IGIENE E CULTURA MEDICO-SANITARIA - Età Evolutiva Disturbi dell’Infanzia e dell’Adolescenza Ritardo Mentale L’Invecchiamento La Sindrome da Immobilizzazione Lesioni del Midollo Spinale Epilessia Autismo Psicosi Schizofrenia Depressione Maggiore Integrazione di un Soggetto Portatore di Handicap La Legge Quadro sull’Handicap L’Operatore Socio-Sanitario I Distretti Sanitari Età Evolutiva Il termine “età evolutiva” fa riferimento al periodo di vita che va dalla nascita all’adolescenza e che diventa particolarmente impegnativo a causa di numerosi cambiamenti a cui un essere umano è sottoposto e con cui necessariamente deve confrontarsi. In questa fase di vita gli esseri umani non sono ancora autonomi e la loro natura “dipendente” li rende particolarmente sensibili alle dinamiche familiari, scolastiche e sociali, creando spesso una diretta corrispondenza tra ciò manifestano e ciò che accade intono a loro. La sofferenza psicologica nei bambini e negli adolescenti assume spesso le forme di veri e propri “sintomi” che vanno adeguatamente inquadrati e diagnosticati, soprattutto per prevenire disturbi più gravi in età adulta. I sintomi infantili e adolescenziali sono segnali di disagio personale ed interpersonale che sono dei veri e propri richiami, delle reali richieste di aiuto che in questa fase di vita non assumono forme chiaramente espresse, ma che vanno comunque ascoltati e ridefiniti. Le terapia cognitivo-comportamentale dell’età evolutiva fa riferimento alla modificazione graduale del comportamento a partire dalla definizione sistematica dei sintomi e della loro origine. I comportamenti hanno senso solo all’interno dell’ambiente fisico e psicologico in cui si manifestano e vengono costantemente rinforzati e puniti in maniera inconsapevole. Alcuni comportamenti infantili appaiono “strani” o difficilmente comprensibili, ma nonostante abbiano assunto all’esterno una forma disfunzionale, hanno al proprio interno una precisa funzione, che va scoperta e modificata. La terapia cognitiva e comportamentale aiuta a rendere visibili le dinamiche nascoste di un determinato comportamento, cercando di conoscere a fondo i comportamenti divenuti “patologici”, aiutando genitori ed insegnati a rispondere adeguatamente al bisogno espresso, decondizionando gradualmente il circolo vizioso disfunzionale che ha indotto quel bambino o quell’adolescente ad apprendere modalità sbagliate di fronteggiamento della realtà. • Come si procede Quando si comincia un percorso terapeutico in età evolutiva si seguono alcune procedure standard che prevedono un primo colloquio con i genitori o con chi si occupa dell’educazione e della cura del bambino, successivi 4 o 5 colloqui di osservazione e colloquio con il bambino stesso, e un incontro finale di restituzione di ciò che si è compreso ai genitori per la condivisione della diagnosi e per stabilire le linee generali del progetto terapeutico. La psicoterapia in età evolutiva procede con la costante partecipazione dei genitori, degli insegnati e qualora c’è ne fosse bisogno anche della rete familiare più ampia. La partecipazione dei genitori è fondamentale nella psicoterapia cognitiva perché l’intervento oltre a decodificare il bisogno del bambino, deve restituire ai genitori una consapevolezza nuova e strumenti più efficaci di comunicazione con loro figlio. La psicoterapia cognitiva cerca di dare voce al bambino e di potenziare le risorse dei suoi genitori che sono e restano le sue figure di riferimento fondamentali. Parallelamente alle procedure standard è importante sottolineare che esistono alcune differenze di diagnosi e cura a seconda della fase evolutiva del bambino che necessita a seconda dell’età di alcune attenzioni particolarmente importanti per la fase di s viluppo attraversata. • Alcun differenze evolutive 0-3 anni: il bambino è completamente dipendente dai genitori; l’intervento mira quasi esclusivamente ai colloqui con le figure genitoriali, le sedute con il bambino si fanno spesso insieme ai genitori sia contemporaneamente che singolarmente, e l’osservazione del bambino viene utilizzata per dare ai genitori nuove chiavi di lettura del comportamento del figlio, creando gradualmente risposte più adeguate ai suoi bisogni. 3-6 anni: il bambino è ancora molto dipendente dai genitori ma inizia ad essere scolarizzato anche se non completamente; l’intervento si basa ancora molto sui colloqui genitoriali, ma si possono effettuare parallelamente e a seconda del caso specifico maggiori sedute con il bambino. In questa fase, infatti il bambino, verbalizza con più sicurezza e interagisce nel setting terapeutico in maniera più autonoma, con più risorse di gioco e di relazione con il terapeuta. 6-10: il bambino è più indipendente dai genitori e la rete sociale e familiare inizia ad essere importante nella organizzazione di vita, i genitori sono ancora le figure fondamentali; l’intervento inizia a concentrarsi su sedute più frequenti con il bambino in un setting individuale e le figure genitoriali vengono seguite parallelamente con incontri mirati alla condivisione di ciò che emerge in terapia con il bambino, al fine di potenziare i risultati ottenuti e generalizzarli efficacemente nel “mondo” naturale del bambino stesso. 10-13: il bambino diviene più autonomo ed ha esigenze più legate all’ambiente sociale più ampio; l’intervento mira alla costruzione di una relazione significativa con il terapeuta, che in questa fase di età, diviene un importante interlocutore “alternativo” ai genitori, e permette di comunicare all’interno di uno spazio esclusivo e più indipendente. I genitori collaborano alla terapia in maniera comunque costante, ma il mondo del bambino adesso esige riservatezza e spazi di dialogo esclusivi al servizio del sé che inizia a definirsi come tale. 13>: l’adolescenza è iniziata e nonostante lievi differenze individuali le esigenze cambiano per tutti; l’intervento si concentra quasi esclusivamente sull’approccio individuale, con particolare attenzione al mantenimento degli spazi di privacy, così importanti in questa fase evolutiva. La costruzione di una relazione di fiducia esclusiva e protetta è la maggiore esigenza per un adolescente che si avvicina ad un percorso psicologico. Il trattamento prevede comunque sedute di confronto con i genitori, essendo l’adolescente ancora parzialmente dipendente dalle sue figure di riferimento, ma il bisogno di autonomia e di differenziazione dai “grandi” è prioritario e stabilisce un setting molto simile a quello degli adulti. La teoria di Erikson Esiste però un’altra concezione di età evolutiva che consiste nel considerare l’intero ciclo o arco di vita come età evolutiva, poiché tutta la vita è scandita da problemi e conflitti fra opposte esigenze che costituiscono delle crisi o punti di svolta, e a ciascuno di essi le persone debbono affrontare uno specifico compito evolutivo): se riescono ottengono un arricchimento personale e una solida base per i successivi compiti evolutivi e danno un contributo positivo all’umana convivenza, se falliscono ottengono sofferenza e difficoltà nell’affrontare i successivi compiti evolutivi. Il ciclo di vita secondo Erikson Prima infanzia Seconda infanzia Fanciullezza FIDUCIA (- sfiducia) AUTONOMIA INIZIATIVA OPEROSITA’ (- vergogna) (- colpa) (- inferiorità) La madre è inizialmente per il bambino l’unico oggetto a cui rivolgere il proprio amore. Il rapporto Il bambino diviene più autonomo, sente il bisogno di conoscere e di esplorare il mondo che lo Il bambino inizia ad andare a scuola, si fa degli amici, si crea nuovi interessi, Pre-adolescenza Continua il compito di socializzazione e di autonomia; il ragazzo ora è pieno di interessi: studio amici, sport. positivo, di fiducia che si crea tra i due, svolge un ruolo rassicurativo che aiuta il bambino a prendere gradatamente coscienza di sé e del mondo esterno. circonda, scopre aumenta così i coetanei, si la sua orienta verso autonomia. l’esterno. Adolescenza Giovinezza Maturità IDENTITA’ INTIMITA’ GENERATIVITA’ ((- isolamento) (- egoismo) alienazione) Vecchiaia INTEGRITA’ (- disperazione) L’adolescente ha il compito di costruirsi un’identità personale e un ruolo sociale. Compiti di questa fase sono: entrare nel mondo degli adulti e costruire dei rapporti significativi. E’ la fase dell’età adulta. L’adulto "generativo" si impegna nel proprio lavoro, si prende cura della sua famiglia, ha amici e interessi, dà il suo contributo al progresso della società, è cittadino attivo e partecipe. La tendenza opposta consiste nel chiudersi nel proprio io nell’inaridimento affettivo. Compito: mantenere un senso di coerenza e completezza della propria vita. Tendenza opposta: non dare più valore alla propria vita, disperare, disprezzare la vecchiaia. DISTURBI DELL’INFANZIA E DELL’ADOLESCENZA: IL RITARDO MENTALE Così definiti in quanto la loro insorgenza si colloca prima della maggiore età, i disturbi dell’infanzia e dell’adolescenza presentano in generale degli aspetti riguardanti comportamento personale e interpersonale, sviluppo cognitivo, funzionamento globale che si discostano da ciò che viene considerato “normale” in un determinato contesto storico, sociale e culturale. Dunque, per poter parlare di disturbi, le manifestazioni peculiari devono interferire significativamente nel funzionamento quotidiano della persona. Il DSM-IV distingue quattordici tipologie di questi disturbi: Ritardo mentale: condizione di interrotto o incompleto sviluppo delle facoltà intellettive e adattative. Il quoziente intellettivo (il rapporto tra età anagrafica ed età mentale) è di molto inferiore alla media, dai 75-70 punti in giù (contro i 90-109 di un’intelligenza considerata normale). Esistono diversi gradi di ritardo mentale, da lieve a gravissimo. Le cause possono essere organiche, genetiche e/o psicologiche. Disturbi dell’apprendimento: difficoltà ad apprendere i concetti basilari del calcolo (disturbo del calcolo o discalculia), della lettura (dislessia) e/o della scrittura (disturbo dell’espressione scritta o disgrafia). Creano forte disagio nel bambino, provocando stanchezza, demotivazione e possibili danni all’autostima legati anche al confronto con i pari. Disturbi delle capacità motorie: legati in particolare alla coordinazione motoria: si possono rilevare goffaggine, lentezza, difficoltà anche in attività semplici come il camminare. Disturbi della comunicazione: esistono varie tipologie, possono riguardare la comprensione, la ricezione del linguaggio, e/o l’eloquio. Disturbi generalizzati dello sviluppo: gravi deficit della capacità di interazione sociale o della capacità di comunicazione, che si manifestano attraverso comportamenti, interessi e attività stereotipate. È il caso del disturbo autistico (atteggiamento mentale di ripiegamento su se stesso), del disturbo di Rett (deficit multipli: perdita delle capacità manuali, isolamento, difficoltà psicomotorie), del disturbo disintegrativo della fanciullezza (disturbi nella comunicazione e nell’interazione sociale), del disturbo di Asperger (simile all’autismo, comporta notevoli difficoltà nelle relazioni sociali e schemi limitati e insoliti di interessi e comportamento). Disturbo da deficit di attenzione (iperattività): disturbo neurologico presente fin dai primissimi mesi di vita che si può protrarre fino all’età adulta, connotato da una vivacità esasperata e incapacità di prestare attenzione. La persona è instabile e iperattiva, ha grandi difficoltà a mantenere la concentrazione. Disturbo della condotta: incapacità di mantenere un atteggiamento sociale accettabile: chi ne è affetto presenta insofferenza alle regole, aggressività verso persone, animali e cose, gravi problemi emozionali e comportamentali (es. rubare, avere comportamenti violenti). Disturbo oppositivo di tipo provocatorio: impossibilitato nell’adattamento sociale, il bambino presenta comportamenti ostili e provocatori, non rispetta regole, cerca di imporre la propria volontà, è vendicativo. Tale disturbo è maggiormente diffuso nei maschi. Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione dell’infanzia o della prima fanciullezza: comprende tre tipi di disturbi, la pica (ingestione di sostanze non alimentari, come sabbia, ciottoli o capelli); il disturbo di ruminazione (continuo rigurgito e rimasticamento del cibo) e il disturbo della nutrizione (incapacità di mangiare normalmente e prendere peso). Disturbi da tic: i tic sono parole o movimenti senza scopo, del tutto involontari, che tendono a ripetersi con ritmo irregolare. Uno dei più noti è la sindrome di Tourette, che si manifesta sia con vocalizzazioni che con tic motori. Disturbi dell'evacuazione: encopresi, evacuazione delle feci in luoghi inappropriati, dopo i 4 anni di età ed enuresi, emissione di urine nel letto o nei vestiti dopo i 5 anni di età. Tra le cause, difficoltà di tipo relazionale o eventi stressanti. Disturbo d’ansia di separazione: il bambino manifesta un’intensa sofferenza nell’allontanamento dai genitori o da altre persone care, ha problemi ad andare a scuola, a dormire da solo e può risultare preoccupato, fino all’ossessione, che possa succedere qualcosa di grave alle persone significative. Mutismo selettivo: il bambino si rifiuta di parlare in determinate circostanze o con determinate persone che può essere legato allo stress di un cambiamento. Disturbo reattivo dell’attaccamento dell'infanzia e della prima fanciullezza: estrema fatica nel rapportarsi in modo appropriato all’ambiente esterno. Si distinguono due tipi principali di disturbo, uno inibito (il bambino è freddo, scostante, tende a isolarsi e a mantenere un atteggiamento vigile) e l’altro disinibito (socievolezza eccessiva, fiducia indiscriminata in chiunque). Tra le cause si può ritrovare una certa disfunzionalità nei rapporti familiari. Il Ritardo Mentale La caratteristica principale del ritardo mentale è rappresentata dalla presenza di un funzionamento intellettivo significativamente inferiore alla media a cui si accompagnano limitazioni importanti nel funzionamento affettivo, sociale e scolastico del bambino o adolescente. Il ritardo mentale può essere lieve, moderato, grave, profondo e l’esordio si colloca temporalmente prima dei 18 anni di età. Ritardo mentale lieve (QI compreso tra 50 e 70) I bambini affetti da un ritardo mentale lieve sviluppano competenze sociali e comunicative in età prescolare, hanno modeste difficoltà nell’area senso-motoria e spesso non sono distinguibili dagli altri coetanei fino ad un’età superiore. Riescono a raggiungere facilmente la quinta elementare ed un livello di apprendimento corrispondente alla prima e alla seconda media. Da adulti, di solito, riescono a badare a se stessi, ma possono necessitare di un aiuto e di una guida in situazioni inusuali. Ritardo mentale moderato (QI compreso tra 35/40 e 50/55) La maggior parte dei soggetti acquisisce competenze comunicative nella prima infanzia e, con moderata supervisione, è in grado di badare a sé. Miglioramenti significativi si possono ottenere con insegnamenti occupazionali e sociali, ma l’apprendimento rimane comunque limitato, il che può comportare anche problematiche relazionali. Da adulti possono svolgere lavori semplici in comunità protette. Ritardo mentale grave (QI compreso tra 20/25 e 35/40) I soggetti con ritardo mentale grave presentano un linguaggio grossolano o assente, possono imparare compiti elementari e, da adulti, possono essere in grado di svolgere attività semplici in strutture supervisionate. Ritardo mentale profondo (QI uguale a 20/25) La maggior parte dei soggetti con questo tipo di ritardo mentale presenta malattie neurologiche non identificate. Nella prima infanzia possono migliorare le funzioni senso-motorie, specie se inseriti in gruppi strutturati con supervisione stretta. Ritardo mentale non altrimenti specificato (N.A.S.) Comprende quei bambini con deficit multipli di cui è difficile valutare il livello di insufficienza mentale, presumibile soltanto attraverso l’osservazione esterna. Solitamente un bambino con ritardo mentale giunge all’osservazione di uno psicologo o un neuropsichiatra infantile poiché manifesta capacità più o meno gravi di problem solving, di adattamento e di autonomia personale rispetto a quelle tipiche dei coetanei, a seconda del livello del ritardo, in aree importanti (cura personale, abilità relazionali, autosufficienza, rendimento scolastico etc.). È importante saper individuare altri eventuali e ulteriori fattori che possono influenzare il funzionamento adattivo del bambino, come caratteristiche di personalità, altri disturbi o disabilità. La diagnosi consiste nello stabilire la presenza di ritardo mentale e nel cercare di individuarne le cause sottostanti. L'accurata valutazione della causa di base può contribuire a individuare la prognosi, suggerire programmi educativi e di esercizio, aiutare nel counceling genetico e alleviare il senso di colpa dei genitori. L'anamnesi (inclusa quella perinatale, dello sviluppo, neurologica e familiare) può aiutare a individuare bambini a rischio di ritardo mentale. In questi bambini devono essere effettuate molto precocemente valutazioni visive, uditive, psicomotorie, neurologiche e fisiche in generale, che devono ripetersi periodicamente. Nei bambini ad alto rischio o con sospetto ritardo di sviluppo, vanno effettuati test specifici per stabilire il grado di sviluppo e di intelligenza. Esistono test intellettivi standardizzati, in grado di individuare e misurare capacità intellettive sotto la media; tuttavia tali test sono soggetti a errore e devono essere interpretati con cautela, soprattutto quando non confermati dai reperti clinici. Molti studi scientifici dimostrano che soggetti affetti da ritardo mentale presentano un alto grado di comorbidità con altri disturbi come disturbo da deficit di attenzione ed iperattività, disturbi dell’umore, disturbi pervasivi dello sviluppo, disturbi da movimenti stereotipati. Alcune manifestazioni presenti in questo tipo di disturbo, infine, si possono ritrovare anche in altre patologie; ad esempio il ritardo mentale grave e medio può presentare degli aspetti in comune con i disturbi generalizzati dello sviluppo, mentre il ritardo mentale lieve potrebbe essere confuso con un disturbo dell’apprendimento. Il momento della diagnosi è dunque estremamente importante e delicato, sia per l’impostazione degli interventi, sia per un’attenzione dovuta ai genitori, che hanno bisogno di aiuto e sostegno da subito. Cause del ritardo mentale Biologiche e genetiche. A volte il ritardo mentale è dovuto ad anomalie cromosomiche come ad esempio trisomie o delezioni di alcuni cromosomi, oppure a condizioni ereditarie dominanti, per cui se un genitore ne è affetto c'è un rischio su due che il figlio erediti la condizione (es. sclerosi tuberosa, fenilchetonuria etc.). Il ritardo mentale può essere causato anche da fattori biologici non genetici, come infezioni in gravidanza (rosolia, toxoplasma etc.), incompatibilità tra sangue materno o fetale, l’uso di alcool o droghe. Tra i rischi perinatali vi sono quelli legati a prematurità ed asfissia. Tra quelli postnatali vi sono encefalite, meningite (infiammazioni del cervello o delle membrane che lo rivestono), traumi e tumori cerebrali, incidenti cerebrovascolari, lesioni cerebrali ed avvelenamenti. Ambientali. Gravi carenze nelle cure, o a livello sensoriale, affettivo, sul piano degli scambi con l’ambiente possono provocare alterazioni dello sviluppo psichico della persona, spesso irreversibili, che si possono riflettere anche sullo sviluppo somatico e sulla maturazione neurologica. Uno svantaggio socioculturale (economico, familiare, culturale) può favorire un ritardo mentale, specie in individui che presentano già limiti cognitivi. Conseguenze indirette di disabilità, ad esempio sensoriali. Il ritardo non sarebbe direttamente collegato alla mancanza, ad esempio, della vista o dell’udito, ma da una stimolazione ambientale inadeguata alle peculiarità dello sviluppo psicofisico in assenza di un canale sensoriale. Prevenzione In fase prenatale, è fondamentale la consulenza genetica che consideri l’eventuale presenza in famiglia di persone con ritardo mentale, che proponga vaccini (es. contro la rosolia), esami in gravidanza come l’ecografia, l'amniocentesi o il prelievo di villi coriali, utili per individuare errori metabolici e cromosomici congeniti, lo stato di portatore e difetti del SNC. La diagnosi prenatale consente alla coppia di considerare la possibilità di aborto terapeutico. L’informazione è inoltre importante per evitare comportamenti a rischio in gravidanza, quali l’uso di, droghe, fumo, alcool, alcuni farmaci etc. Gli interventi preventivi possono dunque mirare ad eliminare causa e conseguenze (evitando comportamenti rischiosi in gravidanza ad esempio), a ridurre gli effetti diretti e indiretti della causa in fasi postnatali (una dieta ad hoc nel caso della fenilchetonuria o interventi educativi nel secondo caso). Conseguenze Le conseguenze sul piano sociale, affettivo, scolastico o lavorativo variano a seconda della gravità del disturbo. In generale, i soggetti con ritardo mentale possono presentare scarse capacità di socializzazione, difficoltà nel far fronte ai compiti scolastici ed una ristretta autonomia comportamentale. In assenza di corretti interventi, il ritardo mentale può aggravarsi. Interventi Il decorso del disturbo dipende dalla gravità, dalle cause e dal modello operativo di intervento. Soprattutto in presenza di ritardi mentali di entità lieve, l’intervento precoce risulta fondamentale per consentire un recupero maggiore delle funzioni deficitarie. I problemi di adattamento sono i più soggetti a miglioramento. La vulnerabilità di sviluppo a causa di un insulto perinatale può essere superata se il bambino vive in un ambiente adatto all'apprendimento. Intraprendere un programma di intervento precoce nella prima infanzia può prevenire o diminuire la gravità del ritardo mentale. Sono importanti anche interventi di sostegno per i familiari sia dal punto di vista emotivo e psicologico, sia da un punto di vista operativo, nel senso di sviluppare competenze che favoriscano l’integrazione e il recupero del bambino. La famiglia deve dunque avere un supporto psicologico e può necessitare di aiuto giornaliero come centri di terapia diurni, collaboratori familiari, famiglie per l'adozione temporanea. L'istituzionalizzazione eventuale di una persona mentalmente ritardata deve essere decisa dalla famiglia, previo confronto con medici e altri professionisti. Figure fondamentali saranno il medico di famiglia e specialisti (neurologo, ortopedico, psicologo, psichiatra, logopedista, fisioterapista, dietologo, audiologo, insegnanti, assistenti alla comunicazione etc.) che cooperano sia nella valutazione che negli interventi. La maggior parte degli allievi con ritardo mentale è inserita nella scuola normale e vive in famiglia e non in istituzioni come avveniva in passato, in quanto ciò può favorire una piena integrazione. In Italia sono molti gli interventi e abbracciano molti settori come educazione, istruzione, riabilitazione, inserimento lavorativo, interventi logopedici, occupazionali per migliorare l’autonomia, fisioterapici e, quando necessario, farmacologici. In alcuni casi può essere di aiuto la psicoterapia associata a farmaci e a modifiche dell’ambiente circostante, con l’obiettivo di alleviare il senso di inadeguatezza della persona o a modificare scopi non realistici. Il trattamento cognitivo-comportamentale ad esempio, prevede, sul piano comportamentale, il miglioramento del comportamento sociale ed il controllo e la diminuzione di eventuali comportamenti aggressivi o inopportuni, rinforzando quelli desiderati. Sul piano cognitivo, lo scopo è quello di promuovere le competenze che il bambino possiede, in modo da potenziarle ed evitarne il deterioramento, e l’acquisizione di nuove abilità di fronteggiamento dei problemi. In ambito cognitivocomportamentale è previsto anche l’impiego di altre forme di trattamento come la terapia occupazionale ed il parent traning. I bambini lievemente ritardati necessitano un sostegno intermittente o limitato, in base alla variabilità delle richieste ambientali. Sebbene presenti difficoltà nella lettura, la maggior parte di questi bambini può acquisire un livello di istruzione sufficiente alla vita di tutti i giorni e provvedere alle proprie necessità di base. I soggetti lievemente ritardati necessitano di minimi controlli e sostegni specifici, di speciali programmi educativi e, di frequente, di condizioni di vita e situazioni lavorative protette. Spesso sono socialmente immaturi e ingenui e presentano una ridotta capacità di interazione sociale. Poiché il loro modo di pensare è concreto e spesso non adeguato alla generalizzazione, presentano difficoltà di adattamento a situazioni nuove e scarsa capacità di giudizio. I bambini con ritardo lieve, ma più pronunciato, e quelli con ritardo moderato presentano deficit motori e del linguaggio. Con adeguati programmi di istruzione e di sostegno continuativo, gli adulti lievemente e moderatamente ritardati possono condurre una vita più o meno indipendente nella comunità. Alcuni richiedono un sostegno giornaliero limitatamente ad alcuni aspetti della quotidianità. Altri possono vivere con un sostegno specifico in comunità familiari, mentre i soggetti con gravi limitazioni fisiche o disturbi comportamentali hanno bisogno di una maggiore supervisione. La maggior parte richiede un sostegno a lungo termine in un ambiente di lavoro protetto. I bambini molto, o gravemente, ritardati necessitano di un sostegno che interessi tutti gli aspetti della vita. Molti presentano capacità minime di movimento e di linguaggio. L'invecchiamento L'invecchiamento è un processo che interessa tutti gli organismi viventi e che comporta modificazioni biologiche. Nell'uomo si assiste a tali modificazioni del corpo e delle sue funzioni, seguite da un processo di adattamento psicofisico, già dopo i 30 anni; il fenomeno è graduale e progressivo, anche se variabile per ogni individuo. Tuttavia la vecchiaia può assumere un significato positivo e può essere vissuta nel modo giusto ...non è soltanto il momento della saggezza, ma può essere anche quello della creatività. L'invecchiamento fisico L'aumento della popolazione anziana rappresenta un fenomeno importante della nostra società. Rispetto al passato non è variata la durata massima della vita umana, ma quello che si è modificato drasticamente è la percentuale degli individui che raggiungono l'età avanzata. Il numero di anziani in Italia di età compresa fra i 65 e 74 anni è 8 volte maggiore rispetto l'inizio del secolo scorso, mentre gli anziani con età superiore a 85 anni sono aumentati di oltre 24 volte. A conferma di ciò studi compiuti in America, sempre nel secolo scorso, stimavano che solo il 2% della popolazione superasse i 65 anni, mentre attualmente la percentuale è dell'11%, e questa percentuale è destinata ad aumentare. Gli anziani sono sempre più numerosi e raggiungono la vecchiaia in migliori condizioni di salute, merito del progresso sia delle conoscenze scientifiche (riduzione della mortalità per malattie infettive) che delle condizioni socioeconomiche (miglioramento dell'igiene e dell'alimentazione). L'aumento della popolazione anziana ha determinato la nascita di nuove discipline: • • • la geriatria (dal greco geros=vecchio, iatros=medico): branca della medicina che si occupa non solo della prevenzione e del trattamento delle patologie dell'anziano, ma anche dell'assistenza psicologica, ambientale e socio-economica. la gerontologia : scienza che studia le modificazioni derivanti dall'invecchiamento. la geragogia : scienza che studia tutte le possibilità per invecchiare bene. Esiste tutt'oggi difficoltà a stabilire l'inizio del processo di invecchiamento, processo caratterizzato dall'aumento dei processi distruttivi su quelli costruttivi a carico del nostro organismo. Si usa comunemente considerare le seguenti fasce di età: • • • età di mezzo o presenile 45-65 anni : gli eventi biologici caratteristici sono la menopausa per la donna e l'andropausa per l'uomo, importanti per le modificazioni bio-umorali (aumento dei grassi nel sangue, della glicemia, predisposizione all'ipertensione arteriosa). senescenza graduale, 65-75 anni : comunemente si indica l'età corrispondente all'inizio della vecchiaia a 65 anni. senescenza conclamata, 75-90 anni : in passato individui di età superiore ai 65 anni mostravano riduzione dell' efficienza psicofisica, ai giorni nostri si assiste alla comparsa di ultrasessantacinquenni efficienti, e si può ridefinire anziano l'ultrasettantacinquenne. In questo periodo le malattie che insorgono tendono a cronicizzarsi ed a determinare interventi assistenziali sociali e riabilitativi. Biologicamente si assiste ad una generale riduzione del numero delle cellule (atrofia) ed una diminuzione dell'efficienza funzionale, accompagnata da modificazioni organiche e predisposizione ad una serie di disturbi. L'invecchiamento psichico La psicologia dell'invecchiamento si occupa dell'anziano nella sua globalità: analogamente ad ogni fase della vita umana non si può prescindere dall'importanza della componente affettiva che determina la modalità di risposta agli eventi della vita. Si è visto che la vecchiaia è caratterizzata da modificazioni in senso peggiorativo, ma si può affermare che non esiste un parallelismo fra le modificazioni delle funzioni in individui diversi (eterocronia dal greco eteros=diverso e cronos=tempo). Già nell'antichità si riteneva che la vecchiaia fosse sempre accompagnata da deterioramento mentale permanente, in particolare dal declino patologico delle capacità intellettuali e dell'adeguato controllo dell'emotività (demenza). Leggendo S. Antonio da Padova si trova il termine sene-scere inteso come perdere la cognizione di sé, mentre personaggi come Cicerone (nel De Senectute), Catone e Seneca parlando di vecchiaia mostrano una visione più positiva: la vecchiaia non è solo un processo necessariamente legato al decadimento globale dell'organismo umano. In particolare Catone e Cicerone sottolineavano l'importanza di coltivare molti interessi, fonte di frutti meravigliosi. Recenti ricerche hanno evidenziato la possibilità di sviluppare situazioni creative proprio nella vecchiaia ; studi condotti con modalità diverse hanno dato risultati diversi rispetto al passato: l'anziano può mantenere la sua efficienza psichica globale se sfrutta le risorse residue, ad esempio mediante l'allenamento mentale, e se motivato. Studi anatomo-patologici sul cervello mostrarono che nell'invecchiamento si ha una sclerosi progressiva. Eppure esistono dei casi in cui non sono presenti modificazioni cerebrali. Ciò a conferma della variabilità del processo di invecchiamento (eterocronia) fra gli individui. Attualmente si ritiene possibile un recupero delle funzioni cerebrali (fenomeno detto sinaptogenesi). Le numerose scale di invecchiamento, dal 1950 in poi, dimostrarono che con l'avanzare dell'età diminuiscono funzioni quali la memoria e la capacità di concentramento, frequentemente compaiono alterazioni dello stato emozionale, come avviene nella depressione. Attualmente si è dimostrato che l'anziano è più lento, riflessivo, ma non meno efficiente: i test utilizzati in passato erano caratterizzati da tempi brevi di risposta, ecco che l'anziano non aveva il tempo di risolvere i problemi sottoposti. La biografia di personaggi illustri mostra individui con conservata funzionalità cerebrale anche nella senescenza, anzi molte opere di scrittori, filosofi, artisti, compiute alla fine dell'esistenza, rappresentano il coronamento di tutti i lavori precedenti. Da notare anche la diversità dei risultati ottenuti da studi trasversali, in cui si confrontano individui di diverse età, e studi longitudinali, in cui si controlla un campione di individui per un lungo periodo di tempo. E' intuitivo comprendere come lo studio longitudinale sia particolarmente difficile da portare a termine, sia per l'intervallo di tempo sia per la graduale perdita o rinuncia dei soggetti campione. Gli studi longitudinali confermano che non è la senescenza la condizione patologica, piuttosto sono gli eventi morbosi a creare le condizioni del rapido declino psicofisico. Ma quali sono i fattori che influenzano i processi di invecchiamento? • • • • • • • • • Fattori genetici , anche il sesso può essere un fattore predisponente (il maschio invecchia più precocemente). Educazione e livello culturale che consentono di trovare più facilmente delle alternative di vita alla pensione, di creare delle strategie di sopravvivenza. Benessere economico Interazione e comunicazione Comparsa di malattie invalidanti : l'anziano vive come intrinseca la sua malattia, il suo vissuto è che la malattia appartenga al suo destino. Stile personale di vita , cioè subire o vivere la vita. Appartenenza ad un nucleo socio-familiare , cioè il gruppo, mediante atteggiamenti di conferma o svalutativi, evidenzia gli aspetti positivi e negativi della condizione di vecchiaia. Eventi drammatici : ad esempio la scomparsa di figure di riferimento. Sradicamento dal proprio luogo di origine. E' evidente l'importanza dei fattori sociali. La percezione è la capacità di raccogliere le informazioni esterne attraverso i canali sensoriali. E' quindi legata a due fattori: l'integrazione delle informazioni che avviene a livello del sistema nervoso centrale e l'assimilazione legata al sensi (sistema nervoso periferico). La vista e l'udito sono spesso ridotte e influenzano negativamente la capacità percettiva. Sulla base del principio di costanza percettiva, che dice che la percezione si mantiene costante nel processo di invecchiamento, il cervello cerca di compensare la difficoltà percettiva legata ad una perdita sensoriale stimolando i sensi rimasti integri (principio di conservazione). Con l'avanzare degli anni si affina la capacità di rispondere alla diminuzione di alcune funzioni psicofisiche utilizzando le conoscenze e le esperienze apprese nella vita. E' stato dimostrato che l'attività percettiva migliora se migliorano le condizioni in cui si svolge la stessa: l'ambiente esterno (la società, ma soprattutto il gruppo familiare) può stimolare l'interesse, dare spazio di espressione, non negare le possibili potenzialità dell'anziano. La comunicazione, e quindi le relazioni interpersonali che permettono una vita sociale, dipendono dalla possibilità di percezione. E' noto che l'anziano mantiene integra la memoria Altro elemento fondamentale è la motivazione. La motivazione, in tutte le età, è la spinta propulsiva fondamentale del comportamento, insostituibile strumento di apprendimento. Persino l'utilizzo del computer, strumento estraneo alla cultura dell'anziano, può essere appreso qualora l'anziano sia motivato a farlo. Il pensiero e il linguaggio possono essere conservati, ma per mantenere l'interazione con l'ambiente esterno, l'anziano deve essere in grado di comunicare. Perché ciò avvenga non si può prescindere dall'importanza dell'affettività , del riconoscimento del suo valore all'interno del nucleo sociale in cui vive. Gli affetti giocano un ruolo essenziale nell'agire quotidiano, nell'essere al mondo. La depressione, espressione di profondo disagio, sofferenza psicologica più frequente nell'età senile, comporta la rinuncia alla vita: l'aspettativa di vita è statisticamente limitata, la società invia messaggi di inutilità, si comprende come la volontà di vita dell'anziano per essere mantenuta necessita dell'affetto dei propri cari che affermano l'importanza della sua esistenza. La sessualità dal punto di vista psicologico si può conservare fino ad età avanzata, ma questo è vero anche dal punto di vista fisiologico. Ebbene, l'esercizio sessuale è fondamentale, come l'esercizio di qualsiasi altra funzione organica ; tuttavia appare ancora diffuso il pregiudizio culturale che considera la sessualità in età senile come indecorosa, come se l'anziano non potesse sentire e vivere le proprie emozioni. Creatività Per invecchiare senza sviluppare demenza (vedi sopra) è necessario che l'anziano mantenga attive le funzioni cerebrali. Per creatività si intende l'espressione di sé stesso, le cui modalità di esecuzione sono vastissime. La creatività è caratteristica del mondo evolutivo del bambino. E' fondamentale per la sua crescita. Ma la creatività diminuisce sempre di più in un società ratiomorfa, come la nostra, che privilegia la forma, il pensare secondo una logica comune, non il differenziarsi. Nell'età senile la funzione della creatività si può manifestare nelle piccole azioni quotidiane , come ad esempio nella creazione di pietanze originali. Questo può valere in diverse condizioni di aggregazione: all'interno della coppia, del gruppo, ma anche individuale. Al riguardo molto interessanti sono le iniziative culturali della università della terza età. Lo specialista psicologo può rappresentare un valido aiuto per l'anziano nel riconoscere e svelare le potenzialità creative. Qualora vengano evidenziate le capacità creative, la qualità della vita migliorerà radicalmente. Molto stimolante è il rapporto nonno-nipote . Esiste spesso la difficoltà di esprimersi dei bambini con i propri genitori impegnati a lavorare; la relazione fra nonno e nipote faciliterà la possibilità di espressione di entrambi: il nonno è un interlocutore che interagisce raccontando eventi del passato modificati per facilitarne la comprensione, rendendoli più piacevoli con un pizzico di invenzione. Il racconto di eventi passati diventa strumento per stimolare la funzione creativa. L'interazione nonnonipote diventa un elemento utile ad entrambi. Relegare gli anziano non rappresenta una soluzione utile. Le soluzioni per il futuro degli anziani dovrebbero essere concordate e scelte in chiave positiva, evidenziando cioè le qualità residue utili al fine di esprimere se stessi. L'anziano dovrebbe essere sempre posto nelle condizioni di sviluppare la creatività, tramite fatti-azioni concreti. Speranze e timori Il timore più grande per l'anziano non è la morte, che magari rifiuta inconsapevolmente, piuttosto la malattia, l'abbandono, il disprezzo delle persone con cui ha sempre vissuto, il rifiuto da parte del suo nucleo familiare. Le soluzioni di ieri non sono più attuali, le scoperte scientifiche allungano sempre più la durata della vita. Nei paesi industrializzati la popolazione anziana rappresenta sempre più una percentuale importante: è indispensabile che la longevità sia caratterizzata da anni di salute e non di malattia, invalidità e indipendenza. Bisogna considerare tre aspetti, intimamente collegati fra di loro: • • Preventivo: una buona prevenzione ha il compito di proteggere e mantenere le risorse psicofisiche, quindi di ridurre le necessità di trattamento (prevenzione medica) e di riabilitazione. E' necessario stimolare i rapporti con l'esterno , insegnare la geragogia, inserire nel mondo del lavoro la possibilità di avere l'età di pensionamento flessibile , stimolare il volontariato, non solo verso coetanei della terza età, ma anche utilizzando l'esperienza dell'anziano utili per l'inserimento dei giovani nel mondo del lavoro (esperienza già svolta con successo da 5 anni ad Ivrea). Si potrà allora affermare che invecchiare è un crescere ancora, un recuperare la propria espressione. Terapeutico : l'anziano presenta spesso la compromissione di più organi, la cui terapia consiste nella somministrazione di più farmaci. Diversi studi hanno evidenziato un abuso farmacologico, in particolare di psicofarmaci: analogamente ai bambini irrequieti, agli anziani depressi vengono somministrati sostanze farmacologiche. Attualmente si è mostrata efficace associare (o sostituire, quando possibile alla terapia con psicofarmaci) la psicoterapia sistemica , che aiuta a creare forme di strategie comportamentali più adatte ai bisogni individuali: la depressione è la reazione ad una situazione che appare senza via di uscita, ed esistono tecniche che vengono proposte per riportare l'anziano ad una realtà che può ancora arricchire. • Riabilitativo : le strutture di riabilitazione svolgono un ruolo importante nel ridurre i tempi di degenza nei reparti ospedaliero con sollievo per il paziente anziano e contenimento dei costi per la sanità. Ogni volta che un anziano si ammala e viene ricoverato si mette a dura prova il suo fragile equilibrio . L'allontanamento dalle mura domestiche gli fa perdere il senso e i confini della realtà, il ricovero appare come un evento drammatico che può comportare la morte. Gli anziani che necessitano di un intervento riabilitativo dopo la fase acuta di una malattia possono venire seguiti a livello extra ospedaliero mediante il servizio dell'Assistenza Domiciliare Integrata nel caso di grave compromissione psicofisica negli istituti di lungodegenza riabilitativa e nelle residenze sanitarie assistenziali. La sindrome da immobilizzazione Si definisce Sindrome da immobilizzazione o da allettamento prolungato il complesso di segni e sintomi a carico dei vari organi e apparati, che si manifesta quando una persona, specie se anziana, è costretta all’immobilità (a letto o altro tipo di decubito obbligato) per un lungo periodo. Si verifica, in particolare, quando subentra una riduzione delle riserve funzionali e dei meccanismi di adattamento, anche in presenza di più patologie cronico degenerative. Nell’anziano si verifica spesso a causa di una prolungata immobilizzazione a letto e, se non adeguatamente contrastata, può portare ad uno stato di disabilità ingravescente, fino ad arrivare alla morte. Di per se l’invecchiamento fisiologico si accompagna alla riduzione della funzionalità di vari organi importanti per il movimento: la riduzione della forza muscolare e il rallentamento dei riflessi. Le principali cause d’immobilizzazione nell’anziano sono: • • • • • • • • • • • artriti, osteoartrosi, osteoporosi e fratture e le patologie a carico dell’apparato muscolo scheletrico; malattie neurologiche quali ictus, demenza in fase avanzata, morbo di Parkinson, neuropatie periferiche; quadro di scompenso cardiaco che provoca difficoltà di respirazione, infarti miocardici acuti, angine e tutte le altre patologie a carico dell’apparato cardiovascolare; malattie polmonari che provocano dispnea ingravescente; patologie a carico della struttura scheletrica dei piedi; alterazioni della vista con riduzione del visus; gravi stati di malnutrizione; patologie neoplastiche; stati febbrili; effetti collaterali di alcuni farmaci; situazioni psicologiche quali, la paura di cadere, la solitudine, la depressione, il lutto e l’isolamento sociale e l’indigenza; Quali danni provoca? I danni che può provocare sono molteplici e si riflettono, in maniera sistemica (da qui il termine Sindrome) in tutti, o in parte, gli apparati colpiti. A volte possono coesistere danni a carico di più organi. Ma vediamo nel dettaglio cosa può verificarsi: 1. riduzione della massa e della forza muscolare, contratture muscolari, predisposizione e aumento dell’osteoporosi, incapacità nel mantenere la stazione eretta e rischi di cadute aumentato, anchilosi a carico delle articolazioni; 2. trombosi venosa profonda con rischio elevato di embolia polmonare; 3. ipotensione ortostatica e capogiri; 4. infezioni polmonari per il ristagno dei liquidi pleurici; 5. stitichezza ostinata, formazione di fecalomi, fermentazione intestinale e incontinenza fecale; 6. infezioni delle vie urinarie e incontinenza vescicale; 7. rallentamento cognitivo e depressione; 8. lesioni da pressione con conseguenti ulcere, che a loro volta possono essere facilitate anche dall’incontinenza e dalla ridotta capacità di movimento; Come si previene? Ai fini della prevenzione e del recupero della sindrome da immobilizzazione non sono necessari provvedimenti speciali, ma semplici regole di comportamento e di assistenza. Occorre evitare il prolungato riposo a letto, incoraggiando invece la precoce mobilizzazione, appena le condizioni lo consentano. Sollecitare dapprima alla postura seduta (allo scopo di ridurre i disturbi dell’equilibrio) e, successivamente, al movimento ed alla ripresa delle consuete attività. E’ fondamentale e importante stimolare la persona a muoversi ugualmente anche se non può scendere dal letto. Attivare programmi di mobilizzazione passiva. Favorire la posizione seduta per i problemi respiratori. Per una prevenzione efficace della sindrome ipocinetica è determinante la motivazione non solo dell’ammalato, ma anche di chi lo circonda, senza la quale nessun successo potrà essere garantito. Rieducarlo agli orari, anche se non avverte lo stimolo, sia delle minzioni sia delle defecazioni anche se non è ancora in grado di alzarsi dal letto. Aiutarsi con padella e pappagallo. Fargli assumere una dieta varia e ricca di frutta, verdure (le scorie e le fibre) e latticini (ad es. yoghurt). Molto importante è stimolare a bere almeno un litro e mezzo di acqua o altri liquidi al giorno. Per prevenire la comparsa di lesioni da decubito occorre osservare quotidianamente il malato ponendo particolare attenzione a: • • • • Alimentazione e idratazione stimolandolo sia a mangiare sia a bere, magari con alimenti e bevande appetibili; Effettuare attente e accurate cure igieniche, ispezionare la cute e cambiare la biancheria qualora sia umida o bagnata; Mobilizzare la persona aiutandola a mettersi seduta in poltrona o stimolarla a modificare la propria postura nel letto. Mobilizzarla ogni 2 ore qualora non sia in grado di compiere alcun movimento; Aver cura della cute e delle mucose controllandone integrità, secchezza, screpola menti e arrossamenti. È utile l’impiego di sostanze emollienti e idratanti quando la cute è secca, e l’uso di pellicole protettive per proteggere i punti a maggior pressione. Mai utilizzare sostanze a base alcolica ed effettuare frizioni che possono facilitare l’insorgenza delle piaghe. Per contrastare gli effetti negativi dovuti alla pressione tra il piano del letto e le prominenze ossee, quando la persona è allettata, è necessario stabilire un programma di cambio di posizione ogni due ore, questo anche quando la persona è seduta in carrozzina. Va ricordata, nel cambio delle posture, la corretta successione delle 4 posizioni: posizione supina, fianco destro, posizione prona (se possibile e gradito dal paziente), fianco sinistro. Utilizzare ausili (come cuscini o schiume) per alleviare la pressione sulle prominenze ossee. Utilizzare un sistema di supporto dinamico (ad esempio materassi a pressione alternata) se il malato non è in grado di cambiare la sua posizione. Il bagno o la doccia devono essere eseguiti tutti i giorni, evitando l’acqua troppo calda. Utilizzare prodotti idratanti ed emollienti per proteggere la cute, come creme e oli (olio di mandorla, olio di argan). Non utilizzare profumi e talco, che causano secchezza della pelle, nonché pomate, creme e lozioni oleose, che possono facilitare la macerazione cutanea. Un buon programma assistenziale può sicuramente aiutare sia nelle prevenzione sia nel miglioramento della sindrome da immobilizzazione. È fondamentale agire sulla motivazione della persona, sulla sua forza di volontà e attivare un programma di attività condiviso. LESIONI DEL MIDOLLO SPINALE POLIOMIELITE ANTERIORE ACUTA- Malattia di HeingMedin E’ causata dai poliovirus che producono lesioni infiammatorie distruttive la cui sede elettiva è rappresentata dalle corna anteriori del midollo spinale. Le lesioni possono estendersi al midollo allungato, alle formazioni reticolari del ponte, ai nuclei vestibolari, ai centri del cervello ed anche alla corteccia cerebrale. E’ una malattia infettiva tendenzialmente epidemica, ma oggi rarissima e sporadica, che provoca paralisi muscolare atrofica. La paralisi flaccida, che interessa i più disparati gruppi muscolari, ha tuttavia una netta predilezione per la muscolatura degli arti: prevalentemente quelli inferiori. E’ capricciosa nella sua distribuzione topografica: a volte alcuni gruppi muscolari o alcuni muscoli di un arto (in prevalenza quelli del tratto prossimale, es.: i glutei, gli adduttori, il quadricipite femorale) e l’altro arto controlaterale in maniera completa. Di particolare importanza è l’inalterata sensibilità dei muscoli colpiti, non essendo le corna posteriori del midollo spinale sede elettiva dei poliovirus; dal punto di vista dell’apprendimento motorio è sicuramente un vantaggio non trascurabile avere coscienza della posizione di un segmento corporeo pur non potendolo muovere. TRAUMI MIDOLLARI Lesioni midollari provocate da cause accidentali, quali ad esempio lussazioni e/o fratture vertebrali da incidenti d’auto o tuffi errati, provocano l’interruzione della conduzione dell’impulso nervoso necessario al movimento volontario, con la conseguente paralisi della muscolatura. Il livello della lesione e la sua completezza - totalità o parzialità incompletezza, determinano la parte di corpo non collegata e quindi paralizzata. Le minuscole porzioni di midollo spinale comprese tra due corpi vertebrali, denominate metameri, raramente, infatti, vengono lesionate da un trauma in modo completo, cioè con sezione trasversa perfetta; quasi sempre la lesione avviene in modo “imperfetto”, consentendo un ponte di collegamento al di sopra o al di sotto di essa. Questo ponte porta ad un alterato tono muscolare ipertono); la lesione totale ne provoca, invece, la mancanza assoluta cioè, la paralisi flaccida. Generalmente, se la lesione è compresa tra la IV vertebra cervicale e la I toracica vi è una paralisi di tutti e quattro gli arti, cioè, tetraplegia; se è compresa tra la II toracica e la II sacrale vi è una paralisi degli arti inferiori, cioè, paraplegia. PARALISI CEREBRALE INFANTILE E’ descritta come un disturbo neurologico cronico, non progressivo derivante da una lesione cerebrale insorta durante uno stadio di sviluppo precoce (prenatale, perinatale, neonatale). Può essere associata a ritardo mentale; HEALY(1990) ritiene che il 60% - 70% delle persone con CP abbia qualche grado di ritardo mentale. Classificazioni della paralisi cerebrale Circa il 97% dei casi ricade sotto le tre maggiori categorie : • Paralisi cerebrale di tipo spastico - 60% - 65% Dovuta, principalmente, ad “alterazione” delle vie piramidali. E’ caratterizzata da difficoltà di generare movimenti volontari rapidi e precisi. Vi è infatti l’incapacità di rilassare, nei distretti colpiti, i muscoli ad esso antagonisti. Il disturbo tonico-motorio si caratterizza, prevalentemente, con retrazioni tendinee che provocano: ipertonia estensoria agli arti inferiori, ipertonia flessoria e adduttoria agli atri superiori. Con la crescita, le ipertonie che interessano alcuni distretti muscolari, provocano posture sbagliate e deformazioni articolari. • Paralisi cerebrale di tipo atetosico - 25% Dal greco thetos (=posizione fissa) a privativa; dovuta principalmente ad “alterazioni “ delle vie extrapiramidali . HEALLY ( 1990) più accuratamente descrive i seguenti tipi di CP: Discinesia è il termine che descrive la paralisi cerebrale caratterizzata da movimenti spontanei, involontari; questi includono i movimenti lenti che ricordano lo scrivere o lo strisciare dei vermi, in particolare del polso e delle dita (ATETOSICI), che possono essere accompagnati da altri più a scatto e repentini (COREOATETOSICI). Questi, alternandosi al movimento volontario, lo rendono funzionalmente incoordinato e inefficiente. Un’altra forma di discinesia (DISTONIA) comprende movimenti, lenti e ritmici che interessano il tronco o una estremità. BLECK (1982) che usa il termine più antico di atetosi identifica come maggiore sua caratteristica i “movimenti caldi: “I movimenti sono, a volte, rotatori (torsione e rotazione degli arti), distonici (posizione distorta degli arti, collo, o del tronco, che è tenuta per alcuni secondi, e poi rilassata). Se sollecitato da ragioni emotive il movimento di un atetosico può assomigliare a quello di un burattino. Generalmente chi è atetosico ha uno scarso controllo delle labbra e dei muscoli della lingua; ciò rende estremamente difficoltoso il parlare ed è spesso causa di balbuzie. Questa inabilità a parlare, dovuta a questo accentuatissimo balbettamento, porta a pensare che questi soggetti abbiano un forte ritardo mentale; molti bambini con atetosi hanno invece capacità intellettuali medie o superiori alla media. • Paralisi cerebrale di tipo atassico - 7% Dal greco taxis (ordine - equilibrio ) a privativa. Dipende generalmente da alterazioni de cervelletto e delle sue vie. Caratterizzata da disturbi della coordinazione dei movimenti volontari e dell’equilibrio, barcollamento nel cammino, non è generalmente associata a ritardo mentale. Nella posizione seduta questi soggetti possono ben allenare la parte superiore del corpo (annullando quindi, problemi di equilibrio statico e dinamico) tanto da poter essere sottoposti anche a carichi pesanti. L’ergometro a manovella è, per loro, ottimo strumento per migliorare la capacità cardiorespiratoria. • Paralisi cerebrale di tipo misto Non essendo sempre possibile classificare tutti i casi nelle suddette categorie, poiché presentano caratteristiche che appartengono a diverse classi, viene utilizzato il termine “tipo misto” ( HALEY). La localizzazione della lesione definisce la classificazione con termini usati in Italia in modo diverso dagli altri paesi. DISTROFIE MUSCOLARI A questa categoria appartiene un grande gruppo di malattie con eziologia e quadri clinici eterogenei. Sono caratterizzati dalla degenerazione progressiva dei muscoli scheletrici. In alcune forme, dette miogene, il processo degenerativo è a carico principalmente delle fibre muscolari; in altre, dette neurogene, esso è a carico delle fibre nervose, conseguentemente a ciò avviene la progressiva degenerazione muscolare. In genere hanno carattere ereditario. EPILESSIA Epilessia è il nome della sindrome caratterizzata da crisi che tendono a ripetersi in modo cronico a causa di una anomalia durevole del funzionamento cerebrale. Epilessia lesionale: viene denominata quella causata da alterazioni strutturali del cervello evidenziabili. Epilessia non lesionale o criptogenetica: è denominata quella in cui non sono evidenti anomalie anatomiche del cervello. La crisi epilettica (= manifestazione clinica parossistica, cioè di massima intensità) può manifestarsi in vario modo ed è la conseguenza di una anormale attività di una parte della sostanza grigia cerebrale, espressione biologica dell’ipersincrono funzionamento di una massa di neuroni corticali. Tale attività viene abitualmente registrata come una alterazione specifica del tracciato elettroencefalografico. La malattia epilettica è data dalla ripetizione delle crisi dovuta a circostanze scatenanti somatiche e psichiche. L’epilettico è colui la cui organizzazione psichica utilizza il ripetersi delle crisi come via di scarico di pulsioni, sia in modo massivo che investendo di un valore rappresentativo funzionale le manifestazioni cliniche, valore di rappresentazione funzionale, affettiva o fantasmatica che le manifestazioni cliniche in origine non possiedono. E’ importante sottolineare la rarità di disturbi mentali cronici nell’epilettico. Con le precauzioni determinate dalla possibilità di una crisi, sotto il controllo del trattamento farmacologico, la maggioranza di essi può condurre una vita normale. I casi di ammalati gravi, bisognosi di assistenza per vivere, sono soggetti colpiti sin dall’infanzia ed è quindi particolarmente difficile capire quanto della loro condizione trova fattore eziologico nella malattia epilettica - sia come causa organica che dal trattamento - o in carenze educative o di relazione. Per quanto riguarda la personalità dell’epilettico, risulta evidente che esiste un <<vissuto>> dell’epilessia che, in una parte dei soggetti, stabilisce delle relazioni tra la malattia e lo sviluppo della loro personalità. Moltissimi sono gli studi - psicometrici, fenomenologici e psicoanalitici che tentano di determinare il confine dell’epilessia verso le nevrosi e i disturbi psico-affettivi. AUTISMO Il concetto di autismo infantile nasce nel 1943 con LEO KANNER che descrive e definisce un gruppo di 11 bambini con questo termine. Per questo autore ..” tutti questi bambini sono indubbiamente dotati di buone potenzialità cognitive”... Kanner utilizzò il termine autistico per significare l’incapacità di rapportarsi con gli altri e il desiderio di essere lasciati soli. COSA NON E’ L’AUTISMO Non è la conseguenza di un alterato rapporto tra un bambino nato sano e l’ambiente, soprattutto familiare, incapace di accettarlo. Non è un disturbo psicologico dovuto alla “patogena” relazione affettiva madre - figlio, l’effetto di una <<madre frigorifero>>. CHE COS’E’ L’AUTISMO • Conoscenze scientifiche ci hanno consentito di capire che l’autismo è un disturbo generalizzato dello sviluppo che coinvolge diverse funzioni cerebrali e perdura per tutta la vita. • per descriverlo viene utilizzato il termine sindrome perché le cause che provocano caratteristiche cliniche e disturbi dello sviluppo, comuni nelle persone ne soffrono, sono diverse e sconosciute. • La comunità scientifica internazionale (classificazione ICD 10 dell’OMS e DSM IV) lo considera un disturbo pervasivo dello sviluppo che si manifesta entro il terzo anno di età con deficit in tre aree: 1. comunicazione, 2. interazione sociale, 3. immaginazione. Secondo stime recenti l’autismo colpisce 1 persona su 1000; 2 su 1000 sono quelle che ne presentano alcuni sintomi e, pertanto, vengono incluse nello “spettro autistico”. PSICOSI Potremmo definirla un modo di essere abnorme della psiche; l’IO del soggetto è disturbato ed egli non ha piena coscienza di ciò che gli accade e lo disturba. E’ ancora oggi ritenuta valida la distinzione tradizionale tra psicosi organiche ed endogene o funzionali. PSICOSI ORGANICHE: sindromi psicopatologiche di tipo psicotico conseguenti a disturbi organici del funzionamento cerebrale e si dividono in croniche e acute. Le prime si identificano con le demenze essendo caratterizzate da diminuzione di memoria e intelligenza; le seconde sono caratterizzate da una compromissione più o meno marcata della lucidità della coscienza e sono conseguenti ad un alterato funzionamento cerebrale per cause tossiche, infettive o traumatiche (es.: al risveglio da un coma per trauma cranico). PSICOSI FUNZIONALI: sono un insieme non omogeneo di disturbi di tipo psicotico per i quali è assente o non accertata una patologia cerebrale, o comunque somatica. La psicosi funzionale più tipica è la schizofrenia. SCHIZOFRENIA Secondo il DSM III la malattia schizofrenica consiste in: <<disturbi mentali con tendenza alla cronicità, con diminuzione delle funzioni e caratterizzati da sintomi psicotici riguardanti disturbi del pensiero, dell’affettività e del comportamento>>. Cause: risultano molto importanti fattori ambientali stressanti e carenze affettive ed educative; si ammette che esista una predisposizione genetica. Molti soggetti rivelano in precedenza tratti caratterologici particolari quali: asocialità, chiusura affettiva, atteggiamento persecutorio. Sintomatologia: vi è una progressiva disorganizzazione delle funzioni psichiche che in fase acuta risultano tutte compromesse: il linguaggio, il pensiero, la percezione, il sentimento di sé e il rapporto con gli altri, gli affetti. Molto raramente vi è la coscienza del proprio stato. Forme cliniche: LATENTE include i casi definiti al limite o “borderline” ATTENUATA EBEFRENICA in cui l’impoverimento demenziale della personalità è l’elemento prevalente; CATATONICA in cui prevalgono i disturbi del movimento PARANOIDE caratterizzata da comportamenti violenti poiché i soggetti si sentono perseguitati e minacciati. Può esservi agitazione psicomotoria o, al contrario, blocco totale dei movimenti. Alcuni soggetti possono manifestare movimenti bizzarri, smorfie, atteggiamenti enfatizzati. La percezione è alterata da “allucinazioni” , da “ voci” che vengono udite in assenza di ogni stimolazione obiettiva. Il pensiero è confuso, caotico, pieno di astrazioni, simbolismi, strutture deliranti. Può esservi la convinzione che il proprio pensiero sia dominato da altri. Depressione Maggiore Che cos’è il disturbo Il disturbo che comunemente chiamiamo depressione si definisce in ambito clinico depressione maggiore. Si tratta di un disturbo dell’umore caratterizzato dai seguenti sintomi o segni: * umore depresso o tristezza per la maggior parte del giorno; * riduzione della capacità di provare piacere o interesse nelle attività che in passato procuravano soddisfazione; * sentimenti di irritabilità e disforia (uno stato in cui si alternano emozioni di ansia, apatia e irritabilità); * senso di fatica e sensazione di non essere in grado di svolgere le attività quotidiane; * sensi di colpa, autosvalutazione e sensazione di essere un fallito; * pensieri di morte o idee suicidarie; * difficoltà a prestare attenzione, a concentrarsi e a prendere decisioni; * alterazioni del sonno: sonnolenza, insonnia o ipersonnia; * riduzione o aumento dell’appetito e significativo aumento o perdita di peso; * riduzione del desiderio sessuale. È raro che una persona depressa abbia contemporaneamente tutti i sintomi riportati nell'elenco, ma se soffre quotidianamente dei primi due sintomi e di almeno altri tre è molto probabile che abbia un disturbo depressivo maggiore. L’andamento della depressione può avere diverse forme. In alcuni casi i sintomi possono presentarsi in maniera acuta e improvvisa; in altri invece si assiste ad una manifestazione più subdola dove i sintomi sono costanti ma di minore intensità; in altri ancora l’andamento può essere graduale e con un’alternanza tra periodi di relativo miglioramento e periodi di riacutizzazione dei sintomi. Si tratta di uno dei disturbi psicologici più diffusi nella popolazione e può colpire chiunque, indipendentemente dall’età, dal sesso, dal livello culturale e dallo status socioeconomico. Come si manifesta L’umore è il tono emotivo di base che influenza in maniera significativa la percezione di sé, degli altri e dell’ambiente in generale. Soffrire di depressione significa avere una alterazione di questa tonalità di base: percepiamo noi stessi, le relazioni con gli altri e con il mondo intorno a noi come negative, difficili da affrontare, faticose e inutili, sentendoci incompresi e criticati. Specificamente, la depressione si manifesta attraverso numerosi segni e sintomi di tipo fisico, emotivo, comportamentale e cognitivo. I sintomi fisici più comuni sono la perdita di energia, il senso di fatica, la perdita o l’aumento di peso, le alterazioni del sonno (insonnia o ipersonnia), il calo del desiderio sessuale, dolori fisici o disturbi somatici (es. mal di testa, mal di schiena, disturbi gastrointestinali, dolore toracico). Le emozioni tipiche sperimentate da chi è depresso sono la tristezza, l’angoscia, la disperazione, il senso di colpa, il senso di vuoto e la mancanza di sentimenti verso gli altri, la mancanza di speranza nel futuro, la perdita di interesse e/o piacere per qualsiasi attività, la perdita di entusiasmo e/o gratificazione, la sensazione di impotenza, l’irritabilità e l’ansia. I principali sintomi comportamentali sono rappresentati dal rallentamento e/o agitazione psicomotoria, dalla riduzione delle attività quotidiane (es. cura di sé e dell’igiene personale, lavoro, faccende domestiche ecc.), dalla difficoltà a prendere decisioni e risolvere i problemi, dall’evitamento delle persone e l’isolamento sociale, dall’adozione di comportamenti passivi (es. rinuncia ad attività piacevoli o di interesse, atteggiamenti di accondiscendenza, mancanza di iniziative spontanee), dalla riduzione dell’attività sessuale e, nei casi più gravi, dai tentativi di suicidio. Ci sono, inoltre, alcuni comportamenti tipici delle persone depresse che favoriscono lo sviluppo di circoli viziosi e che, dunque, mantengono nel tempo l’umore depresso. Questi comportamenti, riducendo la produttività lavorativa, il contatto con nuove esperienze e le attività ricreative, riducono anche la probabilità di provare emozioni piacevoli e di modificare le idee negative su se stessi, sul mondo e sul futuro. Alcune persone depresse, ad esempio, sperimentando molta fatica nell’affrontare le incombenze quotidiane (es. pagare le bollette, chiamare l’idraulico, far revisionare l’automobile), iniziano a rimandarle; in questo modo iniziano a sentirsi maggiormente incapaci e fallite. Questo evitamento mantiene la depressione in quanto non permette alla persona né di sperimentare brevi stati mentali positivi (es. un leggero senso di efficacia personale), né di verificare che, nella realtà, non è così incapace come pensa di essere. Spesso accade anche che le persone depresse, provando apatia e disinteresse per quasi tutto, smettano di uscire, evitino il contatto con le altre persone e trascorrano molto tempo libero in attività passive come guardare la televisione e stare a letto, rimuginando sui propri problemi ed assillando amici e conoscenti riguardo ad essi. Anche tali comportamenti mantengono la depressione in quanto impediscono alla persona di vivere esperienze gratificanti. Un ulteriore esempio dei modi in cui la depressione si mantiene è dato da coloro che, non riconoscendo i propri successi e non gratificandosi per essi, perpetuano l’insoddisfazione verso di sé. Per quanto riguarda i sintomi cognitivi, le persone che soffrono di depressione presentano un modo di pensare caratterizzato da regole o “filosofie di vita” disadattive, aspettative irrealistiche e pensieri spontanei negativi su se stessi, sul mondo e sul futuro. Queste regole sono solitamente assolute, rigide e, quindi, non adattive: la persona depressa fa riferimento a dei “doveri” che sente di dover assolvere per rispettare i propri valori (es. “Non posso sbagliare mai!”, “Se non piaccio a qualcuno, non posso essere amato!”, “Se fallisco in qualcosa vuol dire che sono un fallito!”, “Se ho un problema da parecchio tempo significa che non potrò mai risolverlo!”, “Non posso essere debole!”). Inoltre chi soffre di depressione generalmente presenta aspettative irrealistiche: ha degli standard eccessivamente elevati sia nei confronti di se stesso che degli altri (ad esempio può credere che fare errori sia assolutamente vietato, che non si possano avere conflitti e che bisogna essere sempre di buon umore); altre persone depresse, invece, ritengono di non meritare nulla e accettano tutto quello che viene offerto loro senza ricercare qualcosa di migliore. I pensieri spontanei che passano per la mente delle persone depresse generalmente rispecchiano la visione negativa che queste persone hanno di sé, del mondo e del futuro. Tipici esempi di pensieri automatici negativi sono: “Sono un totale fallimento!” (pensiero negativo su di sé); “Mia madre mi considera un perdente!” (pensiero negativo relativo a quello che qualcun altro può pensare di noi); “Di sicuro risulterò antipatico!” (predizione negativa); “Niente va bene!” (pensiero negativo sul mondo); “Quello che ho fatto non conta, tutti sarebbero in grado di farlo!” (minimizzazione dei propri successi o delle proprie qualità). Come riconoscerlo A quasi tutti noi può capitare di avere una giornata particolarmente storta, in cui ci sentiamo “giù di morale”, stanchi e particolarmente tristi o più irritabili del solito. E’ probabile che tenderemo a definirci “depressi” anche se forse quello che stiamo vivendo è semplicemente un calo dell’umore: è una cosa che può capitare a tutti, ma ciò non significa che tutti abbiano bisogno di un trattamento terapeutico. Infatti non è patologico avere delle lievi fluttuazioni dell’umore: la tristezza, se non è troppo intensa, può anche essere utile alla persona. Ponendoci domande sul perché siamo tristi, ad esempio, possiamo capire se abbiamo bisogno di qualcosa e cercare di trovare delle soluzioni ai nostri problemi. La depressione necessita di un intervento clinico quando i suoi sintomi sono molto intensi, provocano una forte sofferenza e durano da molto tempo (più di 6 mesi). Nella depressione “clinica”, inoltre, sono presenti autocritica, sensi di colpa, sentimenti di sconforto e disperazione, mancanza di speranza verso il futuro, pessimismo eccessivo e pensieri di morte. I comportamenti tipici della persona depressa sono orientati al ritiro dalle relazioni, alla mancanza di interesse e/o piacere per le attività abituali, alla rinuncia progressiva e generalizzata verso gli impegni lavorativi o le attività piacevoli. La depressione vera e propria rappresenta, quindi, qualcosa di molto più intenso e duraturo rispetto al semplice sentirsi “un po’ giù di tono”. Per capire come può stare chi soffre di depressione, bisogna immaginare di avere alle costole qualcuno che ci sussurra continuamente nell'orecchio: "non vali nulla", "sei un fallimento", "come può volerti bene?", "rimarrai solo", e così via. La maggior parte di noi ne rimarrebbe schiacciata e tenderebbe a demotivarsi in qualsiasi cosa e a fare sempre di meno. Questa crescente passività diminuisce l'energia, aumenta la stanchezza depressiva e può essere valutata come ulteriore prova della propria negatività e del futuro nero. Per sapere se una persona è “clinicamente” depressa, inoltre, bisogna prendere in considerazione i motivi e le cause della sua depressione. Ad esempio sentirsi molto tristi e privi di energia, avere sentimenti di vuoto, sentire di aver perso ogni interesse verso il mondo esterno dopo aver perso una persona cara (es. separazione, divorzio, lutto) è una reazione naturale, coerente con l’esperienza che stiamo vivendo e, nella maggior parte dei casi, transitoria. La depressione conseguente ad una separazione o ad un lutto, quindi, non è un disturbo psicologico; va trattata clinicamente se non si risolve in maniera spontanea in un arco di tempo che può andare dai 6 ai 12 mesi Quali sono le conseguenze Il disturbo depressivo può portare a gravi compromissioni nella vita di chi ne soffre. Non si riesce più a lavorare o a studiare, a iniziare e mantenere relazioni sociali e affettive, a provare piacere e interesse nelle attività. L’attività scolastica o lavorativa della persona può diminuire in quantità e qualità soprattutto a causa dei problemi di concentrazione e di memoria che tipicamente presentano i soggetti depressi. La mancanza di interesse e di piacere conducono frequentemente alla riduzione delle relazioni e, a lungo termine, al ritiro sociale. Anche i rapporti affettivi intimi subiscono una riduzione della qualità e frequentemente insorgono problemi relazionali con il partner, i familiari e gli amici. L’umore depresso condiziona anche il rapporto con se stessi e con il proprio corpo: tipicamente, infatti, chi è depresso ha difficoltà a lavarsi, curare il proprio aspetto, mangiare e dormire in modo regolare. La conseguenza estrema del disturbo depressivo è il suicidio, che colpisce circa 15 persone su 100 tra coloro che soffrono di depressione clinica grave. Integrazione di un soggetto portatore di handicap COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA Art. 3 - Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Attualmente la terminologia più corretta da utilizzare è disabile o soggetto in situazione di handicap. La Legge Quadro sull'handicap n. 104 del 1992 all'art. 3 afferma: "E' persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale (...) che causa difficoltà (...) tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione." Altro punto fondamentale concerne l'uso indiscriminato e parificato dei due termini deficit ed handicap; la situazione di handicap, rappresenta l'insieme di tutti gli effetti negativi per la vita di una persona inserita in una comunità. Il deficit invece rappresenta l'elemento comune ad una particolare tipologia. Per esempio i soggetti Down hanno caratteristiche fisionomiche in comune (deficit) ma ogni soggetti Down è diverso da qualsiasi altro affetto dalla stessa malattia genetica (handicap) di conseguenza l'handicap rappresenta una condizione esclusivamente personale e soggettiva. La definizione dell'handicap comunemente accettata si deve all'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che nel 1980 pubblicò la "Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Disabilità e degli Svantaggi Esistenziali". Essa distingueva tre livelli: · Menomazione, intendendo qualsiasi perdita o anomalia permanente a carico di una struttura anatomica o di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica (esteriorizzazione) · Disabilità, intendendo qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a menomazione) della capacità di compiere un'attività di base (quale camminare, mangiare, lavorare) nel modo o nell'ampiezza considerati normali per un essere umano (oggettivazione) · Handicap si intende la condizione di svantaggio, conseguente ad una menomazione o ad una disabilità, che in un certo soggetto limita o impedisce l'adempimento di un ruolo sociale considerato normale in relazione all'età, al sesso, al contesto socio-culturale della persona (socializzazione). Nel 1999 l'OMS ha pubblicato la nuova "Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Attività personali (ex-Disabilità) e della Partecipazione sociale (ex handicap o svantaggio esistenziale)" (ICIDH-2), nella quale vengono ridefiniti due dei tre concetti portanti che caratterizzano un processo morboso: · la sua esteriorizzazione: menomazione · l'oggettivazione: non più disabilità ma attività personali · le conseguenze sociali: non più handicap o svantaggio ma diversa partecipazione sociale Più precisamente: · con attività personali si considerano le limitazioni di natura, durata e qualità che una persona subisce nelle proprie attività, a qualsiasi livello di complessità, a causa di una menomazione strutturale o funzionale. Sulla base di questa definizione ogni persona è diversamente abile. · con partecipazione sociale si considerano le restrizioni di natura, durata e qualità che una persona subisce in tutte le aree o gli aspetti della propria vita (sfere) a causa dell’interazione fra le menomazioni, le attività ed i fattori contestuali. Nella nuova Classificazione dell'OMS, il termine "handicap" viene definitivamente accantonato. ICF: LA NUOVA CLASSIFICAZIONE DELL'O.M.S. La Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) è l’ultima versione delle classificazioni internazionali della disabilità curate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: la sua finalità generale è quella di fornire un linguaggio standard e unificato che serva da modello di riferimento per descrivere la salute e gli stati ad essa correlati di tutta la popolazione a livello mondiale. L’ICF avvia un’importante innovazione concettuale e culturale perché ridefinisce e precisa la valenza neutrale e imparziale del concetto di disabilità, liberandolo da una connotazione che lo associava direttamente alla limitazione fisica, sensoriale o intellettiva. La disabilità non è più definita come malattia o disturbo, ma come una condizione generale che può risultare dalla relazione complessa tra la condizione di salute della persona e i fattori contestuali che rappresentano le circostanze in cui vive. La disabilità si connota, di conseguenza, come un concetto trasversale e universale, un fenomeno sociale multidimensionale, una situazione che ogni persona può vivere quando, presentando una condizione di salute, incontra un ambiente sfavorevole. Si apre, pertanto, una prospettiva in cui la salute e la disabilità sono due aspetti dello stesso fenomeno, e l’ICF sembra fornire i principi di riferimento e le indicazioni per favorire, l’integrazione tra la prospettiva pedagogica e quella sanitaria. La classificazione può essere, infatti, uno strumento per rafforzare e migliorare il lavoro sociale di rete, il confronto all’interno delle équipe multidisciplinari, la collaborazione con le famiglie e con le comunità locali, l’integrazione scolastica, la partecipazione e l’inclusione sociale delle persone con disabilità. In questa prospettiva l’inclusione non deve rimanere una dimensione che si riferisce solo al mondo scolastico, ma deve percorrere e invadere “tutte le sfere vitali e sociali, i luoghi concettuali e quelli spaziali, per diventare un processo culturale e mentale e non solo un intervento organizzativo”. La pedagogia speciale non ha bisogno, quindi, di nuove e diverse strategie o metodologie, ma di rifondarsi dal punto di vista epistemologico ed etico attraverso quello che Montuschi (2004) definisce con l’espressione “pensare speciale”. La risposta educativa speciale deve essere inventata in ogni momento e sembra richiedere una speciale capacità di pensare che inizia dalla percezione globale, unitaria e contestuale della persona e del suo problema da risolvere. Tutti gli individui hanno il diritto morale di essere educati nella scuola comune perché: • Offre a tutti i bambini, a prescindere dalle loro caratteristiche personali, l’opportunità di vivere e di lavorare insieme. • Previene ed elimina gli effetti della segregazione • È un sistema educativo più onesto e più equo di quello non inclusivo LA LEGGE QUADRO SULL’HANDICAP La legge 104 del 5 febbraio 1992 richiama, riordina e amplia le norme precedenti "per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti della persona handicappata" I principi della legge, (artt.1 e 2) sono quelli di garantire i diritti delle persone disabili e delle loro famiglie, di prevenire e rimuovere le condizioni invalidanti, il recupero funzionale e sociale, il superamento dell'emarginazione. Fino all'entrata in vigore della legge, la normativa sull'handicap e soprattutto quella relativa all'integrazione (a parte la Legge 517) veniva affidata esclusivamente a Circolari Ministeriali e spesso la gestione in tale materia veniva affidata alla disponibilità e al buon senso del personale docente. Su tale legge, che presenta numerose chiavi di lettura, è possibile fare alcune osservazioni: · essendo una Legge - quadro, enuclea dei principi direttivi in cui dovranno essere contenute le ulteriori disposizioni legislative ed amministrative. · non si limita a prendere in considerazione solamente il piano scolastico ma si impegna su tutto il piano sociale. · impegna in maniera specifica le amministrazioni locali che divengono i diretti esecutori della legge stessa e di conseguenza i diretti responsabili. Gli articoli che riguardano direttamente la scuola (12-16) mirano a dare dignità legislativa a molte disposizioni amministrative introdotte nel passato in maniera disorganica e occasionale. Inoltre l'integrazione scolastica viene supportata da tale legge, fermo restando quanto previsto dalla legge 360 dell'11-05-76 e dalla legge 517 del 4-8-77, da una serie di strumenti didatticoorganizzativi che servono a rendere più efficace l'opera della scuola. Una delle più rilevanti innovazioni introdotte della Legge 104 è l'esortazione ad una più stretta collaborazione fra i servizi scolastici, quelli sanitari, socio-assistenziali, culturali ricreativi e sportivi per offrire un miglior supporto al processo di integrazione degli alunni disabili. art. 12: Diritto all’educazione e all’istruzione · L’integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione. · L’esercizio del diritto all’educazione e all’istruzione non può essere impedito da difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all’handicap. art. 13: Integrazione scolastica: · programmazione coordinata dei servizi scolastici, sanitari, socioassistenziali, culturali, ricreativi, sportivi, gestiti da enti pubblici o privati · dotazione di attrezzature tecniche e di sussidi · sperimentazione art. 14: Modalità di attuazione dell’integrazione · flessibilità nell’articolazione delle sezioni e delle classi Dal punto di vista organizzativo assumono particolare rilevanza le disposizioni dell'art. 15 sulla costituzione dei gruppi per l'integrazione scolastica. In ultima analisi, per quanto riguarda la scuola, vengono date all'art. 16 disposizioni riguardanti la valutazione del rendimento scolastico e le prove d'esame. Da questa breve analisi, sicuramente superficiale data la complessità e l'articolazione della Legge-Quadro, emerge come questa abbia definito in maniera molto precisa i campi d'intervento che si dovranno delineare sotto il profilo didattico e organizzativo per rendere effettive le innovazioni introdotte. L’OPERATORE SOCIOSANITARIO · opera soprattutto nell’ambito dell’autonomia personale e sociale; · Contribuisce con professionalità specifiche all’osservazione attiva di esigenze e potenzialità dell’alunno disabile per supportare la definizione del PDF e del PEI da parte del C. d. C. · Collabora alla realizzazione del PEI e del programma di classe perseguendo gli specifici obiettivi educativi, riabilitativi e di integrazione sociale. Questo attraverso la realizzazione di attività espressive, motorie, ludiche, laboratoriali di supporto all’apprendimento didattico e alla socializzazione · Supporta l’insegnante di sostegno nel reperimento delle risorse delle diverse strutture per mediare il rapporto tra alunni ed ambiente · Supporta nel raccordo scuola/famiglia, · Contribuisce alla verifica del raggiungimento degli obiettivi formulando osservazioni mirate sulle attività socio-educative e riabilitative · Partecipa, se necessario, ai consigli di classe · Si confronta con gli insegnanti sulle migliori modalità di gestione delle attività assistenziali, di accoglienza e di tutela. I DISTRETTI SANITARI I Distretti sono gli ambiti organizzativi territoriali per l’effettuazione di attività e l’erogazione di prestazioni di assistenza sanitaria, di tutela e di promozione della salute, di prestazioni socio sanitarie, di erogazioni dei servizi e delle prestazioni socio assistenziali, di integrazione tra servizi sanitari e servizi socio assistenziali. Sono dotati di autonomia economico finanziaria e gestionale. I distretti realizzano i modelli di integrazione socio-sanitaria tra l’azienda e gli enti locali, in base alla programmazione concordata a livello locale ed alla legislazione regionale e nazionale vigente. A tal fine si pongono come interlocutore privilegiato dei bisogni sanitari e sanitari a valenza sociale con tutti i soggetti che leggono ed interpretano la domanda e ne progettano la risposta, anche attivando un unico punto di accesso a valenza sanitaria, sociosanitaria e socio-assistenziale aperto ai cittadini a garanzia della valutazione integrata del bisogno e della presa in carico secondo la problematica più rilevante. Per questo motivo ogni distretto coincide territorialmente con l’Ambito sociosanitario di riferimento. Caratteristica dei distretti è la distribuzione delle sedi operative nel territorio, in modo da avvicinare i servizi alla popolazione. Tali sedi vengono anche utilizzate per l’espletamento di diverse attività assicurate dal personale dei dipartimenti di prevenzione, salute mentale e delle dipendenze e, tramite accordi specifici, possono ospitare alcune funzioni assicurate dai presidi ospedalieri della provincia. IL DISTRETTO È COSTITUITO AL FINE DI GARANTIRE: • l’assistenza primaria, ivi compresa la continuità assistenziale mediante il necessario coordinamento tra medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, servizi di continuità assistenziale notturna e festiva, medici specialistici ambulatoriali • Il coordinamento dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta con le strutture operative a gestione diretta, nonchè con i servizi specialistici ambulatoriali ed i presidi ospedalieri ed extra ospedalieri accreditati • l’erogazione delle prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, connotate da specifica ed elevata integrazione • l’assistenza specialistica ambulatoriale • l’attività per la prevenzione e la cura delle tossicodipendenze • l’attività consulenziale per la tutela della salute dell’infanzia, della donna e della famiglia • l’attività ed i servizi rivolti ai disabili e agli anziani • l’attività ed i servizi di assistenza domiciliare integrata • l’attività ed i servizi per le patologie da HIV e per le patologie terminali Al fine di garantire le attività ed i servizi sopradescritti i Distretti fanno capo ad un Direttore coadiuvato dai coordinatori dei seguenti profili professionali: amministrativi, infermieri, fisioterapisti, logopedisti, assistenti sanitari, ostetriche. L’integrazione fra le attività svolte dagli operatori afferenti al Distretto con gli altri servizi sanitari e sociali, caratterizza l’attività distrettuale.