del soffio, del suono e della postura può ristabilire il legame
spontaneo tra corpo e anima.
81
R. Benenzon, Manuale di Musicoterapia, Borla, Roma, 2005, p.70.
Germana G., La pace entusiasmante, da Il canto come dimensione dell’anima, www.procopestudio.it, novembre 2009.
83
Germana G., Il silenzio del canto, da Il canto come dimensione dell’anima, www.procopestudio.it, novembre 2009.
82
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(…)Perfezionare la bellezza del gesto del canto attraverso canzoni, intrecci polifonici o
improvvisazioni, ha un’efficacia che non ha a che fare con l’estetica di una forma ma con
l’equilibrio e l’integrazione di diversi aspetti della creatività.
Un equilibrio armonico che unisce comunicazione emotiva, ascolto profondo e senso di libertà.
Si tratta perciò di non porre ostacoli superflui, fisici e mentali, che facciano attrito alla natura
profonda del canto: essere un dono libero dell’anima”.84
Prima di concludere questo sintetico viaggio nel mondo della voce, qualche informazione relativa a
come questo meraviglioso strumento funziona.
“Il canto può aiutare a costruire nel cuore dell’uomo un’abitazione gioiosa.
Per essere incarnato e autentico, il canto deve possedere dimora e radici.
Perché tutto ciò accada è necessario preparare il corpo, il nostro strumento, a disporsi nel modo
più perfetto affinché l’anima si dispieghi, affinché coincidano il nostro sentimento interiore e ciò
che vibra nell’intimità di chi, ascoltandoci, riceve la nostra emozione”85.
Per preparare il “corpo della voce” è necessario percepire il proprio corpo interno come luogo di
ospitalità.
La voce stessa ci aiuta a tracciare i confini interni di questo luogo, esplorando con precisione la
struttura ossea del corpo: la vibrazione vocale riverbera all’interno del nostro corpo risuonando e
diventando vibrante.
Tutto ciò è possibile solo attraverso una gestione cosciente ed equilibrata dell’apparato fonatorio:
“il diaframma che lascia scorrere l’onda del respiro, le corde vocali che modulano l’emissione
dell’aria, la gola che fa da canale fra lo spazio ampio della cassa toracica e il mondo ricco di
anfratti della testa, la lingua e il palato che giocano fra di loro le mille sfumature del suono”.86
La forza che produce la voce è quella dei muscoli della cassa toracica: essi, contraendosi,
comprimono i polmoni e generano quindi un flusso d'aria continuo che dai polmoni risale lungo la
trachea.
Verso l'estremità superiore della trachea l'aria si infrange contro una sorta di "tendina" (le cosiddette
corde vocali) la cui forma ed apertura è regolabile attraverso un complesso sistema di muscoli.
A riposo le corde vocali sono in posizione "aperta" e consentono il passaggio dell'aria per la
respirazione.
Quando vengono tese dai muscoli si chiudono in misura variabile, restringendo il passaggio e il
flusso continuo d'aria che urta le corde vocali subisce un improvviso aumento di pressione.
84
Germana G., ibidem, www.procopestudio.it, novembre 2009.
Germana G., La dimora interna, da Il canto come dimensione dell’anima, www.procopestudio.it, novembre 2009.
86
Germana G., Il canto come dimensione dell’anima, www.procopestudio.it, novembre 2009.
85
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Il meccanismo è quindi uguale a quanto accade negli strumenti a fiato attraverso l'imboccatura, le
labbra dell'esecutore o l'ancia.
La frequenza (cioè l’altezza) del suono prodotto dipende dalla frequenza di oscillazione delle corde
vocali, la quale, a sua volta, dipende dalla loro tensione, dalla loro densità, e dalla loro lunghezza.
Nel linguaggio musicale il termine "timbro" si riferisce alle caratteristiche intrinseche di una voce,
un attributo unico che ci fa distinguere la voce di una persona da quella di un'altra.
Il termine "colore", spesso confuso con il timbro o usato come sinonimo, si riferisce alle
modificazioni volontarie del timbro che vengono attuate per lo più a scopo espressivo.
Il registro, altra parola molto usata in ambito vocale e musicale, corrisponde invece alla particolare
sfumatura data alla voce in un certo momento per fini espressivi, al “luogo” fisico in cui si fa
risuonare la voce ottenendone possibilità e ricchezze diverse.
Normalmente si individuano tre aree ordinate dal registro più scuro a quello più chiaro:

voce di petto;

voce di gola;

voce di testa.
La voce può essere sfruttata in “ampiezza" per ottenere effetti quali ad esempio il crescendo (dal
piano al forte), il diminuendo (dal forte al piano) e lo sforzando (un forte seguito immediatamente
da un piano).
Esiste poi una vasta gamma di effetti che è possibile ottenere utilizzando al meglio l'apparato
vocale.
I più comunemente utilizzati sono il canto a bocca chiusa (che può prevedere i denti stretti o
“aperti”), l’emissione “sottovoce” (nella quale le corde vocali lasciano passare l’aria senza vibrare
ottenendo un’emissione “afona”) e il falsetto (tecnica che consente di emettere suoni all'incirca
un'ottava sopra il normale registro del parlato).87
In un epoca di cambiamenti, di spostamenti di popoli e culture e di scontri culturali, il canto può
diventare anche strumento di integrazione.
I canti di tradizione, parte integrante di ogni cultura, costituiscono il terreno sul quale è fiorita
l’anima di un popolo e permettono di cogliere lo spirito e la personalità della cultura in cui sono
stati creati.
Ogni popolo attraverso la propria lingua e, di conseguenza, i canti della propria tradizione, fa
risuonare alcune parti del corpo e non altre, generando un timbro vocale caratteristico dell’anima di
quella particolare cultura.88
87
Cfr. www.fisicaondemusica.unimore.it, aprile 2009.
Cfr. Germana G., L’anima della voce è il suo timbro, da Il canto come dimensione dell’anima, www.procopestudio.it,
novembre 2009.
88
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Per fare qualche esempio, basta pensare alle evidenti differenze nell’uso dello strumento voce che
esistono fra il canto di gola puro e potente di un cantore tibetano, la voce limpida e modulata della
tradizione melodica italiana e il grido travagliato di un cantaor andaluso.
“Le comunità hanno, da sempre, veicolato tramite il canto diverse emozioni, celebrando i passaggi
della vita, integrando il canto nella fatica del lavoro”.89
Oggi in diversi luoghi, tra i quali il nostro paese, i canti di tradizione non sono praticamente più
utilizzati come veicolo di trasmissione dell’anima musicale di una cultura da generazione a
generazione, ma, se può esserci un valore nel non avere radici forti in una comunità ben definita,
questo sta nel cercare di trovare una propria radice capace di intrecciarsi con le radici con l’altro, al
di là di razza, cultura, ideologia, sesso o religione.90
“All’interno di questa forte mutazione antropologica, laddove famiglia, cultura e società sono
confini labili, da cui ci si è allontanati per necessità o perché vissuti come “ristretti”, è importante
poggiare sui propri confini interni in modo fiducioso, senza chiusura ma con cura.
(…) In questo millennio è di fondamentale importanza che la pratica del canto contempli il valore
dell’intercultura.
Percepire i confini del nostro corpo interno tramite l’appoggio e la risonanza vibratoria di canti di
diverse culture ci consente di esplorare parti di noi (in senso propriamente fisico) che non
conoscevamo, di sentire vibrare dentro di noi nuovi timbri, e di cominciare a conoscere l’altro
incarnandolo un po’: ricevendolo.
Accettare lo straniero in noi, l’altro, lo sconosciuto, l’incomprensibile, può far nascere in noi lo
spazio di una dimora nuova, quella dove coincidono uomo e mondo, corpo e culture, e l’anima
diventa fonte comune”. 91
Nel lavoro con i bambini della scuola dell’infanzia la voce, intesa non solo come voce che canta ma
anche, e soprattutto, come voce che racconta, voce che si sperimenta, voce che si mette in gioco, è
un elemento fondamentale.
All’interno del progetto oggetto di questa tesi la voce è stato uno dei collanti che ci hanno portati a
condividere esperienze emotive: ognuno ha raccontato cosa lo rendeva triste o felice, cosa lo
spaventava o faceva arrabbiare, ognuno ha espresso localmente, alle volte quasi senza volerlo, il
“suo” suono della gioia, quello della tristezza, quello della rabbia e quello della paura.
Per quanto riguarda la voce che canta, credo che a questo punto sia bene fare un piccolo passo
indietro che chiarisca quali sono le possibilità vocali di un bambino di 3, 4 o 5 anni e di cosa è
giusto chiedere ed aspettarsi di avere.
89
Germana G., ibidem, www.procopestudio.it, novembre 2009.
Cfr. Germana G., ibidem, www.procopestudio.it, novembre 2009.
91
Germana G., ibidem, www.procopestudio.it, novembre 2009.
90
40
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Il canto, l’emissione vocale è una pratica molto più complicata di quanto non si immagini, che
prevede una profonda conoscenza del proprio apparato fonatorio e del proprio corpo in genere e una
grande capacità di ascolto di se stessi e degli altri.
Per questi motivi i bambini della scuola dell’infanzia hanno spesso notevoli difficoltà ad mettere
correttamente un suono.
L’attività vocale prevederebbe quindi, che ogni bimbo venisse ascoltato singolarmente, istruito sul
da farsi e corretto nei suoi “errori” fonatori più evidenti (bambini che non aprono la bocca, bambini
che non articolano correttamente le parole, bambini che cantano a denti stretti, bambini che cantano
a un volume insufficiente o che, al contrario, urlano, ecc…) ma come è facile intuire questo
annoierebbe non poco il resto del gruppo.
Come credo sia chiaro, non sono una grande fan del “tanto per cantare”, né quando mi occupo di
didattica musicale né, come in questo caso, quando il percorso intrapreso vuole orientarsi verso
obiettivi legati all’ascolto.
La grande magia dell’uso corale della voce sta, infatti, nella capacità di rendere tante voci una voce
sola.
Per fare questo, come sempre in musica e ancora di più in musicoterapia, è necessario partire
dall’ascolto, che è sempre ascolto di se e ascolto degli altri, capacità che nei bambini della Scuola
dell’Infanzia sono in formazione e in costruzione e che noi operatori, ognuno col suo ruolo,
abbiamo il dovere di aiutare a scoprire e a formare.
3.3.3. Gli Strumenti Musicali92
Uno strumento musicale, oltre ad essere un oggetto costruito con lo scopo di produrre suoni e di
conseguenza musica, è essenzialmente l’estensione e il prolungamento del corpo e della voce, sia di
quella del terapeuta che di quella del paziente.
Perché uno strumento musicale sia d’interesse per un utilizzo musicoterapico deve possedere alcune
caratteristiche:

semplicità di utilizzo e manipolazione;

facilità di presa e di spostamento;

potenza sonora e chiare e riconoscibili caratteristiche sonore.
A queste, Benenzon ne aggiunge altre tre93:

deve essere volto verso l’esterno e non all’introversione;
92
Cfr. S. Cavatorta, I materiali per la musicoterapia, in Manuale di Arteterapie e Musicoterapia, Marco de Bucchia
Editore, Lucca 2009, pp. 312 – 319.
93
R. Benenzon, Manuale di Musicoterapia, Borla, Roma, 2005 pp. 65.
41
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
deve possedere chiare possibilità sonore, strutture ritmiche e melodiche facilmente
comprensibili;

presenza sufficiente in quanto stimolo di oggetto intermediario.
L'uso degli strumenti musicali è un utile supporto per la conoscenza di se stessi: si producono suoni
in sintonia con i propri sentimenti e si stabilisce una comunicazione con i diversi membri del
gruppo stesso.
Ciò che conta all’interno di un setting musicoterapico naturalmente non è “suonare bene”, quanto
riuscire a prendere coscienza delle proprie capacità espressive attraverso la musica che si produce e
riuscire a sentirsi parte del gruppo accettandone regole e ruoli.
Per ottenere questo spesso si usano strumenti musicali “semplici” in modo che nessuno sia
intimorito o si senta "incapace di suonare” e quindi escluso dal gruppo.
In genere si usano strumenti a percussione (tamburi, tamburelli, legnetti, triangoli, piatti, maracas,
metallofoni), che per facilità di utilizzo ed immediatezza d’uso permettono di esprimersi anche
senza avere particolari competenze musicali.
“Sono di manipolazione semplice: chiunque può battervi sopra ed ottenere un suono, anche senza
avere alcuna conoscenza musicale. (…) Come tutti i membranofoni con cassa di risonanza, il
tamburo tende a richiamare il battito cardiaco.
(…) Strumenti come i tamburi sono chiamati strumenti leader, perché riuniscono le caratteristiche
principali richieste dalla musicoterapia, e inoltre sono generalmente scelti dai pazienti leader del
gruppo. Questo tipo di strumento, in un gruppo di musicoterapia, diventa facilmente guida degli
altri, ovvero ciò che noi abbiamo chiamato “oggetto integratore”.
(…) I membranofoni presentano il vantaggio di poter produrre suoni non solo se li si percuote, ma
anche carezzandoli, sfiorandoli, grattandoli: il che apre tutta una gamma estesa di possibilità di
suono, di movimento, di sensazioni tattili
Allo stesso modo il tamburo e il tamburino possono essere percossi con diverse parti del corpo: le
palme, le cosce, le ginocchia, i gomiti; fatto che aumenta la dinamica delle possibilità”.94
Nonostante il deciso predominio delle percussioni, nessuno vieta di inserire nei setting
musicoterapici strumenti di qualsiasi tipo: strumenti armonici (cioè, detto in modo molto semplice,
quelli in grado di produrre accordi come, ad esempio, la chitarra, la fisarmonica o il pianoforte),
strumenti melodici (quelli che producono melodie oppure, sempre per dirlo nel modo più semplice
possibile, strumenti che emettono un suono alla volta come, ad esempio, gli strumenti a fiato o la
voce) strumenti tradizionali, etnici ma anche strumenti autocostruiti con materiale nobile o con
oggetti riciclati.
94
R. Benenzon, ibidem, pp. 66 – 67.
42
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Lo strumento auto costruito permette al paziente di “mettere del suo” anche in questa attività, gli
permette di essere “creatore” della sua sonorità, decidendone caratteristiche, forme e colori.
Ed in questo caso anche lo strumento, insieme alle sonorità che grazie a questo verranno prodotte ed
all’espressione di sé che attraverso questo potrà “uscire”, diventerà espressione del paziente stesso:
“questi strumenti sono molto legati all’iso di chi, paziente o terapeuta, ha creato lo strumento”.95
È il terapeuta che decide di quali strumenti avvalersi in base a ciò che è chiamato a fare e, perché
no, anche in base a ciò che più gli si confà.
Prima di andare avanti, due parole di approfondimento sul famoso strumentario Orff che, essendo
così diffuso, è importante conoscere almeno a grandissime linee.
Lo strumentario che Carl Orff concepì negli anni trenta è l’innovazione fondamentale capace di far
passare lo strumentario musicale dalle mani dell’operatore a quelle del paziente.
Gli strumenti costituenti il famoso “strumentario Orff”96 sono maneggevoli, di uso immediato,
adatti ad allenare il coordinamento manuale e psicomotorio fin dalle sue prime fasi, insomma sono
strumenti a misura di persone senza competenze in campo musicale.
Lo strumentario Orff è normalmente composto da:

strumenti a percussione a suono indeterminato come legnetti sonori, piattini (cimbali), piatti,
triangoli, nacchere, cassettina di legno, sonagli, tamburo basco, timpanetto e tamburi di varie
dimensioni;

strumenti a percussioni a suono determinato come metallofoni, xilofoni di formato ed estensione
varia e glockenspiel;

strumenti melodici come i flauti dritti (soprattutto soprano e contralto).
Molto più raramente nei comuni strumentari Orff appaiono strumenti gravi “di sostegno” come
violoncelli, viole da gamba, contrabbassi, liuti, chitarre anche se lo strumentario Orff “originale”
prevederebbe anche la presenza di questi strumenti.
Ora, per fare un po’ di chiarezza sull’ampissimo mondo degli strumenti musicali, ecco una sintetica
panoramica basata sulla classificazione Hornbostel-Sachs97 che divide gli strumenti musicali in
cinque famiglie:

gli Aerofoni98 sono strumenti musicali che producono suono attraverso la vibrazione
dell’aria, senza l'uso di corde o membrane vibranti e senza che sia lo strumento stesso a vibrare.
95
R. Benenzon, ibidem, p. 70.
Cfr. www.orffitaliano.it, settembre 2009.
97
Diagram Group (a cura di), Gli strumenti musicali di ogni epoca, di ogni paese, F. lli Fabbri Editore, Milano, 1977, p.
8.
98
Diagram Group (a cura di), ibidem, F. lli Fabbri Editore, Milano, 1977, p. 14.
96
43
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Negli strumenti a fiato l'aria viene insufflata, vale a dite “fatta entrare” nello strumento,
direttamente dal suonatore (dalla bocca o, in alcuni casi, da una narice); negli strumenti a mantice
l'aria viene spinta con il movimento meccanico di un mantice.

i Cordofoni99 sono strumenti musicali che producono il suono attraverso le vibrazioni
prodotte dalle corde di cui sono dotati.
Gli strumenti cordofoni hanno solitamente una cassa armonica con la funzione di amplificare il
suono, una tastiera che consente di determinare l'altezza della nota da eseguire, il ponte che
consente di ancorare le corde sullo strumento e i piroli (o bischeri, o chiavette, o meccaniche, il
nome varia a seconda del tipo di strumento) con cui può essere regolata la tensione delle corde e, di
conseguenza, l’accordatura dello strumento.

i Membranofoni100 sono strumenti che producono suono attraverso la vibrazione prodotta da
membrane in pelle o plastica percosse dalle mani degli strumentisti o da appositi battenti.
Gli strumenti membranofoni possono essere a suono determinato, vale a dire che sono strumenti in
grado di produrre suoni di altezza determinata e determinabile (come ad esempio il kazoo, i
timpani, le tabla), oppure a suono indeterminato, che generano cioè suoni dei quali non è possibile
determinare l’altezza precisa o, se anche fosse prevalente una nota fondamentale, questa non
sarebbe considerata ai fini della esecuzione.
Sono esempi di strumenti membranofoni a suono indeterminato la batteria, il bongo, le congas, la
grancassa, il rullante, il tamburo a cornice, il tamburo con sonagli, il tom-tom.

gli Idiofoni101 sono strumenti che producono suono attraverso la vibrazione del corpo stesso
dello strumento, senza l'utilizzo di corde o membrane.
Fanno parte di questa famiglia ad esempio il triangolo, le maracas o cabasa).
Gli idiofoni possono essere realizzati in materiali diversi, come il metallo, il legno, l'osso e le
materie plastiche e si dividono in:
- strumenti idiofoni a suono determinato che, come già detto per gli strumenti membranofoni, sono
in grado di produrre suoni di altezza determinata e determinabile (come ad esempio capita nel
glockenspiel, nel vibrafono, nelle campane tubolari, nella marimba, nello xilofono)
- strumenti idiofoni a suono indeterminato che, come già detto per gli strumenti membranofoni,
generano suoni dei quali non è possibile determinare l’altezza precisa (come capita ad esempio nel
gong, nei piatti, nel triangolo).
99
Diagram Group (a cura di), ibidem, F. lli Fabbri Editore, Milano, 1977, p. 164.
Diagram Group (a cura di), ibidem, F. lli Fabbri Editore, Milano, 1977, p. 140.
101
Diagram Group (a cura di), ibidem, F. lli Fabbri Editore, Milano, 1977, p. 90.
100
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
gli strumenti Elettrofoni102, categoria aggiunta in tempi recenti, raggruppa quegli strumenti
nei quali il suono non viene prodotto da una vibrazione ma viene generato per mezzo di un circuito
elettrico.
Ne sono alcuni esempi la batteria elettronica, il campionatore, il guitar synth, l’organo elettrico, il
pianoforte digitale, la tastiera elettronica.
Per fare un attimo di chiarezza in questo mondo in continua espansione è bene ricordare che uno
strumento che fa uso dell'elettricità per amplificare il suo suono, ma non per generarlo, non è
classificato fra gli strumenti elettrofoni.
Per questo motivo, ad esempio, la chitarra elettrica nella quale il suono viene prodotto da una
vibrazione che poi viene amplificata “elettricamente” resta classificata come strumento cordofono.
La diffusione dei circuiti integrati nell'industria degli strumenti musicali, ha permesso di
incorporare sofisticati dispositivi in grado di produrre e riprodurre un suono registrato digitalmente
definito campione audio.
Così gli strumenti chiamati sintetizzatori diventano macchine in grado di riprodurre, alle volte
anche con una fedeltà di suono notevole, strumenti musicali, suoni della natura ed effetti vari.
Nonostante io sia un’appassionata dello strumento “vero” e della vibrazione che produce suono,
credo che un uso pensato e orientato degli strumenti elettrofoni offra un bacino di possibilità sonore
e musicali che la musicoterapia non può sottovalutare.
All’interno del progetto mi sono basata sull’uso di strumenti a percussione sia a suono
indeterminato che a suono determinato.
Grande spazio ha avuto anche l’invenzione di strumenti e la creazione di oggetti sonori realizzati
con materiali di recupero o tratti dalla quotidianità.
Tutte le produzioni musicali dei bambini sono state sorrette, accompagnate dalla chitarra, strumento
che è stato utilizzato anche per proporre ai bambini le varie musiche legate alle varie emozioni
trattate.
Lo strumento è stato utilizzato alle volte nella sua versione acustica, altre volte, quando era
necessario un suono più deciso, da quella elettrica.
Un’ultima considerazione riguardo all’utilizzo degli strumenti trova conferma nel metodo di
Gertrud Orff: dal momento che fra i suoi obiettivi dell’intervento musicoterapico c’è la promozione
della concentrazione e della fantasia, “si dovrebbe usare il materiale con parsimonia in modo tale
che il bambino, posto di fronte a pochi strumenti, sia costretto a sviluppare un comportamento
creativo nella ricerca delle potenzialità di utilizzo di un singolo strumento.
102
Diagram Group (a cura di), ibidem, F. lli Fabbri Editore, Milano, 1977, p. 242.
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Inoltre, una seduta terapeutica condotta con l'apporto di un solo strumento non solo stimola la
fantasia del bambino, ma induce i membri del gruppo alla condivisione, alla tolleranza, a dosare
gli interventi e a proporli al momento giusto, nel rispetto dei tempi e delle dinamiche altrui”.103
Per concludere questo paragrafo dedicato agli strumenti e al loro uso credo sia importante
sottolineare che chiedere a bambini di età prescolare di regolare, adattare e gestire il proprio corpo
ed il proprio gesto in relazione allo strumento che si è chiamati a suonare, alla sonorità che si vuole
ottenere ed al contenuto che si vuole comunicare, il tutto in relazione e comunicazione con uno
stimolo musicale esterno con il quale lo strumento, e quindi il bambino che lo suona, è chiamato a
dialogare, credo sia una altissima forma di autocontrollo ed gestione di se stessi.
3.4. Le Tecniche
Altro “bagaglio” fondamentale, le tecniche si distinguono in primo luogo in attive e ricettive.
La cosiddetta musicoterapia attiva consiste nel “fare musica” in tutte le accezioni che questa
espressione può avere, le musicoterapia ricettiva consiste nella somministrazione di ascolti vari,
scegliendo i brani musicali in base agli obiettivi fissati ed in base alle necessità della persona
oggetto-soggetto dell’intervento.
La musica proposta può essere registrata od eseguita dal vivo dal terapeuta stesso.
La risposta allo stimolo musicale offerto può essere “tradotta” attraverso il rilassamento, il disegno,
la manipolazione di materiali, il movimento libero o strutturato, la scrittura, le verbalizzazioni,
l’improvvisazione strumentale, vocale o fisica.
Fra gli obiettivi della musicoterapia ricettiva, basata, come già detto, sull’ascolto di musica dal vivo
o registrata che può essere tratta da qualsiasi repertorio, figurano la creazione della relazione, la
concentrazione, la ricerca interiore, il rilassamento e la calma.104
La Musicoterapia attiva si basa invece su tecniche che prevedono la partecipazione attiva e creativa
sia del paziente che del musicoterapeuta.
Le tecniche più usate sono:

l’improvvisazione musicale

il dialogo sonoro

la composizione di canzoni (songwriting)

il movimento sulla musica

il canto e la vocalizzazione
103
A. Antonietti, E. Buffatti, L. Farruggio, P. Lazzati, Musicoterapia: guida di orientamento, www.cepad.unicatt.it,
novembre 2009.
104
R. M. Sarri, Musicoterapia fra le righe, www.edumus.com, novembre 2009.
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Nell’improvvisazione, così come dice la parola stessa, la persona crea musica in maniera
estemporanea.
L’improvvisazione può prendere la forma di un assolo realizzato dal paziente, più spesso di un duo
con il terapeuta o può diventare una improvvisazione di gruppo.
Ogni idea musicale proposta dal/dai paziente/i viene sostenuta musicalmente dal terapeuta che”
accompagna” l’improvvisazione dandole una adeguata cornice musicale.
Nella tecnica dell’improvvisazione non esiste uno strumento migliore di un altro, dal momento che
ogni strumento ha sia possibilità che limiti, ma è chiaro che gli strumenti armonici (chitarra,
pianoforte o tastiera, fisarmonica) offrono il notevole vantaggio di permettere la realizzazione
contemporanea di ritmo, melodia ed armonia.
Durante l’improvvisazione la persona, attraverso l’uso della voce e/o degli strumenti facenti parte
del setting, sperimenta la possibilità di esprimersi liberamente, aumentando l’ascolto e la coscienza
di sé e degli altri, favorendo l’integrazione e la comunicazione.
Una forma particolare di improvvisazione clinica è il Dialogo sonoro di Mario Scardovelli105.
Il dialogo sonoro è un particolare tipo di interazione musicale nella quale il musicoterapeuta (detto
facilitatore), rispondendo a ciò che esprime musicalmente il paziente (detto facilitato), ha il compito
di tenere i fili della situazione.
“Il facilitato ha a sua disposizione strumenti musicali a percussione (metallofono, xilofono), a
membrana (vari tipi di tamburi) e li utilizza come vuole.
Il facilitatore favorisce, incrementa, conduce il dialogo secondo la direzione che ritiene idonea”. 106
Nel Dialogo sonoro si individuano tre momenti fondamentali:

matching: il ricalco, combaciamento o sintonizzazione di alcuni aspetti della fisiologia
(respirazione, tono posturale, gestualità) e del tono emotivo della persona;

pacing: letteralmente andare al passo con la persona assecondandola;

leading: guidare o condurre la persona in una nuova direzione.107
Durante gli incontri basati sulla composizione di canzoni, il songwriting, il terapeuta accompagna la
persona nella scrittura e nella realizzazione prevalentemente di canzoni ma nessuno vieta di
accostarsi alla creazione di qualsiasi tipo di prodotto musicale.
È importante ricordare che in tutte le tecniche descritte le capacità tecnico-musicali del paziente
sono assolutamente influenti.
105
www.mauroscardovelli.com, dicembre 2009.
Dialogo sonoro, www.musicoterapia.it, dicembre 2009.
107
F. Delicati, Il dialogo sonoro, da Musicoterapia umanistica, www.pamonline.it, gennaio 2010.
106
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Come più volte ricordato lo scopo dell’incontro non è “suonare bene”, ciò che più conta è
l’accoglienza, sia di chi abbiamo davanti che di ciò che produce musicalmente, e la possibilità
espressiva offerta dal mezzo sonoro.
Le sedute musicoterapiche spesso possono includere il linguaggio verbale, il disegno, la pittura, la
manipolazione di vari materiali, il movimento espressivo, la danza, il gioco, la drammatizzazione.
All’interno del progetto “Cosa vuol dire Emozione?” le tecniche utilizzate sono state varie, tutte
adattate all’età dei destinatari del progetto e agli obiettivi a cui puntare.
Innanzi tutto abbiamo utilizzato musicoterapia attiva basata sul “fare musica”.
La musica, vocale e/o strumentale, è stata proposta sia da noi operatori che dai bambini.
La risposta allo stimolo musicale si è esplicitata attraverso il movimento, prima libero poi
lievemente più strutturato, attraverso piccoli momenti improvvisativi vocali e strumentali realizzati
ai bambini e legati allo stimolo musicale proposto, attraverso il disegno, attraverso la riflessione
comune sulle esperienze emotive vissute e attraverso la conseguente verbalizzazione.
Non sono stati realizzati momenti di vero e proprio dialogo sonoro anche se i bambini hanno avuto
modo di sperimentare un embrione di comunicazione sonoro musicale sostituendo in alcune
occasioni l’uso dello strumento all’uso della voce.
3.5. Tempi
Il progetto è iniziato ad ottobre 2009 e si è concluso nel maggio 2010.
Gli incontri hanno avuto cadenza settimanale ed hanno avuto una durata iniziale di 30 - 35 minuti
per gruppo con i bambini di 3 anni, 45-50 minuti per gruppo con i bambini di 4 e 5 anni, per poi
definirsi su circa 45 minuti per gruppo nel momento in cui i gruppi sono stati mescolati e non più
divisi per età.
Gli incontri con i genitori hanno invece avuto una durata di circa 2 ore ciascuno.
3.6. Diario delle attività
Come già detto, le attività proposte hanno avuto come scopo il mettere i bambini in condizione di
conoscere, sentire, vedere e riconoscere (sia in se stessi che negli altri) le emozioni fondamentali: la
gioia, la tristezza, la paura e la rabbia.
Volontariamente ho lasciato da parte il disgusto che spesso in bambini così piccoli non è una
sensazione chiara.
Il punto di partenza di ogni incontro è stato l’ascolto.
Ascolto musicale, certo, ma non per primo e non solo.
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Ascolto infatti è una parola “grande”: contiene l’ascolto di se stessi, la disponibilità all’ascolto
dell’altro, e quindi la disponibilità la disponibilità ad accogliere e ad accettare voci nuove e diverse.
“L'ascolto sarà sempre l'elemento fondamentale: innanzitutto sapersi ascoltare, poi saper ascoltare
l'altro, quindi saper ascoltare ritmi, melodie, sonorità.
Ascoltare per «stare» nell'ascolto.
Ascoltare per discriminare, per individuare sia ciò che acquista un particolare valore affettivo, sia
i canali espressivi che concorrono a definire la sonorità.
Ascoltare per imitare, elaborare, variare, inventare, ricreare generi musicali e per individuare
nuclearità sonore significative”.108
Ascolto è conoscersi e riconoscersi.
Musicalmente parlando, com’è facile intuire ascolto, voce, uso del corpo ed uso dello strumento,
capacità di percepire la musica e capacità di esprimerla attraverso il movimenti, la vocalità e/o l’uso
di uno strumento sono strettamente correlati e senza l’uno non sono possibili gli altri.
Gli incontri seguono una struttura che prevede diverse attività: l’ascolto della musica proposta e la
successiva riflessione personale da parte dei bambini, fase importantissima perché fonte di
informazioni fondamentali ed imperdibili (ad esempio, se un bimbo giura piangendo che a lui niente
fa paura, il messaggio opposto appare con tutta la sua violenza), attività di movimento legate alla
musica proposta ed all’emozione contenuta nella musica, attività strumentali legate alla musica
proposta, attività vocali legate alla musica proposta, breve momento di riassunto finale e saluti.
Nella sequenza degli incontri queste fasi sono spesso spostate, mescolate escluse o sommate in base
agli obiettivi fissati per ogni singolo incontro.
I bambini sono sempre chiamati ad agire in prima persona in relazione allo stimolo musicale ed al
messaggio contenuto in esso utilizzando alle volte il corpo, alle volte la voce, alle volte lo strumento
(e quindi il corpo più lo strumento), alle volte una mescolanza di questi elementi (il corpo più la
voce, la voce più lo strumento).
A mio parere con bambini di questa età, non più così piccoli da limitarsi all’esplorazione
dell’oggetto e non ancora grandi a sufficienza da riuscire a gestire in contemporanea un oggetto
sonoro e il proprio corpo, soprattutto se inserito in un contesto di espressività emotiva e di libertà di
espressione, perché il contatto con lo strumento sia utile è bene che arrivi dopo aver sperimentato il
proprio corpo nelle sue possibilità di movimento, nelle sue possibilità espressive, nelle sue
possibilità sonore e dopo averne acquisito un minimo di controllo.
Per questo momento gli strumenti, partendo da quelli non convenzionali, come ad esempio i gratta
gratta (piatti di carta con l’interno ruvido), le chitarre (bicchieri con elastico), i cucchiaini volanti
108
L. Tatulli, La musicoterapia va a scuola. Sì. Ma come?, www.musicoterapie.over-blog.com, aprile 2010.
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sonanti (cucchiaini legati a fili da pesca), i ventosoffia (carta da forno tagliata a frange), il tamburo
tamburello (tamburo fatto con bicchiere di carta e carta da forno), arrivando ad alcuni strumenti
tratti dallo strumentario Orff, sono apparsi nel setting dopo circa un paio di mesi di lavoro.
Gli strumenti sono stati usati in momenti di semplice dialogo sonoro condotto e contenuto dalla
chitarra, il corpo si è espresso in momenti di libera improvvisazione legata ad un ambito emotivo
preciso, mettendo in evidenza i modi personali che ciascuno ha di esprimere fisicamente uno stato
d’animo.
Vocalmente sono state realizzate alcune canzoni create appositamente per questo progetto, legate
agli ambiti emotivi in questione, caratterizzate da una struttura melodica semplice (ma sostenute
spesso da armonie complesse) e da testi chiaramente evocativi già a partire dai titoli (Son felice son
contento, Triste così, Scende la notte scura scura, Rabbia Rap) in modo che l’emozione fosse
chiaramente riconoscibile anche nelle parole.
I materiali utilizzati negli incontri con i bambini sono:
 chitarra;

oggetti e materiali vari da usare in modo “musicale” (piatti di carta, coperchi di pentole, tubi di
plastica lisci e zigrinati, manici di scopa, stendini, ecc…);

strumenti autocostruiti con carta, elastici, bicchieri di plastica, cucchiai e cucchiaini, corde e
spaghi;

strumentario composto da tamburi di diverse dimensioni, cembali di diverse dimensioni,
sonagli, campanacci, campane tubolari, maracas di varie forme, colori e dimensioni, bastone
della pioggia, ocean drums, battenti vari, “grattugie”di varie dimensioni;

stoffe di vari colori, pesi e tessuti, palle di varie dimensioni, cuscini;

tubi di stoffa nei quali poter entrare;

fogli, pennarelli, matite, colori a dito, colla, giornali e riviste.
Gli stessi materiali sono stati usati negli incontri con i genitori.
Ecco nei paragrafi seguenti analizzate e descritte le varie attività collegate alle emozioni prese in
esame.
3.6.1. La gioia
Ho ritenuto importante partire da un’emozione di “colore” positivo come la gioia, emozione che i
bambini non temono di provare e mostrare, emozione “non problematica” che non porta con se
vergogne o disagi.
La gioia è stata scoperta prima di tutto musicalmente.
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È stato proposto l’ascolto di diversi brani musicali eseguiti da Corrado alla chitarra ed è stato
chiesto ai bambini di indicare quello che per loro era il più felice.
Tutti i bambini hanno indicato come “musica più felice” un brano ovviamente in tonalità maggiore,
vivace e sorridente, caratterizzato da una ritmica sostenuta sulla quale è stato chiesto ai bimbi di
fare la faccia più felice che avevano.
L’espressione del viso, che nelle emozioni fondamentali è
uguale in tutte le culture, è il primo veicolo di
comunicazione ed espressione dell’emozione ed è anche il
primo mezzo di riconoscimento dell’emozione negli altri.
Anche l’espressione fisica della gioia è uguale in tutte le
culture e viene manifestata essenzialmente attraverso il
sorriso (muscolo zigomatico fa sollevare gli angoli della bocca e strizzare gli occhi).
La gioia è la manifestazione innata più comunemente usata per comunicare con la figura di
accadimento, è l’emozione che segue la gratificazione dei bisogni essenziali e la realizzazione di
un’azione creativa o socialmente utile.
Le manifestazioni fisiologiche della gioia sono:

l’accelerazione della frequenza cardiaca;

l’aumento del tono muscolare;

l’aumento della conduttanza cutanea;

una certa irregolarità nella respirazione.109
Questa attività “mimica” e posturale, nel senso che l’espressione fisica della felicità non ha
coinvolto solo il viso ma tutta la parte superiore del corpo, realizzata approfittando anche
dell’angolo degli specchi sempre presente in ogni scuola dell’infanzia, ha avuto il doppio scopo di
permettere a tutti di vedere l’espressione della gioia sul proprio viso e di permettere il
riconoscimento della stessa emozione sul viso altrui.
È stato interessante notare come alcuni bambini che hanno standard di comportamenti
particolarmente apatici sembra non sappiano sorridere.
Durante gli incontri che hanno scandito la “scoperta” della gioia diverse volte da molti dei bambini
è spontaneamente partita una riflessione su “questa musica è felice come quando…”: questa musica
è felice come quando vado a giocare a casa di mia cugina, questa musica è felice come quando sono
al mare, questa musica è felice come il Natale.
Sull’onda della riflessione è stato allora chiesto a tutti i bambini quale fosse la cosa che al mondo li
faceva più felici.
109
Cfr. R. Frison (a cura di) Le emozioni, dispensa Istituto MEME, Modena, A.A 2009 – 2010.
51
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Le risposte sono state tutte più o meno simili, essenzialmente basate sul rapporto con i genitori ed in
particolare con la mamma: la cosa che mi fa più felice è stare con la mamma, la cosa più felice è
giocare con la mamma e il papà, riflessioni che sono state riportate ai genitori nel corso degli
incontri a loro dedicati.
Ho l’impressione che alle volte i genitori non siano completamente coscienti dell’enorme
importanza che hanno per i loro figli per i quali sono l’amore più grande, la fonte di protezione e
sostegno e alle volte anche l’unica lente attraverso la quale vedere e leggere il mondo.
Al secondo posto per importanza e numero di risposte simili, immediatamente dopo quelle che
raccontano della gioia legata al tempo passato con i genitori, arrivano i pensieri dedicati agli amici.
Mi sembra che questo sottolinei bene come già in bambini così piccoli, sentirsi ed essere
riconosciuti come “esseri sociali” sia di assoluta importanza e lo dimostra il fatto che poter
condividere tempo con gli amici, tempo per giocare, parola importantissima e troppo spesso
sottovalutata o relegata all’ambito del mero passatempo, sia stato più volte citato e ricordato fra le
“cose felici”.
Tornando al progetto, sull’onda delle risposte ogni bambino ha disegnato la sua “cosa felice”.
Sono felice quando sono con la mia famiglia
Sono felice quando gioco con la mamma
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Sono felice quando gioco a pallone nel giardino della mia casa con mio papà
3.6.2. La tristezza
La tristezza è stata la seconda emozione che abbiamo affrontato.
Parlo di tristezza e non di dolore perché quest’ultima è una parola che assai difficilmente i bambini
usano.
Ho pensato che questo può essere dovuto al fatto che la parola “dolore” ha una connotazione
negativa e, appunto, dolorosa, molto più violenta rispetto alla parola “tristezza” e forse per questo
motivo i genitori evitano di comunicarla ai bambini.
Tornando al progetto, la tristezza è stata introdotta ai bambini con facilità, anche se forse in modo
semplicistico, come “opposto” della gioia.
Nella nostra lingua il termine dolore si riferisce sia al dolore fisico, cioè a sofferenze che hanno
origine nel corpo che a quello mentale che possiamo semplificare indicandolo con alcuni termini
quali perdita, frustrazione, delusione.
I bambini spesso non distinguono bene questi aspetti, o meglio, l’aspetto di dolore fisico, si lega a
doppio nodo a quello più mentale di tristezza provocata dal dolore fisico:
“Sono triste quando mio fratello mi picchia”
“Sono triste quando cado e mi faccio male”
Tornando al progetto, così come accaduto per la gioia, la tristezza è stata fatta scoprire ai bambini
innanzitutto musicalmente attraverso un ascolto contrapposto all’ascolto della musica felice.
È stupefacente notare come anche in bambini di neanche 3 anni l’espressione del viso durante
l’ascolto cambi immediatamente al variare dell’ambiente emotivo della musica proposta ed è
interessante notare come gli stessi bambini che pareva non sapessero sorridere siano invece
perfettamente a loro agio in un ambiente sonoro ed emotivo “triste”.
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Mi accorgo di quanto sia vero che, anche a questa età, la musica risuona con quello che sei e con le
esperienze che hai vissuto, sperimentato e maturato.
Ho l’impressione che per alcuni di questi bambini l’essere sempre, anche quando niente nella
situazione proposta contiene elementi di “pericolo”, in qualche stato di “difficoltà emotiva” (tristi,
arrabbiati, stanchi, spaventati) possa essere una strategia utilizzata per mantenere desta l’attenzione
del genitore su di se, tecnica che viene poi ampliata ed applicata con tutti gli adulti di momentaneo
riferimento.
Una buona chiave di lettura per questi bambini può arrivare dalla Teoria dell’Attaccamento dello
psicoanalista britannico John Bowlby (1907 – 1990). 110
L’attaccamento viene definito da come “propensione innata a cercare la vicinanza protettiva di un
membro della propria specie quando si è vulnerabili ai pericoli ambientali per fatica, dolore,
impotenza o malattia”.111
L’attaccamento, ossia il ricercare la vicinanza con una figura protettiva, è presente già poche
settimane dalla nascita, è parte integrante del patrimonio genetico della specie umana e può essere
osservato e studiato anche in altri primati.112
Osservando il comportamento dei macachi e quello dei bambini nei primi mesi di vita Bowlby notò
come si potessero osservare gli stessi schemi di comportamento.
In particolare verificò come attraverso la relazione con la madre il bambino si senta in possesso di
una “base sicura” dalla quale può allontanarsi per esplorare il mondo e farvi ritorno, intrattenendo
inoltre forme di relazione ed interazione con gli altri membri della famiglia.113
Il concetto di “base sicura”, elaborato da Bowlby nel 1969, è in realtà da attribuirsi alla psicologa
statunitense Mary Ainsworth (1913 – 1999)114, allieva e collaboratrice di Bowlby, che sul finire
degli anni ’60 ideò la “Strange Situation”, utile strumento di indagine per classificare i pattern (o
stili) di attaccamento nei bambini.115
Il “test dello straniero” evidenzia il modo in cui il bambino risponde ad uno stimolo vissuto come
pericoloso che attiva il suo comportamento di attaccamento.116
“In pratica esso è formato da otto episodi della durata di tre minuti ciascuno.
Nei primi episodi si può osservare il comportamento esploratorio del bambino alle prese con una
situazione estranea ma ricca di stimoli.
110
Cfr. www.sciencemuseum.org.uk, gennaio 2010.
J. Bowlby ,1969, www.psicologi-italia.it, gennaio 2010.
112
Cfr. La teoria dell’attaccamento, p. 8, www.aquiloneblu.org, gennaio 2010.
113
Cfr. N. Schiavone, Valutazione del legame di attaccamento nei bambini, in Teoria dell' attaccamento di John
Bowlby, www.atuttascuola.it, gennaio 2010.
114
Cfr. I principali autori della Teoria dell’attaccamento, www.inpsico.org, gennaio 2010.
115
Cfr. M. Zanetti, Una base sicura, www.psicologipsicoterapeutibologna.iobloggo.com, gennaio 2010.
116
Cfr. G. Mereu (a cura di), The Strange Situation (il Test dello Straniero), www.attaccamento.it, gennaio 2010.
111
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In seguito si provocherà un’attivazione del suo comportamento di attaccamento ad alta intensità,
tramite due brevi separazioni e due ricongiungimenti con la madre.
L’analisi del comportamento del bambino durante i primi trenta secondi di entrambi i
ricongiungimenti fornisce le indicazioni più importanti per poter giungere a formulare una
diagnosi secondo lo schema di Ainsworth et all. (l978) .
Questa metodica fu formulata come una procedura di laboratorio controllata, in modo che le
differenze individuali nel comportamento dei bambini potessero essere evidenziate dal fatto che essi
venivano esposti alla stessa situazione, con gli stessi episodi nello stesso ordine”.117
Secondo Bowlby l'attaccamento si struttura nei primi mesi di vita intorno ad un'unica figura che
spesso la madre anche se è possibile che un padre o un nonno o uno zio possano diventare figura di
attaccamento nel caso in cui siano coloro che dispensano le cure al bambino.
La qualità di quest’esperienza definisce la sicurezza d'attaccamento, descritta e “strutturata”
all’interno di quattro diversi stili di attaccamento denominati B, A e C118.
In un secondo tempo, grazie ad ulteriori studi, a questi si è aggiunto un ultimo stile di attaccamento
denominato Disorganizzato/Disorientato.
Nello stile di attaccamento B, definito sicuro, il bambino ha fiducia nella disponibilità e nel
supporto della figura di attaccamento nel caso si verifichino condizioni di pericolo.
Questo lo porta a sentirsi sicuro e libero nelle sue esplorazioni ed interazioni con l’ambiente
circostante.
Lo stile di attaccamento sicuro è “collegato” a una figura di attaccamento sensibile alle richieste del
bambino e disponibile a dargli protezione quando questa sia richiesta.
I bambini con attaccamento sicuro possono evidenziare:

sicurezza nell’esplorazione;

convinzione di essere amabile;

capacità di sopportare i distacchi;

nessun timore di abbandono;

fiducia nelle proprie capacità e in quelle degli altri;

sé positivo ed affidabile;

altro positivo ed affidabile.
Nello stile di attaccamento sicuro l’emozione predominante è la gioia.
117
118
G. Mereu (a cura di), ibidem, www.attaccamento.it, gennaio 2010.
Cfr. N. Schiavone, Valutazione del legame di attaccamento nei bambini, in Teoria dell' attaccamento di John
Bowlby, www.atuttascuola.it, gennaio 2010.
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Nello stile di attaccamento A, definito insicuro evitante il bambino vive nella convinzione che le
sue richieste d’aiuto non solo non incontreranno la disponibilità della figura di attaccamento, ma
anzi potrebbero provocare una situazione di rifiuto da parte di questa.
Il bambino costruisce così le proprie esperienze facendo esclusivo affidamento su se stesso,
cercando l’autosufficienza anche sul piano emotivo e basando la sua lettura degli eventi sulla sola
cognitività.
I bambini con attaccamento insicuro evitante possono evidenziare:

insicurezza nell’esplorazione del mondo;

convinzione di non essere amabile;

percezione del distacco come “prevedibile”;

tendenza all’evitamento della relazione;

apparente esclusiva fiducia in se stessi e nessuna richiesta di aiuto;

sé positivo e affidabile;

altro negativo e inaffidabile.
Le emozioni predominanti sono tristezza e dolore.
Nello stile di attaccamento C, definito insicuro ambivalente, il bambino non ha la certezza che la
figura di attaccamento sia sempre presente e disponibile a rispondere con costanza alla sua richiesta
d’aiuto.
In questo stile di attaccamento la figura di attaccamento può infatti essere disponibile in modo
incostante ed imprevedibile, dando al bambino l’idea che l’unica certezza è appunto
l’imprevedibilità delle situazioni.
Per questo motivo l’esplorazione del mondo è incerta, esitante e connotata da forte ansia.
I bambini con attaccamento insicuro ambivalente possono evidenziare:

insicurezza nell’esplorazione del mondo;

convinzione di non essere amabile;

incapacità di sopportare distacchi prolungati;

ansia di abbandono;

sfiducia nelle proprie capacità e fiducia nelle capacità degli altri;

sé negativo e inaffidabile;

altro positivo e affidabile.
L’emozione predominante è la colpa.
56
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L’ultimo stile di attaccamento, definito attaccamento disorganizzato/disorientato119 fu introdotto da
Mary Main e Judith Solomon nel 1986 ed approfondito da Mary Main ed Erik Hesse120 nel 1992.
Questo stile descrive comportamenti che non rientrano in quelli osservati durante la Strange
Situation e “catalogati” come facenti parte dello stile sicuro, insicuro evitante o insicuro
ambivalente.
I bambini considerati disorganizzati/disorientati possono mettere in atto comportamenti apprensivi,
spaventati, conflittuali oppure disorientati in risposta al ritorno dei genitori dopo una breve
separazione.
In base alla disponibilità del caregiver (o figura di attaccamento) di rispondere alle richieste del
bambino, il bambino stesso crea quelli che Bowlby definisce “modelli operativi interni”, definibili
come “modelli mentali delle figure affettive e di sé che funzionano come prototipo per le relazioni
successive”.121
Concludendo questa digressione dedicata alla Teoria dell’Attaccamento possiamo dire che due sono
quindi i punti cardine del pensiero di Bowlby:122

lo stile di attaccamento infantile dipende dalla qualità delle cure materne ricevute;

lo stile dei primi rapporti di attaccamento influenza l’organizzazione del concetto che il
bambino ha di sé e degli altri.
Tornando al progetto, così come avvenuto per l’emozione della gioia anche la tristezza è stata è
riconosciuta prima di tutto musicalmente e, in base allo stesso schema, è stato proposto l’ascolto di
diversi brani eseguiti da Corrado alla chitarra ed è stato chiesto ai bambini di indicare quello che per
loro era il più triste.
Anche in questo caso la risposta è stata più o meno univoca e i bambini hanno indicato come
“musica più triste” un brano in tonalità minore molto moderato sia sotto il punto di vista ritmico che
sotto il punto di vista di intensità sonora.
Su questo brano, sempre per permettere ai bambini di vedere l’espressione della tristezza sul
proprio viso e di permetterne il riconoscimento sul viso altrui, è stato chiesto ai bimbi di fare la
faccia più triste che avevano.
Anche
l’espressione
facciale
della
tristezza
è
universalmente
riconosciuta e si manifesta attraverso il corrugamento della fronte e delle
sopracciglia, attraverso la chiusura degli occhi e l’abbassamento
all’ingiù di occhi, bocca e sopracciglia.
119
T. Deiana, Attaccamento e stili educativi, www.scform.unica.it, gennaio 2010.
Cfr. www.psychology.sunysb.edu, gennaio 2010.
121
www.psychomedia.it, gennaio 2010.
122
Cfr. La teoria dell’attaccamento, p. 9, www.aquiloneblu.org, gennaio 2010.
120
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Le manifestazioni fisiologiche della tristezza sono varie: inizialmente il tono muscolare è attivato e
poi a poco a poco tutto rallenta.
La voce si abbassa e la pelle impallidisce per effetto della vasodilatazione periferica che inibisce
l’afflusso sanguigno. 123
Anche in questo caso, come già capitato con la “connotazione fisica” della musica felice, l’idea di
“faccia più triste” si è allargata ad un’idea posturale, a una sorta di rappresentazione fisica della
tristezza evocata dalla musica ed anche in questo caso i bambini hanno dato vita a una riflessione su
“questa musica è triste come quando…”:
questa musica è triste come quando la mamma mi sgrida, questa musica è triste come quando
nessuno vuole giocare con me, questa musica è triste come quando sono da solo e no so cosa fare.
Sono poi state date ai bambini due disegni di espressioni, uno relativo alla gioia e uno relativo alla
tristezza, ed è stato chiesto loro di portarli a casa in modo che le potessero osservare con calma
insieme ai genitori per poi disegnare insieme a loro ognuno la sua maschera della gioia e la sua
maschera della tristezza.
Scopo di questo “compito”, comunicato ai genitori dalle insegnanti e ripreso durante gli incontri
dedicati agli adulti, era quello di stimolare una riflessione fra genitori e bambini sul tema
dell’emotività.
Ho proposto questo “esercizio” perché spesso raccontarsi,
raccontare delle proprie emozioni e “contenere” quelle altrui è un
tema spinoso prima per gli adulti che per i bambini.
Sappiamo che bambini che non hanno sperimentato in famiglia,
cioè all’interno della prima rete di rapporti affettivamente
importanti, la possibilità di esprimere liberamente le proprie
emozioni e l’importanza di questo scambio probabilmente non si
permetteranno di farlo neanche in caso di emozioni dolorose
difficili da gestire.
“Lo
psicoanalista
Winnicott
ha
coniato
l’espressione
autocontenimento.
Autocontenimento significa affrontare le emozioni più dolorose o
difficili da soli, ovvero l’atteggiamento contrario del chiedere
aiuto.
Quindi i bambini che si auto contengono sono quelli che hanno
rinunciato, o non hanno mai iniziato, a rivolgersi all’ambiente che li circonda in caso di disagio.
123
Cfr. R. Frison (a cura di), Le emozioni, dispensa Istituto MEME, Modena, A. A. 2009 – 2010.
58
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(…) È molto raro che questi bambini affermino di essere tristi spaventati o arrabbiati. Il fatto è che
sono convinti che chiedere aiuto per affrontare i loro stati d’animo sia una pessima idea, che li
farebbe stare peggio invece che meglio, perché si vergognano a doversi raccontare agli altri, nel
timore di essere rifiutati o fraintesi”.124
Lavorare con i bambini, con i genitori e con le maestre sull’espressione delle emozioni, sulla
capacità di esprimerle e sullo sperimentare la serenità e sicurezza che regala il sapere che esiste la
possibilità di esprimere liberamente noi stessi senza che questo porti a giudizi o condizionamenti è
parte integrante di questo progetto.
Ovviamente le emozioni che tendiamo a nascondere sono quelle connotate come negative, la
tristezza, ma ancora di più la paura e la rabbia (più avanti nella descrizione del lavoro fatto su
queste due emozioni si evidenzieranno alcuni esempi chiarissimi di come può succedere che paura e
rabbia vengano percepite come negative e quindi “inesprimibili” già da bambini molto piccoli).
“Reprimere i sentimenti che fanno male non significa farli sparire.
Così facendo, infatti, diventano di solito più forti e più grandi a causa di tutta la pressione che
serve a tenerli nascosti.
Le emozioni represse ricompaiono sotto forma di sintomi nevrotici, malattie fisiche o
comportamenti compulsivi causando sofferenza a se stessi e spesso anche agli altri.
(…) Quando il mondo delle emozioni non viene condiviso, ci si può sentire molto soli e spaventati,
perché i sentimenti dolorosi non condivisi tendono a crescere”.125
Nel corso degli incontri i bambini hanno avuto modo di connotare ed esprimere la gioia e la
tristezza sia musicalmente attraverso la vocalità e l’uso degli strumenti, sia fisicamente attraverso
l’espressione di quelle posture e di quegli “stili” di movimento che, anche senza vedere
l’espressione del viso della persona in movimento e senza sentirne la voce, vengono subito
catalogati come “movimenti felici” e “movimenti tristi”.
Tornando al sonoro-musicale, la voce ci è servita prima di tutto nei suoi elementi prosodici.
Utilizzando una parola neutra come ciao abbiamo sperimentato come modificando il ritmo del
parlato, l’intensità, la velocità, il tono, si modificava non solo la nostra espressione del viso ma
anche il significato di quel ciao che poteva assumere tratti di grande gioia o una connotazione triste
e malinconica.
La voce ci è servita anche per cantare la gioia e la tristezza e così, con l’aiuto dei bambini, sono nate
canzoni felici e canzoni tristi.
Ecco i testi:
124
125
M. Sunderland, Aiutare i bambini… a esprimere le emozioni, Ed Erikson, Trento, 2005, p. 5.
M. Sunderland, ibidem, Ed Erikson, Trento, 2005, p. 3.
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Son felice son contento
Son felice son contento
sono molto emozionato.
Ecco un’altra mia giornata
fatta apposta per giocar!
La musica la musica
La musica la musica mi riempie di gioia
fa diventare bello anche un giorno di noia.
Se canto con gli amici mi sento felice
la musica mi ascolta e se è contenta me lo dice!
Canzone triste
Triste è un cucciolo che ha perso la sua mamma.
Triste è il mio cane quando sono a scuola,
triste è il fiore bagnato dalla pioggia,
triste triste perché è finito il giorno,
Triste triste così.
Triste così
Triste, triste così
giuro giuro non sono stato mai.
Com’è triste questa musica qui.
Con l’aiuto di strumenti costruiti con materiali di recupero (manici di scopa per ottenere un timbro
da legni, vecchi cucchiaini per ottenere un timbro da metalli) i bambini hanno sperimentato come
l’ambito ritmico di una musica triste sia diverso da quello di una musica felice ed hanno sottolineato
il cambiamento di atmosfera sonora ed emotiva della musica proposta dalla chitarra suonando
insieme e modificando, in base alla stimolo musicale proposto, sia la ritmica che la timbrica (legni
per la musica triste, metalli per la musica felice).
3.6.3. La paura
La terza emozione affrontata è stata la paura, emozione primaria, fondamentale per la
sopravvivenza e presente, a diversi livelli, in tutti noi.
60
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Eppure nella nostra società spesso la paura viene connotata molto negativamente.
Parole come pauroso o fifone, con il giudizio negativo di pavidità che si portano dietro, possono
seguirci fin dall’infanzia, contribuendo a rendere questa emozione difficile da esprimere
liberamente.
Come detto anche ai genitori nel corso degli incontri a loro dedicati, le attività proposte in questa
parte di progetto non volevano essere un inno alla paura, ma solo un tentativo di sdoganamento di
un’emozione sana e naturale e di “regolazione” dell’emozione stessa in modo che, anche nei
bambini, la percezione del pericolo e la conseguente paura possa essere commisurata alla reale
pericolosità della situazione vissuta.
“A volte avere un po' di paura é bene, perché… immagina se non avessimo paura di niente.
Vedendo un buco in terra, vi metteremmo la mano senza pensarci due volte.
Invece la paura é come un allarme che ci avverte: stai attento, potrebbe esserci un ragno velenoso!
Ci fa agire con precauzione, e in questo modo evitiamo di metterci in pericolo.
Talvolta l'allarme é eccessivo e ci spaventiamo per cose che non presentano alcun pericolo, per
esempio una mosca.
Allora la paura non é buona, perché diventa così molesta e così pesante che non ci lascia più fare
nulla”.126
Affrontare la paura con i bambini non sempre è facile.
Alla richiesta “Che cosa ti fa paura?” capita che molti bimbi rispondano “Niente”.
Spesso in realtà vivono grandi paure, prima fra tutte e talmente spaventosa da non riuscire
nemmeno a dirla, la perdita dei genitori ed, in
particolare, della mamma.
Per lavorare su questa emozione avevamo
preparato un setting molto particolare.
La stanza era quasi completamente buia, le uniche
parti illuminate erano quelle delle “riflessioni”, un
tappetone
morbido
sul
quale
andiamo
per
discutere delle esperienze fatte e scambiarci i
pensieri,
più
qualche
altro
piccolo
angolo
luminoso.
Al centro del salone c’era il “tubo della paura”, un brucomela opportunamente “vestito” e coperto in
modo da dargli un’aria più spaventosa e meno rassicurante.
126
Vincere la paura, www.ilpaesedeibambinichesorridono.it, gennaio 2010.
61
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L’entrata (immagine a fianco) e l’uscita dal tubo erano rese difficoltose da diversi strati di stoffa
posti ai due estremi del bruco mela.
All’uscita avevamo messo un grosso tappeto morbido illuminato da una lucina azzurra.
Sul tappeto c’erano fogli bianchi e colori.
Anche in questo caso siamo partiti dal musicale proponendo ai bambini l’ascolto di due musiche:
una ricca di dissonanze e ritmiche ostinate dall’effetto molto tensivo, chiamata “musica della
paura”, e l’altra dolce e morbida, caratterizzata a un’armonia maggiore e da una ritmica moderata,
chiamata “musica che non fa paura”.
Una volta che i bambini hanno identificato le musiche abbiamo proposto loro un esperimento.
Tutti i bambini a turno, e quindi uno alla volta, avrebbero dovuto entrare nel tubo della paura e
restare all’interno del tubo fino a che durava la musica della paura.
L’uscita (immagine a fianco, la pessima
qualità dell’immagine è causata dal fatto che il
setting era quasi completamente buio e la foto,
per essere visibile, è stata resa più luminosa)
era dettata dalla musica: quando arrivava la
musica che non fa paura il bambino dentro al
tubo sarebbe potuto uscire.
L’idea di “imporre” i tempi di permanenza nel
tubo aveva lo scopo di aumentare il senso di paura unendo agli elementi più immediati, quali il buio
e la solitudine, anche l’impossibilità di gestire la situazione.
I livelli di “spaventosità” dell’esperienza sono ovviamente stati adattati all’età dei bambini e quindi
per i bimbi di 3 anni il tubo della paura era il bruco mela solo un po’ coperto ma comunque ancora
chiaramente
riconoscibile
come
oggetto conosciuto ed “amico” e la
stanza che li ha accolti non era buia ma
in penombra.
Per i bimbi di 4 anni abbiamo scurito
l’ambiente e vestito il bruco mela un
po’ di più mentre per i bambini di 5
anni sono stati accolti in una stanza
decisamente buia e il loro tubo della paura era veramente un tubo nero.
Una volta usciti dal tubo della paura i bimbi avevano il compito di disegnare la cosa che dentro al
tubo gli aveva fatto più paura.
62
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Le cose emerse sono state diverse: dentro al tubo avevo paura del buio, la cosa che mi ha fatto più
paura era la musica, mi faceva paura se dentro al tubo trovavo degli animali, la cosa che mi ha fatto
più paura era che nessuno mi vedeva.
Ecco qualche esempio:
Avevo paura del buio che c’era nel tubo
Avevo un po’ paura che nel tubo ci fosse un ragno con la sua ragnatela
63
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Io non ho avuto paura del buio ma un po’ della musica
Finito l’incontro, sempre con lo scopo di stimolare una riflessione sul tema delle emozioni fra
bambini e genitori, ho chiesto ai bambini di raccontare l’esperienza fatta ai loro genitori, di chiedere
loro se hanno paura di qualcosa e, se si, di disegnarlo insieme.
Un altro dei motivi per cui ho chiesto questa cosa è che ho la sensazione che spesso i bambini
abbiano paura di aver paura.
Forse per timore del giudizio altrui, forse perché la considerano un’emozione in qualche modo
negativa, alle volte sembra che non se la concedano.
Mostrare loro che tutti hanno paura, persino i loro genitori, mi è sembrato un buon modo per
togliere (almeno un po’) questa emozione dall’ambito del giudizio negativo e riportarla nell’ambito
del “provabile” perché normale ed utile.
La paura infatti ha una funzione adattiva e serve a metterci in guardia contro pericoli di vario tipo.
La paura dipende dall’appraisal ovvero dalla valutazione cognitiva dell’evento avvertito come
minaccia.
A livello fisiologico uno stimolo emotigeno legato alla paura attiva sistema nervoso periferico a
livello del sistema parasimpatico e simpatico e provoca la diminuzione del battito cardiaco,
l’abbassamento pressione arteriosa, la dilatazione della pupilla, un aumento o un annullamento della
sudorazione.127
I genitori hanno partecipato con entusiasmo e sono uscite produzioni molto interessanti.
Anche la paura è stata connotata visivamente, attraverso il disegno della faccia della paura,
caratterizzata da bocca aperta con gli angoli verso il basso e gli occhi sbarrati, e riconosciuta
vocalmente con una canzone inventata insieme ai bambini.
127
Cfr. R. Frison (a cura di), Le emozioni, dispensa Istituto MEME, Modena, A. A. 2009 – 2010.
64
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Ecco il testo:
Scende la notte scura scura
ai bimbi bravi non fa paura
perché hanno un’amica stellina
che gli sta sempre vicina
3.6.4. La rabbia
L’ultima emozione affrontata insieme ai bambini è stata la rabbia.
Quanti bimbi arrabbiati ci sono in giro per le scuole!
“Il bambino esprime rabbia:
- perché la sua spinta naturale all’iniziativa, alla libera espressione di sé viene ignorata, svalutata,
negata;
- per coprire la sua tristezza e la sua paura;
- perché ha dovuto reprimere il suo bisogno di accudimento per accudire a sua volta;
- perché la sua esploratività viene rifiutata.
(…) Lavorando con bambini e adolescenti che si comportano in modo aggressivo dobbiamo tener
presente che gli atti aggressivi non sono sempre espressione diretta della rabbia, ma possono
testimoniare la deformazione dei sentimenti reali di impotenza e non amabilità che si traducono in
sentimenti di rifiuto, bassa autostima, insicurezza, ansia, sentimenti feriti.
Il bambino ha imparato a non esprimere ciò che sente perché è convinto che, se lo facesse,
perderebbe tutta la forza che concentra nel comportamento aggressivo.
L’origine del comportamento aggressivo non è al suo interno, ma risiede nella sua impossibilità di
affrontare l’ambiente che lo fa arrabbiare.
Il comportamento aggressivo, invadente, critico, svalutante, non è un comportamento reversibile:
se il bambino si esprimesse con l’adulto nello stesso modo con cui l’adulto fa con lui, riceverebbe
censura e/o punizioni.
Così il bambino impara a reprimere la rabbia che diventa vergogna (risultato dell’indignazione e
della disapprovazione genitoriale), e colpa per essersi sentito arrabbiato (rabbia retroflessa).
(…) Sviluppare la consapevolezza della rabbia, come nasce, cosa si prova nei muscoli, nello
stomaco, nel corpo è il primo passo per cominciare ad esplorare ed elaborare il vissuto dell’essere
arrabbiato.
Si possono riconoscere almeno quattro fasi di lavoro con questi sentimenti con bambini e ragazzi.
1) Parlare con loro della rabbia: cosa, quali eventi, situazioni, percezioni li fanno arrabbiare;
65
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quali modi hanno trovato per esprimerla, quale consapevolezza ne hanno a livello corporeo.
Conoscere la propria rabbia, identificarla, aumenta il senso di competenza nel gestirla.
2) Imparare, riconoscere e accettare i sentimenti di rabbia, legittimandone la “residenza” nel
proprio mondo interno e scegliendo modalità adattive per esprimerli.
3) Aiutarli a muoversi verso i sentimenti trattenuti all’interno, o a superare la paura delle
conseguenze dell’espressione della rabbia.
4) Far sperimentare l’espressione verbale diretta dei sentimenti di rabbia”.128
In questi ultimi anni più che mai mi sono accorta del carico di sentimenti aggressivi che quasi ogni
bambino si porta dietro, sentimenti che emergono con maggiore violenza e frequenza nei bambini
stranieri portati in Italia.
Mi è capitato molto spesso di parlare con loro, di ascoltare i loro racconti, storie che parlano di
nonni, zii, amici, case, scuole, abitudini, vite abbandonate senza possibilità di appello e lasciate
lontano.
Storie che raccontano di piccole o grosse bugie raccontate dai genitori, “Stiamo via solo per poco”,
“Quest’estate torniamo a casa e non andiamo più via”, storie che raccontano della fatica di venire
catapultati in un mondo nuovo popolato da persone nuove che parlano una lingua sconosciuta e che
vivono realtà sconosciute, storie che raccontano della rabbia di non aver potuto scegliere.
Ma anche senza essere strappati alla propria terra e anche vivendo in un contesto attento e
privilegiato come quello che vivono molti dei bambini della scuola dell’infanzia oggetto di questo
scritto, i bimbi hanno spesso più di un motivo per essere arrabbiati.
“Può essere imbarazzante constatare che i primi destinatari della rabbia dei bambini sono proprio
i loro genitori. I bambini, soprattutto nei primi anni di vita, consolidano le fondamenta della loro
personalità, sulla base degli esempi che ricevono, della fiducia e dell’ascolto che viene loro dato,
dell’ambiente più o meno sereno in cui vivono”.129
L’assenza cronica di ascolto, presenza “di
qualità” e risposta ai bisogni del bambino da
parte dei genitori credo che sia il motivo più
frequente e maggiormente scatenate e credo
che sia utile sottolineare che nei nostri
bambini, come in noi adulti, la rabbia è spesso
l'espressione di qualcosa che sta più in fondo
e che può essere un misto di delusione,
128
E. Spalletta, M. Chimenti (a cura di), Bambini arrabbiati, Associazione Aspic Per La Scuola,
www.aspicperlascuola.it, febbraio 2010.
129
Genitori che fanno veramente arrabbiare, www.archivio.vivoscuola.it, febbraio 2010.
66
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tristezza, senso di abbandono, sconforto.
“Nell’infanzia gli individui necessitano di un ambiente in cui il corpo e la personalità si possano
sviluppare in modo sano e armonioso. In particolare, ogni bambino ha bisogno di:
• amore: il bambino deve poter contare su genitori capaci, che gli trasmettano sentimenti positivi e
che desiderino prendersi cura di lui;
• nutrizione: il bambino ha bisogno di una alimentazione adeguata per non creare deficit
nutrizionali pericolosi per la salute;
• sicurezza: il bambino ha bisogno di un ambiente protetto nel quale si prevengano gli incidenti che
possano danneggiarlo;
• protezione: il bambino ha bisogno di essere accudito e difeso contro le malattie;
• attenzione: per sviluppare la propria autostima, il bambino ha bisogno di adulti che lo
sostengano, lo incoraggino e che lo guidino nelle sue prime scelte;
• interesse: il bambino ha bisogno di essere stimolato, non parcheggiato davanti alla televisione:
questa forma di intrattenimento, oltre ad essere diseducativa, può danneggiare il suo sviluppo;
• comprensione: i genitori devono sapere riconoscere i segnali che il bambino trasmette: un
comportamento anomalo può nascondere disagio o sofferenza emotiva;
• conoscenza: il bambino ha bisogno di esplorare la realtà, e necessita perciò di figure di
riferimento su cui contare, da cui allontanarsi e da cui ritornare;
• gioco: il bambino deve poter giocare in uno spazio protetto in cui sperimentare le proprie
fantasie, la propria creatività e le proprie paure;
• istruzione: il bambino ha bisogno di istruzione per realizzare le proprie potenzialità e per divenire
a sua volta un adulto maturo, responsabile e capace di accudire i propri figli”.130
Parlando con i bambini, soprattutto in merito ai bisogno sopracitati, sono uscite alcune frasi
piuttosto significative che abbiamo fatto diventare un rap, anzi, un Rabbiarap.
Ecco il testo:
RabbiaRap
Rit:
Non mi ascolti
non mi parli
non mi abbracci
130
R. Frison (a cura di), Thinking about feeling and feeling about thinking - Un’introduzione alla conoscenza delle
emozioni, pp.9 -10, Dispensa Istituto MEME, A.A. 2009 – 2010.
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non mi guardi.
I°:
Io mi arrabbio
spacco tutto
e non vedo
il bello e il brutto.
Rit:
Non mi ascolti
non mi parli
non mi abbracci
non mi guardi.
II°:
Io mi arrabbio
faccio male
a chi mi viene
ad aiutare.
Rit:
Non mi ascolti
non mi parli
non mi abbracci
non mi guardi.
III°:
Io mi arrabbio
di dolore
se mi sento
solo il cuore.
Una volta scritto il testo abbiamo fatto scegliere ai bambini la musica più adatta a “far suonare la
rabbia” che si è rivelata essere un ostinato ritmico basato su un’armonia dissonante.
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Su questa musica abbiamo poi proposto ai bambini un esperimento: pensando a quello che più li
faceva arrabbiare avrebbero dovuto
rompere come
volevano, senza limiti di nessun tipo (tranne quello di non
fa male agli altri) i fogli di alcuni giornali e riviste varie
che avevo portato a scuola.
Immaginavo che avrebbero preso il tutto solo come un
gioco invece il risultato è stato abbastanza sorprendente:
tutti i bambini erano concentratissimi, le loro espressioni
erano realmente rabbiose, con la fronte aggrottata e i denti
leggermente scoperti, e lo strappare, il distruggere, è stato vissuto come un momento realmente
liberatorio.
Cosa credo molto utile, dal momento che la rabbia viene spesso considerata l’opposto dell”essere
bravi” ed è significativo in questo senso il fatto che molti bambini alla richiesta di farmi vedere una
faccia arrabbiata mi hanno risposto “ma io sono un bambino bravo”.
Capita spesso infatti che i bambini che perdono il controllo siano visti come “cattivi” e quindi degni
di punizione.
Finito questo momento e finita la musica che lo
sosteneva siamo rimasti in silenzio ad osservare
tutti i pezzi di carta sparsi sul pavimento
riflettendo si come quando uno si arrabbia può
spaccare delle cose belle o far male agli altri e di
come questo poi renda ancora più tristi.
Ne è nata una riflessione su come da una cosa rotta in un momento di rabbia, da una parola cattiva
buttata là, da un comportamento aggressivo, se volgiamo e
se ci riflettiamo possiamo imparare e riuscire magari a far
nascere qualcosa di nuovo ed ugualmente bello.
Allora ho chiesto ad ogni bambino di prendere un po’ di
quei pezzi di carta ed incollarli insieme agli amici su un
grande foglio di carta da pacco decidendo prima tutti
insieme che cosa volevano creare.
Ne sono nati tre cartelloni rappresentati la casa, la balena
(che si intravede nella foto) e il paradiso.
Nel corso degli incontri successivi abbiamo connotato la
rabbia attraverso il riconoscimento dell’espressione del
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viso, osservata sia negli altri che in noi (grazie agli specchi) ed abbiamo connotato a livello sonoro
il suono della rabbia utilizzando un piatto di plastica che veniva grattato producendo un suono
simile a un piccolo ruggito che i bambino hanno battezzato “Gratto Gratto”.
È bene ricordare che le esplosioni di rabbia nei bambini sono assolutamente naturali.
Il disagio di fronte a queste manifestazioni è spesso vissuto dai genitori che non sono abituati
all’espressione spontanea delle emozioni e quindi non sanno come reagire e quali atteggiamenti
mantenere.
La rabbia, insieme alla gioia, alla tristezza e alla paura, è una delle emozioni più “antiche”,
profonde ed istintive: i genitori devono imparare a gestirla e, soprattutto, devono insegnare ai loro
figli a controllare la frustrazione che ne deriva.
Esistono in questo senso alcuni accorgimenti che genitori ed educatori possono mettere in atto per
gestire adeguatamente le esplosioni di rabbia dei bambini:131

evitare assolutamente di ricorrere a punizioni fisiche: favoriscono un atteggiamento aggressivo
ed i bambini tendono ad imitare gli adulti e ad adottarne le medesime modalità di relazione;

confrontarsi con i bambini sul tema delle emozioni, spiegando loro che è assolutamente normale
provare sentimenti di rabbia;

mostrare al bambino come si possono gestire in modo costruttivo i momenti di rabbia,
incoraggiandolo nel contempo ad esprimere le sue emozioni;

lodare il bambino nel momento in cui riesce ad esprimere e a gestire la sua rabbia.
Gli adulti devono ricordare che i bambini hanno occhi aperti, orecchie attente ed antenne ben tese,
tutte cose che li portano a sentire, e risentire, dell’atmosfera familiare che li circonda e degli esempi
che il mondo adulto offre loro.
In questo senso è evidente che tanto più i genitori saranno in grado di esprimere liberamente le loro
emozioni e di gestirle adeguatamente tanto più i bambini impareranno a farlo, apprendendo nel
contempo quella necessaria “educazione emozionale” che gli consentirà di vivere appieno il loro
mondo emotivo, gestendolo e non essendone sopraffatti, consentendo inoltre il riconoscimento ed il
rispetto dello stesso patrimonio emotivo nell’altro.
A questo proposito mi permetto una piccola digressione su un fatto di cronaca che è di questi giorni.
Il Corriere della Sera del 4 febbraio 2010 titola così: “Ragazzini violentatori, puniti i genitori.
Pagheranno 450 mila euro. I giudici: Non hanno educato i figli ai sentimenti”132 e continua “le
sopraffazioni sessuali compiute dai loro figli sulle ragazze testimoniano che i genitori non hanno
trasmesso quella “educazione dei sentimenti e delle emozioni che consente di entrare in relazione
131
132
Cfr. F. Saccà, I bambini e la rabbia, www.genitoriefigli.myblog.it, febbraio 2010.
L. Ferrarella, Ragazzini violentatori, puniti i genitori, Corriere della Sera, 4 febbraio 2010, www.corriere.it, febbraio
2010.
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non solo corporea con l’altro”; e non hanno badato a che “il processo di crescita” dei loro figli
“avvenisse nel segno del rispetto dei sentimenti, dei desideri e del corpo dell’altra/o”.133
3.6.5. Incontri dedicati ai genitori
Per promuovere l’idea dell’educazione alle emozioni con i genitori, nel corso del lavoro sono stati
organizzati un paio di incontri a loro dedicati durante i quali è stato illustrato e raccontato il
percorso sulle emozioni svolto dai loro bambini.
Mi è capitato tante volte di osservare che i genitori normalmente arrivano a questi incontri con
aspettative e sentimenti vari e alle volte contrastanti.
Da una parte vogliono con tutto il cuore entrare in relazione con coloro che popolano la vita
scolastica dei loro figli, dall’altra però spesso temono di essere giudicati.
I genitori, e in particolare le mamme, soffrono spesso profondissimi sensi di colpa nei confronti dei
loro figli: per il poco tempo che riescono a dedicare loro, per la necessità di tornare a lavorare, per il
bisogno di sentirsi “non solo mamme”, per la sensazione di non dare a sufficienza.
Tutte queste emozioni entrano all’interno degli incontri dedicati ai genitori alle volte sotto forma di
chiusura, altre volte nascoste dietro un certo sospetto tipo “chi è questa e cosa vuole?”
Quando questo capita, l’ascolto e la connotazione positiva sono, a mio parere, ottimi punti di
partenza.
Ma come fare ad ascoltare se, giustamente essendo fra persone fondamentalmente più o meno
sconosciute, nessuno si sente sufficientemente a suo agio per parlare?
In queste occasioni mi rendo conto della difficoltà che spesso l’adulto ha nel parlare di se stesso e di
quello che prova.
Quindi per rilassare gli animi e creare
l’ambiente adatto ad un sincero scambio di
emozioni ho prima spiegato il motivo
dell’incontro, vivere e rivivere le esperienze
vissute dai loro bambini, illustrando ai
genitori attraverso video e fotografie le
attività
svolte,
per
proseguire
facendo
sperimentare loro alcune di quelle più ludiche
e divertenti (piccole danze, momenti di
movimento fisico legato alla musica) in modo
133
L. Ferrarella, ibidem, www.corriere.it, febbraio 2010.
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da permettere loro di sentirsi accolti in modo aperto, sereno e non giudicante e in modo da creare in
loro l’idea di “essere gruppo”.
Una volta sciolto l’imbarazzo e creato un primo contatto fra i vari componenti del gruppo, sono
andata un passettino avanti proponendo loro la compilazione di un semplice questionario, che
poteva anche essere lasciato anonimo, pensato per sollevarli dall’imbarazzo di parlare di sè e delle
proprie emozioni in modo forse per qualcuno eccessivamente scoperto.
Il questionario conteneva queste domande:
1. Se penso alla mia vita, che cosa mi da gioia?
2. Se penso alla mia vita, che cosa mi rattrista?
3. C’è qualcosa nel mio passato o nel mio presente che mi ha provocato o mi provoca delusione?
4. Se penso alla mia vita, c’è qualcosa che mi fa arrabbiare?
5. Che cosa mi fa paura?
Una volta conclusa la compilazione delle risposte le abbiamo lette e meditate insieme.
La maggior parte dei genitori presenti, quasi tutte mamme, ha dato come risposta alla prima
domanda “la mia famiglia” o “i miei figli” ma qualcuno ha risposto anche “quando riesco ad
esprimermi” o “i bei ricordi”.
La seconda e la terza domanda sono in molto casi state “sommate”, evidenziando come delusione e
tristezza vengano spesso lette come equivalenti e le risposte hanno nella quasi totalità dei casi
riguardato eventi passati, ex matrimoni, genitori, comportamenti di ex amici, abbandoni, ma c’è
stato anche qualcuno che ha risposto “tutte le volte che ho dovuto reprimere sentimenti”.
La quarta domanda ha avuto risposte più varie: alcune legate alla vita passata, altre legate a sé stessi
“aver abbandonato alcune passioni per briga”, altre ancora al rapporto con gli altri “quando non
vengo capita”.
La quinta domanda ha avuto risposte varie: “il futuro”, “mi fa paura la solitudine”, “il buio,
l’incognito”, “perdere il controllo, non riuscire a gestire una situazione”, “le guerre, i terremoti”.
Analizzando le risposte e confrontandole con quelle date dai bambini è emersa una impressionante
somiglianza che evidenzia, al di là del linguaggio, dei modi e delle capacità di lettura del mondo e
della vita, come di fronte alle emozioni primarie adulti e bambini non siano poi così diversi.
L’analisi delle risposte evidenzia inoltre i principali bisogni psicologici, uguali in adulti e bambini,
che emergono con più intensità nelle dinamiche personali e relazionali provocando perturbazioni
nello stato d’animo e quindi suscitando emozioni.
Questi bisogni riguardano:

il bisogno di sicurezza;

il bisogno di autonomia;
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
il bisogno di comprendere se stessi e l’ambiente in cui si vive;

il bisogno di realizzazione e di efficienza personale (che corrisponde al bisogno di creare o di
produrre, di provare stima di sé e di sentirsi competenti);

il bisogno di appartenenza, di amare e sentirsi accettati (bisogni sociali, di affiliazione e di
relazione)”134
E’ evidente il richiamo alla Piramide dei bisogni di Maslow135, una teoria strutturata dallo psicologo
statunitense Abraham Maslow fra il 1943 e il 1954 che suddivide i bisogni umani in cinque
differenti livelli, dai più elementari (necessari alla sopravvivenza dell'individuo) ai più complessi
(di carattere sociale) e secondo la quale i bisogni si presentano in base a una precisa scala
gerarchica che evidenzia come un bisogno di livello più elevato non è motivante per un individuo se
egli non ha prima soddisfatto i bisogni di livello inferiore.
Questi livelli sono:

(liv. 1) bisogni di sopravvivenza (bisogni fisiologici come la fame, la sete, ecc…)
Questi bisogni sono i primi a dover essere soddisfatti, solamente quanto essi sono appagati in modo
regolare nascono nell'individuo necessità di livello superiore.

(liv. 2) bisogni di sicurezza e protezione

(liv.3) bisogni sociali, relazionali e di appartenenza
Rientrano in questo livello i bisogni “sociali” che includono il senso di appartenenza al gruppo, il
bisogno di essere accettati dagli altri, di ricevere amicizia ed affetto.

(liv. 4) stima di sé e realizzazione

(liv. 5) autorealizzazione
Rientrano in questo livello i bisogni di autorealizzazione che consistono nel voler essere ciò che si
desidera in base alle proprie capacità e alle proprie aspirazioni e nel voler occupare una posizione
soddisfacente nel gruppo di appartenenza.
Tornando al momento dedicato ai genitori, una volta analizzate con serenità le risposte al
questionario è finalmente iniziato uno scambio di riflessioni e pensieri sincero, aperto e, credo,
produttivo nel quale ognuno ha avuto modo di parlare di sé e delle proprie sensazioni, delle proprie
paure, soprattutto di quelle legate all’educazione dei figli ed alla loro crescita, dei propri dubbi e
delle proprie speranze.
L’incontro si è concluso con la proposta ai genitori delle stesse esperienze emotivo – musicali
vissute dai loro bambini vissuto a tutti con intensità e divertimento.
134
Cfr. R. Vignati (a cura di), A scuola dalle emozioni, www.rsb.provincia.brescia.it, aprile 2010.
Cfr. E. Negri, Motivarsi & motivare
ovvero
come potenziare le proprie energie interne e superare le crisi,
www.psicopedagogie.it, aprile 2010.
135
73
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Ecco un piccolo resoconto fotografico, utile per osservare le notevoli somiglianze fra le reazioni
emotive dei bimbi e le reazioni emotive dei loro genitori.
Gioia/Felicità
Tristezza
Paura (con tubo della paura)
Rabbia
3.6.6. Il telo dell’amicizia
Una volta avvicinate e conosciute le varie emozioni oggetto del progetto, ci è piaciuto proporre ai
bambini il gioco del “telo dell’amicizia”.
L’idea ci sembrava utile per sottolineare come il conoscere sé stessi, il prendere coscienza delle
proprie emozioni, imparare a conoscerle e a riconoscerle in noi stessi e negli altri, imparare a
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gestirle per non esserne travolti porta ad un effetto positivo: acquisire fiducia in noi stessi e nel
prossimo.
Il gioco ha più obiettivi:

far sperimentare ai bambini come all’interno dello stesso gioco si possa essere, a turno,
protagonisti o parte del gruppo;

far sperimentare ai bambini la sensazione di sentirsi accolti e protagonisti di un momento
“esclusivo” nel quale tutti concorrono a favorire il benessere di uno;

far sperimentare ai bambini in un contesto giocoso e quindi “protetto”come le loro azioni e le
loro scelte possono influire sullo stato emotivo di un altro (se il telo viene mosso con troppa
forza il bambino al centro può spaventarsi);

far sperimentare ai bambini un’attività nella quale è di fondamentale importanza il
riconoscimento delle emozioni altrui, in modo da adeguare a questo le nostre azioni (se ad
esempio vedo che il bambino nel telo ha paura, modifico il mio modo di muovere il telo).
Il telo dell’amicizia altro non è che un
grande telo di lycra azzurra sul quale
entra un bambino alla volta mentre tutti
gli amici intorno reggono il telo stesso
tendendolo, e quindi sollevando da terra il
bambino al centro, e muovendolo “ad
onda”, e quindi cullando il bimbo sul telo.
Il
nome
“telo
dell’amicizia”
vuole
sottolineare come, all’interno di questo
gioco, la cosa più importante sia la
relazione fra chi sta dentro al telo e chi sta fuori e lo regge, come un rapporto di fiducia sia
fondamentale per affrontare questo gioco
nel giusto modo e come, in assenza di
questo, il gioco possa trasformarsi in un
compito spaventoso.
Il gioco è stato proposto in due versioni:
nella prima, un po’ più guidata, la musica
proposta da noi operatori dava una sorta
di indicazione al movimento del telo e
alla struttura del gioco, nella seconda, più
interessante, era il bambino dentro al telo
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che, suonando un tamburello, comunicava ai suoi amici come voleva che muovessero il telo.
Questo gioco ha permesso di lavorare sull’ascolto in modo profondo ed indirizzato e in più di far
emergere un embrione di “personalità musicale” nei bambini che si sono alternati al centro del telo.
È stato interessante osservare come anche i bambini più piccoli hanno trovato il loro modo di
suonare lo strumento e come questo modo fosse sempre assolutamente funzionale rispetto all’effetto
“di ondeggiamento” che volevano raggiungere.
Tutti i bambini hanno partecipato con entusiasmo ad entrambe le versioni al gioco e il gruppo ha, di
volta in volta, adeguato modi e stili al protagonista di turno, alle sue proposte musicali ed alle sue
reazioni.
3.6.7. Un concerto per la nuvola Olga
L’ultima fase del progetto ha visto la creazione di una storia musicale sonorizzata dai bambini
stessi.
La storia è una libera rilettura di una favolina per piccolissimi intitolata Un concerto per la nuvola
Olga136 che si apre con l’immagine e la descrizione di questa nuvola tristissima che nessuno degli
amici, ne la pioggia, ne il vento, ne la neve, ne il sole, riusciva più a far sorridere.
Ecco l’intero testo della favola, liberamente modificato ed ampliato per corrispondere alle
esperienze vissute dai bambini.
Un concerto per la nuvola Olga
Oggi la nuvola Olga è molto triste.
La nuvola Olga non ha neanche voglia di fare la pioggia con le sue amiche nuvole.
La nuvola Olga non ha neanche voglia di farsi spettinare dal suo amico vento e nemmeno di giocare
alla ballerina con la neve che è sempre così bella con il suo tutu da ballo.
Oggi la nuvola Olga è veramente molto triste.
“Su Olga, non fare così!” le dice il sole.
“Guarda! Arriva l’uccellino postino con una lettera per te!”
Olga incuriosita apre la busta… è l’invito per un concerto!
Olga si prepara: si veste bene e mette anche un cappellino elegante.
Mentre sta arrivando a teatro però il tuono, quel vecchio dispettoso, la vede e decide di farle un
brutto scherzo.
Dovete sapere che quando la nuvola Olga era una piccola nuvoletta appena nata, una sera il tuono
tossì fortissimo e lei si spaventò a morte.
136
Cfr. N. Costa, Un concerto per la nuvola Olga, Prime pagine, Emme Edizioni, Trieste, 2004.
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Quando lui lo seppe, che risate che si fece!
E da allora non ha ancora smesso di fare scherzi ad Olga.
Così mentre Olga sta entrando a teatro ecco che all’improvviso un suono assordante, un boato
fortissimo scoppia proprio dietro di lei.
Olga terrorizzata scappa e si nasconde dietro un cespuglio.
Stava quasi per uscire quando da lì dietro intravede il tuono che, dispettoso come sempre, se la ride
soddisfatto.
Adesso Olga è veramente arrabbiatissima!
Va dal tuono, gli prende il cappello e lo pesta fino a che non è ridotto proprio male, poi gli prende
gli occhiali e li rompe e alla fine gli urla in faccia con tutta la voce che ha che adesso basta, è
proprio ora di finirla con tutti questi dispetti e che vorrebbe tanto picchiarlo ma non lo farà solo
perchè rischia di fare tardi al concerto.
Il tuono resta colpito: non penava che Olga si sarebbe arrabbiata così tanto.
“Era solo uno scherzo” - pensa il tuono fra se e se – “ma Olga si è spaventata per davvero.
Ho esagerato ma voglio bene ad Olga e mi farò perdonare da lei”.
Il tuono così trova il modo di entrare nel teatro del concerto.
Olga, con ancora il cuore in gola per la paura e tutta arrabbiata, ha già preso posto in seconda fila.
“Spero che la musica sia bella e che mi faccia dimenticare la rabbia, la paura e la tristezza” pensa
Olga poco convinta.
Le luci si abbassano, si apre il sipario e comincia il concerto e… Olga quasi non crede ai suoi occhi!
Proprio sul palco in mezzo ai musicisti c’è il tuono che, con un fiore in mano canta una canzone per
Olga.
Una canzone bellissima che parla di come è bello essere amici e volersi bene che dice così:
Cantando con gli amici
noi siamo più felici.
Cantando tutti insieme
facciamo festa dai!
A come amore che dona calore
M il migliore l’amico del cuore
I come insieme per volersi bene
C come cuore
Io e te
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Cantando con gli amici
noi siamo più felici
Cantando tutti insieme
facciamo festa dai!
Finita la canzone tutti applaudono e dicono “Bravo!”.
Tutti tranne Olga che è ancora un po’ arrabbiata.
Allora il tuono dice forte “Questa canzone è dedicata alla mia amica nuvola Olga che spero mi
perdonerà per i miei dispetti”.
La nuvola Olga si rasserena e finalmente sorride.
Il tuono aveva finalmente capito quanta paura le faceva e quanta rabbia le davano i suoi dispetti e
come tutto questo la facesse sentire male.
Finito il concerto, Olga e il tuono tornano a casa insieme da buoni amici, ridendo e chiacchierando
di quanto era bella la musica.
Quando Olga e il tuono si salutano è molto tardi.
La nuvola Olga va a dormire felice: sa che farà sogni bellissimi ricordando la musica del concerto e
pensando al suo nuovo amico tuono.
I bambini hanno selezionato gli strumenti per caratterizzare le emozioni vissute da Olga: maracas e
ocean drums, “perché hanno il suono delle lacrime” per la tristezza, due grossi tamburi attraverso i
quali far sentire “come batte forte il cuore quando uno si spaventa” sono diventati gli strumenti
della paura del tuono dispettoso, dei tubi zigrinati in metallo “grattati” con dei cucchiai da minestra,
“che fanno il suono come di uno che ringhia”, sono stati usati per rappresentare a livello sonoro la
rabbia e infine i tamburelli con sonagli “che sembrano uno che ride” sono stati scelti per
rappresentare il suono luminoso della gioia.
In più i bambini hanno inventato delle piccole danze, che più che altro sono delle andature e dei
piccoli gesti, per caratterizzare la pioggia, il vento, la neve e il sole citati all’inizio della storia.
Sotto il punto di vista vocale, tutta la storia è punteggiata di brevi canti legati a quello che si andava
narrando.
Alla realizzazione di questa piccola storia si sono ovviamente legate altre attività sempre basate
sull’espressione delle emozioni e sul riconoscimento delle emozioni nel viso altrui.
Due di queste hanno avuto un particolare gradimento.
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In primo luogo un gioco chiamato “Ti suono la faccia”, basato sul riconoscimento delle espressioni
nel viso altrui e sulla successiva sonorizzazione attraverso piccoli momenti improvvisativi eseguiti
da ciascun bambino.
Questa attività, oltre a dare modo ai bambini di sintonizzarsi a livello sonoro sull’emozione espressa
a livello mimico da un amico, ha anche messo in evidenza con grande chiarezza quella che può
essere definita “l’emozione dominante” di ciascun bambino, quella nel quale il bambino che veniva
“suonato” si sentiva evidentemente a suo agio.
Interessante è stato osservare che per non molti di loro l‘emozione dominante era la gioia e quei non
molti erano concentrati nella fascia di età dei più piccoli.
Diversi dei bambini di 4 o 5 anni erano visibilmente più a loro agio nell’esprimere la tristezza o la
rabbia, mentre la paura non è stata espressa come emozione dominante quasi da nessuno, facendo
pensare che venga vissuta come un’emozione “passeggera”.
Grande gradimento ha avuto anche un’attività grafica nella quale i bambini erano chiamati a
disegnare le espressioni legate alle varie emozioni su una nuvola Olga “senza volto”, come ad
esempio:
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Anche durante quest’ultima fase del percorso non sono mancati momenti durante i quali i bimbi si
mettevano nei panni della nuvola Olga esprimendo idee, emozioni, pensieri e raccontando situazioni
da loro realmente vissute.
3.7. In conclusione
In questi otto mesi d’intervento i bambini si sono conosciuti, confrontati ed hanno condiviso
pensieri ed esperienze.
Questo li ha portati a diventare un gruppo.
Un gruppo vero, al di là dell’idea di classe, sezione o età, un gruppo che si aiuta, un gruppo nel
quale, nonostante la giovanissima età dei suoi componenti, si percepisce un reale senso di ascolto e
collaborazione.
Cosa rara in contesti scolastici.
Operando in tante scuole diverse, sempre più mi rendo conto di come all’interno dei gruppi classe le
dinamiche relazionali siano diventate complesse, problematiche e sempre più somiglianti a quelle,
spesso ai limiti del patologico, che caratterizzano la comunicazione adulta.
Il proto apprendimento, l’apprendimento per imitazione, è nel bene e nel male una realtà assoluta e,
avendo la fortuna di lavorare sia con i bambini che con i loro genitori, ho frequentemente la
possibilità di osservare come i comportamenti dei genitori e quelli dei loro figli siano spesso gli
stessi, gli atteggiamenti siano gli stessi e spesso anche le dinamiche disfunzionali siano le stesse.
La pseudo comunicazione che caratterizza il mondo adulto, basata sul sospetto, sullo stare in
guardia e in difesa, sulla mancanza di ascolto e di apertura al prossimo, ricade e “marchia” la
comunicazione bambina, contaminandone la naturale disponibilità e spontaneità.
Tornando al progetto, l’idea di creare prima un contatto fra appartenenti alla stessa età, creando
stabilità di rapporto sia fra bambino e bambino che fra noi operatori e i bambini, e poi in un secondo
momento variare ad ogni incontro, mescolando i gruppi e riunendoli, ha permesso a tutti di entrare
in contatto ed “essere” con tutti.
I bambini riconoscono le emozioni in se stessi e negli altri, ne parlano serenamente, le affrontano e
piano piano provano a gestirle.
È bello assistere alle loro conversazioni, a distanza, per non correre il minimo rischio di
condizionarli, e sentire che dicono cose come: “vedi che adesso M. è contento? Sorride. Prima era
arrabbiato e allora piangeva. Anch’io quando sono arrabbiato certe volte piango”.
Di grande importanza in questo lavoro e fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi è stata
la sinergia che si è da subito creata sia con le insegnanti, che hanno partecipato attivamente ad ogni
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incontro mettendosi in gioco per prime, sia con i genitori, che hanno accettato con gioia e
disponibilità le mie proposte.
Spero per i bimbi, per i loro genitori e, allargando il campo di ricaduta, anche per me, che questo
semino di educazione alle emozioni che è stato piantato continui ad essere amato ed annaffiato
portando, un domani, frutti sani e rigogliosi.
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Coda
In questi primi tre anni di contatto con la musicoterapia ho capito che tentare di “vederla tutta” è
pressoché impossibile.
Nel mio piccolo, in questi anni mi sono sperimentata e messa in gioco nei campi d’azione in cui al
momento mi sento più a mio agio: l’infanzia e gli anziani, i “bambini di ritorno”.
Gli ambiti d’intervento sono stati essenzialmente due: ambito preventivo e ambito riabilitativo.
Ripensando alla mia strada, com’è inevitabile alla fine di un viaggio, mi sono accorta che il mio
percorso di formazione è idealmente divisibile in quattro macro tappe individuabili con le parole:
risonare, conoscere, sperimentare e connettere.
Così alla prima fase dell’istinto e della risonanza, intesa sia nel senso etimologico di “rispondere al
suono” che nel senso di reazione più o meno empatica con la materia oggetto di studio e con le
esperienze pratiche che ho avuto occasione di affrontare (nello specifico mi riferisco alla
primissima, quella intitolata “Buio”) si è da subito legata quella del desiderio costante e crescente di
imparare, scoprire, conoscere ed apprendere, desiderio che ha attraversato tutta la mia esperienza
formativa e che si mantiene immutato tuttora.
A queste si è aggiunta e sommata la fase della sperimentazione, del piacere di cercare terreni sui
quali mettermi in gioco nei modi e attraverso i mezzi che la mia attuale conoscenza della
musicoterapia mi consente e mi ha consentito, per poi arrivare all’ultima fase, quella delle
connessioni, del bisogno di “unire i puntini”, del collegare finalmente le informazioni alle
esperienze, le esperienze alle teorie, le teorie alla realtà del lavoro.
Queste parole-concetto, che nel mio personale percorso di formazione ho percepito come apparse
una di seguito all’altra, nelle esperienze pratiche, soprattutto rilette col senno di poi, si sono
espresse in contemporanea, anche se probabilmente con “percentuali di presenza” diverse.
Partendo dalla primissima esperienza, quella con il bambino non vedente, arrivando alle ultime
personali “scoperte” raccontate in questo scritto si traccia, senza che ne abbia avuto particolare
coscienza, la mappa delle mie linee guida e, forse, l’abbozzo della musicoterapeuta che sarò.
L’ultimo pensiero e il più grande ringraziamento è per tutti coloro che mi hanno supportata e
sopportata in questi anni.
Molti sono citati all’interno di questa tesi, molti altri sono citati, fortemente e senza bisogno di note
a piè pagina, nel mio cuore.
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SILVIA CAVATORTA – SST IN MUSICOTERAPIA – TERZO ANNO - A.A. 2009 - 2010
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