L’IDEALISMO ROMANTICO TEDESCO
1 – Il contesto storico-culturale
Negli ultimi decenni del ‘700, mentre in Inghilterra si stava affermando una rivoluzione economica e in
Francia una rivoluzione politica (che nei due secoli successivi avrebbero cambiato il mondo), in Germania
venivano poste le basi per una “rivoluzione filosofica”. Infatti in Germania, tra la metà del ‘700 e i primi
dell’800, sembra preclusa ogni possibilità di rinnovamento delle strutture economiche e politiche. Il paese è
ancora sostanzialmente medievale e l’assolutismo è il sistema politico dei suoi trecento piccoli stati.
Il settore produttivo dominante è
l’agricoltura tradizionale, con
una proprietà terriera di grandi
dimensioni, in cui persiste la
servitù della gleba e l’utilizzo di
mezzi di produzione arcaici.
Anche il sistema dei dazi e delle
gabelle contribuisce a rendere
impossibile la formazione di un
“mercato” nel senso capitalistico
del termine.
Nei pochi centri urbani esiste un
capitale mercantile con una
corrispettiva
borghesia
di
commercianti,
bottegai,
artigiani,
che non pone
richieste di tipo politico e non è
portatrice di nuovi valori sociali.
In questo contesto i filosofi
tedeschi, provenienti da famiglie
di origine piccolo e medioborghese (in gran parte figli di
artigiani, impiegati, insegnanti e
pastori
protestanti) trovano
nell’insegnamento universitario
una professione che conferisce
loro
sicurezza
economica,
prestigio e un pubblico di altri
intellettuali.
Le Università tedesche sono
però Università dello stato che
non fruiscono di una reale
autonomia e indipendenza,
poiché
i
docenti
sono
selezionati e controllati dal
potere politico. Essi sono
destinati ad essere fautori di un
rinnovamento che si pone
interamente su di un piano
ideale.
Territorio della Germania nel 1789, diviso in circa trecento “patrie”
<<La libertà di insegnamento, che
è un tema centrale dei professori
tedeschi, deriva dalla stessa natura ideale della filosofia come spazio autonomo. E’ un aspetto di quella
libertà all’ombra del potere che fu detto essere una condizione specifica della cultura tedesca. Sia nel
momento della sua formazione, quando avviene la costituzione di un tipo di intelligenza e la focalizzazione
degli oggetti del pensare, sia nel momento del suo lavoro sociale, che avviene in un clima di controlli che la
stessa organizzazione rigida della vita sociale suggerisce, l’intellettuale tedesco, che non sia anche
© Angelo Mascherpa
inconsciamente un intellettuale cortigiano, si trova sempre in una posizione dominata da un potere che gli
appare come una presenza e un limite invalicabile.
Il potere ha contemporaneamente l’aspetto di una regola autoritaria e di una protezione paternalistica…..
Il tema della libertà, dominante nel giovane Schiller, è senz’altro un elemento di trasfigurazione ideologica
della situazione dell’intellettuale tedesco>>1.
1.1 – I filosofi tedeschi e l’università
Mentre in Francia, nel ‘700, i philosophes operavano coscientemente e volontariamente al di fuori delle
università, ritenute un baluardo della tradizione, preferendo incontrarsi e confrontarsi nei caffè e nei salons, i
filosofi tedeschi dell’800 sono completamente integrati nelle istituzioni universitarie.
Nelle prestigiose università di Jena, Königsberg, Tubinga, Heidelberg e Berlino i professori di filosofia si
propongono come fautori di un rinnovamento culturale o “spirituale” (come si diceva nel linguaggio
idealistico dell’epoca) e di una rigenerazione morale della gioventù e del popolo tedesco.
Interpretando se stessi come depositari di una capacità di interpretazione del mondo e della storia superiore,
sia all’esperienza comune, sia ai dispersivi saperi particolari, essi si incaricano della missione di guidare ed
educare il popolo ai principi della ragione e della libertà. In particolare, trascendendo l’ambito gnoseologico
in cui Kant aveva circoscritto il compito della filosofia, i filosofi tedeschi di fine ‘700 e dei primi anni dell’800
elevano la disciplina a “sapere assoluto”, capace quindi di ricondurre la molteplicità dei fenomeni naturali, i
momenti della storia e della società ad un principio unitario fondante di cui essi sono manifestazioni.
Godendo di questo punto di vista privilegiato su mondo e sulle vicende umane, i filosofi rivendicano un ruolo
preminente all’interno dell’Università, ponendosi come guida superiore alle singole discipline scientifiche.
Invece di perdersi in un’astratta descrizione e interpretazione dei fenomeni particolari, il sistema razionale e
organico delle conoscenze proposto dalla filosofia può trasformarsi in un piano educativo per l’umanità,
l’università si trasforma in un “tempio laico” e l’aula universitaria diventa il luogo in cui il filosofo incontra
“idealmente” l’intera umanità.
Emblematici sono certamente i casi di Fichte ed Hegel. Del primo ricordiamo le lezioni domenicali tenute
all’Accademia di Berlino per stimolare il popolo tedesco a liberarsi dal dominio napoleonico, utilizzando
proprio il concetto di “libertà” come impulso interiore verso obiettivi ideali; del secondo la costruzione di una
enciclopedia delle scienze filosofiche, come ideale unitario contro la frammentazione delle scienze che
minaccia di dissolvere l’università.
Sennonché questa “libertà” si rivela quasi sempre, come si è detto, una “libertà all’ombra del potere”, un
potere statale o, meglio, tante autorità statali che, da un lato promuovono una riorganizzazione delle
istituzioni universitarie e scolastiche (vengono accolte, per esempio, alcune proposte di Hegel
sull’insegnamento della filosofia nei licei e nelle università), dall’altro mantengono e rafforzano il controllo
sull’insegnamento e sulla stampa, il principale strumento di diffusione dell’ideologia presso la piccola e
media borghesia.
1.2 – I filosofi tedeschi, la Rivoluzione francese e l’Illuminismo.
La tendenza dei filosofi tedeschi ad idealizzare i loro rapporti con la società e la storia coinvolge anche il loro
giudizio sulla Rivoluzione francese; infatti quest’ultima non è vissuta come un evento essenzialmente
pratico, ma come la realizzazione di quell’arco di valori ideali (ragione, libertà, eticità...) che costituivano
proprio la loro ideologia. La Rivoluzione francese acquistava così l’aspetto di uno “spettacolo filosofico”, i cui
protagonisti non sono gli uomini concreti che hanno fatto la storia, ma gli stessi ideali di ragione, libertà, ecc.
Questo spiega perché, quando nel 1793 (con la decapitazione di Luigi XVI e il “Terrore”) la rivoluzione entrò
nel suo momento più drammatico, i filosofi tedeschi si convinsero che la “libertà” non poteva essere
perseguita nella dimensione socio-politica, bensì solo in quella filosofica; ovvero la libertà andava ricercata
nell’ideale, operando una rivoluzione nell’arte, nella letteratura e nella filosofia, le principali
manifestazioni dello Spirito, come si dirà nel linguaggio dell’idealismo tedesco.
L’aspetto filosoficamente più rilevante di tutta questa vicenda storico-politica (l’esito tragico della rivoluzione
francese e la successiva fase napoleonica, vissuta dai tedeschi come imposizione di un dominio straniero) è
certamente il giudizio critico sull’Illuminismo con cui decolla lo spirito romantico.
La delusione per il fallimento della Rivoluzione francese e il conseguente dominio napoleonico, trascina con
sé la cultura illuministica, ritenuta la matrice culturale della Rivoluzione e, quindi, anche dei suoi tragici
“errori”. Se la Rivoluzione, il Terrore e il dominio napoleonico sono stati gli effetti, Illuminismo, con i suoi
philosophes, ne è stato la causa.
<<E’ l’Illuminismo, sostengono i romantici, che caratterizza la crisi del mondo moderno. La cultura
illuministica ha costruito un sistema spirituale in cui l’uomo moderno trova gli elementi costitutivi della propria
1
Vegetti-Alessio-Fabietti-Papi, Filosofie e società, Vol. 3, Zanichelli, BO, 1982, p. 117
© Angelo Mascherpa
crisi. L’Illuminismo è considerato come intellettualismo, sopravvalutazione dell’analisi scientifica,
quantificazione dell’esperienza, perdita della dimensione religiosa, riduzione della natura a legge matematica
e a causalità deterministica, caduta della fantasia creatrice, superficialità morale ed edonismo, banalità
utilitaristica, dispersione e perdita di un’idea organica dell’esistenza umana>>2.
1.3 – Il Romanticismo e il tema dell’infinito.
La rivoluzione romantica nasce proprio come opposizione a quella presunta decadenza spirituale di cui
sarebbe responsabile la cultura illuministica. Le sue origini sembrano da attribuirsi al cosiddetto circolo di
Jena, un gruppo di intellettuali (Friedrich e Wilhelm Schlegel, il poeta Tieck e lo scrittore Novalis) formatosi
verso il 1796 nella città di Jena, dove è particolarmente vivo il dibattito sugli sviluppi della filosofia kantiana,
in particolare ad opera del filosofo Fichte.
Nella costruzione del pensiero romantico, in antitesi all’Illuminismo, vengono recuperati i temi essenziali
dello Sturm und Drang (“impeto tempestoso”), il precoce fermento giovanile anti-illuministico, manifestatosi
in Germania tra il 1770 e il 1775, che vedeva impegnati il giovane Goethe, Herder e Klinger.
Il principale bersaglio polemico del movimento romantico (così come lo era stato dello Sturm und Drang) è
proprio la ragione finita, che aveva chiuso all’uomo la possibilità della metafisica, e della quale Kant aveva
stabilito limiti e possibilità nella Critica della ragion pura. Alla ragione finita, empirica, scientifica, il movimento
contrappone il sentimento, la passione, la libertà da ogni regola e la fantasia creatrice, proprio perché
costituirebbero nuove vie d’accesso all’Assoluto, all’essenza profonda delle cose. Il sentimento, nelle due
principali forme del sentimento artistico e religioso, diventa la facoltà umana capace di condurci nel cuore
della realtà, ovvero di cogliere intuitivamente la “cosa in sé”, la realtà noumenica, proprio quella realtà che
era preclusa all’intelletto kantiano. E’ così che, nel momento di trapasso dei due secoli, poesia e filosofia si
incontrano, tra esse vi è una circolazione di concetti tra i quali gioca un ruolo dominante quello di infinito.
Il sentimento (la sensibilità artistica in particolare) ci fa avvertire l’infinito sia nella natura che nell’uomo.
La natura è spesso avvertita dai romantici come una Totalità infinita, percorsa da un dinamismo
immanente che perennemente struttura la realtà. Si tratta di una concezione organicistica e finalistica della
natura (di stampo neoplatonico-rinascimentale) contrapposta alla concezione meccanicistica (newtoniana).
Così, come per Goethe la natura è “l’abito vivente della divinità” (intesa come forza immanente che
continuamente trasforma la natura stessa), per il filosofo idealista Schelling “la natura deve essere Spirito
visibile, lo Spirito la natura invisibile”.
Nell’uomo l’infinito si manifesta invece come streben, sforzo, tensione, aspirazione verso l’infinito e,
quindi, tendenza inesauribile a superare i limiti della propria finitudine. Si tratta di un’aspirazione che dà
luogo ad una ricerca senza fine, poiché al finito non è dato, costitutivamente, di appropriarsi dell’infinito: ogni
mèta raggiunta, manifestando il suo carattere limitato, rinvia ad un’altra mèta, in uno sforzo infinito e
destinato all’insuccesso.
Caspar David Friedrich, Monaco in riva al mare (1808-1810)
Alte Nationalgalerie Berlino
2
Nel quadro l’uomo (un
monaco,) nella sua
finitezza e solitudine, è
posto di fronte ad un
paesaggio sconfinato.
La minuscola figura
verticale appare
completamente
estraniata dal mondo
che la circonda; il suo
sguardo è perso verso
il mare agitato, sotto un
cielo grigiastro che non
rende ben visibile
l’orizzonte.
L’essere umano, solo e
ridotto a una figura
infinitesimale, non può
che perdersi e
“naufragare” in tale
immensità.
Vegetti-Alessio-Fabietti-Papi, Filosofie e società, Vol. 3, cit., pp. 128-129
© Angelo Mascherpa
Questa incessante tensione verso l’Assoluto genera nei romantici uno stato d’animo caratteristico espresso
dal termine tedesco Sehnsucht, una “brama appassionata”, un’aspirazione struggente verso mete senza
confini (l’infinito, la libertà, la felicità...) che continuamente sfuggono.
Come sostiene Nicola Abbagnano: <<La Sehnsucht si identifica infatti con quell’aspirazione verso “il più e
l’oltre” che, non trovando confini né mete precise, si risolve inevitabilmente ... in un “desiderio di avere
l’impossibile, di conoscere il non conoscibile, di sentire il soprasensibile”. Tant’è vero che la
Sehnsucht - secondo l’etimologia della parola, la quale deriva dal verbo sehnen, cioè “desiderare”, e dal
sostantivo Sucht, che significa a sua volta “desiderio” – finisce per configurarsi come “un desiderio innalzato
alla seconda potenza, un desiderio del desiderio e quindi un desiderare che si esaurisce in sé per il
3
piacere del desiderio”>> .
Artisti e poeti romantici esprimono questa inappagata brama di infinito (e di indefinito) nei loro rispettivi
codici, inducendo nello spettatore, o nel lettore, il sentimento del sublime. Questo sentimento era stato
definito da Kant (nella Critica del giudizio) come il senso di sgomento che l’uomo prova di fronte alla
grandezza della natura, sia nel suo aspetto pacifico (sublime matematico), sia nel momento della sua
terribilità (sublime dinamico), allorché ognuno di noi sente la sua piccolezza, la sua estrema fragilità, la sua
finitezza, ma, al tempo stesso, cosciente di ciò, intuisce l’infinito e si rende conto che l’anima possiede una
facoltà superiore alla misura dei sensi.
Caspar David Friedrich, Le bianche
scogliere di Rugen (1818)
Museum Oskar Reinhart, Winterthur

L’infinito
[Giacomo Leopardi, 1819]

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.
Così possiamo notare le sorprendenti analogie tra il quadro del pittore romantico Friedrich (1818) e la
celebre poesia di Leopardi (1819). Le bianche scogliere di Rugen e le fronde degli alberi, nella parte
superiore del quadro, in parte nascondono e in parte “svelano” quell’infinito che non si riesce proprio a
raggiungere. Il sentimento della sublime distanza tra la finitudine dell’uomo e l’immensità della natura viene
mirabilmente espresso dal contrasto tra l’atteggiamento dei tre personaggi e la calma solennità del mare con
l’orizzonte indistinto in uno sfumato rosa pallido. La donna manifesta paura per il precipizio antistante;
3
Abbagnano-Fornero, La filosofia, vol. 2B, Paravia, MI-TO, 2010, p. 341
© Angelo Mascherpa
l’uomo al centro si inchina a baciare la terra, in sacra adorazione dello spettacolo che la natura gli offre;
l’uomo a destra, con la schiena appoggiata all’albero, sembra in estatica contemplazione del mare infinito.
La funzione svolta dalle scogliere nel quadro di Friedrich è identica a quella svolta dalla siepe ne L’infinito
di Leopardi. Proprio perché la siepe impedisce di vedere tutto l’orizzonte, il poeta, stimolato da quell’”oltre”
che essa gli suggerisce, può immaginare spazi infiniti e silenzi che un uomo non può empiricamente
percepire. Non solo, ma, confrontando lo stormire delle foglie provocato del vento a quella profondissima
quiete, al poeta sovviene anche l’infinito temporale, ovvero l’eternità, provando un dolce senso di vertigine.
L’inesauribile
tensione
verso
l’infinito, che divora gli intellettuali
romantici,
si
manifesta
nel
“titanismo”, un atteggiamento di
sfida e ribellione (nei confronti della
società, del destino, della natura…)
accompagnato sempre, però, dal
sentimento della sconfitta di chi è
consapevole dell’impossibilità di
trascendere
completamente
le
barriere del finito, di chi intraprende
una
lotta
impari
contro
i
condizionamenti
umani
con
dolorosa autoironia.
Come ci ricorda N. Abbagnano:
<<Il titanismo è detto anche
“prometeismo” perché i romantici
lo personificano nel mitico titano
greco Prometeo, il quale, avendo
rotto l’ordine fatale del mondo per
donare agli uomini il fuoco, viene
condannato da Zeus ad avere
perennemente il fegato divorato da
un’aquila. Mettendo tra parentesi i
possibili
significati
umanisticoilluministici del mito, i romantici
tendono a vedere in Prometeo il
simbolo della ribellione in quanto
tale (si pensi ad esempio alla lirica
Prometheus di Goethe e al dramma
Prometheus Unbound di Percy
Bisshe Shelley)>>4.
La tortura di Prometeo (1819) di Jean-Louis-Cesar Lair – Museé Crozatier,
Pui-en Velay – France
Le
Nel quadro di Cesar Lair il titano affronta con sublime slancio il sacrificio impostogli da Zeus. Egli è
ritratto proprio all’alba (i raggi del sole filtrano da uno squarcio tra le nubi) ovvero quando inizia l’atroce
pasto del rapace divino. Prometeo si tende (dal greco titainein, tendersi) com’è nella natura della sua
stirpe che si è tesa temerariamente in una impresa che l’ha vista sconfitta e punita.
Nella rappresentazione del pittore romantico, la postura di Prometeo, che porge stoicamente il fegato
all’aquila, con il volto di straordinaria dolcezza, gli occhi chiusi, la bocca lievemente piegata in una
smorfia di contenuto dolore, sembrano alludere a quell’atteggiamento eroico e perdente insito nello
streben e nella Sehnsucht dei romantici.

L’incessante tentativo di superare i limiti della propria finitezza, nello slancio verso l’infinito, si traduce anche
nel rifiuto della banalità quotidiana, in una tendenza verso l’evasione, <<alla ricerca di qualcosa che si è
perduto, o che appare collocato in una mitica lontananza. Questa evasione è, ad esempio, ricerca di un
4
Abbagnano-Fornero, La filosofia, vol. 2B, cit. p. 342
© Angelo Mascherpa
passato idealizzato... oppure si manifesta come irresistibile attrazione verso altre civiltà... L’ideale
dell’evasione si trasforma nel mito del viandante, colui che senza posa, incessantemente, va errabondo.
Ma il viaggio non giunge mai alla méta: non c’è un’Itaca verso la quale sperare di tornare. Il viaggiatore è un
navigante naufrago, che non spera e, forse, non cerca un approdo>>5.
Così il poeta Novalis, negli Inni della notte (1800), una delle opere più significative del romanticismo,
esprime il sentimento dominante della nostalgia derivante dall’amore per l’Assoluto che, pur non potendosi
realizzare, emancipa l’uomo dalle miserie della vita terrena. In questa composizione poetica l’esistenza
umana è rappresentata come il travagliato cammino di un viandante solitario che si muove su un percorso
impervio, in una terra straniera, perennemente in viaggio verso la sua “vera patria”: la realizzazione della
propria umanità, ovvero della propria essenza spirituale, nel rapporto con Dio, l’Assoluto, l’Infinito.
E’ certamente questo il significato filosofico del romanticissimo quadro di Caspar David Friedrich,
Viandante sul mare di nebbia, del 1818 (Amburgo, Kunsthalle):
Di fronte al viandante (ripreso di spalle, per consentire allo spettatore di identificarsi con il suo sguardo) si
apre un’affascinante e minaccioso spettacolo della natura che toglie il respiro: un orizzonte infinito, un
paesaggio che mette i brividi e genera nell’osservatore un sublime senso di inadeguatezza rispetto
all'universo; la nebbia fluttuante, che lascia avvolto nel mistero ciò che ricopre, trasmette un senso di
smarrimento di fronte all’intuizione della profondità abissale; al di là dell’orizzonte visibile (segnato dal
5
De Bartolomeo-Magni, I sentieri della ragione, vol. 2°, ATLAS, Bergamo, 2006, pp. 393-394
© Angelo Mascherpa
profilo sempre più sfumato delle montagne) si possono immaginare nuove terre sconosciute, nuovi orizzonti,
nuove mete che, una volta raggiunte, dovranno a loro volta essere superate in un perenne vagabondare.
1.4 – Il Romanticismo e la genesi dell’Idealismo tedesco.
Sul piano filosofico, l’artefice di questa svolta è Fichte, che opera la metamorfosi dell’Io penso kantiano in
“Io puro infinito” o “Soggettività assoluta”; ovvero trasforma l’Io penso da fondamento universale della
conoscenza umana a principio della realtà, trapassando dal piano gnoseologico (di esplicazione dei limiti e
delle possibilità della conoscenza) al piano ontologico-metafisico.
Raccogliendo e rielaborando il dibattito critico post-kantiano sulla “cosa in sé” (un “paralogismo” per Schulze;
un concetto-limite in senso idealistico leibniziano per Maimon, un concetto inessenziale del criticismo per
Beck…), Fichte elimina il “fantasma” della cosa in sé, ovvero di una realtà noumenica esterna all’io, il quale,
in questo modo, diventa tutta la realtà: <<tutto è spirito>>, ecco la tesi fondamentale dell’idealismo
tedesco. La metamorfosi del Soggetto trascendentale kantiano, operata da Fichte, avviene grazie alla
coniugazione del concetto di Io penso della Critica della ragion pura con quello di libertà della Critica della
ragion pratica. Com’è noto l’Io penso rappresenta solo una funzione trascendentale, non una realtà
metafisica; al tempo stesso la “libertà”, nella prima Critica, si trova solo all’interno di un rapporto antinomico
con la causalità naturale ( terza antinomia cosmologica). Tuttavia nella seconda Critica si postula la
possibilità che il soggetto, per agire eticamente, possa trascendere la dimensione fenomenica e
autodeterminarsi, ovvero fondandosi nella libertà.
Forzando questo aspetto del criticismo kantiano Fichte sostiene che è sbagliato cercare il principio della
filosofia kantiana in un fatto di coscienza, bensì esso deve essere cercato in un atto libero. Egli crede così di
poter dedurre sia l’attività conoscitiva che l’attività pratica (morale) da un unico principio: l’attività di un Io
infinito e incondizionato che si accorda perfettamente con l’aspirazione dei romantici a trascendere i limiti
del mondo fenomenico, per accedere all’Assoluto.
In questo modo Fichte capovolge totalmente la prospettiva delle filosofie naturalistiche e materialistiche che
avevano concepito la natura come “causa” dello spirito, affermando che è invece lo spirito la causa della
natura, la quale ormai esiste solo in funzione dell’io, fungendo da polo dialettico, da “materiale”, per
l’esplicarsi dell’azione del Soggetto assoluto.
Queste tesi di fondo dell’intuizione idealistica del mondo, come ci fa notare Nicola Abbagnano:
<<trovano una sorta di esemplificazione artistica nel romanzo I discepoli di Sais del poeta romantico Novalis
(.....) dove, nelle aggiunte finali, si dice che:

Accadde ad uno di alzare il velo della dea di Sais. Ma cosa vide? Egli vide – meraviglia delle meraviglie – se stesso.

Secondo l’interpretazione idealistica, la dea velata sarebbe il simbolo del mistero dell’universo; quell’”uno”
che giunge a scoprirla è il filosofo idealista, che dopo una lunga ricerca si rende conto che la chiave di
spiegazione di ciò che esiste, vanamente cercata dai filosofi fuori dell’uomo, ad esempio in un Dio
trascendente o nella natura, si trova invece nell’uomo stesso, ovvero nello spirito.....
Per queste ragioni, con l'idealismo, ci troviamo di fronte, per la prima volta nella storia del pensiero, a una
forma di panteismo spiritualistico (Dio è lo spirito operante nel mondo, cioè l'uomo) che si distingue sia dal
panteismo naturalistico (Dio è la natura), sia dal trascendentismo di tipo ebraico-cristiano (Dio è una
Persona esistente fuori dell'universo). Come tale, l'idealismo è anche una forma di monismo dialettico
(esiste un'unica sostanza: lo spirito) che si contrappone a tutti i dualismi metafisici e gnoseologici della
storia del pensiero, dai Greci a Kant (spirito e natura, Dio e mondo, soggetto e oggetto, libertà e necessità,
fenomeno e cosa in sé...)>>6.
I filosofi idealisti (Fichte, Schelling e Hegel), pur essendo d’accordo nell’interpretare la realtà mediante le
categorie di spirito e di infinito, si differenziano tra loro, come vedremo, per lo specifico modo di intendere
l’infinito e i suoi rapporti con il finito (i fenomeni naturali e i fatti storico-sociali).
2 – Fichte: l’idealismo etico
2.1 – Vita e opere

Johann Gottlieb Fichte nacque a Rammenau, in Prussia, nel 1762, da una famiglia povera. Grazie però alle sue
capacità intellettuali e al mecenatismo del barone Miltitz, poté studiare teologia a Jena e a Lipsia.
Visse con entusiasmo lo scoppio della Rivoluzione francese e pervenne, negli stessi anni, alla conoscenza degli
scritti di Kant, aderendo pienamente alle tesi delle Critiche.
Il risultato di questi studi fu la pubblicazione anonima (a causa della censura del governo prussiano) del Saggio di
una critica di ogni rivelazione (1792), originariamente attribuito a Kant e che, una volta chiarito l’equivoco dallo
stesso filosofo di Königsberg, decretò la fama di Fichte.
6
Abbagnano-Fornero, La filosofia, vol. 2B, cit. pp. 372-373
© Angelo Mascherpa
Dal 1794 al 1799 svolge l’attività accademica a Jena, dove pubblica la sua
opera principale, Fondamenti dell’intera dottrina della scienza (1794), con la
quale viene “superato” il criticismo kantiano, vengono poste le fondamenta
dell’idealismo tedesco e viene dato un forte impulso al movimento romantico.
L’opera verrà continuamente rielaborata fino al 1804.
L’applicazione della “dottrina della scienza” agli ambiti dell’etica e del diritto lo
porta alla pubblicazione di: Lezioni sulla missione del dotto (1794),
Fondamenti del diritto naturale (1796) e Sistema della dottrina morale (1798).
Nel 1799 Fichte si trova coinvolto nella cosiddetta “polemica sull’ateismo”, a
causa di un articolo (Sul fondamento della nostra credenza nel governo divino
del mondo) nel quale Dio era identificato con l’ordine morale del mondo.
L’accusa di ateismo procurò a Fichte l’allontanamento dalla cattedra di Jena.
Dal 1800 al 1814 Fichte si trasferisce quindi a Berlino, dove viene introdotto
negli ambienti culturali dall’amicizia con Friedrich von Schlegel.
Professore per breve tempo a Erlagen (1805), al momento dell’invasione
napoleonica ritornò a Berlino mentre la città era occupata dai francesi.
Qui pronunciò i famosi Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808), che
divennero il manifesto politico della riscossa nazionale prussiana, nei quali additava, quale mezzo di emancipazione
politica della Germania, una nuova forma di educazione e affermava il primato del popolo tedesco.
Fu quindi professore e, dal 1810, rettore dell’Università di Berlino. Nel 1811 pubblicò Sulla missione del dotto.
Morì il 29 gennaio 1814, durante un’epidemia di tifo, contagiato dalla moglie che la contrasse l’infezione mentre
curava i soldati feriti.
2.2 – I princípi della Dottrina della scienza.
Nei Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, del 1794, Fichte intende fornire un fondamento logico
incontrovertibile alla sua filosofia; infatti i tre principi individuati non sono altro che l’articolazione di un
principio unico.
- Primo principio: <<L’Io pone se stesso>>
- Secondo principio: <<L’Io pone il non-io>>
- Terzo principio: <<L’Io oppone nell’Io all’io divisibile un non-io divisibile>>

Premesso che questi tre principi vanno interpretati in senso logico e non cronologico (in quanto non esiste
prima L’Io infinito, poi l’Io che pone il non-io e, infine, l’io finito, ma un Io che, per poter essere tale, deve
presupporre di fronte a sé un non-io, trovandosi così ad esistere concretamente come io empirico), vediamo
dettagliatamente il significato dei tre principi e le loro reciproche implicazioni.
1. <<L’Io pone se stesso>>
Il primo principio consiste in un approfondimento “idealistico” del criticismo kantiano. Infatti, mentre Kant
aveva operato una deduzione trascendentale o gnoseologica, volta a giustificare le condizioni soggettive
della conoscenza (“Io penso” e categorie), Fichte effettua una deduzione assoluta o metafisica, facendo
derivare a sua volta l’Io penso da un principio ulteriore che ne costituisce il fondamento:

<<Noi dobbiamo ricercare il principio assolutamente primo, assolutamente incondizionato, di tutto l’umano sapere.
Dovendo essere un principio assolutamente primo, esso non si può dimostrare né determinare.
Esso deve esprimere quell’atto che non si presenta, né può presentarsi, tra le determinazioni empiriche della nostra
coscienza, ma sta piuttosto alla base di ogni coscienza, e solo la rende possibile.....
Poniamo dunque un fatto qualsiasi della coscienza empirica e da esso separiamo, l’una dopo l’altra, tutte le
determinazioni empiriche, fino a che rimanga solo ciò che non si può assolutamente escludere, e dal quale non si può
separare più nulla.
Ciascuno ammette la proposizione: A è A (altrettanto che A = A, poiché questo è il significato della copula logica); ed
invero senza menomamente pensarci su: la si riconosce per pienamente certa e indubitabile.....
Affermando che la proposizione precedente è certa in sé, non si pone che A sia. La proposizione: A è A, non è per nulla
equivalente a quest’altra: A è, ovvero: c’è un A... Ma si ponga: se A è, allora A è. Non si tratta qui del contenuto della
proposizione, ma solamente della sua forma; non di ciò, di cui si sa qualcosa, ma di ciò che si sa, di qualunque oggetto,
qual che esso possa essere.
Quindi con l’affermazione che la proposizione precedente è assolutamente certa, è posto questo: che tra quel se e questo
allora c’è un rapporto necessario; ed è il rapporto necessario tra i due, che vien posto assolutamente e senza alcun
fondamento. Io chiamo provvisoriamente questo rapporto necessario = X.
Ma riguardo alla questione se A medesimo sia o no, con ciò nulla ancora è stato posto. Sorge dunque la domanda: sotto
qual condizione dunque A è?
© Angelo Mascherpa
a) X almeno è posto nell’Io e dall’Io, poiché è l’Io che giudica nella proposizione precedente.....
b) Se e come A in generale sia posto, noi non sappiamo; ma poiché X deve indicare un rapporto tra una posizione
sconosciuta di A ed una posizione assoluta del medesimo A, condizionata dalla prima, così, almeno in quanto vien
posto quel rapporto, A è posto nell’Io e dall’Io, come lo è X......
c) ... La precedente proposizione si può dunque esprimere anche così: Se A è posto nell’Io, allora esso è posto; ovvero –
allora è.
... Ciò vuol dire: è posto che nell’Io – sia esso in particolare ponente o giudicante o che altro sia – vi è qualcosa che è
sempre uguale a sé, sempre uno e identico; e l’X assolutamente posto si può anche esprimere così: Io = Io; Io sono Io.
... Ma la proposizione: Io sono Io ha un significato tutto diverso dalla proposizione: A è A. Infatti, quest’ultima ha un
contenuto solo ad una certa condizione. Se A è posto, esso è certamente posto come A, col predicato A. Ma con quella
proposizione non è ancora per nulla deciso se esso in generale sia posto e quindi se sia posto con un qualunque
predicato. La proposizione: Io sono Io vale invece incondizionatamente ed assolutamente... In essa l’Io è posto, non
sotto condizione, ma assolutamente, col predicato di eguaglianza con se stesso; esso è dunque posto; e la proposizione
si può anche esprimere così: Io sono.
... L’espressione immediata dell’atto ora sviluppato sarebbe la formula seguente: Io sono assolutamente; cioè: io sono
assolutamente perché sono; sono assolutamente ciò che sono; e l’una e l’altra cosa per l’Io. Pensando la descrizione di
quest’atto al vertice della dottrina della scienza, essa dovrebbe essere espressa press’a poco nel modo seguente: L’Io
originariamente pone assolutamente il suo proprio essere>>7.

Il principio supremo della conoscenza, quindi, non può essere A = A, posto dall’Io, ma l’Io stesso che,
ponendo se stesso, pone anche il principio d’identità. La caratteristica fondamentale dell’Io consiste allora in
un’attività auto-creatrice libera e infinita.
Infatti l’auto-creazione coincide con l’intuizione intellettuale che l’Io ha di se stesso, in quanto il
“conoscersi” si identifica con il “prodursi”: l’Io è in quanto si fa. Ovvero, mentre la metafisica tradizionale
sosteneva che operari sequitur esse (l’agire degli individui è conforme alla loro natura), per la metafisica
idealistica fichtiana esse sequitur operari, in quanto l’essere dell’Io è il frutto della sua stessa attività e il
prodotto della sua libertà. Questa peculiare caratteristica dell’Io viene definita da Fichte Tathandlung, parola
composta che indica un Io, al tempo stesso, come agente (Tat) e prodotto dell’attività stessa (Handlung).
2. <<L’Io pone il non-io>>
Per potersi realizzare l’Io ha bisogno di un non-io. Ovvero, per essere soggetto deve avere un oggetto, per
essere libertà deve avere degli ostacoli, dei limiti da superare, per essere attività creatrice deve avere un
materiale su cui agire: il non-io = mondo o natura.
In quanto opposto all’Io, il non-io si caratterizza in modo ad esso antitetico: se l’Io è libertà il non-io è
necessità; se l’Io è attività il non-io è passività; se l’Io è unità il non-io è molteplicità; se l’io è spirito il non-io è
materia, se l’io è Infinito il non-io è finito. Quindi il non-io o natura, in Fichte, conserva ancora tutti i caratteri
(necessità, passività, molteplicità, materialità, finitezza) della concezione meccanicistica settecentesca.
In che modo l’Io pone il non-io? La risposta a questa domanda fondamentale non può essere che di ordine
metafisico: l’Io pone il non-io attraverso una “immaginazione produttiva” inconscia.
Mentre in Kant questa era concepita come la facoltà mediante la quale l’intelletto schematizza il tempo
secondo le categorie, in Fichte diventa l’atto attraverso cui l’Io produce i materiali stessi della conoscenza,
ovvero l’atto mediante cui l’Io “crea” il mondo. Il fatto che la produzione del non-io sia inconscia spiega
perché alla coscienza comune la natura appare come “altro”, come oggetto estraneo posto dinnanzi all’io.
Sennonché tale non-io, posto dall’Io, e quindi nell’Io, implica automaticamente un terzo principio.
3. << L’Io oppone, nell’Io, all’io divisibile un non-io divisibile >>
L’Io, avendo opposto a se stesso, in se stesso, un non-io, si trova da esso limitato (così come quest’ultimo è
limitato dall’Io), quindi non è più infinito, ma finito (= divisibile). Con il terzo principio ci troviamo quindi di
fronte alla concreta situazione del nostro mondo, caratterizzata da una molteplicità di io empirici che si
trovano di fronte a sé una molteplicità di oggetti finiti e limitanti.
Ma Fichte, con tutta questa deduzione ha voluto mettere in luce come il “mondo” degli oggetti e dei fenomeni
naturali non sia una realtà autonoma, separata dallo spirito, ma la polarità dialettica dell’Io, che esiste
soltanto per l’Io e nell’Io, dando in questo modo una giustificazione logico-ontologica della nuova metafisica
idealistica del Soggetto e dello Spirito.
2.3 – La teoria della conoscenza
Dall’azione reciproca di io e non-io nascono sia la conoscenza che l’azione morale.
7
J. G. Fichte, Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, trad. di A. Tilgher, Laterza, Bari, 1971, pp. 73-76, 78
© Angelo Mascherpa
Per quanto riguarda la gnoseologia, Fichte si proclama “realista” e “idealista” al tempo stesso (IdealRealismo), poiché, come sostiene il realismo dogmatico, la rappresentazione deriva dall’azione delle cose
esterne sull’io empirico; sennonché le cose esterne, in quanto non-io, sono state poste inconsciamente
dall’Io tramite l’”immaginazione produttiva” (2° principio della Dottrina della scienza), per cui l’attività del nonio sull’io empirico deriva, in ultima istanza, dall’Io stesso.

Narciso (1597-1599) di Caravaggio
- Galleria Nazionale d’Arte Antica
- Palazzo Barberini, Roma
Come per Narciso che osservando uno specchio
d’acqua vede se stesso, innamorandosi di sé,
l’attività conoscitiva, per Fichte, è come se fosse
un’attività riflessa da uno specchio (non-io) che,
ricevuta l’immagine dall’Io, rimbalza sull’io
empirico.
Ovvero, quando noi (io finiti) entriamo in rapporto
con il mondo esterno (insieme dei non-io finiti) non
entriamo in rapporto con qualcosa che ci è
totalmente estraneo, ma con qualcosa che noi
stessi, in quanto parte dell’Io puro infinito, abbiamo
posto.
In tal modo Fichte fornisce anche una
giustificazione metafisica dell’a-priorismo kantiano.
Infatti, se il mondo esterno (presunta “cosa in sé”)
si adegua alle forme a-priori del soggetto è proprio
perché, in quanto non-io, è stato inconsciamente
prodotto
dall’Io
puro
infinito
mediante
l’immaginazione produttiva.
Ovviamente la coscienza comune considera il mondo (non-io) come “altro”, qualcosa che non dipende
da noi; ma proprio perché viene avvertito come limite, il non-io suscita l’attività dell’Io.
Nella Dottrina della scienza Fichte ci mostra come, a partire dalla semplice sensazione ( in cui l’io empirico
avverte fuori di sé l’oggetto come qualcosa che gli si oppone), attraverso i successivi gradi dell’intuizione,
dell’intelletto, del giudizio e della ragione, l’Io arrivi alla piena coscienza di sé e del mondo come suo
prodotto. Questo processo di progressiva interiorizzazione dell’oggetto da parte del soggetto, denominato da
Fichte “storia prammatica dello spirito umano”, rappresenta il percorso compiuto da un io empirico che, a
partire dal senso comune, raggiunge le vette della filosofia, o meglio, della filosofia idealistica tedesca.
2.4 – L’agire morale e il primato della ragion pratica
Riflettendo sul significato “logico”, e non “cronologico”, dei tre principi della Dottrina della scienza
(significato teso a chiarire che l’essenza della natura e degli uomini è “spirituale”), scopriamo che l’Io “puro”
infinito fichtiano non è qualcosa di diverso dalla totalità degli io finiti, così come l’umanità non qualcosa di
diverso dall’insieme degli individui che la compongono (anche se i singoli individui nascono e muoiono,
mentre l’umanità, o l’Io infinito, perdura nel tempo).
Allora l’Io infinito non è da considerarsi tanto come la sostanza metafisica degli io finiti, ma il loro telos, la
loro meta ideale. Ovvero gli io empirici, gli esseri umani finiti, “sono” l’Io puro infinito solo in quanto tendono
ad esserlo. L’infinito, invece di costituire una realtà metafisica già data, è per l’uomo un dovere essere, una
missione da realizzare.
Infatti, gli aggettivi “puro” e “infinito” che accompagnano l’Io vogliono rimarcarne la caratteristica
fondamentale della libertà, la libertà dello spirito che vince sui propri ostacoli e supera i propri limiti.
Ovviamente una simile situazione per l’uomo, essere finito e limitato, rappresenta solo un ideale.
Fichte, nel Sistema della dottrina morale (1798), affermando che l’Io puro infinito è la “missione” dell’io
empirico finito, intende semplicemente dire che la vita umana è un incessante sforzo (Streben) verso la
libertà, una lotta impari ed inesauribile contro i limiti esterni posti dalle cose e quelli interni dell’egoismo e
degli istinti in generale. Detto con le parole di Nicola Abbagnano: <<il compito proprio dell’uomo è
l’umanizzazione del mondo, ossia il tentativo incessante di “spiritualizzare” le cose e noi stessi, dando
© Angelo Mascherpa
origine, da un lato, a una natura plasmata secondo i nostri scopi e, dall’altro, a una società di esseri liberi e
8
razionali>> .
Allora l’idealismo di Fichte si caratterizza come idealismo etico, poiché la realtà metafisica (l’Io) non è
“essere”, ma “dover essere” (Sollen), dovere etico, o “imperativo categorico”, di trasformazione della
realtà per elevarla gradualmente dal piano empirico a quello della ragione e della libertà. Ma tale azione
trasformatrice, pur affermando sempre di più la signoria della ragione sulla natura e sugli istinti egoistici, non
potrà mai realizzarsi definitivamente, non potendo mai l’uomo farsi “Dio”. D’altronde, come aveva già
teorizzato Kant, non ci sarebbe moralità senza sforzo e non c’è sforzo senza ostacoli da superare; quindi l’Io
non è mai dato, ma è un infinito tendere (Streben) per auto-realizzarsi e la libertà non è mai assoluta, ma
un infinito processo di liberazione.

Friedrich, Il naufragio della “Speranza” (1822) – Amburgo, Kunsthalle
Questo quadro, ispirato a un disastro realmente avvenuto nel corso di una spedizione scientifica
attraverso lo stretto di Bering, esprime molto bene lo Streben fichtiano e, in generale, romantico.
Infatti il pittore mette in primo piano lastroni di ghiaccio enormi, taglienti e spinti ad accavallarsi in forma
piramidale dalla “titanica” forza della natura. Sullo sfondo si perde l’immensa e inospitale distesa del
pack, sulla quale grava un cielo di piombo. In questo contesto troviamo sulla destra, piccola e
insignificante, la presenza dell’uomo, sotto le sembianze di una nave (la “Speranza”) adagiata su un
fianco e travolta dalla forza irresistibile del ghiaccio.
Ma, per quanto insignificante appaia la presenza dell’uomo al cospetto della natura, essa testimonia, al
tempo stesso, la sublime grandezza delle sue imprese, il suo eterno desiderio di conoscenza e di
dominio della natura, anche quando gli ostacoli da superare appaiono, e spesso sono, insormontabili,
destinando gli esseri umani alla sconfitta nella lotta impari e infinita contro tutti i vincoli e le forze esterne
superiori che li circondano.
In tal modo Fichte fonda filosoficamente il primato della ragion pratica sulla ragione teoretica (già
enunciato da Kant): noi esseri umani esistiamo solo per agire, per imporre al non-io la legge dell’Io, e il
mondo esiste come “teatro” per la nostra azione. L’infinità dell’Io non è già data, ma si rende tale in un
8
Abbagnano-Fornero, La filosofia, vol. 2B, cit. p. 381
© Angelo Mascherpa
processo infinito di emancipazione dai vincoli che lo stesso Io ha posto, poiché senza di essi non potrebbe
realizzarsi come attività e libertà. L’inesauribile azione di avvicinamento a questo telos è supportata
dall’azione “pedagogica” di quegli uomini, i “dotti”, che ne possiedono in maggior misura la consapevolezza
teorica, ma che possiedono anche una specifica abilità, la “cultura”, strumento indispensabile per la
modificazione del mondo secondo i concetti dell’Io puro.
Così leggiamo nelle lezioni, pubblicate nel 1794, sulla Missione del dotto:

<<Il fine ultimo di ogni essere ragionevole è dunque l’unità assoluta, l’identità costante, il pieno accordo con se stesso.
Questa assoluta identità è la sola forma dell’Io puro… l’Io deve sempre tendere alla propria unità e perciò cercar di
reagire immediatamente alle cose dalle quali invece dipendono la sensibilità e la rappresentazione; nel modificare le
cose deve cercare di accordarle colla pura forma del suo Io, e di conseguenza deve cercare di accordare con questa
forma anche la rappresentazione delle cose la quale da esse dipende. Questa modificazione delle cose secondo i concetti
che ne abbiamo, non è possibile mediante il semplice volere ma occorre anche un’abilità che si acquista con
l’esercizio… Io chiamo cultura l’acquisto di un grado determinato di tale abilità che è, in parte capacità di dominare e
distruggere le cattive inclinazioni sorte prima del dispiegamento della ragione e del senso della nostra medesimezza; in
parte capacità di modificare le cose fuori di noi e di cambiarle secondo i nostri concetti. La cultura ha diversi gradi e ne
può avere infiniti. Essa è l’ultimo e supremo mezzo per raggiungere il vero fine umano cioè il pieno accordo con se
stesso, se s’intende l’uomo come essere sensibile e razionale… Il risultato di quanto abbiamo detto è che l’ultimo e
supremo fine dell’uomo è il pieno accordo con se stesso, per ottenere il quale occorre il pieno accordo di tutte le cose
esterne coi necessari concetti pratici che ne abbiamo cioè con quei concetti i quali determinano come esse devono
essere. Questo accordo è quel che Kant chiama il sommo bene; il quale sommo bene non ha affatto due parti ma è uno
essendo nient’altro che la piena armonia di un essere ragionevole con se stesso… Il fine ultimo dell’uomo è quello di
sottomettere ogni cosa irrazionale e dominare libero secondo la sola sua legge, fine che non è affatto raggiungibile e tale
deve eternamente rimanere se l’uomo non deve cessare di essere uomo per diventare Dio. Dallo stesso concetto di uomo
ricaviamo che il suo fine è irraggiungibile e la via che porta ad esso, infinita. Non è dunque il raggiungimento di questo
fine, la missione dell’uomo. Ma egli può e deve perpetuamente avvicinarsi ad esso e questo infinito avvicinarsi al fine è
la sua missione di uomo, cioè di essere razionale eppur finito, sensibile eppur libero. Quel pieno accordo con se stesso si
chiama perfezione nel più alto significato della parola; la perfezione è dunque il più alto e irraggiungibile fine
dell’uomo e il perfezionamento all’infinito è la sua missione. Egli esiste per divenire sempre migliore e per rendere tale
tutto ciò che materialmente e moralmente lo circonda; di conseguenza per divenire sempre più felice>>9.

L’uomo persegue il fine del perfezionamento all’infinito solo insieme ad altri uomini, nella società. Fichte
arriva persino a “dedurre” l’esistenza degli altri io empirici, in base al concetto del dovere morale che può
essere sollecitato solo dalla presenza, vincolante e stimolante, di altri esseri razionali fuori di noi.
Quindi il perfezionamento dell’uomo implica come fine ultimo la “società perfetta”, per realizzare la quale
gli uomini si servono dello Stato. Quest’ultimo però non è esso stesso il fine, ma soltanto un mezzo:

<<Il vivere nello Stato no rientra nei fini assoluti del’uomo, ma è soltanto un mezzo, sottoposto a certe condizioni, di
realizzare una società perfetta. Lo Stato con tutte le umane istituzioni che sono soltanto mezzi, tende al proprio
annullamento; è fine di ogni governo di rendere superfluo il governo… Allora in luogo della forza e dell’astuzia, gli
uomini riconosceranno come loro più alta guida soltanto la ragione… Finché questo momento non sarà venuto non
potremo dire di essere veri uomini>>10.

Sia l’idea-limite dell’”estinzione dello Stato”, sia quella sottintesa che gli uomini non abbiano ancora
vissuto veramente la loro “storia”, ma si trovino ancora in una sorta di “preistoria”, verranno riprese e
approfondite, in un diverso sistema concettuale, dal giovane Marx.
2.5 – La “missione civilizzatrice” della Germania
Horace Vernet, Battaglia di Jena. 14 ottobre 1806
(1836) – Reggia di Versailles
Con la battaglia di Jena del 14 ottobre 1806 e la successiva
occupazione di Berlino da parte delle truppe napoleoniche, la
filosofia politica di Fichte si trasforma in senso nazionalistico,
dando luogo ai celebri Discorsi alla nazione tedesca (inverno
1807-1808).
Si tratta di un capolavoro della letteratura tedesca che ha un
intento “pedagogico” (educare alla ragione la maggioranza
9
10
J. G. Fichte, La missione del dotto, a cura di N. Cappelletti, Le Monnier, Firenze, 1969, pp. 8-12
J. G. Fichte, La missione del dotto, cit., pp. 20-21
© Angelo Mascherpa
del popolo tedesco), ma che si sposta ben presto dal piano educativo a quello “nazionalistico”.
Infatti, come scrive Fulvio Papi:
<<L’atteggiamento di Fichte è sempre quello dell’educatore e la sua missione è più che mai quella di
suscitare l’universale. Ma l’universale ora non è il sogno cosmopolitico di una società di ragione. L’universale
ora è un popolo: è infatti nel popolo tedesco, come entità etnico-culturale irriducibile ad altre, che deposita in
questo tempo, e totalmente, la creatività dello spirito divino. Ed è ai Tedeschi che spetta di iniziare “il periodo
11
dello svolgimento libero e riflesso del genere umano”>> .

La nazione tedesca (sulla scia
della filosofia della storia e dalla
lingua di Herder) viene vista da
Fichte come l’unica nazione ad
aver mantenuto la propria
natura originaria, conservando
intatta, e quindi incontaminata,
la propria lingua, nella quale si
esprime lo spirito e la vitalità del
popolo. Il popolo tedesco è
quindi un popolo naturalmente
spirituale, costituente una vera
unità organica, sotto il segno di
valori comuni, e non un
semplice aggregato di individui.
Inoltre, avendo la sconfitta di
Jena ridotto i tedeschi al livello
più basso, in essi si è estinto di
fatto l’interesse per il “benessere
materiale”, che rappresenta per
Charles Meynier, Napoleone a Berlino (1810) – Reggia di Versailles
Fichte il peccato dell’illuminismo.
Quindi la rinascita tedesca non potrà che essere una rinascita spirituale, idealistica, romantica e antimaterialistica. Da qui il progetto educativo nazionalistico portato avanti da Fichte con i Discorsi tenuti
nell’anfiteatro dell’Accademia delle scienze di Berlino tra il 1807 e il 1808.
Proprio perché i tedeschi sono rimasti con il sangue “puro”, essi rappresentano l’incarnazione dell’Urvolk, un
popolo “primitivo”, quindi “il popolo” per eccellenza che, in quanto tale, risulta spiritualmente “eletto” a
realizzare “l’umanità tra gli uomini”, diventando modello e forza trainante per gli altri popoli. Questa
missione civilizzatrice della Germania è così importante che Fichte, alla fine dell’opera, conclude che, se
essa fallisse, perirebbe l’intera umanità.

Ora, anche se nei Discorsi alla nazione tedesca il primato assegnato da Fichte alla nazione germanica non è
di tipo politico-militare, ma culturale; anche se il popolo tedesco deve avere come fine ultimo la civilizzazione
dell’umanità intera; anche se questa civilizzazione concerne i valori etici della ragione e della libertà, è
innegabile che l’influenza storica dei Discorsi si sia esercitata soprattutto nel senso dello sciovinismo
tedesco. I concetti di “primato”, “missione”, “popolo integro”, ecc. costituirono, ben al di là dell’idea di
“supremazia spirituale” e delle intenzioni patriottiche di Fichte, il repertorio ideologico del razzismo e della
politica di potenza del nazismo del Terzo Reich.
3 – Schelling: l’idealismo estetico
3.1 – Vita e opere

Friedrich Wilhelm Joseph Schelling nacque nel 1775 a Leonberg, nel Würtemberg.
Frequentò la scuola teologica di Tübingen, avendo come compagni Hegel e il poeta
Hölderlin.
Si dedica inizialmente, tra il 1792 e il 1794, agli studi mitologici e di storia delle religioni,
mentre, dal punto di vista filosofico, è un fichtiano. Infatti, tra il 1794 e il 1796, pubblica
tre opere interpretative e divulgative della filosofia di Fichte: Sull’Io come principio della
filosofia, Sulla forma della filosofia in generale e Lettere filosofiche su dogmatismo e
criticismo. Rispetto a Fichte, però, Schelling cerca quasi subito di applicare il principio
metafisico dell’idealismo alla natura con le opere: Idee per una filosofia della natura
(1797) e L’anima del mondo (1798).
11
Vegetti-Alessio-Fabietti-Papi, Filosofie e società, Vol. 3, cit., p. 146
© Angelo Mascherpa
Tra il 1798 e il 1803, grazie all’appoggio di Goethe, diventa insegnante a Jena; in un primo tempo come coadiutore
di Fichte, poi (dal 1799) subentra allo stesso Fichte, costretto alle dimissioni per la polemica sull’ateismo.
A Jena Schelling, grazie anche alle frequentazioni con i romantici (Goethe, Schiller, Novalis, i fratelli Schlegel), visse
gli anni più fecondi della sua vita intellettuale, dedicandosi alla filosofia della natura e dell’arte, e alla revisione della
filosofia trascendentale che doveva essere sussunta nella nuova “filosofia dell’identità” che egli stava elaborando.
L’opera fondamentale in cui si condensano queste riflessioni è il Sistema dell’idealismo trascendentale (1800), cui
seguono: Esposizione del mio sistema filosofico (1801), Bruno (1802), Filosofia dell’arte (1802).
In questi anni collabora con Hegel al “Giornale critico della filosofia”, in polemica con gli avversari dell’idealismo
trascendentale, e si distacca definitivamente da Fichte proprio sul concetto di “natura”, considerata semplice “non-io”
e teatro dell’azione morale dal fondatore dell’idealismo, dotata invece dello stesso principio che spiega il mondo
della ragione e dell’io per Schelling.
Dal 1803 al 1806 passò ad insegnare a Würzburg, pubblicando, nel 1804, Filosofia e religione. Quando, nel 1806, la
città fu assegnata ad un principe austriaco, dovette abbandonarla e recarsi a Monaco, poiché non fu più possibile la
permanenza dei professori protestanti all’Università.
A Monaco Schelling abbandona l’insegnamento universitario e diventa prima segretario dell’Accademia di Belle Arti,
poi segretario della classe filosofica dell’Accademia delle Scienze.
Nel frattempo ruppe anche l’amicizia con Hegel, dopo essere stato attaccato da quest’ultimo nella famosa
“Prefazione” alla Fenomenologia dello spirito (1807). Schelling dovette anche assistere, negli anni successivi, al
trionfo della filosofia hegeliana e al proprio concomitante declino filosofico.
Nonostante il diradarsi della sua attività editoriale, nel 1809 pubblica le Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà
umana, divenute ben presto famose. Successivamente i suoi studi si orientano in senso teologico e morale.
Tra il 1820 e il 1827 insegna a Erlagen e intraprende un’ampia riflessione filosofica sulla mitologia.
Dal 1827 riprende l’insegnamento universitario a Monaco, dove rimane fino al 1841.
Nello stesso anno viene chiamato a succedere a Hegel nella cattedra di Berlino, proprio quando si andava profilando
in Germania la reazione contro l’hegelismo. Schelling stesso si pose a capo di questa reazione, attraverso
l’elaborazione di una “filosofia positiva”, o “empirismo filosofico”, contrapposta ala “filosofia negativa” dell’età
moderna, culminata nelle figure di Kant e Hegel. Le sue lezioni di Berlino sono frequentate, tra l’altro da intellettuali
come Kierkegaard, Feuerbach e Engels.
Morì il 20 agosto 1854 a Bad Ragaz, in Svizzera, dove si era recato per motivi di salute.
3.1 – La critica del concetto fichtiano di “natura” e l’Assoluto
Le origini filosofiche di Schelling sono fichtiane, proprio il Fichte della Dottrina della scienza, che cercava di
“completare” il criticismo kantiano dotandolo di quel fondamento che in Kant mancava, ovvero dell’attività
libera e creatrice di un Io puro metafisico originario.
Schelling, come Fichte, ritiene che i giudizi e le categorie non possano essere pensati se non in relazione
all’unità fondante dell’Io, nel quale il giovane Schelling vede una riedizione della sostanza spinoziana
passata attraverso la rielaborazione critica del kantismo.
La stessa azione morale del soggetto è radicata nell’Io puro che, per renderla possibile, oppone a se stesso
un limite, un ostacolo da superare, il non-io o “natura”.
Questo schema teorico fichtiano implicava però la necessità di concepire la natura come materialità senza
vita, estensione inerte, res extensa che costituiva il necessario polo dialettico dell’Io (res cogitans) e che
era coerente con l’implicita filosofia della fisica derivante dalla pratica scientifica in atto nel corso del ‘700:
una fisica meccanicistica e una natura matematizzata, codificate dall’epistemologia kantiana.
Schelling abbandonerà questo schema teorico fichtiano quando i suoi studi di scienze naturali, in particolare
di chimica, gli riveleranno l’inadeguatezza del modello meccanicistico nella comprensione dei fenomeni della
natura. L’isolamento dell’ossigeno operato nella nuova chimica dei gas, con Priestley e Lavoisier, forniva
una teoria globale delle trasformazioni chimiche. Inoltre, quando nel 1783 Lavoisier mostrò come l’idrogeno
e l’ossigeno si combinavano per produrre l’acqua, ritenuta fino ad allora un elemento semplice, riemerse su
nuove basi scientifiche il concetto vitalistico di trasformazione.
Con la nuova chimica non era più possibile pensare la natura solo in termini di estensione e meccanicismo;
riassumeva invece dignità, su nuove basi epistemologiche, una filosofia della natura di tipo neoplatonicorinascimentale, della natura come totalità organica e vivente, animata da un’intelligenza immanente alla
materia e alle diverse forme di vita che da essa si producono.
E’ quell’immagine romantica della natura, radicalmente opposta all’immagine meccanicistica di stampo
illuminista, tanto cara a Goethe che si servirà di essa come quadro teorico per il repertorio magico,
alchemico e occultistico utilizzato nel suo Faust.

Nelle Idee per una filosofia della natura (1797) Schelling tenta un’interpretazione dei risultati scientifici della
sua epoca sulla base del criterio dell’unità organica: così come la natura ha una struttura organica, le
scienze devono essere ripensate in una sorta di enciclopedia che risponde ad un principio di unificazione.
© Angelo Mascherpa
Così i concetti andranno dall’inorganico all’organico, proprio come la stessa legge immanente che opera
nella natura:

NATURA INORGANICA:
- magnetismo (reciproca gravitazione, e quindi coesione, tra le masse corporee dell’universo)
- elettricità
(opposizione di forze, polo positivo e negativo, alla base di tutti i processi naturali)
- chimismo
(processo che fonda, tramite il variare delle proporzioni, la metamorfosi dei corpi)

NATURA ORGANICA:
- sensibilità
(polarità di piacere e dolore)
- irritabilità
(reattività agli stimoli esterni)
- riproduzione (metamorfosi continua di vita e morte)

Come si può notare, a tutti i livelli della natura opera un unico principio che Schelling individua nella polarità
originaria di attrazione e repulsione, elevata a legge universale del cosmo.
Però, ciò che a livello fenomenico appare come polarità e opposizione, a livello di intelligibilità unitaria di
tutta la natura, come un unico essere vivente, quel principio si manifesta come “anima del mondo”, capace
di comprendere in sé tutti gli opposti (polo positivo/polo negativo, equilibrio/squilibrio, vita/morte…) di una
natura dinamica e in continua metamorfosi.
La rinascimentale e neoplatonica anima mundi diventa, nell’idealismo schellinghiano, un’intelligenza
inconscia che percorre tutti i gradi del processo naturale, fino a diventare consapevole di sé nell’uomo.
Questo è forse l’aspetto più interessante della filosofia della natura di Schelling che tenta di ricostruire
razionalmente un duplice processo:
- da un lato, in che modo la vita, latente nella materia inorganica, percorrendo gli innumerevoli gradi della
realtà naturale (tramite magnetismo, elettricità e chimismo), si manifesta nei vegetali e negli animali;
- dall’altro, come lo spirito, percorrendo inconsciamente, come “addormentato”, i gradi inferiori della natura,
si “svegli” nel suo più complesso prodotto, l’uomo, rendendosi presente a se stesso.
Così possiamo dire, con Schelling, che <<la natura è spirito visibile, lo spirito natura invisibile>>; ovvero
che l’Io fichtiano (spirito) non deve assolutamente essere concepito come contrapposto alla natura, ma che
natura e spirito sono i poli di una profonda unità che Schelling chiama anche Identità o Assoluto, dove si
risolvono tutte le opposizioni tra soggetto e oggetto, spirito e materia, io e natura.
Philipp Otto Runge
Madre e bambino
alla sorgente
(1804)
Hamburger
Kunsthalle
L’io diventa pienamente
consapevole di sé solo
al termine del processo
di trasformazione della
natura, in cui si trova
l’uomo, nel quale
assume la forma di
quell’intelligenza che
consente di assumere,
nella conoscenza, la
natura (e quindi se
stesso) a proprio
oggetto di studio e di
contemplazione.
Questo processo è mirabilmente rappresentato nell’opera di Philipp Otto Runge, in cui il busto della
madre, che apparentemente si distacca dal viluppo di fronde, acqua e fiori della sorgente, tiene in
braccio un bambino che si riflette nella fonte. Continuando ad osservare il quadro, però, si ha sempre
più la percezione che la sorgente altro non sia che la madre stessa (la mitologica “madre-natura”),
dalla quale l’uomo-bambino sorge e nella quale si “rispecchia”.
© Angelo Mascherpa
Così, in proposito, si esprime Schelling nell’Introduzione alle idee per una filosofia della natura:

<<Se racchiudiamo la natura in una totalità, si trovano di fronte il meccanismo, cioè una serie di cause ed effetti che
scorre dall’alto in basso, e il finalismo, cioè l’indipendenza dal meccanismo, la contemporaneità di cause ed effetti. Se
raccogliamo insieme anche questi estremi, sorge in noi l’idea di una finalità del Tutto: la natura diviene un circolo che
scorre su se stesso, un sistema chiuso in se stesso. La serie delle cause e degli effetti scompare completamente e genera
una relazione reciproca di mezzo e fine: il singolo non potrebbe esistere senza il tutto, né il tutto potrebbe divenire
effettivamente reale senza il singolo.
Ora, questo assoluto finalismo della totalità della natura è un’idea che pensiamo non arbitrariamente, ma
necessariamente. Ci sentiamo spinti a riferire ogni singolo a tale finalità del tutto; quando troviamo nella natura
qualcosa che sembra essere senza scopo o addirittura contrario ai fini, crediamo che sia rotta l’intera economia delle
cose, e non ci diamo pace finché l’apparente mancanza di finalità non ci appaia conforme a scopi da altri punti di vista.
È dunque una massima necessaria della ragione riflettente che nella natura si debba dovunque presupporre un rapporto
di fine e mezzo... E appunto perciò procediamo, con piena fiducia nell’accordo della natura con le massime della nostra
ragione riflettente, dalle leggi speciali e subordinate alle leggi universali e più elevate...
Che è dunque quel legame segreto che unisce il nostro spirito con la natura, o quell’organo nascosto in virtù del quale la
Natura parla al nostro spirito o il nostro spirito alla Natura?... lo spiegare questa finalità dicendo che un intelletto divino
ne è l’autore non è filosofare, ma fare pie considerazioni. Con ciò ci avete spiegato tanto come niente: perché noi non
vogliamo sapere come sia nata tale natura fuori di noi, ma come anche l’idea di tale natura sia venuta in noi; e non come
l’abbiamo arbitrariamente prodotta, ma come e perché essa originariamente e necessariamente stia a fondamento di
tutto ciò che la nostra specie ha sempre pensato sulla natura. Infatti l’esistenza di tale natura fuori di me non ne spiega
l’esistenza in me: e se ammettete che fra l’una e l’altra ci sia un’armonia prestabilita – è proprio questo l’oggetto del
nostro problema… La natura deve essere lo Spirito visibile, lo Spirito la Natura invisibile [grassetto
dell’autore]>>12.

Io e natura sono dunque i poli di una Unità originaria. <<Ma, dato che nel processo della conoscenza
soggetto e oggetto debbono necessariamente essere contrapposti, una cattiva filosofia ne fa due entità
opposte. Nasce così un falso idealismo che coglie la soggettività dell’io al di fuori dell’unità metafisica da cui
emerge. Vi è un falso materialismo che coglie la materia al di fuori del processo spirituale che la costituisce.
Entrambe sono forme della riflessione che atrofizzano il pensiero e gli impediscono l’accesso al luogo dove
ogni opposizione (…) viene risolta come una forma di polarità dell’Identità, dell’Assoluto>>13.
3.2 – Analisi trascendentale e filosofia dell’identità
Nel Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) Schelling si propone di delineare una filosofia dello
spirito che avrebbe dovuto costituire la controparte della filosofia della natura nel quadro del suo sistema.
Se la filosofia della natura partiva dall’oggetto per risalire al soggetto, dalla materia per risalire alla forma
(dove le leggi dell’oggetto si ritrovano nel soggetto), la filosofia trascendentale parte dal soggetto per
derivare il mondo oggettivo, dalla forma alla materia (in cui si ritrovano le stesse leggi del soggetto), ovvero il
farsi natura dello spirito.
Il compito della filosofia trascendentale di Schelling è quindi analogo a quello affrontato da Fichte nella
Dottrina della scienza, ovvero la “deduzione” della materia dall’io.
Il punto di partenza è l’autocoscienza, articolantesi in attività reale (in cui l’Io, ponendosi, incontra il limite e
risulta pertanto limitabile) e attività ideale (in cui l’Io, autoproducendosi, supera ogni limite, risultando
illimitabile). Queste due attività sono alla base del divenire dell’Io attraverso tre “epoche”:
- Prima epoca: dalla sensazione all’intuizione produttiva (dove l’io si avverte come senziente)
- Seconda epoca: dall’intuizione produttiva alla riflessione (intelligenza di sé)
- Terza epoca: dalla riflessione alla volontà (intelligenza che si autodetermina)

Schelling si sforza continuamente di mostrare come, nelle varie epoche, alle categorie dell’Io corrispondano
le varie forze della natura, le categorie della fisica in particolare. Ma come è possibile che nella sensazione e
nella coscienza comune l’oggetto, prodotto dal soggetto, appare provenire da un mondo esterno all’io, come
“cosa in sé”? Anche in questo caso la risposta di Schelling è analoga a quella di Fichte: attraverso una
“produzione inconscia” (corrispondente all’”immaginazione produttiva” di Fichte) l’Io genera i propri
oggetti che, in seguito, pensa come delle cose in sé.
Al di là di Fichte è invece la soluzione a quello che Schelling ritiene <<il più elevato compito della filosofia
trascendentale>>: in che modo (secondo la prospettiva gnoseologica) le rappresentazioni possono essere
12
F. W. J. Schelling, Introduzione alle idee per una filosofia della natura, in L’empirismo filosofico e altri scritti, a cura
di G. Preti, La Nuova Italia, Firenze, 1967, pp. 45-47
13
Vegetti-Alessio-Fabietti-Papi, Filosofie e società, Vol. 3, cit., p. 152
© Angelo Mascherpa
pensate come determinate dagli oggetti e, al tempo stesso (secondo la prospettiva pratica) gli oggetti come
determinati dalle rappresentazioni del soggetto?
Per Schelling non è possibile pensare in che modo in mondo oggettivo può accomodarsi alle forme del
soggetto e queste al mondo oggettivo, senza supporre che tra i due mondi esista una leibniziana <<armonia
prestabilita>>, ovvero un parallelismo tra strutture dell’io e strutture della natura. Un parallelismo che
diventa essenziale per poter pensare i fenomeni biologici, caratterizzati (contrariamente ai fenomeni oggetto
della fisica) dal “finalismo”. Mentre nei fenomeni puramente fisici il collegamento tra le parti avviene
attraverso una serie temporale pensata secondo rapporti di causa-effetto, nei fenomeni biologici le parti si
relazionano in rapporto al tutto, all’organismo che si auto-organizza.
<<L’idea di finalità è rappresentabile in un intelletto, ma il finalismo è oggettivo: una pianta, per esempio, non
è un’unità logica, ma reale. L’idea di una finalità dell’organismo è nel soggetto ma deve essere
rappresentata come esterna al soggetto, come inerente ad una realtà oggettiva. Ciò è possibile solo in
quanto nell’io stesso si riproduce tutta la struttura della natura. La finalità, categoria di una scienza come la
biologia, fonda questa scienza proprio in quanto è contemporaneamente soggettiva ed oggettiva>>14.
Tutto ciò è possibile perché, come abbiamo già visto, l’Io o Spirito, pur essendo sempre (idealisticamente)
attività libera, nella “creazione” del mondo oggettivo è produttivo in modo inconscio, mentre nell’agire morale
è produttivo in modo conscio.
La consapevolezza dell’identità tra produttività conscia e produttività inconscia è la consapevolezza
dell’Identità o Assoluto, di cui Io e natura costituiscono le polarità. Questa consapevolezza, però, non può
essere oggetto di una conoscenza analitica, ovvero di un sapere di tipo scientifico, capace solo di riprodurre
la situazione dicotomica di un soggetto che descrive un oggetto. L’unica forma di sapere di questa Identità è
l’”intuizione intellettuale” (già utilizzata da Kant nella Critica del giudizio, a proposito dell’idea di un
finalismo della natura). Così come la riflessione coglie la parte, l’intuizione afferra il tutto, l’Assoluto.
3.3 – L’arte come “organo” della filosofia
L’intuizione però, pur fornendoci un’immagine intellettuale dell’Assoluto, non può produrre una sintesi di
soggetto e oggetto. Una sintesi finita di soggetto e oggetto, di conscio e inconscio, di spontaneità e tecnica è
data dall’arte: organo di rivelazione dell’Assoluto. Infatti l’artista, non solo produce in un oggetto ciò che il
filosofo pensa nella forma del concetto, ma nella creazione estetica egli agisce in preda ad un impulso e ad
un entusiasmo inconsapevoli, facendo sì che la sua opera risulti come la sintesi di un momento conscio e
riflessivo (l’esecuzione tecnica) e di un momento inconscio e spontaneo (l’ispirazione).

Caspar David Friedrich, La grande riserva (1832) - Gemäldegalerie Alte Meister, Dresda
14
Vegetti-Alessio-Fabietti-Papi, Filosofie e società, Vol. 3, cit., p. 154
© Angelo Mascherpa
Nel dipinto di Friedrich, le calme acque dell’Elba, straripate nella palude di Ostra, gli ampi prati verdi sullo
sfondo, interrotti qua e là dalla presenza di alberi, il basso orizzonte sopra il quale si staglia un cielo dai
colori tenui del crepuscolo, trasmettono, al tempo stesso, un senso di armonia e nostalgia.
L’armonia insita nel finalismo della natura e la nostalgia dell’infinito, espressa dalla linea di luce dell’orizzonte
che, insieme alla disposizione delle nuvole, conduce l’occhio ad allontanarsi al di là dell’orizzonte stesso.
La flebile presenza umana (segnalata da una piccola vela accostata alla riva) sembra volersi inserire
delicatamente nel contesto del quadro, senza disturbare quel senso di “materna serenità” che la natura offre
all’individuo disposto a nutrirsene. Così l’artista riesce, con grande perizia tecnica (momento conscio), ad
esprimere sentimenti profondi (momento inconscio) non completamente analizzabili con l’intelletto, come la
nostalgia, la malinconia e un sentimento panico di fusione con la pace e l’armonia della natura. Al tempo
stesso, con una materia finita e sensibile, l’artista riesce ad esprimere il sentimento dell’infinito.
L’arte è l’organo della filosofia poiché il prodotto artistico è una rappresentazione finita e sensibile
dell’infinito e la bellezza è <<l’infinito espresso in modo finito>>.
Nella parte conclusiva del Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) possiamo leggere che:

<<Se l’intuizione estetica non è se non la intellettuale divenuta obbiettiva, s’intende di per sé che l’arte sia l’unico vero
ed eterno organo e documento insieme della filosofia, il quale sempre e con novità incessante attesta quel che la
filosofia non può rappresentare esternamente, cioè l’inconscio nell’operare e nel produrre, e la sua originaria identità col
cosciente. Appunto per ciò l’arte è per l filosofo quanto vi ha di più alto, perché essa gli apre quasi il santuario, dove in
eterna ed originaria unione arde come in una fiamma quello che nella natura e nella storia è separato, e quello che nella
vita e nell’azione, come nel pensiero, deve fuggire sé eternamente. La veduta, che artificiosamente si fa della natura il
filosofo, è per l’arte la originaria e naturale. Ciò che noi chiamiamo natura, è un poema, chiuso in caratteri misteriosi e
mirabili. Ma se l’enigma si potesse svelare, noi vi conosceremmo l’odissea dello spirito, il quale, per mirabile illusione,
cercando se stesso, fugge se stesso; infatti si mostra attraverso il mondo sensibile solo come il senso attraverso le parole,
solo come, attraverso una nebbia sottile, quella terra della fantasia, alla quale miriamo. Ogni splendido quadro nasce
quasi per il fatto che si toglie quella muraglia invisibile che divide il mondo reale dall’ideale, e non è se non l’apertura,
attraverso la quale appaiono nel loro pieno rilievo le forme e le regioni di quel mondo della fantasia, il quale traluce
solo imperfettamente attraverso quello reale. La natura per l’artista è non più di quello che è per il filosofo, cioè solo il
mondo ideale che apparisce tra continue limitazioni, o solo il riflesso imperfetto di un mondo che esiste, non fuori di lui,
ma in lui>>15.

Inoltre questo mondo ideale, che il “genio” oggettiva tecnicamente in forme finite, essendo il risultato di
un’ispirazione infinita e in gran parte inconscia, è portatore di un’infinità di significati, e quindi di possibili
interpretazioni che trascendono l’intenzione stessa dell’artista.

<<L’opera d’arte ci riflette l’identità dell’attività cosciente e dell’inconscia. Ma l’antitesi tra queste due attività è
infinita, e vien volta senza il minimo concorso della libertà. Il carattere fondamentale dell’opera d’arte è dunque una
infinità inconscia [sintesi di natura e libertà]. Sembra che l’artista abbia nell’opera sua, all’infuori di quanto vi ha
messo con palese intenzione, rappresentata istintivamente quasi un’infinità, che nessun intelletto finito è capace di
sviluppare interamente. Per render chiaro il nostro pensiero con un solo esempio, la mitologia greca, la quale è
innegabile che racchiuda in sé un senso infinito e simboli per tutte le idee, è nata in mezzo a un popolo e in una
maniera, che rendono ambedue impossibile il supporre una generale intenzionalità nell’invenzione e nell’armonia, con
cui ogni cosa è riunita in un grande insieme. Così è di ogni vera opera d’arte, in quanto ciascuna, come se vi fosse
un’infinità d’intenzioni, è capace di un’interpretazione infinita, dove non si può ben dire se questa infinità si sia trovata
nell’artista medesimo, o si trovi soltanto nell’opera d’arte>>16.

Così come l’“Artista cosmico” (l’Assoluto) genera le innumerevoli cose finite con forza infinita e in modo
conscio/inconscio al tempo stesso, l’artista umano, generando consciamente/inconsciamente opere finite
con infiniti significati, si configura come il più riuscito rappresentante dell’Assoluto su questa Terra.
E’ per questo motivo che l’idealismo di Schelling, costituendo la miglior giustificazione filosofica
dell’esaltazione romantica del valore dell’arte, può essere definito, a ragione, “idealismo estetico”.
15
16
F. W. J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, a cura di G. Semerari, Laterza, Bari, 1965, p. 301
F. W. J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, op. cit., p. 293
© Angelo Mascherpa
L’IDEALISMO ROMANTICO TEDESCO
PAROLE CHIAVE
Assoluto: principio metafisico della realtà nell’Idealismo di Schelling, consistente in una profonda unità di
natura e spirito, che il filosofo chiama anche Identità, dove si risolvono tutte le opposizioni tra soggetto e
oggetto, spirito e materia, io e non-io.
Finito: singoli fenomeni naturali, singoli fatti storici, singoli individui.
Identità: vedi Assoluto
Immaginazione produttiva: l’atto attraverso cui (secondo Fichte) l’Io produce inconsciamente il nonio, ovvero i materiali stessi della conoscenza, il mondo fenomenico.
“Intuizione intellettuale”: per Schelling, l’unica forma di sapere dell’Identità (già utilizzata da Kant
nella Critica del giudizio, a proposito dell’idea di un finalismo della natura): così come la riflessione coglie la
parte, l’intuizione afferra il tutto, l’Assoluto.
“Io puro infinito”: principio metafisico della realtà, per il fondatore dell’idealismo tedesco (Fichte), inteso
come “Soggettività assoluta”, spirituale e libera, derivante dalla metamorfosi dell’Io penso kantiano, che
trapassa dal piano gnoseologico al piano ontologico.
“non-io”: mondo (o natura) posto dall’Io puro infinito (Fichte) e opposto all’Io, caratterizzantesi in modo ad
esso antitetico: necessità, passività, molteplicità, materialità, finitezza e “meccanicismo”.
“Prometeismo”: vedi “Titanismo”
Sehnsucht :
stato d’animo caratteristico dei romantici, caratterizzato da una “brama appassionata”,
un’aspirazione struggente verso mete senza confini (l’infinito, la libertà, la felicità...) che continuamente
sfuggono.
Sollen : “dover essere”, dovere etico, “imperativo categorico” di trasformazione della realtà per elevarla
gradualmente dal piano empirico a quello della ragione e della libertà.
Streben : sforzo, tensione, aspirazione verso l’infinito, tendenza inesauribile a superare i limiti della
propria finitudine. Si tratta di un’aspirazione che dà luogo ad una ricerca senza fine, poiché al finito non è
dato strutturalmente di appropriarsi dell’infinito.
“Titanismo”: atteggiamento di sfida e ribellione (nei confronti della società, del destino, della natura…)
accompagnato sempre, però, dal sentimento della sconfitta di chi è consapevole dell’impossibilità di
trascendere completamente le barriere del finito. È detto anche “prometeismo” perché i romantici lo
personificano nel mitico titano greco Prometeo, il quale, avendo rotto l’ordine fatale del mondo per donare
agli uomini il fuoco, viene condannato da Zeus ad avere perennemente il fegato divorato da un’aquila.
© Angelo Mascherpa
L’IDEALISMO ROMANTICO TEDESCO
BIBLIOGRAFIA UTILIZZATA

Vegetti-Alessio-Fabietti-Papi, Filosofie e società, Vol. 3, Zanichelli, BO, 1982

Abbagnano-Fornero, La filosofia, vol. 2B, Paravia, MI-TO, 2010

De Bartolomeo-Magni, I sentieri della ragione, vol. 2°, ATLAS, Bergamo, 2006

J. G. Fichte, Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, trad. di A. Tilgher, Laterza, Bari, 1971

J. G. Fichte, La missione del dotto, a cura di N. Cappelletti, Le Monnier, Firenze, 1969

F. W. J. Schelling, Introduzione alle idee per una filosofia della natura, in L’empirismo filosofico e
altri scritti, a cura di G. Preti, La Nuova Italia, Firenze, 1967

F. W. J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, a cura di G. Semerari, Laterza, Bari, 1965
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