IGIENE E CULTURA MEDICO-SANITARIA
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Età Evolutiva
Disturbi dell’Infanzia e dell’Adolescenza
Ritardo Mentale
L’Invecchiamento
La Sindrome da Immobilizzazione
Lesioni del Midollo Spinale
Epilessia
Autismo
Psicosi
Schizofrenia
Depressione Maggiore
Integrazione di un Soggetto Portatore di Handicap
La Legge Quadro sull’Handicap
L’Operatore Socio-Sanitario
I Distretti Sanitari
Età Evolutiva
Il termine “età evolutiva” fa riferimento al periodo di vita che va dalla
nascita all’adolescenza e che diventa particolarmente impegnativo a causa
di numerosi cambiamenti a cui un essere umano è sottoposto e con cui
necessariamente deve confrontarsi.
In questa fase di vita gli esseri umani non sono ancora autonomi e la loro
natura “dipendente” li rende particolarmente sensibili alle dinamiche
familiari, scolastiche e sociali, creando spesso una diretta corrispondenza
tra ciò manifestano e ciò che accade intono a loro.
La sofferenza psicologica nei bambini e negli adolescenti assume spesso le
forme di veri e propri “sintomi” che vanno adeguatamente inquadrati e
diagnosticati, soprattutto per prevenire disturbi più gravi in età adulta.
I sintomi infantili e adolescenziali sono segnali di disagio personale ed
interpersonale che sono dei veri e propri richiami, delle reali richieste di
aiuto che in questa fase di vita non assumono forme chiaramente espresse,
ma che vanno comunque ascoltati e ridefiniti.
Le terapia cognitivo-comportamentale dell’età evolutiva fa riferimento alla
modificazione graduale del comportamento a partire dalla definizione
sistematica dei sintomi e della loro origine. I comportamenti hanno senso
solo all’interno dell’ambiente fisico e psicologico in cui si manifestano e
vengono costantemente rinforzati e puniti in maniera inconsapevole.
Alcuni comportamenti infantili appaiono “strani” o difficilmente
comprensibili, ma nonostante abbiano assunto all’esterno una forma
disfunzionale, hanno al proprio interno una precisa funzione, che va
scoperta e modificata.
La terapia cognitiva e comportamentale aiuta a rendere visibili le
dinamiche nascoste di un determinato comportamento, cercando di
conoscere a fondo i comportamenti divenuti “patologici”, aiutando
genitori ed insegnati a rispondere adeguatamente al bisogno espresso,
decondizionando gradualmente il circolo vizioso disfunzionale che ha
indotto quel bambino o quell’adolescente ad apprendere modalità sbagliate
di fronteggiamento della realtà.
•
Come si procede
Quando si comincia un percorso terapeutico in età evolutiva si seguono
alcune procedure standard che prevedono un primo colloquio con i
genitori o con chi si occupa dell’educazione e della cura del bambino,
successivi 4 o 5 colloqui di osservazione e colloquio con il bambino
stesso, e un incontro finale di restituzione di ciò che si è compreso ai
genitori per la condivisione della diagnosi e per stabilire le linee generali
del progetto terapeutico.
La psicoterapia in età evolutiva procede con la costante partecipazione dei
genitori, degli insegnati e qualora c’è ne fosse bisogno anche della rete
familiare più ampia. La partecipazione dei genitori è fondamentale nella
psicoterapia cognitiva perché l’intervento oltre a decodificare il bisogno
del bambino, deve restituire ai genitori una consapevolezza nuova e
strumenti più efficaci di comunicazione con loro figlio. La psicoterapia
cognitiva cerca di dare voce al bambino e di potenziare le risorse dei suoi
genitori che sono e restano le sue figure di riferimento fondamentali.
Parallelamente alle procedure standard è importante sottolineare che
esistono alcune differenze di diagnosi e cura a seconda della fase evolutiva
del bambino che necessita a seconda dell’età di alcune attenzioni
particolarmente importanti per la fase di s viluppo attraversata.
•
Alcun differenze evolutive
0-3 anni: il bambino è completamente dipendente dai genitori; l’intervento
mira quasi esclusivamente ai colloqui con le figure genitoriali, le sedute
con il bambino si fanno spesso insieme ai genitori sia
contemporaneamente che singolarmente, e l’osservazione del bambino
viene utilizzata per dare ai genitori nuove chiavi di lettura del
comportamento del figlio, creando gradualmente risposte più adeguate ai
suoi bisogni.
3-6 anni: il bambino è ancora molto dipendente dai genitori ma inizia ad
essere scolarizzato anche se non completamente; l’intervento si basa
ancora molto sui colloqui genitoriali, ma si possono effettuare
parallelamente e a seconda del caso specifico maggiori sedute con il
bambino. In questa fase, infatti il bambino, verbalizza con più sicurezza e
interagisce nel setting terapeutico in maniera più autonoma, con più risorse
di gioco e di relazione con il terapeuta.
6-10: il bambino è più indipendente dai genitori e la rete sociale e
familiare inizia ad essere importante nella organizzazione di vita, i genitori
sono ancora le figure fondamentali; l’intervento inizia a concentrarsi su
sedute più frequenti con il bambino in un setting individuale e le figure
genitoriali vengono seguite parallelamente con incontri mirati alla
condivisione di ciò che emerge in terapia con il bambino, al fine di
potenziare i risultati ottenuti e generalizzarli efficacemente nel “mondo”
naturale del bambino stesso.
10-13: il bambino diviene più autonomo ed ha esigenze più legate
all’ambiente sociale più ampio; l’intervento mira alla costruzione di una
relazione significativa con il terapeuta, che in questa fase di età, diviene un
importante interlocutore “alternativo” ai genitori, e permette di comunicare
all’interno di uno spazio esclusivo e più indipendente. I genitori
collaborano alla terapia in maniera comunque costante, ma il mondo del
bambino adesso esige riservatezza e spazi di dialogo esclusivi al servizio
del sé che inizia a definirsi come tale.
13>: l’adolescenza è iniziata e nonostante lievi differenze individuali le
esigenze cambiano per tutti; l’intervento si concentra quasi esclusivamente
sull’approccio individuale, con particolare attenzione al mantenimento
degli spazi di privacy, così importanti in questa fase evolutiva. La
costruzione di una relazione di fiducia esclusiva e protetta è la maggiore
esigenza per un adolescente che si avvicina ad un percorso psicologico. Il
trattamento prevede comunque sedute di confronto con i genitori, essendo
l’adolescente ancora parzialmente dipendente dalle sue figure di
riferimento, ma il bisogno di autonomia e di differenziazione dai “grandi”
è prioritario e stabilisce un setting molto simile a quello degli adulti.
La teoria di Erikson
Esiste però un’altra concezione di età evolutiva che consiste nel
considerare l’intero ciclo o arco di vita come età evolutiva, poiché
tutta la vita è scandita da problemi e conflitti fra opposte esigenze
che costituiscono delle crisi o punti di svolta, e a ciascuno di essi
le persone debbono affrontare uno specifico compito evolutivo):
se riescono ottengono un arricchimento personale e una solida
base per i successivi compiti evolutivi e danno un contributo
positivo all’umana convivenza, se falliscono ottengono sofferenza
e difficoltà nell’affrontare i successivi compiti evolutivi.
Il ciclo di vita secondo Erikson
Prima infanzia
Seconda
infanzia
Fanciullezza
FIDUCIA
(- sfiducia)
AUTONOMIA INIZIATIVA OPEROSITA’
(- vergogna)
(- colpa)
(- inferiorità)
La
madre
è
inizialmente per
il
bambino
l’unico oggetto a
cui rivolgere il
proprio
amore.
Il
rapporto
Il
bambino
diviene
più
autonomo, sente
il bisogno di
conoscere e di
esplorare
il
mondo che lo
Il
bambino
inizia
ad
andare
a
scuola, si fa
degli amici, si
crea
nuovi
interessi,
Pre-adolescenza
Continua
il
compito
di
socializzazione e di
autonomia;
il
ragazzo ora è pieno
di interessi: studio
amici, sport.
positivo,
di
fiducia che si
crea tra i due,
svolge un ruolo
rassicurativo che
aiuta il bambino a
prendere
gradatamente
coscienza di sé e
del
mondo
esterno.
circonda, scopre aumenta così
i coetanei, si la
sua
orienta
verso autonomia.
l’esterno.
Adolescenza Giovinezza
Maturità
IDENTITA’ INTIMITA’ GENERATIVITA’
((- isolamento) (- egoismo)
alienazione)
Vecchiaia
INTEGRITA’
(- disperazione)
L’adolescente
ha il compito
di costruirsi
un’identità
personale e
un
ruolo
sociale.
Compiti
di
questa
fase
sono:
entrare
nel
mondo degli
adulti
e
costruire dei
rapporti
significativi.
E’ la fase dell’età
adulta.
L’adulto "generativo"
si impegna nel proprio
lavoro, si prende cura
della sua famiglia, ha
amici e interessi, dà il
suo
contributo
al
progresso
della
società,
è
cittadino
attivo e
partecipe. La tendenza
opposta consiste nel
chiudersi nel proprio io
nell’inaridimento
affettivo.
Compito:
mantenere
un
senso
di
coerenza
e
completezza
della
propria
vita.
Tendenza
opposta:
non dare più
valore
alla
propria
vita,
disperare,
disprezzare
la
vecchiaia.
DISTURBI DELL’INFANZIA E DELL’ADOLESCENZA:
IL RITARDO MENTALE
Così definiti in quanto la loro insorgenza si colloca prima della maggiore
età, i disturbi dell’infanzia e dell’adolescenza presentano in generale
degli aspetti riguardanti comportamento personale e interpersonale,
sviluppo cognitivo, funzionamento globale che si discostano da ciò che
viene considerato “normale” in un determinato contesto storico, sociale e
culturale. Dunque, per poter parlare di disturbi, le manifestazioni peculiari
devono interferire significativamente nel funzionamento quotidiano della
persona.
Il DSM-IV distingue quattordici tipologie di questi disturbi:
Ritardo mentale: condizione di interrotto o incompleto sviluppo delle
facoltà intellettive e adattative. Il quoziente intellettivo (il rapporto tra età
anagrafica ed età mentale) è di molto inferiore alla media, dai 75-70 punti
in giù (contro i 90-109 di un’intelligenza considerata normale). Esistono
diversi gradi di ritardo mentale, da lieve a gravissimo. Le cause possono
essere organiche, genetiche e/o psicologiche.
Disturbi dell’apprendimento: difficoltà ad apprendere i concetti basilari
del calcolo (disturbo del calcolo o discalculia), della lettura (dislessia) e/o
della scrittura (disturbo dell’espressione scritta o disgrafia). Creano forte
disagio nel bambino, provocando stanchezza, demotivazione e possibili
danni all’autostima legati anche al confronto con i pari.
Disturbi delle capacità motorie: legati in particolare alla coordinazione
motoria: si possono rilevare goffaggine, lentezza, difficoltà anche in
attività semplici come il camminare.
Disturbi della comunicazione: esistono varie tipologie, possono
riguardare la comprensione, la ricezione del linguaggio, e/o l’eloquio.
Disturbi generalizzati dello sviluppo: gravi deficit della capacità di
interazione sociale o della capacità di comunicazione, che si manifestano
attraverso comportamenti, interessi e attività stereotipate. È il caso del
disturbo autistico (atteggiamento mentale di ripiegamento su se stesso), del
disturbo di Rett (deficit multipli: perdita delle capacità manuali,
isolamento, difficoltà psicomotorie), del disturbo disintegrativo della
fanciullezza (disturbi nella comunicazione e nell’interazione sociale), del
disturbo di Asperger (simile all’autismo, comporta notevoli difficoltà nelle
relazioni sociali e schemi limitati e insoliti di interessi e comportamento).
Disturbo da deficit di attenzione (iperattività): disturbo neurologico
presente fin dai primissimi mesi di vita che si può protrarre fino all’età
adulta, connotato da una vivacità esasperata e incapacità di prestare
attenzione. La persona è instabile e iperattiva, ha grandi difficoltà a
mantenere la concentrazione.
Disturbo della condotta: incapacità di mantenere un atteggiamento
sociale accettabile: chi ne è affetto presenta insofferenza alle regole,
aggressività verso persone, animali e cose, gravi problemi emozionali e
comportamentali (es. rubare, avere comportamenti violenti).
Disturbo
oppositivo
di
tipo
provocatorio:
impossibilitato
nell’adattamento sociale, il bambino presenta comportamenti ostili e
provocatori, non rispetta regole, cerca di imporre la propria volontà, è
vendicativo. Tale disturbo è maggiormente diffuso nei maschi.
Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione dell’infanzia o della
prima fanciullezza: comprende tre tipi di disturbi, la pica (ingestione di
sostanze non alimentari, come sabbia, ciottoli o capelli); il disturbo di
ruminazione (continuo rigurgito e rimasticamento del cibo) e il disturbo
della nutrizione (incapacità di mangiare normalmente e prendere peso).
Disturbi da tic: i tic sono parole o movimenti senza scopo, del tutto
involontari, che tendono a ripetersi con ritmo irregolare. Uno dei più noti è
la sindrome di Tourette, che si manifesta sia con vocalizzazioni che con tic
motori.
Disturbi dell'evacuazione: encopresi, evacuazione delle feci in luoghi
inappropriati, dopo i 4 anni di età ed enuresi, emissione di urine nel letto o
nei vestiti dopo i 5 anni di età. Tra le cause, difficoltà di tipo relazionale o
eventi stressanti.
Disturbo d’ansia di separazione: il bambino manifesta un’intensa
sofferenza nell’allontanamento dai genitori o da altre persone care, ha
problemi ad andare a scuola, a dormire da solo e può risultare preoccupato,
fino all’ossessione, che possa succedere qualcosa di grave alle persone
significative.
Mutismo selettivo: il bambino si rifiuta di parlare in determinate
circostanze o con determinate persone che può essere legato allo stress di
un cambiamento.
Disturbo reattivo dell’attaccamento dell'infanzia e della prima
fanciullezza: estrema fatica nel rapportarsi in modo appropriato
all’ambiente esterno. Si distinguono due tipi principali di disturbo, uno
inibito (il bambino è freddo, scostante, tende a isolarsi e a mantenere un
atteggiamento vigile) e l’altro disinibito (socievolezza eccessiva, fiducia
indiscriminata in chiunque). Tra le cause si può ritrovare una certa
disfunzionalità nei rapporti familiari.
Il Ritardo Mentale
La caratteristica principale del ritardo mentale è rappresentata
dalla presenza di un funzionamento intellettivo significativamente
inferiore alla media a cui si accompagnano limitazioni importanti
nel funzionamento affettivo, sociale e scolastico del bambino o
adolescente. Il ritardo mentale può essere lieve, moderato, grave,
profondo e l’esordio si colloca temporalmente prima dei 18 anni
di età.
Ritardo mentale lieve (QI compreso tra 50 e 70)
I bambini affetti da un ritardo mentale lieve sviluppano
competenze sociali e comunicative in età prescolare, hanno
modeste difficoltà nell’area senso-motoria e spesso non sono
distinguibili dagli altri coetanei fino ad un’età superiore. Riescono
a raggiungere facilmente la quinta elementare ed un livello di
apprendimento corrispondente alla prima e alla seconda media. Da
adulti, di solito, riescono a badare a se stessi, ma possono
necessitare di un aiuto e di una guida in situazioni inusuali.
Ritardo mentale moderato (QI compreso tra 35/40 e 50/55)
La maggior parte dei soggetti acquisisce competenze
comunicative nella prima infanzia e, con moderata supervisione, è
in grado di badare a sé. Miglioramenti significativi si possono
ottenere con insegnamenti occupazionali e sociali, ma
l’apprendimento rimane comunque limitato, il che può comportare
anche problematiche relazionali. Da adulti possono svolgere lavori
semplici in comunità protette.
Ritardo mentale grave (QI compreso tra 20/25 e 35/40)
I soggetti con ritardo mentale grave presentano un linguaggio
grossolano o assente, possono imparare compiti elementari e, da
adulti, possono essere in grado di svolgere attività semplici in
strutture supervisionate.
Ritardo mentale profondo (QI uguale a 20/25)
La maggior parte dei soggetti con questo tipo di ritardo mentale
presenta malattie neurologiche non identificate. Nella prima
infanzia possono migliorare le funzioni senso-motorie, specie se
inseriti in gruppi strutturati con supervisione stretta.
Ritardo mentale non altrimenti specificato (N.A.S.)
Comprende quei bambini con deficit multipli di cui è difficile
valutare il livello di insufficienza mentale, presumibile soltanto
attraverso l’osservazione esterna.
Solitamente un bambino con ritardo mentale giunge
all’osservazione di uno psicologo o un neuropsichiatra infantile
poiché manifesta capacità più o meno gravi di problem solving, di
adattamento e di autonomia personale rispetto a quelle tipiche dei
coetanei, a seconda del livello del ritardo, in aree importanti (cura
personale, abilità relazionali, autosufficienza, rendimento
scolastico etc.). È importante saper individuare altri eventuali e
ulteriori fattori che possono influenzare il funzionamento adattivo
del bambino, come caratteristiche di personalità, altri disturbi o
disabilità.
La diagnosi consiste nello stabilire la presenza di ritardo mentale e
nel cercare di individuarne le cause sottostanti. L'accurata
valutazione della causa di base può contribuire a individuare la
prognosi, suggerire programmi educativi e di esercizio, aiutare nel
counceling genetico e alleviare il senso di colpa dei genitori.
L'anamnesi (inclusa quella perinatale, dello sviluppo, neurologica
e familiare) può aiutare a individuare bambini a rischio di ritardo
mentale. In questi bambini devono essere effettuate molto
precocemente valutazioni visive, uditive, psicomotorie,
neurologiche e fisiche in generale, che devono ripetersi
periodicamente. Nei bambini ad alto rischio o con sospetto ritardo
di sviluppo, vanno effettuati test specifici per stabilire il grado di
sviluppo e di intelligenza. Esistono test intellettivi standardizzati,
in grado di individuare e misurare capacità intellettive sotto la
media; tuttavia tali test sono soggetti a errore e devono essere
interpretati con cautela, soprattutto quando non confermati dai
reperti clinici.
Molti studi scientifici dimostrano che soggetti affetti da ritardo
mentale presentano un alto grado di comorbidità con altri disturbi
come disturbo da deficit di attenzione ed iperattività, disturbi
dell’umore, disturbi pervasivi dello sviluppo, disturbi da
movimenti stereotipati. Alcune manifestazioni presenti in questo
tipo di disturbo, infine, si possono ritrovare anche in altre
patologie; ad esempio il ritardo mentale grave e medio può
presentare degli aspetti in comune con i disturbi generalizzati
dello sviluppo, mentre il ritardo mentale lieve potrebbe essere
confuso con un disturbo dell’apprendimento. Il momento della
diagnosi è dunque estremamente importante e delicato, sia per
l’impostazione degli interventi, sia per un’attenzione dovuta ai
genitori, che hanno bisogno di aiuto e sostegno da subito.
Cause del ritardo mentale
Biologiche e genetiche. A volte il ritardo mentale è dovuto ad
anomalie cromosomiche come ad esempio trisomie o delezioni di
alcuni cromosomi, oppure a condizioni ereditarie dominanti, per
cui se un genitore ne è affetto c'è un rischio su due che il figlio
erediti la condizione (es. sclerosi tuberosa, fenilchetonuria etc.). Il
ritardo mentale può essere causato anche da fattori biologici non
genetici, come infezioni in gravidanza (rosolia, toxoplasma etc.),
incompatibilità tra sangue materno o fetale, l’uso di alcool o
droghe. Tra i rischi perinatali vi sono quelli legati a prematurità ed
asfissia. Tra quelli postnatali vi sono encefalite, meningite
(infiammazioni del cervello o delle membrane che lo rivestono),
traumi e tumori cerebrali, incidenti cerebrovascolari, lesioni
cerebrali ed avvelenamenti.
Ambientali. Gravi carenze nelle cure, o a livello sensoriale,
affettivo, sul piano degli scambi con l’ambiente possono
provocare alterazioni dello sviluppo psichico della persona, spesso
irreversibili, che si possono riflettere anche sullo sviluppo
somatico e sulla maturazione neurologica. Uno svantaggio
socioculturale (economico, familiare, culturale) può favorire un
ritardo mentale, specie in individui che presentano già limiti
cognitivi.
Conseguenze indirette di disabilità, ad esempio sensoriali. Il
ritardo non sarebbe direttamente collegato alla mancanza, ad
esempio, della vista o dell’udito, ma da una stimolazione
ambientale inadeguata alle peculiarità dello sviluppo psicofisico in
assenza di un canale sensoriale.
Prevenzione
In fase prenatale, è fondamentale la consulenza genetica che
consideri l’eventuale presenza in famiglia di persone con ritardo
mentale, che proponga vaccini (es. contro la rosolia), esami in
gravidanza come l’ecografia, l'amniocentesi o il prelievo di villi
coriali, utili per individuare errori metabolici e cromosomici
congeniti, lo stato di portatore e difetti del SNC. La diagnosi
prenatale consente alla coppia di considerare la possibilità di
aborto terapeutico. L’informazione è inoltre importante per evitare
comportamenti a rischio in gravidanza, quali l’uso di, droghe,
fumo,
alcool,
alcuni
farmaci
etc.
Gli interventi preventivi possono dunque mirare ad eliminare
causa e conseguenze (evitando comportamenti rischiosi in
gravidanza ad esempio), a ridurre gli effetti diretti e indiretti della
causa in fasi postnatali (una dieta ad hoc nel caso della
fenilchetonuria o interventi educativi nel secondo caso).
Conseguenze
Le conseguenze sul piano sociale, affettivo, scolastico o lavorativo
variano a seconda della gravità del disturbo. In generale, i soggetti
con ritardo mentale possono presentare scarse capacità di
socializzazione, difficoltà nel far fronte ai compiti scolastici ed
una ristretta autonomia comportamentale. In assenza di corretti
interventi, il ritardo mentale può aggravarsi.
Interventi
Il decorso del disturbo dipende dalla gravità, dalle cause e dal
modello operativo di intervento. Soprattutto in presenza di ritardi
mentali di entità lieve, l’intervento precoce risulta fondamentale
per consentire un recupero maggiore delle funzioni deficitarie. I
problemi di adattamento sono i più soggetti a miglioramento. La
vulnerabilità di sviluppo a causa di un insulto perinatale può
essere superata se il bambino vive in un ambiente adatto
all'apprendimento. Intraprendere un programma di intervento
precoce nella prima infanzia può prevenire o diminuire la gravità
del ritardo mentale. Sono importanti anche interventi di sostegno
per i familiari sia dal punto di vista emotivo e psicologico, sia da
un punto di vista operativo, nel senso di sviluppare competenze
che favoriscano l’integrazione e il recupero del bambino. La
famiglia deve dunque avere un supporto psicologico e può
necessitare di aiuto giornaliero come centri di terapia diurni,
collaboratori familiari, famiglie per l'adozione temporanea.
L'istituzionalizzazione eventuale di una persona mentalmente
ritardata deve essere decisa dalla famiglia, previo confronto con
medici e altri professionisti.
Figure fondamentali saranno il medico di famiglia e specialisti
(neurologo, ortopedico, psicologo, psichiatra, logopedista,
fisioterapista, dietologo, audiologo, insegnanti, assistenti alla
comunicazione etc.) che cooperano sia nella valutazione che negli
interventi.
La maggior parte degli allievi con ritardo mentale è inserita nella
scuola normale e vive in famiglia e non in istituzioni come
avveniva in passato, in quanto ciò può favorire una piena
integrazione. In Italia sono molti gli interventi e abbracciano molti
settori come educazione, istruzione, riabilitazione, inserimento
lavorativo, interventi logopedici, occupazionali per migliorare
l’autonomia, fisioterapici e, quando necessario, farmacologici.
In alcuni casi può essere di aiuto la psicoterapia associata a
farmaci e a modifiche dell’ambiente circostante, con l’obiettivo di
alleviare il senso di inadeguatezza della persona o a modificare
scopi non realistici. Il trattamento cognitivo-comportamentale ad
esempio, prevede, sul piano comportamentale, il miglioramento
del comportamento sociale ed il controllo e la diminuzione di
eventuali comportamenti aggressivi o inopportuni, rinforzando
quelli desiderati. Sul piano cognitivo, lo scopo è quello di
promuovere le competenze che il bambino possiede, in modo da
potenziarle ed evitarne il deterioramento, e l’acquisizione di nuove
abilità di fronteggiamento dei problemi. In ambito cognitivocomportamentale è previsto anche l’impiego di altre forme di
trattamento come la terapia occupazionale ed il parent traning.
I bambini lievemente ritardati necessitano un sostegno
intermittente o limitato, in base alla variabilità delle richieste
ambientali. Sebbene presenti difficoltà nella lettura, la maggior
parte di questi bambini può acquisire un livello di istruzione
sufficiente alla vita di tutti i giorni e provvedere alle proprie
necessità di base. I soggetti lievemente ritardati necessitano di
minimi controlli e sostegni specifici, di speciali programmi
educativi e, di frequente, di condizioni di vita e situazioni
lavorative protette. Spesso sono socialmente immaturi e ingenui e
presentano una ridotta capacità di interazione sociale. Poiché il
loro modo di pensare è concreto e spesso non adeguato alla
generalizzazione, presentano difficoltà di adattamento a situazioni
nuove e scarsa capacità di giudizio. I bambini con ritardo lieve,
ma più pronunciato, e quelli con ritardo moderato presentano
deficit motori e del linguaggio. Con adeguati programmi di
istruzione e di sostegno continuativo, gli adulti lievemente e
moderatamente ritardati possono condurre una vita più o meno
indipendente nella comunità. Alcuni richiedono un sostegno
giornaliero limitatamente ad alcuni aspetti della quotidianità. Altri
possono vivere con un sostegno specifico in comunità familiari,
mentre i soggetti con gravi limitazioni fisiche o disturbi
comportamentali hanno bisogno di una maggiore supervisione. La
maggior parte richiede un sostegno a lungo termine in un
ambiente di lavoro protetto.
I bambini molto, o gravemente, ritardati necessitano di un
sostegno che interessi tutti gli aspetti della vita. Molti presentano
capacità minime di movimento e di linguaggio.
L'invecchiamento
L'invecchiamento è un processo che interessa tutti gli organismi viventi e
che comporta modificazioni biologiche. Nell'uomo si assiste a tali
modificazioni del corpo e delle sue funzioni, seguite da un processo di
adattamento psicofisico, già dopo i 30 anni; il fenomeno è graduale e
progressivo, anche se variabile per ogni individuo. Tuttavia la vecchiaia
può assumere un significato positivo e può essere vissuta nel modo giusto
...non è soltanto il momento della saggezza, ma può essere anche quello
della creatività.
L'invecchiamento fisico
L'aumento della popolazione anziana rappresenta un fenomeno
importante della nostra società. Rispetto al passato non è variata la durata
massima della vita umana, ma quello che si è modificato drasticamente è
la percentuale degli individui che raggiungono l'età avanzata. Il numero di
anziani in Italia di età compresa fra i 65 e 74 anni è 8 volte maggiore
rispetto l'inizio del secolo scorso, mentre gli anziani con età superiore a 85
anni sono aumentati di oltre 24 volte. A conferma di ciò studi compiuti in
America, sempre nel secolo scorso, stimavano che solo il 2% della
popolazione superasse i 65 anni, mentre attualmente la percentuale è
dell'11%, e questa percentuale è destinata ad aumentare. Gli anziani sono
sempre più numerosi e raggiungono la vecchiaia in migliori condizioni di
salute, merito del progresso sia delle conoscenze scientifiche (riduzione
della mortalità per malattie infettive) che delle condizioni socioeconomiche (miglioramento dell'igiene e dell'alimentazione).
L'aumento della popolazione anziana ha determinato la nascita di nuove
discipline:
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la geriatria (dal greco geros=vecchio, iatros=medico): branca della
medicina che si occupa non solo della prevenzione e del trattamento
delle patologie dell'anziano, ma anche dell'assistenza psicologica,
ambientale e socio-economica.
la gerontologia : scienza che studia le modificazioni derivanti
dall'invecchiamento.
la geragogia : scienza che studia tutte le possibilità per invecchiare
bene.
Esiste tutt'oggi difficoltà a stabilire l'inizio del processo di invecchiamento,
processo caratterizzato dall'aumento dei processi distruttivi su quelli
costruttivi a carico del nostro organismo.
Si usa comunemente considerare le seguenti fasce di età:
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età di mezzo o presenile 45-65 anni : gli eventi biologici
caratteristici sono la menopausa per la donna e l'andropausa per
l'uomo, importanti per le modificazioni bio-umorali (aumento dei
grassi nel sangue, della glicemia, predisposizione all'ipertensione
arteriosa).
senescenza graduale, 65-75 anni : comunemente si indica l'età
corrispondente all'inizio della vecchiaia a 65 anni.
senescenza conclamata, 75-90 anni : in passato individui di età
superiore ai 65 anni mostravano riduzione dell' efficienza psicofisica,
ai giorni nostri si assiste alla comparsa di ultrasessantacinquenni
efficienti, e si può ridefinire anziano l'ultrasettantacinquenne. In
questo periodo le malattie che insorgono tendono a cronicizzarsi ed a
determinare interventi assistenziali sociali e riabilitativi.
Biologicamente si assiste ad una generale riduzione del numero delle
cellule (atrofia) ed una diminuzione dell'efficienza funzionale,
accompagnata da modificazioni organiche e predisposizione ad una serie
di disturbi.
L'invecchiamento psichico
La psicologia dell'invecchiamento si occupa dell'anziano nella sua
globalità: analogamente ad ogni fase della vita umana non si può
prescindere dall'importanza della componente affettiva che determina la
modalità
di
risposta
agli
eventi
della
vita.
Si è visto che la vecchiaia è caratterizzata da modificazioni in senso
peggiorativo, ma si può affermare che non esiste un parallelismo fra le
modificazioni delle funzioni in individui diversi (eterocronia dal greco
eteros=diverso e cronos=tempo).
Già nell'antichità si riteneva che la vecchiaia fosse sempre accompagnata
da deterioramento mentale permanente, in particolare dal declino
patologico delle capacità intellettuali e dell'adeguato controllo
dell'emotività (demenza). Leggendo S. Antonio da Padova si trova il
termine sene-scere inteso come perdere la cognizione di sé, mentre
personaggi come Cicerone (nel De Senectute), Catone e Seneca parlando
di vecchiaia mostrano una visione più positiva: la vecchiaia non è solo un
processo necessariamente legato al decadimento globale dell'organismo
umano. In particolare Catone e Cicerone sottolineavano l'importanza di
coltivare molti interessi, fonte di frutti meravigliosi.
Recenti ricerche hanno evidenziato la possibilità di sviluppare situazioni
creative proprio nella vecchiaia ; studi condotti con modalità diverse
hanno dato risultati diversi rispetto al passato: l'anziano può mantenere la
sua efficienza psichica globale se sfrutta le risorse residue, ad esempio
mediante l'allenamento mentale, e se motivato.
Studi anatomo-patologici sul cervello mostrarono che nell'invecchiamento
si ha una sclerosi progressiva. Eppure esistono dei casi in cui non sono
presenti modificazioni cerebrali. Ciò a conferma della variabilità del
processo di invecchiamento (eterocronia) fra gli individui. Attualmente si
ritiene possibile un recupero delle funzioni cerebrali (fenomeno detto
sinaptogenesi).
Le numerose scale di invecchiamento, dal 1950 in poi, dimostrarono che
con l'avanzare dell'età diminuiscono funzioni quali la memoria e la
capacità di concentramento, frequentemente compaiono alterazioni dello
stato emozionale, come avviene nella depressione. Attualmente si è
dimostrato che l'anziano è più lento, riflessivo, ma non meno efficiente: i
test utilizzati in passato erano caratterizzati da tempi brevi di risposta, ecco
che l'anziano non aveva il tempo di risolvere i problemi sottoposti. La
biografia di personaggi illustri mostra individui con conservata
funzionalità cerebrale anche nella senescenza, anzi molte opere di scrittori,
filosofi, artisti, compiute alla fine dell'esistenza, rappresentano il
coronamento
di
tutti
i
lavori
precedenti.
Da notare anche la diversità dei risultati ottenuti da studi trasversali, in cui
si confrontano individui di diverse età, e studi longitudinali, in cui si
controlla un campione di individui per un lungo periodo di tempo. E'
intuitivo comprendere come lo studio longitudinale sia particolarmente
difficile da portare a termine, sia per l'intervallo di tempo sia per la
graduale perdita o rinuncia dei soggetti campione. Gli studi longitudinali
confermano che non è la senescenza la condizione patologica, piuttosto
sono gli eventi morbosi a creare le condizioni del rapido declino
psicofisico.
Ma quali sono i fattori che influenzano i processi di invecchiamento?
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Fattori genetici , anche il sesso può essere un fattore predisponente
(il maschio invecchia più precocemente).
Educazione e livello culturale che consentono di trovare più
facilmente delle alternative di vita alla pensione, di creare delle
strategie di sopravvivenza.
Benessere economico
Interazione e comunicazione
Comparsa di malattie invalidanti : l'anziano vive come intrinseca
la sua malattia, il suo vissuto è che la malattia appartenga al suo
destino.
Stile personale di vita , cioè subire o vivere la vita.
Appartenenza ad un nucleo socio-familiare , cioè il gruppo,
mediante atteggiamenti di conferma o svalutativi, evidenzia gli
aspetti positivi e negativi della condizione di vecchiaia.
Eventi drammatici : ad esempio la scomparsa di figure di
riferimento.
Sradicamento dal proprio luogo di origine.
E' evidente l'importanza dei fattori sociali.
La percezione è la capacità di raccogliere le informazioni esterne
attraverso i canali sensoriali. E' quindi legata a due fattori: l'integrazione
delle informazioni che avviene a livello del sistema nervoso centrale e
l'assimilazione legata al sensi (sistema nervoso periferico). La vista e
l'udito sono spesso ridotte e influenzano negativamente la capacità
percettiva. Sulla base del principio di costanza percettiva, che dice che la
percezione si mantiene costante nel processo di invecchiamento, il cervello
cerca di compensare la difficoltà percettiva legata ad una perdita sensoriale
stimolando i sensi rimasti integri (principio di conservazione). Con
l'avanzare degli anni si affina la capacità di rispondere alla diminuzione di
alcune funzioni psicofisiche utilizzando le conoscenze e le esperienze
apprese nella vita. E' stato dimostrato che l'attività percettiva migliora se
migliorano le condizioni in cui si svolge la stessa: l'ambiente esterno (la
società, ma soprattutto il gruppo familiare) può stimolare l'interesse, dare
spazio di espressione, non negare le possibili potenzialità dell'anziano.
La comunicazione, e quindi le relazioni interpersonali che permettono
una vita sociale, dipendono dalla possibilità di percezione. E' noto che
l'anziano mantiene integra la memoria
Altro elemento fondamentale è la motivazione.
La motivazione, in tutte le età, è la spinta propulsiva fondamentale del
comportamento, insostituibile strumento di apprendimento. Persino
l'utilizzo del computer, strumento estraneo alla cultura dell'anziano, può
essere appreso qualora l'anziano sia motivato a farlo.
Il pensiero e il linguaggio possono essere conservati, ma per mantenere
l'interazione con l'ambiente esterno, l'anziano deve essere in grado di
comunicare. Perché ciò avvenga non si può prescindere dall'importanza
dell'affettività , del riconoscimento del suo valore all'interno del nucleo
sociale in cui vive. Gli affetti giocano un ruolo essenziale nell'agire
quotidiano, nell'essere al mondo.
La depressione, espressione di profondo disagio, sofferenza psicologica
più frequente nell'età senile, comporta la rinuncia alla vita: l'aspettativa di
vita è statisticamente limitata, la società invia messaggi di inutilità, si
comprende come la volontà di vita dell'anziano per essere mantenuta
necessita dell'affetto dei propri cari che affermano l'importanza della sua
esistenza.
La sessualità dal punto di vista psicologico si può conservare fino ad età
avanzata, ma questo è vero anche dal punto di vista fisiologico. Ebbene,
l'esercizio sessuale è fondamentale, come l'esercizio di qualsiasi altra
funzione organica ; tuttavia appare ancora diffuso il pregiudizio culturale
che considera la sessualità in età senile come indecorosa, come se
l'anziano non potesse sentire e vivere le proprie emozioni.
Creatività Per invecchiare senza sviluppare demenza (vedi sopra) è
necessario che l'anziano mantenga attive le funzioni cerebrali. Per
creatività si intende l'espressione di sé stesso, le cui modalità di esecuzione
sono vastissime.
La creatività è caratteristica del mondo evolutivo del bambino. E'
fondamentale per la sua crescita. Ma la creatività diminuisce sempre di più
in un società ratiomorfa, come la nostra, che privilegia la forma, il pensare
secondo
una
logica
comune,
non
il
differenziarsi.
Nell'età senile la funzione della creatività si può manifestare nelle piccole
azioni quotidiane , come ad esempio nella creazione di pietanze originali.
Questo può valere in diverse condizioni di aggregazione: all'interno della
coppia, del gruppo, ma anche individuale. Al riguardo molto interessanti
sono le iniziative culturali della università della terza età. Lo specialista
psicologo può rappresentare un valido aiuto per l'anziano nel riconoscere e
svelare le potenzialità creative. Qualora vengano evidenziate le capacità
creative, la qualità della vita migliorerà radicalmente.
Molto stimolante è il rapporto nonno-nipote . Esiste spesso la difficoltà
di esprimersi dei bambini con i propri genitori impegnati a lavorare; la
relazione fra nonno e nipote faciliterà la possibilità di espressione di
entrambi: il nonno è un interlocutore che interagisce raccontando eventi
del passato modificati per facilitarne la comprensione, rendendoli più
piacevoli con un pizzico di invenzione. Il racconto di eventi passati
diventa strumento per stimolare la funzione creativa. L'interazione nonnonipote diventa un elemento utile ad entrambi. Relegare gli anziano non
rappresenta una soluzione utile.
Le soluzioni per il futuro degli anziani dovrebbero essere concordate e
scelte in chiave positiva, evidenziando cioè le qualità residue utili al fine di
esprimere se stessi. L'anziano dovrebbe essere sempre posto nelle
condizioni di sviluppare la creatività, tramite fatti-azioni concreti.
Speranze e timori Il timore più grande per l'anziano non è la morte, che
magari rifiuta inconsapevolmente, piuttosto la malattia, l'abbandono, il
disprezzo delle persone con cui ha sempre vissuto, il rifiuto da parte del
suo nucleo familiare. Le soluzioni di ieri non sono più attuali, le scoperte
scientifiche allungano sempre più la durata della vita. Nei paesi
industrializzati la popolazione anziana rappresenta sempre più una
percentuale importante: è indispensabile che la longevità sia caratterizzata
da anni di salute e non di malattia, invalidità e indipendenza. Bisogna
considerare tre aspetti, intimamente collegati fra di loro:
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•
Preventivo: una buona prevenzione ha il compito di proteggere e
mantenere le risorse psicofisiche, quindi di ridurre le necessità di
trattamento (prevenzione medica) e di riabilitazione. E' necessario
stimolare i rapporti con l'esterno , insegnare la geragogia, inserire nel
mondo del lavoro la possibilità di avere l'età di pensionamento
flessibile , stimolare il volontariato, non solo verso coetanei della
terza età, ma anche utilizzando l'esperienza dell'anziano utili per
l'inserimento dei giovani nel mondo del lavoro (esperienza già svolta
con successo da 5 anni ad Ivrea). Si potrà allora affermare che
invecchiare è un crescere ancora, un recuperare la propria
espressione.
Terapeutico : l'anziano presenta spesso la compromissione di più
organi, la cui terapia consiste nella somministrazione di più farmaci.
Diversi studi hanno evidenziato un abuso farmacologico, in
particolare di psicofarmaci: analogamente ai bambini irrequieti, agli
anziani depressi vengono somministrati sostanze farmacologiche.
Attualmente si è mostrata efficace associare (o sostituire, quando
possibile alla terapia con psicofarmaci) la psicoterapia sistemica ,
che aiuta a creare forme di strategie comportamentali più adatte ai
bisogni individuali: la depressione è la reazione ad una situazione
che appare senza via di uscita, ed esistono tecniche che vengono
proposte per riportare l'anziano ad una realtà che può ancora
arricchire.
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Riabilitativo : le strutture di riabilitazione svolgono un ruolo
importante nel ridurre i tempi di degenza nei reparti ospedaliero con
sollievo per il paziente anziano e contenimento dei costi per la sanità.
Ogni volta che un anziano si ammala e viene ricoverato si mette a
dura prova il suo fragile equilibrio . L'allontanamento dalle mura
domestiche gli fa perdere il senso e i confini della realtà, il ricovero
appare come un evento drammatico che può comportare la morte. Gli
anziani che necessitano di un intervento riabilitativo dopo la fase
acuta di una malattia possono venire seguiti a livello extra
ospedaliero mediante il servizio dell'Assistenza Domiciliare Integrata
nel caso di grave compromissione psicofisica negli istituti di
lungodegenza riabilitativa e nelle residenze sanitarie assistenziali.
La sindrome da immobilizzazione
Si definisce Sindrome da immobilizzazione o da allettamento prolungato il
complesso di segni e sintomi a carico dei vari organi e apparati, che si
manifesta quando una persona, specie se anziana, è costretta all’immobilità
(a letto o altro tipo di decubito obbligato) per un lungo periodo. Si verifica,
in particolare, quando subentra una riduzione delle riserve funzionali e dei
meccanismi di adattamento, anche in presenza di più patologie cronico
degenerative.
Nell’anziano si verifica spesso a causa di una prolungata immobilizzazione
a letto e, se non adeguatamente contrastata, può portare ad uno stato di
disabilità ingravescente, fino ad arrivare alla morte.
Di per se l’invecchiamento fisiologico si accompagna alla riduzione della
funzionalità di vari organi importanti per il movimento: la riduzione della
forza muscolare e il rallentamento dei riflessi.
Le principali cause d’immobilizzazione nell’anziano sono:
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artriti, osteoartrosi, osteoporosi e fratture e le patologie a carico
dell’apparato muscolo scheletrico;
malattie neurologiche quali ictus, demenza in fase avanzata, morbo
di Parkinson, neuropatie periferiche;
quadro di scompenso cardiaco che provoca difficoltà di respirazione,
infarti miocardici acuti, angine e tutte le altre patologie a carico
dell’apparato cardiovascolare;
malattie polmonari che provocano dispnea ingravescente;
patologie a carico della struttura scheletrica dei piedi;
alterazioni della vista con riduzione del visus;
gravi stati di malnutrizione;
patologie neoplastiche;
stati febbrili;
effetti collaterali di alcuni farmaci;
situazioni psicologiche quali, la paura di cadere, la solitudine, la
depressione, il lutto e l’isolamento sociale e l’indigenza;
Quali danni provoca?
I danni che può provocare sono molteplici e si riflettono, in maniera
sistemica (da qui il termine Sindrome) in tutti, o in parte, gli apparati
colpiti. A volte possono coesistere danni a carico di più organi. Ma
vediamo nel dettaglio cosa può verificarsi:
1. riduzione della massa e della forza muscolare, contratture muscolari,
predisposizione e aumento dell’osteoporosi, incapacità nel mantenere
la stazione eretta e rischi di cadute aumentato, anchilosi a carico
delle articolazioni;
2. trombosi venosa profonda con rischio elevato di embolia polmonare;
3. ipotensione ortostatica e capogiri;
4. infezioni polmonari per il ristagno dei liquidi pleurici;
5. stitichezza ostinata, formazione di fecalomi, fermentazione
intestinale e incontinenza fecale;
6. infezioni delle vie urinarie e incontinenza vescicale;
7. rallentamento cognitivo e depressione;
8. lesioni da pressione con conseguenti ulcere, che a loro volta possono
essere facilitate anche dall’incontinenza e dalla ridotta capacità di
movimento;
Come si previene?
Ai fini della prevenzione e del recupero della sindrome da
immobilizzazione non sono necessari provvedimenti speciali, ma semplici
regole di comportamento e di assistenza. Occorre evitare il prolungato
riposo a letto, incoraggiando invece la precoce mobilizzazione, appena le
condizioni lo consentano.
Sollecitare dapprima alla postura seduta (allo scopo di ridurre i disturbi
dell’equilibrio) e, successivamente, al movimento ed alla ripresa delle
consuete attività.
E’ fondamentale e importante stimolare la persona a muoversi ugualmente
anche se non può scendere dal letto. Attivare programmi di mobilizzazione
passiva. Favorire la posizione seduta per i problemi respiratori.
Per una prevenzione efficace della sindrome ipocinetica è determinante la
motivazione non solo dell’ammalato, ma anche di chi lo circonda, senza la
quale nessun successo potrà essere garantito.
Rieducarlo agli orari, anche se non avverte lo stimolo, sia delle minzioni
sia delle defecazioni anche se non è ancora in grado di alzarsi dal letto.
Aiutarsi con padella e pappagallo.
Fargli assumere una dieta varia e ricca di frutta, verdure (le scorie e le
fibre) e latticini (ad es. yoghurt).
Molto importante è stimolare a bere almeno un litro e mezzo di acqua o
altri liquidi al giorno. Per prevenire la comparsa di lesioni da decubito
occorre osservare quotidianamente il malato ponendo particolare
attenzione a:
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Alimentazione e idratazione stimolandolo sia a mangiare sia a bere,
magari con alimenti e bevande appetibili;
Effettuare attente e accurate cure igieniche, ispezionare la cute e
cambiare la biancheria qualora sia umida o bagnata;
Mobilizzare la persona aiutandola a mettersi seduta in poltrona o
stimolarla a modificare la propria postura nel letto. Mobilizzarla ogni
2 ore qualora non sia in grado di compiere alcun movimento;
Aver cura della cute e delle mucose controllandone integrità,
secchezza, screpola menti e arrossamenti. È utile l’impiego di
sostanze emollienti e idratanti quando la cute è secca, e l’uso di
pellicole protettive per proteggere i punti a maggior pressione. Mai
utilizzare sostanze a base alcolica ed effettuare frizioni che possono
facilitare l’insorgenza delle piaghe.
Per contrastare gli effetti negativi dovuti alla pressione tra il piano del letto
e le prominenze ossee, quando la persona è allettata, è necessario stabilire
un programma di cambio di posizione ogni due ore, questo anche quando
la persona è seduta in carrozzina. Va ricordata, nel cambio delle posture, la
corretta successione delle 4 posizioni: posizione supina, fianco destro,
posizione prona (se possibile e gradito dal paziente), fianco sinistro.
Utilizzare ausili (come cuscini o schiume) per alleviare la pressione sulle
prominenze ossee. Utilizzare un sistema di supporto dinamico (ad esempio
materassi a pressione alternata) se il malato non è in grado di cambiare la
sua posizione. Il bagno o la doccia devono essere eseguiti tutti i giorni,
evitando l’acqua troppo calda.
Utilizzare prodotti idratanti ed emollienti per proteggere la cute, come
creme e oli (olio di mandorla, olio di argan). Non utilizzare profumi e
talco, che causano secchezza della pelle, nonché pomate, creme e lozioni
oleose, che possono facilitare la macerazione cutanea. Un buon
programma assistenziale può sicuramente aiutare sia nelle prevenzione sia
nel miglioramento della sindrome da immobilizzazione. È fondamentale
agire sulla motivazione della persona, sulla sua forza di volontà e attivare
un programma di attività condiviso.
LESIONI DEL MIDOLLO SPINALE
POLIOMIELITE ANTERIORE ACUTA- Malattia di HeingMedin
E’ causata dai poliovirus che producono lesioni infiammatorie distruttive
la cui sede elettiva è rappresentata dalle corna anteriori del midollo
spinale. Le lesioni possono estendersi al midollo allungato, alle formazioni
reticolari del ponte, ai nuclei vestibolari, ai centri del cervello ed anche alla
corteccia cerebrale. E’ una malattia infettiva tendenzialmente epidemica,
ma oggi rarissima e sporadica, che provoca paralisi muscolare atrofica. La
paralisi flaccida, che interessa i più disparati gruppi muscolari, ha tuttavia
una netta predilezione per la muscolatura degli arti: prevalentemente quelli
inferiori. E’ capricciosa nella sua distribuzione topografica: a volte alcuni
gruppi muscolari o alcuni muscoli di un arto (in prevalenza quelli del tratto
prossimale, es.: i glutei, gli adduttori, il quadricipite femorale) e l’altro arto
controlaterale in maniera completa.
Di particolare importanza è l’inalterata sensibilità dei muscoli colpiti, non
essendo le corna posteriori del midollo spinale sede elettiva dei poliovirus;
dal punto di vista dell’apprendimento motorio è sicuramente un vantaggio
non trascurabile avere coscienza della posizione di un segmento corporeo
pur non potendolo muovere.
TRAUMI MIDOLLARI
Lesioni midollari provocate da cause accidentali, quali ad esempio
lussazioni e/o fratture vertebrali da incidenti d’auto o tuffi errati,
provocano l’interruzione della conduzione dell’impulso nervoso
necessario al movimento volontario, con la conseguente paralisi della
muscolatura.
Il livello della lesione e la sua completezza - totalità o parzialità incompletezza, determinano la parte di corpo non collegata e quindi
paralizzata.
Le minuscole porzioni di midollo spinale comprese tra due corpi
vertebrali, denominate metameri, raramente, infatti, vengono lesionate da
un trauma in modo completo, cioè con sezione trasversa perfetta; quasi
sempre la lesione avviene in modo “imperfetto”, consentendo un ponte di
collegamento al di sopra o al di sotto di essa. Questo ponte porta ad un
alterato tono muscolare ipertono); la lesione totale ne provoca, invece, la
mancanza assoluta cioè, la paralisi flaccida.
Generalmente, se la lesione è compresa tra la IV vertebra cervicale e la I
toracica vi è una paralisi di tutti e quattro gli arti, cioè, tetraplegia; se è
compresa tra la II toracica e la II sacrale vi è una paralisi degli arti
inferiori, cioè, paraplegia.
PARALISI CEREBRALE INFANTILE
E’ descritta come un disturbo neurologico cronico, non progressivo
derivante da una lesione cerebrale insorta durante uno stadio di sviluppo
precoce (prenatale, perinatale, neonatale). Può essere associata a ritardo
mentale; HEALY(1990) ritiene che il 60% - 70% delle persone con CP
abbia qualche grado di ritardo mentale.
Classificazioni della paralisi cerebrale
Circa il 97% dei casi ricade sotto le tre maggiori categorie :
• Paralisi cerebrale di tipo spastico - 60% - 65% Dovuta, principalmente, ad “alterazione” delle vie piramidali. E’
caratterizzata da difficoltà di generare movimenti volontari rapidi e precisi.
Vi è infatti l’incapacità di rilassare, nei distretti colpiti, i muscoli ad esso
antagonisti. Il disturbo tonico-motorio si caratterizza, prevalentemente,
con retrazioni tendinee che provocano: ipertonia estensoria agli arti
inferiori, ipertonia flessoria e adduttoria agli atri superiori. Con la
crescita, le ipertonie che interessano alcuni distretti muscolari, provocano
posture sbagliate e deformazioni articolari.
• Paralisi cerebrale di tipo atetosico - 25% Dal greco thetos (=posizione fissa) a privativa; dovuta principalmente ad
“alterazioni “ delle vie extrapiramidali . HEALLY ( 1990) più
accuratamente descrive i seguenti tipi di CP: Discinesia è il termine che
descrive la paralisi cerebrale caratterizzata da movimenti spontanei,
involontari; questi includono i movimenti lenti che ricordano lo scrivere o
lo strisciare dei vermi, in particolare del polso e delle dita (ATETOSICI),
che possono essere accompagnati da altri più a scatto e repentini
(COREOATETOSICI). Questi, alternandosi al movimento volontario, lo
rendono funzionalmente incoordinato e inefficiente. Un’altra forma di
discinesia (DISTONIA) comprende movimenti, lenti e ritmici che
interessano il tronco o una estremità. BLECK (1982) che usa il termine più
antico di atetosi identifica come maggiore sua caratteristica i “movimenti
caldi: “I movimenti sono, a volte, rotatori (torsione e rotazione degli arti),
distonici (posizione distorta degli arti, collo, o del tronco, che è tenuta per
alcuni secondi, e poi rilassata). Se sollecitato da ragioni emotive il
movimento di un atetosico può assomigliare a quello di un burattino.
Generalmente chi è atetosico ha uno scarso controllo delle labbra e dei
muscoli della lingua; ciò rende estremamente difficoltoso il parlare ed è
spesso causa di balbuzie. Questa inabilità a parlare, dovuta a questo
accentuatissimo balbettamento, porta a pensare che questi soggetti abbiano
un forte ritardo mentale; molti bambini con atetosi hanno invece capacità
intellettuali medie o superiori alla media.
• Paralisi cerebrale di tipo atassico - 7% Dal greco taxis (ordine - equilibrio ) a privativa. Dipende generalmente da
alterazioni de cervelletto e delle sue vie. Caratterizzata da disturbi della
coordinazione dei movimenti volontari e dell’equilibrio, barcollamento nel
cammino, non è generalmente associata a ritardo mentale.
Nella posizione seduta questi soggetti possono ben allenare la parte
superiore del corpo (annullando quindi, problemi di equilibrio statico e
dinamico) tanto da poter essere sottoposti anche a carichi pesanti.
L’ergometro a manovella è, per loro, ottimo strumento per migliorare la
capacità cardiorespiratoria.
• Paralisi cerebrale di tipo misto
Non essendo sempre possibile classificare tutti i casi nelle suddette
categorie, poiché presentano caratteristiche che appartengono a diverse
classi, viene utilizzato il termine “tipo misto” ( HALEY).
La localizzazione della lesione definisce la classificazione con termini
usati in Italia in modo diverso dagli altri paesi.
DISTROFIE MUSCOLARI
A questa categoria appartiene un grande gruppo di malattie con eziologia e
quadri clinici eterogenei. Sono caratterizzati dalla degenerazione
progressiva dei muscoli scheletrici. In alcune forme, dette miogene, il
processo degenerativo è a carico principalmente delle fibre muscolari; in
altre, dette neurogene, esso è a carico delle fibre nervose,
conseguentemente a ciò avviene la progressiva degenerazione muscolare.
In genere hanno carattere ereditario.
EPILESSIA
Epilessia è il nome della sindrome caratterizzata da crisi che tendono a
ripetersi in modo cronico a causa di una anomalia durevole del
funzionamento cerebrale.
Epilessia lesionale: viene denominata quella causata da alterazioni
strutturali del cervello evidenziabili.
Epilessia non lesionale o criptogenetica: è denominata quella in cui non
sono evidenti anomalie anatomiche del cervello.
La crisi epilettica (= manifestazione clinica parossistica, cioè di massima
intensità) può manifestarsi in vario modo ed è la conseguenza di una
anormale attività di una parte della sostanza grigia cerebrale, espressione
biologica dell’ipersincrono funzionamento di una massa di neuroni
corticali. Tale attività viene abitualmente registrata come una alterazione
specifica del tracciato elettroencefalografico.
La malattia epilettica è data dalla ripetizione delle crisi dovuta a
circostanze scatenanti somatiche e psichiche.
L’epilettico è colui la cui organizzazione psichica utilizza il ripetersi delle
crisi come via di scarico di pulsioni, sia in modo massivo che investendo
di un valore rappresentativo funzionale le manifestazioni cliniche, valore
di rappresentazione funzionale, affettiva o fantasmatica che le
manifestazioni cliniche in origine non possiedono.
E’ importante sottolineare la rarità di disturbi mentali cronici
nell’epilettico. Con le precauzioni determinate dalla possibilità di una crisi,
sotto il controllo del trattamento farmacologico, la maggioranza di essi può
condurre una vita normale.
I casi di ammalati gravi, bisognosi di assistenza per vivere, sono soggetti
colpiti sin dall’infanzia ed è quindi particolarmente difficile capire quanto
della loro condizione trova fattore eziologico nella malattia epilettica - sia
come causa organica che dal trattamento - o in carenze educative o di
relazione.
Per quanto riguarda la personalità dell’epilettico, risulta evidente che esiste
un <<vissuto>> dell’epilessia che, in una parte dei soggetti, stabilisce delle
relazioni tra la malattia e lo sviluppo della loro personalità.
Moltissimi sono gli studi - psicometrici, fenomenologici e psicoanalitici che tentano di determinare il confine dell’epilessia verso le nevrosi e i
disturbi psico-affettivi.
AUTISMO
Il concetto di autismo infantile nasce nel 1943 con LEO KANNER che
descrive e definisce un gruppo di 11 bambini con questo termine. Per
questo autore ..” tutti questi bambini sono indubbiamente dotati di buone
potenzialità cognitive”...
Kanner utilizzò il termine autistico per significare l’incapacità di
rapportarsi con gli altri e il desiderio di essere lasciati soli.
COSA NON E’ L’AUTISMO
Non è la conseguenza di un alterato rapporto tra un bambino nato sano e
l’ambiente, soprattutto familiare, incapace di accettarlo. Non è un disturbo
psicologico dovuto alla “patogena” relazione affettiva madre - figlio,
l’effetto di una <<madre frigorifero>>.
CHE COS’E’ L’AUTISMO
• Conoscenze scientifiche ci hanno consentito di capire che l’autismo è un
disturbo
generalizzato dello sviluppo che coinvolge diverse funzioni cerebrali e
perdura per tutta la vita.
• per descriverlo viene utilizzato il termine sindrome perché le cause che
provocano caratteristiche cliniche e disturbi dello sviluppo, comuni nelle
persone ne soffrono, sono diverse e sconosciute.
• La comunità scientifica internazionale (classificazione ICD 10 dell’OMS
e DSM IV) lo considera un disturbo pervasivo dello sviluppo che si
manifesta entro il terzo anno di età con deficit in tre aree:
1. comunicazione,
2. interazione sociale,
3. immaginazione.
Secondo stime recenti l’autismo colpisce 1 persona su 1000; 2 su 1000
sono quelle che ne presentano alcuni sintomi e, pertanto, vengono incluse
nello “spettro autistico”.
PSICOSI
Potremmo definirla un modo di essere abnorme della psiche; l’IO del
soggetto è disturbato ed egli non ha piena coscienza di ciò che gli accade e
lo disturba. E’ ancora oggi ritenuta valida la distinzione tradizionale tra
psicosi organiche ed endogene o funzionali.
PSICOSI ORGANICHE: sindromi psicopatologiche di tipo psicotico
conseguenti a disturbi organici del funzionamento cerebrale e si dividono
in croniche e acute. Le prime si identificano con le demenze essendo
caratterizzate da diminuzione di memoria e intelligenza; le seconde sono
caratterizzate da una compromissione più o meno marcata della lucidità
della coscienza e sono conseguenti ad un alterato funzionamento cerebrale
per cause tossiche, infettive o traumatiche (es.: al risveglio da un coma per
trauma cranico).
PSICOSI FUNZIONALI: sono un insieme non omogeneo di disturbi di
tipo psicotico per i quali è assente o non accertata una patologia cerebrale,
o comunque somatica.
La psicosi funzionale più tipica è la schizofrenia.
SCHIZOFRENIA
Secondo il DSM III la malattia schizofrenica consiste in:
<<disturbi mentali con tendenza alla cronicità, con diminuzione delle
funzioni e caratterizzati da sintomi psicotici riguardanti disturbi del
pensiero, dell’affettività e del comportamento>>.
Cause: risultano molto importanti fattori ambientali stressanti e carenze
affettive ed educative; si ammette che esista una predisposizione genetica.
Molti soggetti rivelano in precedenza tratti caratterologici particolari quali:
asocialità, chiusura affettiva, atteggiamento persecutorio.
Sintomatologia: vi è una progressiva disorganizzazione delle funzioni
psichiche che in fase acuta risultano tutte compromesse: il linguaggio, il
pensiero, la percezione, il sentimento di sé e il rapporto con gli altri, gli
affetti. Molto raramente vi è la coscienza del proprio stato.
Forme cliniche:
LATENTE include i casi definiti al limite o “borderline”
ATTENUATA
EBEFRENICA in cui l’impoverimento demenziale della personalità è
l’elemento prevalente;
CATATONICA in cui prevalgono i disturbi del movimento
PARANOIDE caratterizzata da comportamenti violenti poiché i soggetti si
sentono perseguitati e minacciati.
Può esservi agitazione psicomotoria o, al contrario, blocco totale dei
movimenti. Alcuni soggetti possono manifestare movimenti bizzarri,
smorfie, atteggiamenti enfatizzati. La percezione è alterata da
“allucinazioni” , da “ voci” che vengono udite in assenza di ogni
stimolazione obiettiva. Il pensiero è confuso, caotico, pieno di astrazioni,
simbolismi, strutture deliranti. Può esservi la convinzione che il proprio
pensiero sia dominato da altri.
Depressione Maggiore
Che cos’è il disturbo
Il disturbo che comunemente chiamiamo depressione si definisce in
ambito clinico depressione maggiore. Si tratta di un disturbo dell’umore
caratterizzato dai seguenti sintomi o segni:
*
umore depresso o tristezza per la maggior parte del giorno;
* riduzione della capacità di provare piacere o interesse nelle attività
che in passato procuravano soddisfazione;
* sentimenti di irritabilità e disforia (uno stato in cui si alternano
emozioni di ansia, apatia e irritabilità);
* senso di fatica e sensazione di non essere in grado di svolgere le
attività quotidiane;
* sensi di colpa, autosvalutazione e sensazione di essere un fallito;
* pensieri di morte o idee suicidarie;
* difficoltà a prestare attenzione, a concentrarsi e a prendere
decisioni;
* alterazioni del sonno: sonnolenza, insonnia o ipersonnia;
* riduzione o aumento dell’appetito e significativo aumento o perdita
di peso;
* riduzione del desiderio sessuale.
È raro che una persona depressa abbia contemporaneamente tutti i sintomi
riportati nell'elenco, ma se soffre quotidianamente dei primi due sintomi e
di almeno altri tre è molto probabile che abbia un disturbo depressivo
maggiore. L’andamento della depressione può avere diverse forme. In
alcuni casi i sintomi possono presentarsi in maniera acuta e improvvisa; in
altri invece si assiste ad una manifestazione più subdola dove i sintomi
sono costanti ma di minore intensità; in altri ancora l’andamento può
essere graduale e con un’alternanza tra periodi di relativo miglioramento e
periodi di riacutizzazione dei sintomi. Si tratta di uno dei disturbi
psicologici più diffusi nella popolazione e può colpire chiunque,
indipendentemente dall’età, dal sesso, dal livello culturale e dallo status
socioeconomico.
Come si manifesta
L’umore è il tono emotivo di base che influenza in maniera significativa la
percezione di sé, degli altri e dell’ambiente in generale. Soffrire di
depressione significa avere una alterazione di questa tonalità di base:
percepiamo noi stessi, le relazioni con gli altri e con il mondo intorno a noi
come negative, difficili da affrontare, faticose e inutili, sentendoci
incompresi e criticati.
Specificamente, la depressione si manifesta attraverso numerosi segni e
sintomi di tipo fisico, emotivo, comportamentale e cognitivo.
I sintomi fisici più comuni sono la perdita di energia, il senso di fatica, la
perdita o l’aumento di peso, le alterazioni del sonno (insonnia o
ipersonnia), il calo del desiderio sessuale, dolori fisici o disturbi somatici
(es. mal di testa, mal di schiena, disturbi gastrointestinali, dolore toracico).
Le emozioni tipiche sperimentate da chi è depresso sono la tristezza,
l’angoscia, la disperazione, il senso di colpa, il senso di vuoto e la
mancanza di sentimenti verso gli altri, la mancanza di speranza nel futuro,
la perdita di interesse e/o piacere per qualsiasi attività, la perdita di
entusiasmo e/o gratificazione, la sensazione di impotenza, l’irritabilità e
l’ansia.
I principali sintomi comportamentali sono rappresentati dal rallentamento
e/o agitazione psicomotoria, dalla riduzione delle attività quotidiane (es.
cura di sé e dell’igiene personale, lavoro, faccende domestiche ecc.), dalla
difficoltà a prendere decisioni e risolvere i problemi, dall’evitamento delle
persone e l’isolamento sociale, dall’adozione di comportamenti passivi (es.
rinuncia ad attività piacevoli o di interesse, atteggiamenti di
accondiscendenza, mancanza di iniziative spontanee), dalla riduzione
dell’attività sessuale e, nei casi più gravi, dai tentativi di suicidio. Ci sono,
inoltre, alcuni comportamenti tipici delle persone depresse che favoriscono
lo sviluppo di circoli viziosi e che, dunque, mantengono nel tempo l’umore
depresso. Questi comportamenti, riducendo la produttività lavorativa, il
contatto con nuove esperienze e le attività ricreative, riducono anche la
probabilità di provare emozioni piacevoli e di modificare le idee negative
su se stessi, sul mondo e sul futuro. Alcune persone depresse, ad esempio,
sperimentando molta fatica nell’affrontare le incombenze quotidiane (es.
pagare le bollette, chiamare l’idraulico, far revisionare l’automobile),
iniziano a rimandarle; in questo modo iniziano a sentirsi maggiormente
incapaci e fallite. Questo evitamento mantiene la depressione in quanto
non permette alla persona né di sperimentare brevi stati mentali positivi
(es. un leggero senso di efficacia personale), né di verificare che, nella
realtà, non è così incapace come pensa di essere.
Spesso accade anche che le persone depresse, provando apatia e
disinteresse per quasi tutto, smettano di uscire, evitino il contatto con le
altre persone e trascorrano molto tempo libero in attività passive come
guardare la televisione e stare a letto, rimuginando sui propri problemi ed
assillando amici e conoscenti riguardo ad essi. Anche tali comportamenti
mantengono la depressione in quanto impediscono alla persona di vivere
esperienze gratificanti. Un ulteriore esempio dei modi in cui la depressione
si mantiene è dato da coloro che, non riconoscendo i propri successi e non
gratificandosi per essi, perpetuano l’insoddisfazione verso di sé.
Per quanto riguarda i sintomi cognitivi, le persone che soffrono di
depressione presentano un modo di pensare caratterizzato da regole o
“filosofie di vita” disadattive, aspettative irrealistiche e pensieri spontanei
negativi su se stessi, sul mondo e sul futuro. Queste regole sono
solitamente assolute, rigide e, quindi, non adattive: la persona depressa fa
riferimento a dei “doveri” che sente di dover assolvere per rispettare i
propri valori (es. “Non posso sbagliare mai!”, “Se non piaccio a qualcuno,
non posso essere amato!”, “Se fallisco in qualcosa vuol dire che sono un
fallito!”, “Se ho un problema da parecchio tempo significa che non potrò
mai risolverlo!”, “Non posso essere debole!”).
Inoltre chi soffre di depressione generalmente presenta aspettative
irrealistiche: ha degli standard eccessivamente elevati sia nei confronti di
se stesso che degli altri (ad esempio può credere che fare errori sia
assolutamente vietato, che non si possano avere conflitti e che bisogna
essere sempre di buon umore); altre persone depresse, invece, ritengono di
non meritare nulla e accettano tutto quello che viene offerto loro senza
ricercare qualcosa di migliore. I pensieri spontanei che passano per la
mente delle persone depresse generalmente rispecchiano la visione
negativa che queste persone hanno di sé, del mondo e del futuro. Tipici
esempi di pensieri automatici negativi sono: “Sono un totale fallimento!”
(pensiero negativo su di sé); “Mia madre mi considera un perdente!”
(pensiero negativo relativo a quello che qualcun altro può pensare di noi);
“Di sicuro risulterò antipatico!” (predizione negativa); “Niente va bene!”
(pensiero negativo sul mondo); “Quello che ho fatto non conta, tutti
sarebbero in grado di farlo!” (minimizzazione dei propri successi o delle
proprie qualità).
Come riconoscerlo
A quasi tutti noi può capitare di avere una giornata particolarmente storta,
in cui ci sentiamo “giù di morale”, stanchi e particolarmente tristi o più
irritabili del solito. E’ probabile che tenderemo a definirci “depressi”
anche se forse quello che stiamo vivendo è semplicemente un calo
dell’umore: è una cosa che può capitare a tutti, ma ciò non significa che
tutti abbiano bisogno di un trattamento terapeutico. Infatti non è patologico
avere delle lievi fluttuazioni dell’umore: la tristezza, se non è troppo
intensa, può anche essere utile alla persona. Ponendoci domande sul
perché siamo tristi, ad esempio, possiamo capire se abbiamo bisogno di
qualcosa e cercare di trovare delle soluzioni ai nostri problemi.
La depressione necessita di un intervento clinico quando i suoi sintomi
sono molto intensi, provocano una forte sofferenza e durano da molto
tempo (più di 6 mesi). Nella depressione “clinica”, inoltre, sono presenti
autocritica, sensi di colpa, sentimenti di sconforto e disperazione,
mancanza di speranza verso il futuro, pessimismo eccessivo e pensieri di
morte. I comportamenti tipici della persona depressa sono orientati al ritiro
dalle relazioni, alla mancanza di interesse e/o piacere per le attività
abituali, alla rinuncia progressiva e generalizzata verso gli impegni
lavorativi o le attività piacevoli. La depressione vera e propria rappresenta,
quindi, qualcosa di molto più intenso e duraturo rispetto al semplice
sentirsi “un po’ giù di tono”. Per capire come può stare chi soffre di
depressione, bisogna immaginare di avere alle costole qualcuno che ci
sussurra continuamente nell'orecchio: "non vali nulla", "sei un fallimento",
"come può volerti bene?", "rimarrai solo", e così via. La maggior parte di
noi ne rimarrebbe schiacciata e tenderebbe a demotivarsi in qualsiasi cosa
e a fare sempre di meno. Questa crescente passività diminuisce l'energia,
aumenta la stanchezza depressiva e può essere valutata come ulteriore
prova della propria negatività e del futuro nero.
Per sapere se una persona è “clinicamente” depressa, inoltre, bisogna
prendere in considerazione i motivi e le cause della sua depressione. Ad
esempio sentirsi molto tristi e privi di energia, avere sentimenti di vuoto,
sentire di aver perso ogni interesse verso il mondo esterno dopo aver perso
una persona cara (es. separazione, divorzio, lutto) è una reazione naturale,
coerente con l’esperienza che stiamo vivendo e, nella maggior parte dei
casi, transitoria. La depressione conseguente ad una separazione o ad un
lutto, quindi, non è un disturbo psicologico; va trattata clinicamente se non
si risolve in maniera spontanea in un arco di tempo che può andare dai 6 ai
12 mesi
Quali sono le conseguenze
Il disturbo depressivo può portare a gravi compromissioni nella vita di chi
ne soffre. Non si riesce più a lavorare o a studiare, a iniziare e mantenere
relazioni sociali e affettive, a provare piacere e interesse nelle attività.
L’attività scolastica o lavorativa della persona può diminuire in quantità
e qualità soprattutto a causa dei problemi di concentrazione e di memoria
che tipicamente presentano i soggetti depressi. La mancanza di interesse e
di piacere conducono frequentemente alla riduzione delle relazioni e, a
lungo termine, al ritiro sociale. Anche i rapporti affettivi intimi subiscono
una riduzione della qualità e frequentemente insorgono problemi
relazionali con il partner, i familiari e gli amici.
L’umore depresso condiziona anche il rapporto con se stessi e con il
proprio corpo: tipicamente, infatti, chi è depresso ha difficoltà a lavarsi,
curare il proprio aspetto, mangiare e dormire in modo regolare.
La conseguenza estrema del disturbo depressivo è il suicidio, che colpisce
circa 15 persone su 100 tra coloro che soffrono di depressione clinica
grave.
Integrazione di un soggetto portatore di handicap
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA
Art. 3 - Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti
alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e
sociale del Paese.
Attualmente la terminologia più corretta da utilizzare è disabile o soggetto
in situazione di handicap. La Legge Quadro sull'handicap n. 104 del 1992
all'art. 3 afferma: "E' persona handicappata colui che presenta una
minorazione fisica, psichica o sensoriale (...) che causa difficoltà (...) tale
da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione."
Altro punto fondamentale concerne l'uso indiscriminato e parificato dei
due termini deficit ed handicap; la situazione di handicap, rappresenta
l'insieme di tutti gli effetti negativi per la vita di una persona inserita in
una comunità. Il deficit invece rappresenta l'elemento comune ad una
particolare tipologia. Per esempio i soggetti Down hanno caratteristiche
fisionomiche in comune (deficit) ma ogni soggetti Down è diverso da
qualsiasi altro affetto dalla stessa malattia genetica (handicap) di
conseguenza l'handicap rappresenta una condizione esclusivamente
personale e soggettiva.
La definizione dell'handicap comunemente accettata si deve
all'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che nel 1980 pubblicò la
"Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Disabilità e degli
Svantaggi Esistenziali".
Essa distingueva tre livelli:
· Menomazione, intendendo qualsiasi perdita o anomalia permanente a
carico di una struttura anatomica o di una funzione psicologica, fisiologica
o anatomica (esteriorizzazione)
· Disabilità, intendendo qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a
menomazione) della capacità di compiere un'attività di base (quale
camminare, mangiare, lavorare) nel modo o nell'ampiezza considerati
normali per un essere umano (oggettivazione)
· Handicap si intende la condizione di svantaggio, conseguente ad una
menomazione o ad una disabilità, che in un certo soggetto limita o
impedisce l'adempimento di un ruolo sociale considerato normale in
relazione all'età, al sesso, al contesto socio-culturale della persona
(socializzazione).
Nel 1999 l'OMS ha pubblicato la nuova "Classificazione Internazionale
delle Menomazioni, delle Attività personali (ex-Disabilità) e della
Partecipazione sociale (ex handicap o svantaggio esistenziale)" (ICIDH-2),
nella quale vengono ridefiniti due dei tre concetti portanti che
caratterizzano un processo morboso:
· la sua esteriorizzazione: menomazione
· l'oggettivazione: non più disabilità ma attività personali
· le conseguenze sociali: non più handicap o svantaggio ma diversa
partecipazione sociale
Più precisamente:
· con attività personali si considerano le limitazioni di natura, durata e
qualità che una persona subisce nelle proprie attività, a qualsiasi livello di
complessità, a causa di una menomazione strutturale o funzionale. Sulla
base di questa definizione ogni persona è diversamente abile.
· con partecipazione sociale si considerano le restrizioni di natura, durata
e qualità che una persona subisce in tutte le aree o gli aspetti della propria
vita (sfere) a causa dell’interazione fra le menomazioni, le attività ed i
fattori contestuali.
Nella nuova Classificazione dell'OMS, il termine "handicap" viene
definitivamente accantonato.
ICF: LA NUOVA CLASSIFICAZIONE DELL'O.M.S.
La Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e
della Salute (ICF) è l’ultima versione delle classificazioni internazionali
della disabilità curate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: la sua
finalità generale è quella di fornire un linguaggio standard e unificato che
serva da modello di riferimento per descrivere la salute e gli stati ad essa
correlati di tutta la popolazione a livello mondiale. L’ICF avvia
un’importante innovazione concettuale e culturale perché ridefinisce e
precisa la valenza neutrale e imparziale del concetto di disabilità,
liberandolo da una connotazione che lo associava direttamente alla
limitazione fisica, sensoriale o intellettiva. La disabilità non è più definita
come malattia o disturbo, ma come una condizione generale che può
risultare dalla relazione complessa tra la condizione di salute della persona
e i fattori contestuali che rappresentano le circostanze in cui vive.
La disabilità si connota, di conseguenza, come un concetto trasversale e
universale, un fenomeno sociale multidimensionale, una situazione che
ogni persona può vivere quando, presentando una condizione di salute,
incontra un ambiente sfavorevole. Si apre, pertanto, una prospettiva in cui
la salute e la disabilità sono due aspetti dello stesso fenomeno, e l’ICF
sembra fornire i principi di riferimento e le indicazioni per favorire,
l’integrazione tra la prospettiva pedagogica e quella sanitaria. La
classificazione può essere, infatti, uno strumento per rafforzare e
migliorare il lavoro sociale di rete, il confronto all’interno delle équipe
multidisciplinari, la collaborazione con le famiglie e con le comunità
locali, l’integrazione scolastica, la partecipazione e l’inclusione sociale
delle persone con disabilità.
In questa prospettiva l’inclusione non deve rimanere una dimensione che
si riferisce solo al mondo scolastico, ma deve percorrere e invadere “tutte
le sfere vitali e sociali, i luoghi concettuali e quelli spaziali, per diventare
un processo culturale e mentale e non solo un intervento organizzativo”.
La pedagogia speciale non ha bisogno, quindi, di nuove e diverse strategie
o metodologie, ma di rifondarsi dal punto di vista epistemologico ed etico
attraverso quello che Montuschi (2004) definisce con l’espressione
“pensare speciale”. La risposta educativa speciale deve essere inventata in
ogni momento e sembra richiedere una speciale capacità di pensare che
inizia dalla percezione globale, unitaria e contestuale della persona e del
suo problema da risolvere.
Tutti gli individui hanno il diritto morale di essere educati nella scuola
comune perché:
• Offre a tutti i bambini, a prescindere dalle loro caratteristiche personali,
l’opportunità di vivere e di lavorare insieme.
• Previene ed elimina gli effetti della segregazione
• È un sistema educativo più onesto e più equo di quello non inclusivo LA LEGGE QUADRO SULL’HANDICAP
La legge 104 del 5 febbraio 1992 richiama, riordina e amplia le norme
precedenti "per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti della persona
handicappata" I principi della legge, (artt.1 e 2) sono quelli di garantire i
diritti delle persone disabili e delle loro famiglie, di prevenire e rimuovere
le condizioni invalidanti, il recupero funzionale e sociale, il superamento
dell'emarginazione.
Fino all'entrata in vigore della legge, la normativa sull'handicap e
soprattutto quella relativa all'integrazione (a parte la Legge 517) veniva
affidata esclusivamente a Circolari Ministeriali e spesso la gestione in tale
materia veniva affidata alla disponibilità e al buon senso del personale
docente.
Su tale legge, che presenta numerose chiavi di lettura, è possibile fare
alcune osservazioni:
· essendo una Legge - quadro, enuclea dei principi direttivi in cui
dovranno essere contenute le ulteriori disposizioni legislative ed
amministrative.
· non si limita a prendere in considerazione solamente il piano scolastico
ma si impegna su tutto il piano sociale.
· impegna in maniera specifica le amministrazioni locali che divengono i
diretti esecutori della legge stessa e di conseguenza i diretti responsabili.
Gli articoli che riguardano direttamente la scuola (12-16) mirano a dare
dignità legislativa a molte disposizioni amministrative introdotte nel
passato in maniera disorganica e occasionale.
Inoltre l'integrazione scolastica viene supportata da tale legge, fermo
restando quanto previsto dalla legge 360 dell'11-05-76 e dalla legge 517
del 4-8-77, da una serie di strumenti didatticoorganizzativi che servono a
rendere più efficace l'opera della scuola. Una delle più rilevanti
innovazioni introdotte della Legge 104 è l'esortazione ad una più stretta
collaborazione fra i servizi scolastici, quelli sanitari, socio-assistenziali,
culturali ricreativi e sportivi per offrire un miglior supporto al processo di
integrazione degli alunni disabili.
art. 12: Diritto all’educazione e all’istruzione · L’integrazione scolastica
ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata
nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella
socializzazione.
· L’esercizio del diritto all’educazione e all’istruzione non può essere
impedito da difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all’handicap.
art. 13: Integrazione scolastica:
·
programmazione coordinata dei servizi scolastici, sanitari,
socioassistenziali, culturali, ricreativi, sportivi, gestiti da enti pubblici o
privati
· dotazione di attrezzature tecniche e di sussidi
· sperimentazione
art. 14: Modalità di attuazione dell’integrazione
· flessibilità nell’articolazione delle sezioni e delle classi
Dal punto di vista organizzativo assumono particolare rilevanza le
disposizioni dell'art. 15 sulla costituzione dei gruppi per l'integrazione
scolastica. In ultima analisi, per quanto riguarda la scuola, vengono date
all'art. 16 disposizioni riguardanti la valutazione del rendimento scolastico
e le prove d'esame. Da questa breve analisi, sicuramente superficiale data
la complessità e l'articolazione della Legge-Quadro, emerge come questa
abbia definito in maniera molto precisa i campi d'intervento che si
dovranno delineare sotto il profilo didattico e organizzativo per rendere
effettive le innovazioni introdotte.
L’OPERATORE SOCIOSANITARIO
· opera soprattutto nell’ambito dell’autonomia personale e sociale;
· Contribuisce con professionalità specifiche all’osservazione attiva di
esigenze e potenzialità dell’alunno disabile per supportare la definizione
del PDF e del PEI da parte del C. d. C.
· Collabora alla realizzazione del PEI e del programma di classe
perseguendo gli specifici obiettivi educativi, riabilitativi e di integrazione
sociale. Questo attraverso la realizzazione di attività espressive, motorie,
ludiche, laboratoriali di supporto all’apprendimento didattico e alla
socializzazione
· Supporta l’insegnante di sostegno nel reperimento delle risorse delle
diverse strutture per mediare il rapporto tra alunni ed ambiente
· Supporta nel raccordo scuola/famiglia,
· Contribuisce alla verifica del raggiungimento degli obiettivi formulando
osservazioni mirate sulle attività socio-educative e riabilitative
· Partecipa, se necessario, ai consigli di classe
· Si confronta con gli insegnanti sulle migliori modalità di gestione delle
attività assistenziali, di accoglienza e di tutela. I DISTRETTI SANITARI
I Distretti sono gli ambiti organizzativi territoriali per l’effettuazione di
attività e l’erogazione di prestazioni di assistenza sanitaria, di tutela e di
promozione della salute, di prestazioni socio sanitarie, di erogazioni dei
servizi e delle prestazioni socio assistenziali, di integrazione tra servizi
sanitari e servizi socio assistenziali. Sono dotati di autonomia economico
finanziaria e gestionale.
I distretti realizzano i modelli di integrazione socio-sanitaria tra l’azienda e
gli enti locali, in base alla programmazione concordata a livello locale ed
alla legislazione regionale e nazionale vigente. A tal fine si pongono come
interlocutore privilegiato dei bisogni sanitari e sanitari a valenza sociale
con tutti i soggetti che leggono ed interpretano la domanda e ne progettano
la risposta, anche attivando un unico punto di accesso a valenza sanitaria,
sociosanitaria e socio-assistenziale aperto ai cittadini a garanzia della
valutazione integrata del bisogno e della presa in carico secondo la
problematica più rilevante. Per questo motivo ogni distretto coincide
territorialmente con l’Ambito sociosanitario di riferimento.
Caratteristica dei distretti è la distribuzione delle sedi operative nel
territorio, in modo da avvicinare i servizi alla popolazione. Tali sedi
vengono anche utilizzate per l’espletamento di diverse attività assicurate
dal personale dei dipartimenti di prevenzione, salute mentale e delle
dipendenze e, tramite accordi specifici, possono ospitare alcune funzioni
assicurate dai presidi ospedalieri della provincia.
IL DISTRETTO È COSTITUITO AL FINE DI GARANTIRE:
• l’assistenza primaria, ivi compresa la continuità assistenziale mediante il
necessario coordinamento tra medici di medicina generale, pediatri di
libera scelta, servizi di continuità assistenziale notturna e festiva, medici
specialistici ambulatoriali
• Il coordinamento dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera
scelta con le strutture operative a gestione diretta, nonchè con i servizi
specialistici ambulatoriali ed i presidi ospedalieri ed extra ospedalieri
accreditati
• l’erogazione delle prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, connotate da
specifica ed elevata integrazione
• l’assistenza specialistica ambulatoriale
• l’attività per la prevenzione e la cura delle tossicodipendenze
• l’attività consulenziale per la tutela della salute dell’infanzia, della donna
e della famiglia
• l’attività ed i servizi rivolti ai disabili e agli anziani
• l’attività ed i servizi di assistenza domiciliare integrata
• l’attività ed i servizi per le patologie da HIV e per le patologie terminali
Al fine di garantire le attività ed i servizi sopradescritti i Distretti fanno
capo ad un Direttore coadiuvato dai coordinatori dei seguenti profili
professionali: amministrativi, infermieri, fisioterapisti, logopedisti,
assistenti sanitari, ostetriche. L’integrazione fra le attività svolte dagli
operatori afferenti al Distretto con gli altri servizi sanitari e sociali,
caratterizza l’attività distrettuale.