ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITA’ DI BOLOGNA FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE Corso di Laurea in Servizio Sociale Elaborato di laurea in Teoria dei processi di socializzazione Immagini della povertà estrema: la mendicità nella legislazione italiana Candidato Relatore Claudia Sampaolesi Maurizio Bergamaschi Sessione III Anno Accademico 2004-2005 5 INDICE Introduzione p. 7 1. Il problema dell’insicurezza: le forme storiche di trattamento della mendicità p. 14 1.1.Le leggi sui poveri tra il XVI e il XVII secolo p. 16 1.2. I cambiamenti del XIX e del XX secolo p. 22 2. La mendicità nella legislazione italiana nel XIX e XX secolo p. 28 2.1. Il codice Rocco: fine delle distinzioni p. 32 2.2. Sentenza della corte costituzionale del 28-12-1995, n. 519 p. 39 3. La mendicità nell’immaginario collettivo p. 43 Considerazioni conclusive p. 56 Fonti legislative p. 58 Bibliografia p. 59 6 Si pensa sempre che l’esclusione possa essere combattuta con le leggi e i decreti, con una volontà politica o con un programma sociale, ma non è così. L’esclusione è prima di tutto nelle nostre teste, nei nostri cuori, nel nostro modo di pensare. E’ per questo che è così difficile da cogliere e soprattutto da combattere. (…) Se in un comune si aprisse un centro per i senza casa, i cittadini sicuramente insorgerebbero contro il sindaco chiedendogli di non svalutare il loro quartiere. E il sindaco, che desidera essere rieletto, cederebbe alle loro ingiunzioni. Ai centri di accoglienza, sono tutti favorevoli. A condizione che si trovino nel comune accanto, lontano dalle proprie abitazioni. (…) Da che mondo è mondo si educano i bambini a soccorrere i poveri, dicendo loro: “Forse è il Cristo che viene tra noi e si nasconde sotto i loro abiti per metterci alla prova”, ma da che mondo è mondo abbiamo paura degli uomini vestiti di stracci, così simili tra loro eppure così differenti, che celano non si sa quale minaccia, forse un coltello nascosto sotto gli stracci. E le porte si chiudono. E Cristo prosegue oltre. Xavier Emmanuelli 7 INTRODUZIONE Lo specifico di questo lavoro è nel considerare le varie immagini della povertà estrema “prodotte” dalla legislazione sulla mendicità, in particolare nel contesto italiano dal XIX secolo ad oggi. In primo luogo è necessario ricordare che la nozione di “povertà urbana estrema” appartiene al lessico contemporaneo, mentre per quanto concerne il passato dovremo parlare di mendicità, vagabondaggio, ozio, accattonaggio; termini che comunque, nel tempo e nello spazio, hanno costantemente provocato preoccupazione in quanto indicano una realtà sociale e umana che appare priva di contorni, imprevedibile, caratteristiche che le permettono di sfuggire alle rigide e rassicuranti categorizzazioni amministrative e che la rendono per questo inquietante. Il mendicante ha rappresentato per molto tempo una minaccia all’ordine costituito, un nemico interno, da controllare, da isolare, da nascondere; La carità, l’internamento, l’assistenza, nonostante siano “pratiche”in apparenza molto differenti tra loro, hanno tutte avuto in comune la medesima preoccupazione, quella di istituzionalizzare e regolamentare questo mondo a parte, scomodo. Il vagabondo è l’individuo asociale per eccellenza, che vive al tempo stesso fuori da ogni inscrizione territoriale e fuori dalla realtà del lavoro. La questione del vagabondaggio, ci dice Castel, è stata la grande questione sociale di queste società, “essa ha mobilitato un numero impressionante di misure prevalentemente repressive, per tentare – invano, d’altra parte – di sradicare questa minaccia di sovversione interna e di insicurezza quotidiana, che si riteneva fosse rappresentata dai vagabondi. Se si volesse scrivere una storia dell’insicurezza e della lotta contro l’insicurezza nelle società preindustriali, il personaggio principale sarebbe il vagabondo – sempre vissuto come potenzialmente minaccioso – assieme alle sue varianti scopertamente pericolose come il brigante, il bandito, il fuorilegge: tutti individui senza legami, che rappresentano un rischio di aggressione fisica e di disgregazione sociale poiché esistono e agiscono al di fuori di ogni sistema di regolazioni collettive.”1 E’ da questa specie di inquietudine che la vista della persona in strada provoca, un’ inquietudine che ha una sua storia, un suo perché, per cui è dalla necessità di dare un’origine storica, un senso a questa mescolanza di sentimenti e atteggiamenti ora di compassione, ora di paura, di disprezzo…nei confronti del “mendicante” che parte il mio discorso. Tutte le immagini che oggi “descrivono” la persona senza dimora hanno 1 R. Castel, L’insicurezza sociale, Einaudi, Torino, 2004, p. 9. 8 una loro “memoria storica” e dall’età moderna in poi, il sistema legislativo ha avuto un ruolo molto importante nella “costruzione” di alcune di queste. Per quanto riguarda la mia personale esperienza poi, posso dire che, paradossalmente, il mio interesse verso questo tipo di problematica è nato dal mio disinteresse, inteso come indifferenza: fino a poco tempo fa non avevo mai riflettuto sulla condizione del “barbone”, avevo degli stereotipi ben precisi e andavano bene così. Sono nata e vissuta in un piccolo paese, Loreto, in provincia di Ancona, dove è molto difficile incontrare per strada chi ti chiede l’elemosina, capita poche volte, nel periodo natalizio, fuori dal portone della chiesa…E’ molto difficile sentirsi coinvolti da problematiche che non pensiamo, anche lontanamente, che ci possano toccare…ma dal momento in cui si allarga, anche solo un po’ l’orizzonte, tutto cambia, le certezze diventano incertezze e ogni cosa attorno acquisisce un nuovo significato. Un po’ questo mi è capitato andando a Genova per la prima volta nel 2002 e venendo a contatto con l’Associazione S. Marcellino che si occupa appunto di persone senza dimora. Un mondo nuovo che avevo sempre vissuto come altro rispetto al mio e che invece ho scoperto essermi così vicino, familiare. Ho sempre pensato al “barbone”, con finta ammirazione, come ad una figura particolare che si trova in quella situazione perché sceglie la libertà, non accetta nessuna regola sociale uscendo fuori da tutte quelle costruzioni e convenzioni che noi “bravi borghesi” ci siamo fatti, oppure e in questo caso provando pena mescolata alla paura, ad una persona che si trova in quelle condizioni perché abbandonata a se stessa a causa di problemi psichici o problemi di tossicodipendenza, alcolismo…comunque persone fuori dal mio mondo, dalla mia normalità. Stereotipi, che annullano completamente la persona alla quale li indossiamo e con i quali riusciamo a semplificarci, e non di poco, la vita, il mondo che viviamo. Lo “stare fuori” di queste persone, mi ha portato però a riflettere…in seguito ho imparato che l’uscita non è istantanea e non avviene totalmente e, se avviene, si arriva presto alla morte: le persone senza dimora sono persone che hanno perso ogni legame comunitario, il loro sistema psichico è deluso, vuole ritirarsi, fino a lasciarsi morire; ma il percorso di “degrado” è lungo ed è costituito da piccole rotture e ogni rottura ha bisogno di un suo assestamento. Ciò mi ha portato alla mia realtà e agli sforzi spesso compiuti per rimanere “affiliata” ad un sistema che troppe volte diventa stretto, insopportabile, agli sforzi per sentirmi adeguata, per combattere i momenti di sfiducia nelle proprie “capacità”…La società in cui si vive è sempre più una società senza regolamentazione e normatività, una società in cui ogni individuo vive isolato nel suo “delirio”. Nel parlare del problema della povertà estrema, non possiamo 9 fare a meno di affrontarlo senza intrecciarlo con la nostra normalità, perché si tratta di un disagio, certo favorito da alcuni fattori quali la mancanza di un alloggio, una condizione economica precaria, ma gli elementi che maggiormente lo connotano e lo definiscono, sono l’inadeguatezza della persona di fronte alla complessità attuale e una “tempesta” relazionale che coinvolge affetti, fiducia, autostima…che destabilizza la persona stessa2. Un disagio che non possiamo più negare come comune ad ognuno di noi, un disagio “diffuso” che spezza le variabili tradizionali e che spazza via quei luoghi comuni a cui siamo abituati. Per questo “nuovo” disagio non valgono più i classici criteri dell’età, dell’appartenenza ad un ceto sociale o ad una certa famiglia, della struttura della famiglia, dell’ambiente urbano in cui si abita e tutta un’altra serie di cose che non riescono più a spiegare quello che sta succedendo oggi. Questo mio lavoro, non consiste in una ricerca di territorio, ma è una ricerca, per così dire, di tipo giuridico-sociologico, per cui tutto il materiale di cui mi sono servita è di tipo bibliografico, ma mi rendo perfettamente conto che senza quella, se pur breve, esperienza a Genova, tutto avrebbe avuto un diverso valore, un diverso significato… Tornando allo specifico del mio lavoro, esso nasce dall’intento di analizzare le varie immagini che hanno descritto e caratterizzato la persona senza dimora nel tempo attraverso l’analisi della legislazione che si è occupata della mendicità. Ho suddiviso il mio lavoro in tre capitoli (che possiamo chiamare anche tre parti); nella prima parte vengono considerate le varie forme storiche di trattamento della mendicità dal XVI al XX secolo in un quadro generico, europeo, mettendo in evidenza come queste nel tempo si siano modificate, strutturate in relazione alle trasformazioni più generali della società, producendo sempre nuove immagini della povertà estrema che si sono stratificate l’una sull’altra. Le difficoltà che incontriamo oggi nella lettura della povertà urbana estrema “sono in gran parte da attribuire a questa stratificazione di immagini. La figura della povertà urbana estrema ancora oggi rimanda contemporaneamente alla prossimità con Gesù, alla decomposizione delle relazioni sociali, ad una residualità, alla minaccia del ritorno di situazioni di altri tempi.”3 Nel medioevo, ad esempio, non vi erano delle “politiche” di lotta alla povertà nel vero senso della parola, il povero aveva una funzione ben precisa : permetteva l’accesso al Paradiso a colui che faceva la carità. La carità quindi non era un “dovere sociale” ma 2 G. Pieretti, “La negazione dei diritti nel percorso di vita della persone senza dimora”, Genova, 2001 M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storico- sociale”, in P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi ( a cura di ), Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 49. 3 10 consisteva in un rapporto personalizzato tra colui che dava e colui che riceveva. In questo scambio, il povero spariva completamente in quanto lo scopo finale era la salvezza del donatore, il destinatario era irrilevante. Per le società moderne invece, una questione di primaria importanza fu di improntare dei meccanismi di controllo idonei a governare dinamiche sociali dirompenti come ad esempio la nascente industrializzazione e l’urbanizzazione di masse di contadini. Meccanismi di controllo che costituirono uno dei tratti peculiari della modernità e che erano mossi dall’esigenza di liberarsi dalla paura che incutevano masse di miserabili e nullatenenti pronti ad infestare con le loro scorribande le vie cittadine. Foucault ci dice che tali meccanismi di controllo sarebbero nel tempo venuti a creare la così detta “società disciplinare”. Un tipo di società basata su una forma di controllo sociale che prende in carico l’esistenza individuale in ogni dettaglio più minuto, determinandone un’ “oggettivazione” progressiva. L’imponente tentativo di disciplinare e mettere al lavoro gli “oziosi e i vagabondi”, o comunque di neutralizzarne il potenziale eversivo, avviatosi in tutta Europa, è potuto proseguire infatti, in evo moderno, solo grazie a determinate costruzioni concettuali che consentissero, in un quadro giuridico formalmente egalitario, di “stigmatizzare” come socialmente pericolose le esistenze e gli stili di vita non sufficientemente “ordinati” e “ laboriosi” delle classi marginali. Il compito principale del sistema di controllo penale, ad esempio, fu ben aldilà della semplice risposta alla criminalità, esso fu soprattutto il governo delle classi subalterne dotandosi di un insieme di meccanismi polizieschi che, anziché colpire l’infrazione di una norma o la lesione di un bene giuridico, erano in grado di sanzionare un complessivo stile di vita, sul presupposto che l’ozio, il vagabondaggio, la disoccupazione e la povertà, fossero in sostanza il luogo di coltura di tutti i peggiori mali per una società civile ed ordinata. Tutte queste immagini che hanno “descritto” e “identificato” la persona senza dimora dal medioevo in poi, sono oggi compresenti. Il sistema legislativo da un lato ha contribuito a crearle, ma allo stesso tempo, ne è stato influenzato. Nel secondo capitolo, invece, si parla del caso specifico dell’Italia: la mendicità nella legislazione italiana nel XIX e XX secolo. Nell’Ottocento la mendicità era vista quale piaga schifosa del corpo sociale, produttrice di un insieme enorme di mali. Il mendicante era un essere utile a nessuno, in quanto viveva in quelle condizioni proprio perché preferiva l’ozio al lavoro, a questa concezione non c’era via di scampo, non vi erano alternative e nel Codice Penale sardo-italiano del 1859 si ritrovavano richiami ad 11 una lettura punitiva della mendicità proprio secondo criteri di equità e di umanità. Il ricovero coatto divenne l’auspicato rimedio: il mendicante non doveva essere controllato e punito in quanto essere vizioso, attentatore di un ordine, diremmo noi meglio, auspicato piuttosto che esistente. Comunque fino al codice Rocco del 1930, la legge distingueva il povero meritevole e il povero non meritevole, per cui il povero non abile al lavoro a causa di problemi fisici o psichici e quindi non per propria scelta, era appunto “meritevole” di compassione e di aiuto, il povero abile al lavoro, quindi inoccupato per propria scelta invece doveva essere recluso, allontanato, punito. Non vi erano possibilità di comprendere e giustificare un simile comportamento. La distinzione, ai fini della punibilità, venne abbandonata dal codice Rocco del 1930: l’articolo 670 del nostro codice penale, abrogato definitivamente solo nel 1999, prevedeva che chiunque mendicasse in luogo pubblico o aperto al pubblico fosse punito con l’arresto fino a tre mesi; esso contribuì maggiormente a criminalizzare e a considerare pericolosa la figura del mendicante e soprattutto contribuì a categorizzare, come criminale appunto, una realtà sociale e umana che tendeva a sfuggire a rigide categorizzazioni amministrative. E’ come se dall’età moderna in poi la forca abbia steso la sua ombra sul sentimento di carità, sull’aiuto ai poveri, sulla pietà verso gli infelici4. Negli anni sessanta – settanta, anche l’Italia viene attraversata da profondi mutamenti. L’idea che la povertà e l’emarginazione fossero il frutto di una deficienza dell’individuo, immagine che soprattutto la scienza psichiatrica contribuì a creare ai primi del ‘900, venne mano a mano a decadere. Soprattutto decadde la necessità di rispondere a questa problematica severamente per mezzo dell’intervento penale, per cui il ruolo riservato alle agenzie penali venne progressivamente restringendosi. Nel corso degli anni ottanta la povertà tornò ed essere considerata come una condizione socialmente riconosciuta tanto che il Welfare dovette assumere tutte quelle funzioni che un tempo erano riservate al sistema penale. La sentenza della Corte Costituzionale del 28-12-1995, n. 519, dichiarando l’illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 670 c. p., in teoria segnò una tappa importante, in sostanza seguì questa scia di cambiamenti sociali. La sentenza infatti considera, in primo luogo che nonostante nell’art. del c. p. la mendicità sia considerata un reato, esso era ormai scarsamente perseguito, in quanto sono per primo gli organi statali preposti alla repressione di questo e di altri simili reati, a manifestare un aperto disagio; in secondo luogo, la sentenza 4 B. Geremek, La pietà e la forca, Laterza, Bari, 1995, p. 264. 12 riconosce le attività autonome, quali ad esempio le organizzazioni di volontariato della società civile che, mossa da sentimenti di solidarietà, è consapevole dell’insufficienza dell’azione dello Stato. Con l’’art. 18 della legge del 25 giugno del 1999, n. 205, entrambi i comma dell’art. 670 c. p., vengono abrogati, per cui la mendicità cessa di essere un reato. Se nel secondo capitolo, ho dato maggiore importanza all’aspetto giuridico, passando in rassegna le varie leggi che dall’Ottocento ad oggi si sono occupate di mendicità, contribuendo a trasformare o creare nuove immagini della persona senza dimora, nel terzo ed ultimo capitolo, che ha per titolo “la mendicità nell’immaginario collettivo”, ho dato maggiore spazio ad una lettura sociologica del problema. Ho cercato infatti di analizzare le varie immagini che il sistema legislativo ha contribuito a creare mettendo in evidenza il fatto che ancora oggi le difficoltà nella lettura della povertà urbana estrema, sono in gran parte da attribuire a questa stratificazione di immagini. Allo stesso tempo è molto difficile stabilire quali siano i “sentimenti” che prevalgono nei confronti della persona senza dimora. Certo è, e questo ce lo dimostra anche la sentenza del 1995, che oggi, il pensare alla persona senza dimora come un vero e proprio criminale è assai poco diffuso. Oggi possiamo dire che il sentimento che prevale è la compassione o la pura indifferenza, ma non è possibile affermare che questi sentimenti abbiamo completamente cancellato le immagini che dall’età moderna in poi si sono venute a creare. “Gli atteggiamenti socio – psicologici cambiano molto lentamente, sembrano radicati nella natura umana e nelle basi biologiche della vita sociale. E’ molto più facile individuare un cambiamento nelle tecniche di procurarsi il cibo, nei mezzi di trasporto, nel modo di combattere, nelle forma di governo, che non nei sentimenti delle persone, nella loro sensibilità e immaginazione. (…) Il gesto caritatevole di dare l’elemosina non è stato sostituito con una minaccia di impiccagione per i mendicanti: tale minaccia e tale gesto coesistevano attraversando periodi di debolezza e di forza, di ascesa e di caduta.”5 Purtroppo però non si tratta solo di sentimenti, è necessario soprattutto, per dare una reale visibilità alle persone senza dimora, parlarne come persone aventi in primo luogo dei diritti, diritti che invece sono spesso negati, nascosti, violati. Per fare questo , dobbiamo in primo luogo comprendere altri sistemi di senso, andando oltre la nostra realtà, la nostra idea di normalità, dobbiamo liberarci dai nostri orpelli sociali quali il mondo dei ruoli e delle prestazioni, gli oggetti di consumo, i nomi, le categorie, le 5 Ibidem, p. 13. 13 aspettative, le ambizioni… e concentrarci sulla vita stessa che è il fondo comune che sta in ognuno di noi6. Purtroppo è ancora molto lunga la strada da percorrere! 6 “La vita non è una distinzione fra le altre. La vita è l’unica, vera, distinzione. Non ci sono distinzioni tranne quella che stabilisce lo scarto di esistenza fra la vita e la non vita. In particolare, non ci sono distinzioni interne alla vita stessa. Le distinzioni interne alla vita che crediamo di osservare sono solo apparenze, metafore, simulazioni.” G. Piazzi, La ragazza e il direttore, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 39. 14 1. IL PROBLEMA DELL’INSICUREZZA: LE FORME STORICHE DI TRATTAMENTO DELLA MENDICITA’ Collocata nell’ambito delle “contravvenzioni concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica” di cui al Capo I, Titolo I, Libro III del nostro codice penale, la mendicità trova la sua configurazione (art.670-671) quale previsione normativa volta alla “prevenzione dell’accattonaggio”, intendendo questo ultimo come “il fatto di chi domanda…elemosina e ne fa professione abituale”7. Il mendicare, nell’interpretazione più diffusa, viene definito come l’azione del chiedere denaro o altra utilità, ovvero “richiesta personale e diretta di elemosina” e nel contempo la mendicità qualifica nell’etimologia la condizione di “persona estremamente povera”, inducendo l’analisi di tale fenomeno nell’ambito di quello, storicamente più complesso che va sotto il nome di pauperismo. Il nucleo originario del termine “mendico”, quale derivazione da “mendu(m)”, aiuta invece a chiarire il significato più letterale ad esso attribuito nell’espressione “con un difetto fisico”; nel tempo, il medesimo termine, ha assunto il significato più diffuso di “povero”, ad indicare, nel linguaggio sociale, colui che vive ai margini della collettività. Ed è sulla mendicità intesa come povertà che in un primo tempo ci soffermeremo: nell’Ottocento poi, come vedremo, il divario che in epoca moderna era di grado ma non di natura, si farà sempre più profondo. Dal punto di vista sociologico comunque, i termini quali mendicità, ozio, accattonaggio, vagabondaggio, pauperismo, povertà urbana estrema, nonostante abbiano ognuno uno specifico significato, indicano una realtà simile la realtà della désaffiliation, ovvero di una popolazione priva di uno statuto definito e socialmente accettato, una realtà sociale che appare imprevedibile e priva di contorni e quindi nella sua essenza inquietante. Essendo l’assillo della sicurezza una preoccupazione popolare, nel senso forte del termine,8 il problema che la povertà pone alle istituzioni deputate al suo trattamento è comunque sempre il medesimo nel tempo: definirla da un lato e dall’altro prenderla in carico. Pertanto l’oggetto di questo lavoro non è costituito dalla povertà in sé ma dalla sua amministrazione e regolamentazione; come scrive lo storico B. Geremek, “nella documentazione storica, gli emarginati lasciano poche tracce: non stabiliscono rapporti, non ereditano, non sono eroi di grandi imprese che possono passare alla storia. Sono presenti anzitutto negli archivi della repressione, quindi in un’immagine riflessa dove 7 Così Saredo, “Accattonaggio o mendicità (Dir.amm., dir. pen.)”, in D. I., parte I, Torino, 1884, 250. R. Castel, L’insicurezza sociale, Einaudi, Torino, 2004 8 15 non appare soltanto la giustizia della società organizzata, ma anche il suo timore e il suo odio. Per questo le informazioni riguardano per primo la società stessa, e solo su un secondo piano quelli che sono oggetti di repressione”9. La regolamentazione e l’amministrazione della povertà non fanno altro che descrivere e mettere in pratica le varie concezioni della povertà e le reazioni collettive che, nel corso dei secoli, si sono trasformate; ma i cambiamenti e le trasformazioni non vanno in una sola direzione. Gli atteggiamenti socio-psicologici cambiano molto lentamente, tanto da sembrare radicati nella natura umana e nelle basi biologiche della vita sociale10. Per cui il gesto caritatevole di dare l’elemosina non è stato sostituito con una minaccia di impiccagione per i mendicanti: tale minaccia e tale gesto coesistevano attraverso periodi di debolezza e di forza, di ascesa e di caduta; ad esempio se è soprattutto in epoca moderna, periodo in cui le città iniziano a popolarsi di mendicanti, vagabondi, prostitute, poveri, che viene applicata una legislazione repressiva contro il vagabondaggio, in età medioevale, nonostante non vi siano state delle vere e proprie “politiche” di lotta alla povertà nel vero senso della parola, in quanto la carità cristiana costruiva un rapporto personalizzato tra colui che dava e colui che riceveva11, è da mettere in evidenza l’ambivalenza degli atteggiamenti verso i poveri determinata dalla predicazione cristiana stessa. Infatti nel medioevo, nei confronti del povero la compassione si accompagnava all’odio, il disprezzo alla paura, l’assistenza caritativa alla repressione. In questa epoca la Chiesa ispirò atteggiamenti molto diversi: dalla condanna della miseria all’esaltazione della povertà, dall’elogio della misera vita fatta di elemosina al richiamo dell’ethos del lavoro. Nonostante ciò il povero aveva comunque una propria funzione sociale: l’elemosina costituiva uno strumento per la redenzione dei peccati e la presenza dei poveri nella “società cristiana” determinava la realizzazione del progetto della salvezza. Tuttavia alle soglie dell’età moderna , nei modelli e nella pratica sociale, si verificò un sostanziale cambiamento nei confronti della miseria. Tale cambiamento veniva presentato dai vari studiosi in modi diversi a seconda del modo di concepire l’essenza 9 B. Geremek, “L’emarginato”, in J. Le Goff (a cura di), L’uomo medioevale, Laterza, Bari, 1987, pp.391421. 10 Cosi in B. Geremek: “E’ molto più facile individuare un cambiamento nelle tecniche di procurarsi il cibo, nei mezzi di trasporto, nel modo di combattere, nelle forme di governo, che non nei sentimenti delle persone, nella loro sensibilità e immaginazione. Non è un problema d’indagine, di documentazione adeguata o di tecniche di ricerca: è una questione propria della materia di indagine, in cui le divisioni cronologiche si confondono, le differenze risultano sfumate e i cambiamenti non vanno in una sola direzione.” B. Geremek, La pietà e la forca, Laterza, 1995, Bari, p. 13. 11 M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storico- sociale”, in P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi ( a cura di ), Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995. 16 della “svolta moderna”, per cui esso veniva collegato alle trasformazioni religiose dell’epoca, alla cultura del Rinascimento, oppure ai processi della nascita della società capitalista. La nascita dello stato moderno, come vedremo, segnò anche l’inizio di una nuova fase della politica sociale. 1.1. Le “leggi sui poveri” tra il XVI e il XVIII secolo Le trasformazioni del sistema rurale, cui modello più noto è quello inglese, il così detto fenomeno delle recinzioni (enclosures), portarono ad uno spostamento massiccio dalle campagne verso le città: qui le possibilità di un lavoro saltuario furono molto grandi; per cui i poveri provenienti dalla campagna, quale prodotto della decomposizione dei vecchi rapporti, costituirono una riserva potenziale di formazione del proletariato.12 Tra il XV e il XVI secolo però le città furono incapaci di disciplinare il massiccio afflusso di persone prive di qualifiche professionali e non abituate alla vita urbana. In particolare gli anni venti del XVI secolo furono molto critici: la carestia tra il 1526 e il 1535 accentuò il conflitto fra l’incremento demografico e la penuria di cibo e fu proprio in questo periodo che iniziarono le distinzioni all’interno della “categoria” povertà, distinzioni tra poveri abili al lavoro e non; per cui vennero adottate misure per ripulire le città dalle folle dei miserabili, i vagabondi vennero puniti con frustate. In questa situazione così complessa, il problema dei poveri si presentava sotto due aspetti: da un lato le città dovevano fronteggiare le masse di miseri affamati che arrivavano dai dintorni, dall’altro si pose la necessità di mettere ordine nell’organizzazione dell’assistenza ai mendicanti, di fissare le regole e le istituzioni di assistenza sociale. Anche L’Italia, non venne risparmiata dalla crisi: la fame, il morbo e la guerra devastarono l’Italia settentrionale e centrale e anche qui, come in tutta Europa, la fame spinse la popolazione dalle campagne verso le città. Questo a Venezia : “è immensa la folla dei poveri; a causa della gran fame che regna nel paese, molti vagabondi si sono decisi di giungere qui, insieme ai bambini, in cerca di cibo. (…) Non si può assistere in pace ad una messa, senza che una dozzina di mendicanti non ti circondi e chieda aiuto, 12 In città quindi la “povertà” non è indice della destrutturazione del tradizionale sistema di vita urbana, quanto della formazione di un sistema nuovo. A tal proposito si veda B. Geremek, La pietà e la forca, Laterza, Bari, 1995. 17 non si può aprire la borsa, senza che subito un poveraccio non ti si avvicini, chiedendo un denaro.”13 La minaccia di epidemie portarono ad adottare misure per isolare i poveri. Le autorità cittadine ordinarono che l’elemosina dovesse essere concessa solo a coloro che avevano una speciale licenza di mendicare, concessa dalle parrocchie. Senza di questa si rischiava la prigione e la frusta. Continuando a descrivere la situazione nella città di Venezia, nel 1528 si decise, grazie a varie proposte preparate da un’apposita commissione, di costruire tre o quattro ospizi provvisori o ricoveri per i poveri dato che veniva vietato l’accattonaggio per le strade e per le case, pena la prigione, la frusta e l’espulsione dalla città. La medesima situazione troviamo in altre città italiane: a Roma, ad esempio, nella seconda metà del XVI secolo, i pontefici intrapresero misure allo scopo di sanare la situazione della città, per cui oltre all’espulsione dei vagabondi, vi fu il divieto di mendicità pubblica per le strade, pena la reclusione o l’invio sulle galere per chi commetteva infrazioni del divieto. A Venezia, per mantenere gli ospedali-ospizi volti ad accogliere i mendicanti14, venne istituita un’apposita tassa , raccolta nelle parrocchie dal parroco e da due assessori laici e consegnata poi nelle mani dei Provveditori alla sanità. Questo provvedimento, che può essere considerato la prima “legge sui poveri”, mette in luce i primi interventi del potere pubblico nei confronti di una problematica considerata e consegnata “da sempre” nelle mani della Chiesa. Un anno dopo la prima “legge sui poveri” venne promulgata a Venezia un’altra normativa. “Nell’aprile 1529 il Senato emana un provvedimento che spiega, nel preambolo i principali intenti del governo: assicurare un’assistenza ai poveri, aiutare i malati, dare il pane agli affamati, ma al tempo stesso non favorire il parassitismo di coloro che sono in grado di guadagnarsi da vivere con il sudore della fronte.”15 I mendicanti furono quindi distinti tra abili al lavoro, malati e inabili: i primi dovevano essere indirizzati al lavoro, gli altri dovevano ottenere i regolari aiuti ma non era permesso loro chiedere l’elemosina per le vie della città. Il nuovo provvedimento non attuò una riorganizzazione delle istituzioni caritative: i monasteri, gli ospedali e le confraternite continuavano a svolgere le attività di beneficenza in favore dei poveri ma significativo fu che, per quanto riguardava le autorità municipali, il problema dei poveri venne gestito dagli ufficiali sanitari, ciò confermava “il perdurare di un legame fra la politica 13 Ibidem, p.137. In seguito in alcuni ospizi non vennero più accolti i mendicanti provenienti da altre località. 15 Ibidem, p.140. 14 18 sociale nei confronti dei poveri e le preoccupazioni per l’igiene pubblica.”16 Sicuramente però, l’elemento che qui più ci interessa sottolineare, è che le iniziative che nelle varie città europee vennero intraprese nel corso della crisi tra il 1527 e il 1529, furono di carattere repressivo piuttosto che caritativo. Ritornando in Italia e in particolare al caso specifico di Venezia, quando la crisi passò, la operatività dei provvedimenti si affievolì; nel corso delle successive annate difficili vennero adottate misure analoghe. “Tuttavia proprio nel corso della crisi 1527-29 è avvenuto un sostanziale mutamento negli atteggiamenti psicologici, che, senza intaccare minimamente la tradizionale dottrina cristiana della carità, e conservando pienamente il principio dell’atto di carità individuale con il suo valore volontario, ha permesso al tempo stesso di mettere in moto un insieme di mezzi di carattere repressivo nei confronti dei poveri.”17 Le decisioni degli anni Venti del XVI secolo in merito alla riorganizzazione dell’assistenza dei poveri, possono essere considerate come il punto di partenza di una nuova politica sociale caratterizzata da livelli di sistematicità e pervasività dell’intervento pubblico del tutto inediti rispetto al passato. Le “leggi sui poveri” costituivano il banco di prova delle capacità politiche e amministrative degli stati di recente formazione nell’affrontare una povertà che non era più un fenomeno endemico o congiunturale, ma affondava le radici nelle trasformazioni stesse dell’economia.18 Per molti aspetti il dato più saliente è da ravvisare nelle condizioni di necessità che imposero ai pubblici poteri di attivare comunque, accanto alle azioni repressive nei confronti delle “classi pericolose”, forme nuove di protezione, pena il collasso dell’ordine sociale; le cause dell’insicurezza erano cambiate: ai fattori naturali e politici della dipendenza si erano aggiunti, ben più temibili, quelli economici e sociali. Come abbiamo in precedenza sottolineato, l’idea che i poveri dovessero essere rinchiusi, separati dalla società era sorta già alla metà-fine del XVI secolo, ma è soprattutto nel XVII secolo che si diffuse. Fu in questo periodo che in tutta Europa iniziò “la reclusione dei poveri in istituti che sono a un tempo ospedali, case di correzione e talvolta opifici.”19 Nel 1601 venne approvata in Inghilterra la prima Poor Law che, seppure sottoposta a continui emendamenti, rimase in vigore fino al 1834. Carità e ordine pubblico furono i 16 Ibidem, p.142. Ibidem, p.142. 18 A tal proposito si veda F. Girotti, Welfare state, Carocci, Roma, 2000. 19 J. P. Gutton, La società e i poveri, Mondatori, Verona, 1977, pp. 99-100. 17 19 principi guida di questa legge;20 essa manifestava il punto di riferimento dal quale far partire effettivamente le basi dell’assistenza pubblica: la chiesa e le istituzioni private caritatevoli non furono più le sole ad occuparsi della miseria e della povertà. Con questo non dobbiamo pensare che la beneficenza individuale fosse sparita, essa perdurò e perdurerà ininterrottamente fino ai nostri giorni. A partire dalla Riforma però, soprattutto nei territori a dominanza protestante, troveremo un predominio tendenzialmente crescente del settore pubblico e laico nella gestione della povertà. “La necessità che si impone in Europa in epoca moderna è quella di separare il povero dalla società, in quanto elemento asociale e pericoloso. La segregazione risponde anche ad una esigenza di tipo correttivo, tende a creare le condizioni del reinserimento del povero nella società. Il lavoro coatto, oltre ad una funzione sussidiaria di tipo economico, ha in primo luogo un significato morale. La severità con cui il lavoro viene imposto ai segregati mira a creare una nuova disciplina in coloro che ne erano completamente privi. Sembra che questa nuova politica si trovi in sintonia con l’etica protestante del lavoro sempre più diffusa nelle regioni in via di industrializzazione”.21 Anche in Italia, fortemente cattolica invece, si levarono atteggiamenti di ostilità nei confronti dei mendicanti, tanto che verso questi e i vagabondi venne adottata prevalentemente una politica repressiva influenzata, per la maggior parte, dal programma controriformista di miglioramento della vita cristiana. Il vagabondaggio e la mendicità violavano l’ordine interno della divisione dei ruoli sociali, creavano aree che sfuggivano alla “polizia”, generavano inquietudini, incertezze e minacce per l’ordine pubblico. La mendicità si presentava come una condizione contraria ai costumi cristiani ma anche come una violazione delle norme di convivenza sociali, come un elemento di pericolo sociale.22 Soprattutto però, nei paesi che imboccavano la via dello sviluppo capitalistico, la reclusione dei poveri in generale e dei mendicanti in particolare, era legata ad una affermazione dimostrativa dell’ethos del lavoro ma anche all’evoluzione della moderna dottrina penale.23 20 M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storico-sociale”, in P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di ), Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 38. 21 Ibidem, p. 41. 22 B. Geremek, La pietà e la forca, Laterza, Bari, 1995, p. 220. 23 Anche se già alla fine del medioevo si osservano le condanne alla prigione, è solo alla fine del secolo XIX che in Europa si comincia a trattare la prigione come pena, o persino come base di tutto il sistema penale. M. Foucault in Sorvegliare e punire (1975), ha dimostrato quanta importanza ebbe questo mutamento nella tecnologia del potere e nella concezione della “pena” e dell’”espiazione” all’interno della coscienza sociale. Prima però che la prigione diventasse un mezzo su vasta scala per la punizione 20 “La privazione della libertà e il lavoro coatto si uniscono in un embrione di politica socializzante e si rivolgono sia verso i delinquenti che verso i miserabili senza lavoro.”24 Ritorniamo ora a parlare della Poor Law del 1601 in Inghilterra: quest’ultima ebbe molta importanza non solo perché diede l’avvio dell’intervento pubblico, ma soprattutto perché diede sistematicità a quell’intervento. Imposto il divieto assoluto di mendicare e intensificando l’azione repressiva, anche attraverso la creazione di appositi corpi di polizia, questa legge prevedeva un ambizioso piano di istituzionalizzazione dei poveri. Agli indigenti privi di lavoro era fatto obbligo di sottoporsi ad un test di povertà, consistente nella verifica della disponibilità all’internamento in strutture residenziali, quale condizione per la fruizione dei soccorsi previsti, ma ciò che soprattutto interessa al nostro discorso è che l’intento di questa legge era anche di stabilire, con rigido metodo classificatorio, l’origine del bisogno assistenziale, in modo da consentire lo smistamento verso tre tipi diversi di istituzione. Per i poveri impossibilitati al lavoro, perché anziani, malati o disabili, era previsto il soccorso domiciliare con sussidi in denaro o il ricovero in ospizi di mendicità. I poveri validi dovevano essere avviati al lavoro per iniziativa delle workhouses, strutture che in assenza di lavoro esterno avevano il compito di organizzarlo all’interno, assumendo così tutti i tratti, più ancora che dell’opificio, di istituzioni totali dai severi caratteri disciplinari. Infine e qui torniamo al tema della nostra ricerca, i poveri cosiddetti “oziosi” che avessero opposto un rifiuto al lavoro erano destinati alla reclusione in case di correzione. Questa alternanza di punizione ed educazione dei poveri attraverso il lavoro proveniva dalla contemporanea riforma della carità; la costrizione al lavoro doveva realizzare i compiti di educazione socio-religiosa, si trattava di un’educazione al rispetto del lavoro, affermare l’ethos del lavoro e assicurarne la diffusione attraverso la paura, la minaccia e la violenza25; per cui il carattere spettacolarmente repressivo, assunto dall’assistenza dei delinquenti, L’Europa moderna l’aveva adoperata come strumento di realizzazione della politica sociale nei confronti dei mendicanti. 24 B. Geremek, La pietà e la forca, Laterza, Bari, 1995, p. 227. 25 Costringere i miserabili e gli oziosi a lavorare non era tanto una necessità economica, quanto soprattutto un dovere. La reclusione negli ospizi non solo permetteva l’insegnamento dell’ethos del lavoro, ma soprattutto permetteva di distinguere, in questo modo, i “veri poveri” da quelli che si fingevano tali per scansare la fatica di un lavoro regolare. “Solo i primi avrebbero accettato di finire in un ospizio, se le condizioni di vita al suo interno fossero state abbastanza raccapriccianti. Limitando così l’assistenza entro le mura di questi squallidi luoghi, non vi era più bisogno di alcun accertamento del reale stato di necessità. I poveri stessi avrebbero provveduto ad autoselezionarsi, giacchè soltanto coloro che non avevano altro mezzo per sopravvivere potevano rassegnarsi ad essere rinchiusi in questi istituti.” Zygmunt Bauman, Lavoro, consumismo e nuove povertà, Città Aperta, Troina, 2004, p. 30. 21 sociale nei tempi moderni, ebbe una sua funzione ideologica. Nel corso del XVIII secolo l’unione di repressione e carità, realizzata nel XVII secolo, divenne oggetto di una diffusa critica. La nuova “Legge sui Poveri” del XVIII secolo infatti, non solo ebbe come primo obbiettivo la diffusione dell’etica del lavoro, essa tracciava una netta linea di demarcazione “oggettiva” fra chi poteva essere convertito al rispetto dei principi dell’etica del lavoro e chi invece era assolutamente irrecuperabile e non poteva rendere alcun servizio alla società.26 L’assistenza sociale doveva isolare i vagabondi di mestiere, punirli come delinquenti con la prigione e separarli dai poveri che avrebbero dovuto ricevere invece aiuti organizzati e occupazione. Di qui la “reclusione dei mendicanti, nell’animo della gente dell’epoca, si associava alle iniziative carcerarie di vario genere: i mendicanti figuravano anche fra i delinquenti, deportati nelle galere.”27 Nonostante la tendenza nei confronti dei ceti “pericolosi” fosse stata prevalentemente di tipo repressivo, non dobbiamo pensare che il sentimento caritativo fosse del tutto sparito: infatti essa coesistette con un atteggiamento di attiva compassione verso i poveri che trovò un nuovo impulso nelle idee umanitarie dello stesso XVIII secolo. L’illuminismo, che stabiliva un legame fra progresso sociale e sentimento di solidarietà umana e che considerava l’istruzione di fondamentale importanza per superare gli ostacoli al progresso, vedeva la miseria come il risultato dell’ignoranza dei poveri e della mancanza di solidarietà dei ricchi28. La promozione di atteggiamenti protettivi si esprimeva soprattutto nello sviluppo delle scuole per bambini poveri. Si poneva l’accento soprattutto su una forma di beneficenza privata per il funzionamento delle scuole caritative e di altre forme di aiuto ai poveri. Questa coesistenza tra atteggiamento repressivo e atteggiamento caritativo la troveremo anche nei secoli successivi, fino ai nostri giorni29. 26 Z. Bauman, Lavoro, consumismo e nuove povertà, Città Aperta, Troina, 2004, p. 30. Ibidem, p. 240. 28 Thomas Paine a tal proposito scriveva: “C’è qualcosa di sbagliato nel sistema di governo quando vediamo che i vecchi vengono mandati nelle case di lavoro ed i giovani sulle forche. Le apparenze sembrano attestare in quei paesi una felicità completa, ma davanti agli occhi di un osservatore medio rimane celata una massa alla quale non rimane altro che morire di fame e di infamia. I miserabili entrano nella vita già marchiati dal preannuncio del loro destino; non si deve punirli, finchè non verranno adottate misure preventive contro la miseria.” 29 “Studiando (…) le motivazioni dei comportamenti umani e le manifestazioni dei sentimenti (e non i sentimenti stessi), lo storico può constatare che certi comportamenti e sentimenti riscuotono in alcuni periodi un maggiore consenso sociale degli altri, che esistono cioè <addensamenti> e <diluizioni> sui generis nelle loro manifestazioni. (…) Il sentimento di carità, l’aiuto ai poveri, la pietà verso gli infelici ed i bisognosi, sembrano essere valutati positivamente in modo duraturo nella civiltà europea. Malgrado questo, alle soglie dell’età moderna la forca ha steso la sua ombra su quei sentimenti.” In B. Geremek, La pietà e la forca, Laterza, Bari, 1995, pp. 263-264. 27 22 1. 2. I cambiamenti del XIX e del XX secolo Nell’Ottocento il divario che già cominciava a istaurarsi tra povertà e mendicità si fece sempre più profondo. La povertà continuava a rimanere una dimensione costitutiva delle classi popolari, ma certi suoi attributi (volontarietà, abitualità a condotte antisociali) saranno specifici solamente delle sue forme estreme: ozio, vagabondaggio, accattonaggio. La linea di confine tra poveri meritevoli e poveri non meritevoli, tra classi lavoratrici e classi pericolose, tra povertà operose e povertà oziose, ereditata dall’epoca moderna, si venne quindi ad approfondire.30 Se la presa di coscienza della società civile nei confronti della miseria aveva portato nel XVIII secolo alla formazione di una politica sociale dello stato che si realizzava come tendenza a formare un sistema statale dell’assistenza oppure come controllo dello stato sulle istituzioni caritative, nel XIX secolo esso venne limitato nel nome della dottrina del liberalismo. Un atto deliberato nel 1834 dal parlamento inglese ad esempio, denominato “nuova legge sui poveri”, manifestò la piena vittoria del principio di assoggettamento dell’assistenza sociale agli interessi del mercato del lavoro: gli aiuti ai poveri erano considerati controproducenti, se offrivano la possibilità di vivere senza lavorare, per cui nelle case di lavoro vigeva una disciplina carceraria, quale strumento di intimidazione. La politica dell’assistenza sociale doveva essere limitata al minimo. Il povero accettato socialmente era l’individuo che lavorava e, se privo di lavoro, lo doveva essere temporaneamente e non per propria scelta. “Lavorare o perire”31! L’assistenza pubblica si occuperà, attraverso i vari ricoveri di mendicità, soltanto di coloro inabili al lavoro, gli abili al lavoro verranno destinati al carcere. Istituzionalizzazione e criminalizzazione. Una società che fondava le sue radici sul lavoro non poteva permettere la vista dell’ozioso, del vagabondo, di colui che vive di elemosina, oltre ciò chi non lavorava sfuggiva al controllo, non era sorvegliato né soggetto a una routine meccanica imposta attraverso sanzioni: la fabbrica. Il collegamento fra miseria e questione operaia venne sempre più specializzandosi o meglio, all’interno della categoria dei miserabili si vennero sempre più a creare delle sotto-categorie. Il mendicante, il vagabondo non poteva più essere equiparato all’operaio. Sempre più si venne delineando un modello di cittadinanza fondato sulla 30 M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storico-sociale”, in P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 43. 31 Z. Bauman, Lavoro, consumismo e nuove povertà, Città Aperta, Troina, 2004, p.28. 23 quasi totale coincidenza dello status di lavoratore con quello di cittadino. Nell’Europa Occidentale, dopo la seconda guerra mondiale, quasi tutti gli individui arrivarono ad essere coperti da sistemi di protezione la cui storia sociale mostra che nella maggior parte dei casi furono costruiti a partire dal lavoro32 (pensiamo ad esempio alla pensione). Le prime leggi sulla previdenza sociale per i lavoratori che furono varate in Germania da Bismark tra il 1883 e il 1889, diedero infatti il via ad un sistema di protezione in cui l’accesso era permesso solo ai lavoratori salariati, sistema che nel corso del ‘900, si estenderà a sempre più vaste categorie di bisogni e di rischi. L’assistenza invece divenne sempre più residuale: essa doveva essere circoscritta a quanto rappresentava un puro “stato di bisogno” e comunque suppletiva ed ausiliaria rispetto ad altre forme di intervento (privato-caritativo, famiglia). Una persona veniva assistita quindi solamente se poteva provare il suo “stato di “bisogno” e se non vi era altra persona della famiglia o istituzione privata che la poteva soccorrere. Per determinare lo “stato di bisogno” del soggetto, venne istituita una complessa rete di controllo finalizzata a distinguere il vero indigente da colui che non era ritenuto tale, il povero invalido dal povero valido, quello meritevole da quello non meritevole.33 Se da un lato si andava sempre più sviluppando una forte coscienza di classe degli operai, dall’altra i mendicanti, i vagabondi, coloro che non vivevano del lavoro salariato, divennero sempre più “esclusi”34, tanto che le organizzazioni caritative stesse vennero sempre più trattate con crescente ostilità. Il mendicante venne sempre più visto come il responsabile della propria condizione anteponendo l’ozio al lavoro, rifiutando i valori comuni, assumendo comportamenti anti-sociali, pertanto venne ritenuto inutile e per di più pericoloso. Ritornando alla seconda metà dell’800, ricordiamo l’importanza che ebbe il contributo della scienza medica, e di quella psichiatrica in particolare, per classificare e definire i poveri oziosi: una diversità nei e dei comportamenti, rivelava una diversità organica. “Poveri, folli, vecchi e degenerati presentano tutti dunque uno sviluppo organico minore di quello degli agiati, dei normali, dei sani”35. L’instabilità, l’irrequietezza, l’incapacità 32 R. Castel, L’insicurezza sociale, Einaudi, Torino, 2004, p.29. M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storico-sociale”, in P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 48. 34 “ < Gli esclusi> non sono collettivi, ma collezioni di individui, i quali non hanno in comune nient’altro che la condivisione di una stessa mancanza. Essi sono definiti su una base unicamente negativa, come se si trattasse di elettroni liberi, completamente desocializzati.” In R. Castel, L’insicurezza sociale, Einaudi, Torino, 2004, p. 48. 35 A. Niceforo, Antropologia delle classi povere, Vallardi, Milano, 1908, p. 211. 33 24 nei confronti di qualsiasi attività di tipo continuativo e metodico, caratteristiche che spesso erano presenti nel vagabondo, rivelavano anche una deficienza organica. L’antropologia criminale e la sociologia criminale di impronta positivista, favorirono l’emergenza dell’immagine di un mondo a parte cui vennero riservati un trattamento a parte e delle istituzioni separate (manicomi, carceri…). In questo senso la scuola positiva italiana darà un importante contributo: non era sufficiente studiare il “delitto” quale l’ozio, il vagabondaggio, l’accattonaggio, ma occorreva prendere in esame il “delinquente”, quindi l’ozioso, il vagabondo, l’accattone in quanto nell’individuo medesimo venivano individuati “i caratteri biopsichici” del delitto36; l’esigenza di definire una realtà sociale all’apparenza imprevedibile e priva di contorni, trovava quindi nell’approccio della scuola positivista importanti risposte, in particolare che i segni della pericolosità sociale erano iscritti nel corpo e nella mente della persona e che determinate condotte di vita di tipo antisociali, quali l’ozio o vagabondaggio, erano l’espressione di uno stato patologico. “Ciò che informa in Europa l’istituzione di nuove forme di trattamento della povertà nel corso del XIX secolo, e la relativa legislazione, è il concetto di <pericolosità sociale>, la minaccia all’ordine. (…) Il vagabondaggio, la mendicità, l’ozio, sono ancora la metafora di un mondo capovolto che vagando di luogo in luogo minaccia di contaminare l’intero territorio.”37Da qui l’imposizione al vagabondo di “fissare stabilmente la propria dimora”, l’internamento del mendico nel ricovero di mendicità, l’imposizione all’ozioso di un lavoro. Alla fine dell’800, si assistette ad una sempre maggiore ingerenza dello Stato nella beneficenza , ad un rafforzamento della responsabilità degli amministratori locali, ad un accrescersi di controlli. La distinzione tra poveri meritevoli e poveri non meritevoli, da tempo presente nella normativa di tutti i paesi europei, divenne sempre più rigida e venne perseguita nelle pratiche di intervento istituzionali.38 Il lavoro che nell’arco di tutto l’800 occupava un posto centrale ed era la base delle pratiche di intervento assistenziale, costituiva un elemento moralizzatore, ma nel corso del ‘900, questa volontà di ricostruire un “ordine morale” venne abbandonata e gli istituti di ricovero e accoglienza 36 “Gli antropologi e gli alienisti si accordano nel notare che degenerati d’ogni sorta sono numerosissimi tra i vagabondi e i mendicanti e che l’inferiorità fisica e mentale di costoro non è soltanto l’effetto dell’ambiente in cui essi vivono od hanno vissuto, ma anche, o assai spesso, l’espressione di tare congenite.” In A. Niceforo, Antropologia delle classi povere, Vallardi, Milano, 1908. 37 M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storico-sociale”, in P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995, pp. 52-53. 38 Ibidem, p. 53. 25 rimasero sempre più solamente luoghi di contenimento per sottrarre allo sguardo pubblico l’indigenza. Dunque, l’imponente tentativo di disciplinare e di mettere al lavoro gli “oziosi e vagabondi”, o comunque di neutralizzare il potenziale eversivo, avviatosi in tutta Europa, è potuto proseguire in evo moderno, solo grazie a determinate costruzioni concettuali che consentissero, in un quadro giuridico formalmente egalitario, di stigmatizzare come pericolose socialmente le esistenze e gli stili di vita non sufficientemente “ordinati” e “laboriosi” delle classi marginali. Infatti è possibile sostenere che il principale compito del sistema di controllo penale moderno fu non una semplice risposta alla criminalità, bensì il governo delle classi subalterne, proprio perché esso fu dotato, sin dalla sua origine, di un insieme di meccanismi polizieschi che, anziché colpire l’infrazione di una norma o la lesione di un bene giuridico, erano in grado di sanzionare un complesso stile di vita. In questo contesto, i flussi di forza lavoro diretti verso i nuovi agglomerati industriali, poterono essere disciplinati e costretti ad accettare le condizioni di lavoro e di vita che la struttura sociale offriva loro. Quanti manifestavano una conflittualità più o meno esplicita, rifiutando la rigida disciplina impostagli, potevano essere sanzionati anche del tutto indipendentemente dalla commissione di un reato, sul presupposto che l’ozio, il vagabondaggio, la disoccupazione e la povertà, fossero in sostanza il luogo di coltura di tutti i peggiori mali per una società civile ed ordinata. Grazie quindi ai pervasivi strumenti di criminalizzazione della miseria, sorretti da una concezione stigmatizzante della povertà, si riuscì a disciplinare e governare il proletariato in formazione. Questa realtà perdurò fino a tutto il XIX secolo ed ancora nei primi decenni del XX secolo, fintanto che prevalse una certa visione liberista dello Stato e dei rapporti sociali. A metà Novecento, con il diffondersi invece dell’idea che lo Stato avrebbe dovuto farsi carico di tutta una serie di funzioni di assistenza nei confronti del mondo della “marginalità sociale” ed, in particolare, dell’idea che la povertà e l’emarginazione non fossero tanto il frutto di una deficienza dell’individuo cui rispondere severamente per mezzo dell’intervento penale, ma piuttosto il portato di ragioni strutturali su cui si aveva il dovere di intervenire con adeguati strumenti di compensazione degli squilibri sociali, il ruolo riservato alle agenzie penali venne progressivamente restringendosi. La struttura delle società del XX secolo fu progressivamente più aperta rispetto all’integrazione politica e sociale delle masse popolari, anche perché tanto il livello di benessere, che le capacità del sistema produttivo di assorbire manodopera si andarono amplificando notevolmente. In tutto ciò 26 anche l’immagine del povero venne mano a mano modificandosi: da pericoloso attentatore dell’ordine sociale, divenne sempre più un soggetto bisognoso di aiuto. Ad oggi però, possiamo ipotizzare che la nostra struttura sociale possa assomigliare sempre più pericolosamente alle società del XIX secolo. Lo Stato abbandona le sue funzioni di assistenza, pretendendo di rendersi più “snello”, mentre quella cittadinanza sociale “conquistata” nel corso del XX secolo crolla sempre più rapidamente facendo ricomparire livelli di disuguaglianza sociale che si credevano scomparsi. “Studi recenti evidenziano le correlazioni sussistenti tra l’esclusione sociale e le profonde trasformazioni economiche che attraversano le società industriali. (…) Nella seconda metà degli anni settanta la società salariale, che ha conosciuto il suo apogeo nei trent’anni consecutivi alla seconda guerra mondiale, entra in crisi nel momento in cui si affacciano e si diffondono nuove forme di precarietà e aumenta massicciamente la disoccupazione di lunga durata. Il lavoro risulta sempre meno protetto e un numero crescente di persone perde i supporti che ad esso erano tradizionalmente legati (…). Queste stesse persone perdono simultaneamente anche una posizione sociale e i punti di riferimento per la costruzione della propria identità.”39 Nascono, nelle nostre metropoli, nuove forme di povertà40 che non necessariamente rappresentano la fascia più bassa di povertà. La povertà urbana estrema può essere definita come “Una sequenza di rotture biografiche che interessano sia la personalità che il tessuto sociale”41 e la “decomposizione ed abbandono del sé, cioè il carattere distintivo della povertà urbana estrema, è connessa con il decisivo, ma progressivo, ritiro che l’individuo estremamente povero porta a termine nei confronti del mondo esterno, della propria famiglia, degli amici.”42 E’ da questa definizione che bisogna partire per poter “comprendere”. E’ da questa definizione che dovrebbe muoversi il sistema assistenziale. Oggi la risposta alla domanda “perché un individuo è povero , nelle società occidentali, sembra dunque richiedere una nuova prospettiva, poiché non è esauriente rispondere : perché nasce povero; e neppure pare adeguata la risposta : perché ha meno chance. Il problema (…) è che dare chance a chi non le sa usare o non le vuole usare è una risposta, tutta borghese e welfaristica, che presuppone che l’omologazione abbia penetrato la barriera del 39 M. Bergamaschi, “Emergenza di una nozione: l’esclusione come paradigma della coesione sociale. Dalla povertà alla società duale”, in TRA, n. 3, 1999. 40 “(…) pluralità di forme differenziate di povertà distribuite sul territorio”, P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 12. 41 Ibidem, p. 12. 42 Ibidem, p. 13-14. 27 sistema della personalità di tutti e che tutti siano pronti a correre”43. Occorre quindi per primo osservare e poi affrontare il problema da un’altra prospettiva. 43 G. Pieretti, “Dalla povertà ai poveri: processi culturali e implicazioni di senso”, in P. Guidicini, G. Pieretti (a cura di), Le residualità come valore, FrancoAngeli, Milano, 1993, p. 38. 28 2. LA MENDICITA’ NELLA LEGISLAZIONE ITALIANA NEL XIX E XX SECOLO Nell’Italia della prima metà del secolo XIX mancavano le condizioni per una drastica rottura del sistema assistenziale ereditato dalla società tradizionale. Al ritardo nel processo di sviluppo e di industrializzazione, faceva riscontro un più generale ritardo delle dinamiche di modernizzazione, a cominciare dalla sfera religiosa e culturale. Un paese che non aveva conosciuto la Riforma protestante, sperimentando piuttosto la continua azione di contrasto condotta dalla Controriforma per neutralizzare le valenze politicamente più dure del processo di secolarizzazione, non poteva che disporsi, in ambito assistenziale, ad una lunga convivenza con il privato-religioso. Anche in Italia però, la “linea di confine tra poveri meritevoli e poveri non meritevoli, tra classi lavoratrici e classi pericolose, tra povertà operose e povertà oziose, ereditata dall’epoca moderna”44 venne ad approfondirsi. Già in uno scritto del 1834, dal titolo “Qualche cenno sulla mendicità e sui mezzi per estirparla”45, l’autore dopo aver descritto la mendicità “quale piaga schifosa del corpo sociale, produttrice di una enorme congerie di mali” 46 e il mendicante quale “essere utile a nessuno”47, citando un economista italiano del tempo, provò ad identificare le cause della povertà. Il fatto che le cause fossero tra loro diverse, portò necessariamente a creare delle categorie di poveri differenti tra loro. Le ragioni della povertà vennero attribuite: 1. alla mancanza di forze fisiche o intellettuali; 2. al difetto d’impiego delle forze per mancanza di lavoro, di capitali o di credito; 3. alla mancata corrispondenza tra lavoro e guadagno; 4. alla mancanza di volontà. Accanto alle cause di tipo strutturale-sociale, quali la mancanza di lavoro che a sua volta creava (e crea ancora) una mancanza di capitale e di credito, e la mancata corrispondenza tra lavoro e guadagno, troviamo due cause di tipo strettamente personali: l’inabilità fisica e intellettuale che non permetteva l’accesso al mondo del lavoro e quindi metteva la persona in uno stato di povertà e la mancanza di volontà, 44 M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storico-sociale”, in P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 43. 45 G. Pomba, Qualche cenno sulla mendicità e sui mezzi per estirparla, Torino, 1834. 46 Ibidem, p.7. 47 Ibidem, p.20. 29 volontà di lavorare per preferire una vita dedita all’ozio. Fu proprio questa causa a definire la “categoria”48 dei poveri oziosi, quali vagabondi, accattoni, mendicanti; sostantivi che avevano quindi tutti un’accezione profondamente negativa. Pensiamo quanto sia distante ormai questa immagine da quella presente nella civiltà medioevale che aveva celebrato la povertà come una virtù e il povero che concorreva alla redenzione degli uomini ricchi che facevano l’elemosina, come vicarius christi. L’elemosina stessa, dall’età moderna in poi venne fortemente criticata: essa non faceva altro che fomentare l’ozio. Nel “Codice Penale sardo-italiano” del 1859 si ritrovavano richiami ad una lettura punitiva della mendicità secondo criteri di equità ed umanità. Difatti, dalla considerazione che la mendicità punibile “non si fonda su una necessità flagrante”, ma è tale in quanto “conseguenza dell’infingardaggine e della scioperatezza” si perviene ad interpretare successivamente anche le disposizioni contenute nel codice Zanardelli dove si enunciava che la legge voleva punire “la mendicità colpevole e viziosa” e non “quella che un estremo bisogno autorizza e la pietà assolve”. La distinzione tra mendicanti validi ed invalidi, ai fini della punibilità, nonostante venga abbandonata, come vedremo, nel codice Rocco, sarà presente anche in legislazioni più recenti. Ritornando al codice del 1859, è significativa la collocazione data alla mendicità, nell’abito del Tit. VIII, Lib. II, “Dei reati contro la pubblica tranquillità”, il cui Capo III era così formulato: “Degli oziosi, vagabondi, mendicanti, ed altre persone sospette”. Seguiva conseguentemente, ai sensi dell’art. 447, la considerazione dei mendicanti validi, al pari degli oziosi e vagabondi, quali “persone sospette”, mentre la punibilità della condotta veniva espressamente prevista agli artt. 442 s., secondo l’enunciato: “Niuno potrà andare pubblicamente questuando… salve le speciali disposizioni della legge di Pubblica sicurezza”. Queste ultime, oggetto della legge 20-31865, agli artt. 67 s., prevedevano tra l’altro che gli individui “non validi al lavoro” e sprovvisti di mezzi di sussistenza, ricevessero dall’Autorità municipale un certificato di indigenza ed inabilità al lavoro, certificato che, con il visto dell’Autorità politica, sarebbe valso “come permesso di mendicare”; per cui la mendicità veniva sì tollerata (solo per coloro però inabili al lavoro), ma diventò oggetto di una licenza specifica, per cui divenne oggetto di controllo. Controllo che costituiva una forma di tutela dell’ordine e allo stesso tempo un segno visibile del degrado della persona, un’etichetta. Con la legge N. 5888 del 23/12/1888 sulla Pubblica sicurezza invece si arrivò alla generale 48 “Sono finalmente poveri per volontà tutti coloro che preferiscono scroccare accettando e fingendo malattie o disgrazie immaginarie anziché faticare onoratamente per guadagnarsi il pane”. In Ibidem p. 13. 30 proibizione della mendicità e quindi all’abolizione del permesso di mendicare. Attraverso questa legge si imponeva all’autorità di pubblica sicurezza l’invio dell’indigente, inabile al lavoro, al ricovero di mendicità49. Il ricovero obbligatorio, per ordine dell’autorità pubblica, divenne l’auspicato rimedio contro la mendicità. Gli inabili al lavoro erano considerati coloro che, per infermità cronica o per gravi difetti fisici o intellettuali, non potevano provvedere alla propria sussistenza. Era l’ autorità amministrativa di polizia che, mediante visita medica, si accertava ufficialmente delle infermità e dei difetti gravi. Negli stessi anni veniva pubblicato il Nuovo Codice Penale secondo il quale le persone abili al lavoro sorprese a mendicare dovevano essere punite con l’arresto; essa in particolare mirava a punire, così si legge nella Relazione Ministeriale del 22-11-1887, l’ “improba mendicità, poiché in essa l’ozio non solo costituisce un fatto concreto (…) ma riesce colpevole e dannoso”. Nell’ambito della dottrina si era così configurata come mendicità punibile l’ “abito di mendicare”, ossia il vizio della mendicità in chi fosse “abile al lavoro”. Per cui in questa prospettiva, pur se sulla base della norma citata era sufficiente l’essere colto a mendicare, si poteva sostenere, anche attraverso l’integrazione delle disposizioni presenti negli art. 80 e seguenti della legge di pubblica sicurezza n. 6144 del 30-6-1889, che lo scopo del legislatore fosse la repressione dell’ “accattonaggio di professione” esercitato in pubblico50. L’abilità al lavoro dunque definiva un diverso trattamento: il carcere per gli abili, il ricovero di mendicità per gli inabili. Si cominciò così a delineare un nuovo profilo delle politiche di intervento: “l’istituzione di strutture di accoglienza specializzate quali luoghi di ricovero obbligatorio per quella popolazione sospetta di turbare l’ordine.”51 Ciò che informò quindi l’istituzione di nuove forme di trattamento della povertà e la relativa legislazione, era il concetto di “pericolosità sociale”, la minaccia all’ordine. Con il nuovo codice penale del 1889, che rimarrà in vigore fino al 1930, non si attribuì più rilevanza penale al vagabondaggio. Il fenomeno venne relegato 49 “Se il comune o l’Istituto non sono in grado di provvedere in tutto o in parte, le spese saranno a carico dello Stato. La medesima legge stabilì che, ove non esistesse un ricovero di mendicità, era comunque illecito mendicare ed il ricovero doveva compiersi in un altro comune e la spesa era da accollarsi ad enti vari. La legge poi prevedeva che coloro i quali non abbiamo nessuno che a loro provveda, o che non abbiano mezzi propri di sussistenza, non siano abili o capaci di svolgere un lavoro proficuo, dovranno essere ricoverati in un istituto di assistenza.” M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storico-sociale”, in P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 44. 50 Digesto – Discipline penalistiche, vol. VII, Utet, Torino, 1993. 51 M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storico-sociale”, in P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 44. 31 fra i cosiddetti “illeciti di polizia” e non riceverà più una considerazione unitaria, infatti accanto alla condotta pura e semplice del vagabondare, il legislatore individuò una più grave ipotesi di vagabondaggio sulla quale sarebbe scattata l’applicazione di più gravi misure di prevenzione, essa si esplicava nel momento in cui venisse accertata la “pericolosità” del soggetto vagabondo “per la sicurezza pubblica e per la pubblica moralità”. Il vagabondaggio, quindi, divenendo materia di polizia, venne affrontato con provvedimenti differenziati e differenzianti52: i vagabondi, quando non incorrevano in un reato, ad esempio la mendicità, potevano essere colpiti come persone socialmente, ma non criminalmente, pericolose. La pericolosità poteva essere criminale quando al fatto del vagabondaggio si aggiungeva qualche reato. Il sistema di polizia aveva comunque una “funzione di governo delle classi pericolose”53. L’intervento preventivo sui “pericolosi”, sui sospetti, costituirà come già in passato una tecnica di controllo sociale tutt’altro che marginale e varrà a distinguere un duplice livello di legalità al suo interno: un codice per “galantuomini” e uno per “birbanti”54. L’efficacia dei meccanismi preventivi non è quindi da sottovalutare in quanto, se pure rinunciano ad uno intervento diretto attraverso la reclusione, l’insieme di prescrizioni connesse all’adozione di un provvedimento di polizia come l’ammonizione, può essere stringente a tal punto da rendere impossibile al soggetto colpito l’evitare la contravvenzione. Il giudice disponente poteva, per esempio, ordinare “all’ozioso e vagabondo il darsi in un termine conveniente al lavoro, di fissare stabilmente la propria dimora facendola conoscere nel termine stesso alla locale Autorità di P.S. che dovrà pure essere preventivamente avvisata se la dimora sia per essere abbandonata o mutata. Dovrà inoltre l’ammonito non associarsi a persone pregiudicate, non ritirarsi la sera più tardi e non uscire al mattino prima dell’ora prescritta, di non trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole o case di prostituzione”55. Come si può notare si spazia da precetti generalmente morali, quasi dei comandamenti, come quello di non frequentare “osterie, bettole o case di prostituzione”, a prescrizioni che impongono un inquadramento disciplinare all’ “ozioso e vagabondo”. Al centro dell’intervento vi era comunque la minaccia di turbamento di un ordine; ordine che poteva essere mantenuto attraverso la reclusione , 52 M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storico-sociale”, in P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 52. 53 M. Sbriccoli, “Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano”, in Storia d’Italia, annale n.14, 1997, Torino, p. 490. 54 Ibidem, p. 489. 55 M. Rebora, “Oziosi e vagabondi”, in Enciclopedia Giuridica italiana, XII, 1915, p. 1301. 32 l’istituzionalizzazione, il controllo totale. Negli ultimi decenni dell’800 infatti, si assistette ad una continua e maggiore ingerenza dello Stato nella beneficenza in quanto la beneficenza privata, laica o legata alla Chiesa (quest’ultima maggioritaria rispetto alla prima), che cercava di provvedere ai bisogni dei “poveri” in generale, con numerose istituzioni di soccorso, non si poneva il quesito delle riforme necessarie per eliminare o almeno comprimere il “problema”; di pari passo all’accentuarsi dell’ingerenza dello Stato nelle Istituzioni di beneficenza si intensificò e si espandette una collaterale attività dello stesso in ambiti in precedenza coperti da istituzioni religiose. Così se da una parte le funzioni di assistenza furono accentrate tutte nelle mani dello Stato, dall’altra l’assistenza si decentrò a livello comunale: la legge n. 6972 del 17-7-1890 infatti, sancì un controllo dello Stato su tutte le attività assistenziali, un tempo private, definendole “istituzioni pubbliche di assistenza” e sottoponendole alla sorveglianza del Ministero dell’Interno; la stessa legge però istituì in ogni Comune una “Congregazione di carità” cui spettava il compito di curare gli interessi dei poveri. La distinzione tra poveri meritevoli e poveri non meritevoli, presente da tempo nella normativa di tutti i paesi europei, divenne sempre più rigida e venne perseguita nelle pratiche di intervento istituzionali.56 Dunque, nella legislazione italiana di fine Ottocento e inizio Novecento gli elementi che concorrevano a definire l’immagine del mendicante erano l’ozio, l’abitudine all’ozio, la mancanza di mezzi leciti di sussistenza, l’assenza di una dimora fissa: una condotta di vita quindi asociale o antisociale, condotta che minacciava e turbava un ordine esistente (?), diremmo meglio, auspicato. 2.1. Il Codice Rocco: fine delle distinzioni La scuola positiva, durante il dibattito sulla preparazione del nuovo codice, criticò le leggi che avevano preceduto il codice Rocco, in quanto nonostante la mendicità, il vagabondaggio e l’ozio, siano stati fenomeni sociologici-giuridici che hanno interessato tutte le legislazioni, “sono mancati dei criteri scientifici, universalmente accettati, tali da creare un provvido sistema di intervento delle leggi dello Stato, a prevedere e, soprattutto, a prevenire simili forme di attività e di inerzia individuale. L’empirismo più 56 M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storico-sociale”, in P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995 , p. 52-53. 33 assurdo ed un preteso relativismo ambientale, il più inopportuno ed ignaro, hanno portato i legislatori o all’indifferenza o alla confusione repressiva, o ad artificiose distinzioni, sottoponendo, come in Italia si è costumato, la sola mendicità improba o non legale al codice penale, l’ozio e il vagabondaggio al codice di polizia.”57 La distinzione tra gli abili e gli inabili al lavoro ai fini della punibilità venne infatti abbandonata nel codice Rocco, in quanto, lasciando alle leggi di pubblica sicurezza di provvedere agli inabili, il legislatore nel 1930 operò la scelta di reprimere comunque la mendicità “in luogo pubblico o aperto al pubblico”, così l’articolo 670 del codice penale prevede che “chiunque mendica in luogo pubblico o aperto al pubblico è punito con l’arresto fino a tre mesi.” La norma di cui all’articolo 670 quindi non richiede più, ai fini della sussistenza del reato, l’abitualità nell’accattonaggio: essa punisce anche chi mendica una sola volta. “Il mendicare consiste nell’eccitare, in luogo pubblico o aperto al pubblico, con fatti concludenti o con dichiarazioni, l’altrui sentimento di carità, cioè come si legge dal comma 2 dell’art. 670, l’altrui pietà. Non occorre perché il reato si consumi ottenere l’elemosina, è sufficiente, invece, una condotta diretta a questo scopo, caratterizzata dal fine ultimo di provvedere ai bisogni propri ed eventualmente a quelli della propria famiglia.”58 Proprio considerando il fine, alcuni autori distinguono la mendicità dalla questua e dalla colletta; distinzione che è ben precisa nel vigente diritto canonico, nel quale invece la mendicità non è considerata un illecito penale; in questo sistema normativo, infatti, si puniscono la questua e la colletta quando esse sono state poste in essere senza il consenso della Santa Sede perché, a differenza della mendicità che viene realizzata per un fine esclusivamente privato, esse sono realizzate pro quolibet pio aut ecclesiastico fine.59 Nell’articolo 154 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza viene ribadito il divieto di mendicare in luogo pubblico o aperto al pubblico senza eccezione alcuna, per nessun motivo. La stessa legge invece ammette la legittimità delle questue organizzate dalla Chiesa ( non è mendicante nemmeno il religioso appartenente ad un ordine “mendicante” che va in giro chiedendo l’elemosina per il mantenimento dei religiosi o per le opere dell’ordine) e l’autorizzazione amministrativa per la raccolta di fondi o di oggetti per scopi patriottici o scientifici o di beneficenza e sollievo dei pubblici infortuni (soprattutto in queste parole possiamo intravedere una matrice di solidarietà popolare). Quindi si può organizzare una questua 57 S. Cicala, “Mendicità, vagabondaggio ed ozio nel diritto pubblico italiano ed estero”, in La scuola positiva, vol. X, 1930. 58 Così Salvatore Panaria in Enciclopedia del diritto, vol. XXVI, Giuffrè. 59 Sul punto si veda Del Giudice, Nozioni di diritto canonico, Milano, 1970, 427. 34 pubblica per i poveri, chiedere l’elemosina per impedire che esistano i mendicanti, ma non si può mendicare per se stessi! Rimane anche esclusa dal divieto di mendicare la richiesta di aiuto in stato di necessità imperioso e, per questo, considerato temporaneo. Lo “stato di necessità imperioso” viene inteso come momentanea e urgente mancanza dei mezzi primari di sopravvivenza : cibo; necessità quindi urgente ma che non può protrarsi per un lungo periodo. Lungo periodo che non può essere accettato in quanto lo Stato, con la sua presenza sempre più massiccia, sembra che sia riuscito ad “includere” una quantità sempre maggiore di “categorie” di bisognosi, per cui chi è escluso lo è perché si auto-esclude con stili di vita non idonei alla “moralità “ dello Stato stesso. La legge infatti prevede poi che coloro i quali non abbiano nessuno che a loro provveda (nella legge: “i parenti tenuti agli alimenti”), non abbiano mezzi propri di sussistenza, non siano abili o capaci per nessun lavoro, debbono essere ricoverati in un istituto di assistenza o di beneficenza: il ricovero di mendicità o qualsiasi altro istituto per gli invalidi. E’ la stessa autorità amministrativa di polizia che, mediante visita medica dell’ufficiale sanitario comunale, si accerta ufficialmente dell’infermità e dei difetti gravi (fisici o intellettuali) che non permettono di “procacciarsi i mezzi di sussistenza”. Il ricovero obbligatorio in un istituto per ordine dell’autorità pubblica è considerato quindi il rimedio contro la mendicità. Quindi ancora reclusione, quindi ancora controllo. Coloro invece che, non avendo né infermità, né difetti gravi, non potendo essere dichiarati inabili al lavoro, debbono procacciarsi i mezzi di sussistenza con il lavoro, o con altre misure assistenziali quali il sussidio di disoccupazione che comunque dipende dall’aver svolto un lavoro, l’assegno di invalidità civile, la pensione di invalidità o la pensione di vecchiaia. O si lavora, o si appartiene ad una “categoria” ben precisa per poter avere assistenza. E se non si appartiene a nessuna “categoria” di bisogno, perché non si lavora? Il mendicante abile al lavoro viene quindi in primo luogo visto come colui che preferisce l’ozio al lavoro e per questo pericoloso60 in quanto anti-sociale soprattutto nel momento in cui il lavoro diviene il fattore principale di integrazione61 ( in particolare dal secondo dopoguerra). L’ozioso quindi è un désaffilié, fa parte di 60 Ricordiamo il Titolo VI del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza nel quale è contenuto l’articolo 154 sui mendicanti è “Disposizioni relative alle persone pericolose per la società” di cui al Capo I “Dei malati di mente, degli intossicati e dei mendicanti”. 61 R. Castel, L’insicurezza sociale, Einaudi, Torino, 2004. 35 quella categoria che Castel definisce dei “soprannumerari”62, ovvero individui ai quali non viene riconosciuto alcun posto nella struttura sociale. Il mendicante è una persona pericolosa per la società, lo è al pari del malato di mente, del tossicodipendente, dell’alcolista (così nel titolo IV del t.u.l.p.s.)63 e proprio per questo non può essere tollerato. La sua pericolosità è insita nella sua diversità, diversità che fa paura in quanto mette in crisi l’ordine esistente, rappresenta un punto interrogativo, ci dice che, nonostante tutto sembra andare bene, forse non è così. Istituzionalizzando queste persone, si ha la possibilità di controllarle, di prevedere ciò che poteva sembrare imprevedibile. Il ricovero obbligatorio per il mendicante quindi permette la separazione tra il così detto mondo dei “normali” e un mondo altro, tremendamente negativo. Il ricovero è necessario per non rendere visibile un fenomeno scomodo, sconcertante. Le istituzioni infatti “sono artifici, protesi, puntelli esterni, macchine per pensare e prendere decisioni, cui gli uomini affidano il compito d’esonerarli/alleggerirli dal peso dell’apertura al mondo (…).Esse producono securizzazione definendo il giusto e l’ingiusto, l’amico e il nemico, presidiando il dentro rispetto al fuori, l’ordine rispetto al disordine, il normale rispetto al mostruoso. Creando una benefica assenza di domande, (…)- le istituzioni sono risposte precodificate a domande poste una volta per tutte, rese implicite e non più formulate dagli individui-, consentono agli uomini di sfuggire ai rischi dello stupore e di godere i vantaggi della certezza dell’ovvio.”64 All’inizio del novecento, in Italia, il bisogno di istituzionalizzare e categorizzare divenne molto forte: bisogno di “creare” e mantenere un ordine. Il mendicante, con la sua presenza metteva in discussione la centralità del lavoro, l’importanza della proprietà e soprattutto rendeva visibile la povertà, fenomeno ancora molto presente; questo tipo di 62 R. Castel, “Reddito minimo di inserimento e politiche di integrazione”, in P. Guidicini, G. Pieretti (a cura di), Le residualità come valore, FrancoAngeli, Milano, 1993, pp. 275-282. 63 Può interessare il rilievo dato da alcune norme alla condizione di indigenza o mendicità ad esempio l’art. 159 t.u.p.s.: “Il Ministro dell’interno o per sua delegazione le autorità di p.s. possono, per motivi di pubblica sicurezza, o in casi eccezionali di pubbliche o private sventure, fornire i mezzi di viaggio gratuito agli indigenti a fine di rimpatrio”. L’art. 298 reg. p.s. preciserà poi che il viaggio gratuito potrà avvenire “esclusivamente all’interno della Repubblica e soltanto a scopo di effettivo rimpatrio o per avviamento al lavoro”. Ancora l’art. 152 t.u. p.s. stabilisce che i prefetti possono respingere alla frontiera gli stranieri che “siano sprovvisti di mezzi”. Mentre l’art. 232 reg. p.s. dispone che le iscrizioni presso le autorità locali di pubblica sicurezza per ottenere il certificato per l’ esercizio dei mestieri ambulanti (art. 121 t.u. p.s.) “deve essere ricusata quando si tratta di mestieri che nascondono il vagabondaggio o la mendicità”. Per quanto attiene invece all’esercizio di diritti si può notare che l’art. 77 t.u. fin. loc. stabiliva che non potevano diventare appaltatori delle imposte di consumo “i condannati per mendicità”; mentre l’art. 8 t.u. com. prov. 1934 prevedeva “non possono essere nominati agli uffici previsti nella presente legge: … i condannati per mendicità. 64 R. Escobar, Metamorfosi della paura, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 88. 36 povertà però non poteva essere accettata, in quanto causata dalla preferenza dell’ozio al lavoro. Nella “Carta del Lavoro” emanata nell’aprile del 1927 si dice che “Il lavoro, sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche, manuali è un dovere sociale. A questo titolo, e solo a questo titolo, è tutelato dallo Stato.” Il lavoro quindi viene considerato e richiesto come un dovere, un dovere sociale. L’ozio e il vagabondaggio abituale si presentano allora come stati di fatto in profondo urto con quel principio, “sicchè le persone che si mantengono abitualmente nella condizione di oziosi e vagabondi, per il danno che arrecano alla economia pubblica, per il pericolo che rappresentano, sono da considerare come esseri che contrastano la politica dello Stato, che si pongono in aperto dissidio con le leggi più alte che reggono il consorzio nazionale, e pertanto come dei veri e propri delinquenti.”65 Ritornando all’art. 670 del codice penale possiamo affermare che esso intende tutelare la “pubblica moralità”; la mendicità è un reato, reato che si può far rientrare tra i così detti reati contro il sentimento,66 nei quali cioè la condotta offende un determinato sentimento; nel reato di mendicità, come si desume dal comma 2 dell’art. 670 il sentimento offeso è la pietà altrui cioè la pubblica carità e a maggior ragione “la pena è dell’arresto da uno a sei mesi se il fatto è commesso in modo ripugnante o vessatorio, ovvero simulando deformità o malattie, o adoperando altri mezzi fraudolenti per destare l’altrui pietà”. In particolare, nel “modo ripugnante” sono compresi quegli atteggiamenti atti a suscitare sentimenti di disgusto, repulsione, quali l’esibire piaghe, deformità o condizioni personali o altrui deplorevoli, mentre nel modo “vessatorio” rientrano le molestie, l’insistenza ed ogni altra condotta di turbamento atta a sollecitare l’altrui pietà; la mendicità poi è aggravata nella simulazione di deformità o malattie fisiche o psichiche; infine, nella più generica espressione relativa agli “altri mezzi fraudolenti”, si indicano quelle condotte, diverse dalle precedenti, volte a trarre in inganno e ad indurre all’elemosina. Allo stesso modo, è in vista della tutela della pubblica tranquillità che nel t.u.l.p.s.: “disposizioni relative alle persone pericolose per la società” e nel regolamento per l’esecuzione dello stesso, che viene ad assumere rilevanza la punibilità della condotta67 di mendicità, in quanto quest’ultima viene automaticamente collegata all’ozio quale forma di vita che potrebbe ingenerare condizioni di pericolo per la 65 S. Cicala, “Mendicità, vagabondaggio ed ozio nel diritto pubblico italiano ed estero”, La scuola positiva, vol.X, 1930. 66 Falzea, “I fatti di sentimento”, in Studi in onore di F. Santoro-Passarelli, Napoli, 1972, p. 356. 67 E’ la pubblicità del luogo a qualificare la condotta, infatti la mendicità che si vuol punire è quella che “si manifesta e opera in modo palese, evidente”. (F. Lucifero, I mendicanti, RIDP, 1931, p.420). 37 società. Come tutti i reati contro il sentimento, anche il reato di mendicità presuppone una situazione giuridica di dovere: la condotta di cui si parla nell’art. 670 del codice penale rappresenta una palese violazione del dovere di svolgere un’attività o meglio, un lavoro. E’ proprio la violazione di questo dovere, dal momento in cui si hanno tutte le possibilità e capacità per adempierlo, che offende l’altrui sentimento di pietà. La pietà quindi può manifestarsi solo nei confronti di coloro che non possono lavorare perché sono inabili e quindi impossibilitati e di quest’ultimi se ne occupa lo Stato per cui non dovrebbe più sussistere la possibilità di mendicare. Il reato di mendicità sussiste quindi sia per gli abili che per gli inabili al lavoro, in teoria; in pratica la distinzione tra mendicanti abili e mendicanti inabili, presente nel codice Zanardelli (art. 453), rimane. Rimane la necessità di reprimere ad ogni costo una condotta di vita dedita all’ozio e allo stesso tempo la necessità di coprire e proteggere quelle “categorie” di poveri che si trovano in quello stato non per loro volontà ma per cause esterne che non permettono loro di svolgere un lavoro. A tal proposito, nell’articolo 38 della nostra Carta costituzionale si dice che “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza” ma allo stesso tempo nell’articolo 4, comma 2, che “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Per cui ritroviamo di nuovo la distinzione tra coloro che hanno diritto ad un’assistenza e coloro che non ne hanno in quanto non accettano e non sono partecipaci alle regole della società in cui comunque si trovano a vivere e così facendo si auto-escludono. Ribadiamo quindi che la mendicità, nell’ipotesi in cui si tratti di mendicanti capaci al lavoro, diviene espressione di ozio, perché chi mendica pur potendo adempiere al dovere di lavorare è, in sostanza, un ozioso che spinge il proprio vizio fino a mendicare, sfruttando il sentimento di carità pubblica pur di non lavorare e proprio per questo è considerato un soggetto pericoloso rispetto agli interessi concernenti la sicurezza pubblica e la pubblica moralità. Non ci possono essere spiegazioni alternative, non è possibile cogliere le sfumature che si intermezzano tra due “appartenenze”: o si appartiene ad una categoria così detta a “rappresentanza consolidata e garantita”68 o si è “fuori”. Partendo dal presupposto che “tutti” abbiano la stessa definizione della situazione, si è continuato a ragionare su categorie e gruppi e non sulle persone e purtroppo oggi, in parte, è ancora così. Non c’è volontà di 68 P. Guidicini, G. Pieretti (a cura di), I volti della povertà urbana, FrancoAngeli, Milano, 1992 (2° ed.). 38 comprensione, tutto sembra filare liscio: se si è “sfortunati” alla nascita, allora si ha diritto ad un aiuto, ma se si hanno tutte le caratteristiche per poter far parte del mondo dei “normali”, perché “decidere” di starne fuori? Questa è una “scelta” che non riceve alcuna comprensione e che non può essere tollerata. Come abbiamo detto in precedenza, torniamo a ribadire che nonostante l’art. 670 del codice penale risulti così tassativo nel punire la mendicità, quale essa sia, non sono mancate innumerevoli discussioni sulla sussistenza reale del reato, su quali dovrebbero essere realmente i soggetti punibili e la condotta punibile. Noi, tralasceremo, in parte, le varie interpretazioni tecniche e ne prenderemo in esame soltanto alcune di maggior interesse ai fini del nostro discorso. La Cassazione, ad esempio, interpellata in varie circostanze, ha ribadito la differenza tra stato di bisogno e stato di necessità, di cui all’art. 54 del codice penale. In tal senso, la sentenza del 7-5-1975, n. 102, ha segnato una svolta: in essa la Corte costituzionale ha ritenuto di non accogliere l’orientamento giurisprudenziale nel suo “rigido schematismo” rispetto a situazioni oggettive e soggettive direttamente riconducibili agli articoli 4 e 38 della Costituzione, così che la decisione, nell’interpretazione della norma, “non venga a trovarsi in conflitto con quei principi dell’ordinamento costituzionale che consacrano veri e propri diritti primari incomprimibili”. Si è quindi ritenuto opportuno che potesse rientrare nell’ambito dell’art. 54 c.p.69 chi, fisicamente debilitato e privo di chi per legge debba provvedere ai bisogni essenziali, si induca alla mendicità per non essere stato messo in condizioni di poter usufruire dell’assistenza pubblica alla quale avrebbe diritto. Gli estremi che discriminano l’atto (mendicare), si possono trovare quindi nell’ “attualità del pericolo di un danno grave alla persona”, quale è quello che può essere determinato da uno “stato di bisogno non voluto”, che si profila “come una costante senza soluzione”, finchè non ne siano rimosse le cause. In caso quindi di mancanza dei “mezzi necessari per vivere”(art. 38, Cost.), si è più volte richiamato il “diritto alla vita”, “bisogno insopprimibile”. Sarebbe pertanto possibile, “pur rimanendo nell’ambito del sistema, contemperare il disposto della norma rispetto ad esigenze di equità, sia operando all’interno della stessa interpretazione dell’art. 670 c.p., sia riconducendo quelle situazioni, per le quali ed a diversi livelli si è richiesta un’ umana applicazione della 69 Così il primo comma dell’art.: “Stato di necessità. Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo.” 39 fattispecie di mendicità, ovvero se ne è invocata l’incostituzionalità, nell’ambito delle previsioni normative vigenti, integrate le quali, resta esclusa la punibilità”70. 2.2. Sentenza della Corte Costituzionale del 28-12-1995, n. 519 Se gli interventi precedenti della Corte Costituzionale avevano confermato, in ragione della tutela della pubblica tranquillità con riflessi sull’ordine pubblico la conformità della norma al dettato costituzionale, la seguente pronuncia sul punto ha operato in termini decisamente innovativi. L’intervento della Corte Costituzionale infatti, con la sentenza del 28-12-1995, n. 519, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 670 c.p. Per comprendere come si è arrivati a ciò, è necessario ripercorrere brevemente le argomentazioni esposte nelle ordinanze, con cui si è rimessa la questione di legittimità alla Corte Costituzionale, per iniziativa rispettivamente della pretura di Firenze e del pretore di Modena, sezione distaccata di Carpi. La prima ordinanza del 11-11-1994, n. 22, seguita, ad opera dello stesso giudice da un’altra ordinanza il 3-2-1995, n. 320, sollevava la questione di legittimità costituzionale dell’art. 670, primo comma, per violazione degli artt. 2, 3 e 27 terzo comma, della Costituzione, mantenendo invece il secondo comma del suddetto articolo riferito ad una mendicità praticata con modalità vessatorie, ripugnanti, petulanti o altrimenti fraudolente, ovvero ad una condotta che, secondo la formula oggetto dell’art. 671 c.p., si avvale dell’ “impiego di minori nell’accattonaggio”. Non vi è, invece, offesa della morale e della tranquillità pubblica “quando l’accusato versi in una situazione di bisogno non riconducibile a sua colpa, risolvendosi la mendicità in una legittima richiesta di umana solidarietà, volta a far leva sul sentimento della carità. “La previsione incriminatrice di cui all’art. 670, primo comma, del codice penale, violerebbe ad avviso del giudice a quo i principi costituzionali di solidarietà, di uguaglianza e della finalità rieducativi della pena contenuti negli artt. 3, 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, giacchè sarebbe riservato lo stesso trattamento punitivo anche a soggetti che si trovino in condizioni economiche-sociali del tutto diverse. Essa, infatti, prescinde dallo stato di indigenza non ascrivibile alla condotta individuale: di qui, un trattamento inadeguato, poiché non finalizzato a rieducare quanti, obbiettivamente incapaci di mantenersi 70 Digesto. Discipline penalistiche, vol VII, UTET, Torino, 1993. 40 autonomamente, siano perciò costretti a far ricorso all’altrui solidarietà.”71Per cui, l’ “eccezione” d’incostituzionalità si sollevava per violazione dei principi presenti negli artt. 2 e 3 della Costituzione ritenendo che la condotta di mendicità del soggetto, che involontariamente e, sottolineiamo involontariamente, si trovi in uno stato di bisogno, fosse da interpretarsi “come semplice e legittima richiesta dell’altrui pietà”. A tali fini si richiedeva altresì, quale fondamento della punibilità, la necessità della “prova concreta” che potesse dimostrare il rifiuto volontario da parte della persona dei mezzi messi a sua disposizione. L’incriminazione della condotta quindi non viene messa in discussione nei confronti di chi mendichi “per propria colpa”. La netta distinzione tra poveri meritevoli e non, viene palesemente riproposta: può essere assolto e quindi a sua volta aiutato solo colui che mendica in situazione di bisogno, ma, fondamentale, è che non sia per sua colpa. Come si può, oggettivamente, stabilire se sussista una colpa o meno? Forse è necessario, per riuscire a comprendere alcune situazioni, uscire dal classico schema utilitarista mezzi/fini. Evidentemente per alcune persone questo schema non è così automatico e proprio per questo occorrerebbe osservare il fenomeno da un altro punto di vista, ma di ciò parleremo in seguito. Altro elemento che venne preso in considerazione nella sentenza era la finalità rieducativa della pena che, in questo caso specifico, veniva a decadere: infatti quest’ultima poteva essere difficilmente configurabile per chi, non per propria condotta dolosa o colposa, ma per carenze istituzionali, fosse indotto alla mendicità, per non potersi garantire altrimenti le “condizioni minime e necessarie…per vivere con dignità e decoro”. Con altre motivazioni veniva invece sollevata l’analoga questione, questa volta con particolare riguardo all’art. 670, secondo comma, c. p., da Modena, sezione distaccata di Carpi, con l’ordinanza n. 67 del 21-10-1994 che lamentava l’eccessivo rigore del trattamento sanzionatorio e la conseguente violazione dei principi di “proporzione” e di “sussidiarietà”. Le argomentazioni addotte dal giudice muovevano dalla premessa di ritenere “del tutto irragionevole, e sproporzionato per eccesso, tutelare il bene generico della tranquillità pubblica mediante il sacrificio del diritto fondamentale e inviolabile delle libertà personale”. Il parametro della “irragionevolezza”, improntato ad una logica di “danni” per l’individuo “sproporzionatamente maggiori” rispetto ai “vantaggi” per la società, veniva integrato, sotto lo stesso profilo, dalla violazione del principio di sussidiarietà. Da un lato, argomentava il giudice, il fenomeno dell’accattonaggio può 71 Sentenza n. 519/1995. 41 essere sufficientemente controllato “con opportune sanzioni amministrative”, dall’altro, sussisterebbe “la necessità pratica di non aggravare pericolosamente il fenomeno di sovraffollamento delle carceri”. La scelta della depenalizzazione sembrava la più idonea anche perché, ad avviso del giudice, “la fattispecie incriminatrice”, tutelava “un interesse anacronistico”. La norma in esame venne considerata come estremamente severa e come il prodotto di “concezioni autoritarie che connotavano la cultura del legislatore del 1930”, una radicale inversione di tendenza rispetto all’impostazione del codice Zanardelli, ispirato invece dalla tradizione del pensiero liberale. Il giudice costituzionale ha comunque ritenuto, sulla base di due diversi “valori penalistici coinvolti”, di poter mantenere fra loro nettamente distinte le due ipotesi criminose presenti nell’art. 670 del c.p.72 tanto da considerare un’ipotesi di mendicità non invasiva e un’ipotesi di mendicità invasiva. “L’ipotesi della mendicità non invasiva integra una figura di reato ormai scarsamente perseguita in concreto, mentre nella vita quotidiana, specie nelle città più ricche, non è raro il caso di coloro che senza arrecare alcun disturbo domandino compostamente, se non con evidente imbarazzo, un aiuto ai passanti. Di qui, il disagio degli organi statali preposti alla repressione di questo e di altri reati consimili chiaramente avvertito e, talora, apertamente manifestato che è sintomo, univoco, di un’abnorme utilizzazione dello strumento penale”. Il mendicante diviene, in un certo senso di nuovo parte della società, in quanto, sempre nella sentenza, si mette in evidenza come gli squilibri e le forti tensioni che caratterizzano le società più avanzate producono condizioni di emarginazione che non possono essere nascoste, nonostante le tentazioni di farlo e allo stesso tempo non si può semplicemente seguire la strada che considera le persone in condizioni di povertà come pericolose e colpevoli della loro condizione. “Ma la coscienza sociale ha compiuto un ripensamento a fronte di comportamenti un tempo ritenuti pericolo incombente per una ordinata convivenza, e la società civile consapevole dell’insufficienza dell’azione dello Stato ha attivato autonome risposte , come testimoniano le organizzazioni di volontariato che hanno tratto la loro ragion d’essere, e le loro regole, dal valore costituzionale della solidarietà”. La mendicità non invasiva, considerata già in concreto “scarsamente perseguita”, non appariva quindi alla Corte dotata del carattere di offensività della tranquillità pubblica, risolvendosi in una “semplice richiesta di aiuto”; essa appariva costituzionalmente 72 Ricordiamo che la prima (primo comma), punisce con la pena dell’arresto fino a tre mesi “chiunque mendica in luogo pubblico o aperto al pubblico”, mentre la seconda (secondo comma), sanziona più gravemente, con l’arresto da uno a sei mesi, il fatto “commesso in modo ripugnante o vessatorio, ovvero simulando deformità o malattie, o adoperando altri mezzi fraudolenti per destare l’altrui pietà”. 42 illegittima alla luce del “canone della ragionevolezza”, non potendosi in alcun modo “necessitato il ricorso alla regola penale”. A riprova, si adduceva, come abbiamo detto in precedenza, il ripensamento compiuto dalla “coscienza sociale”, in riferimento a comportamenti assimilati un tempo a quelli pericolosi, ma rispetto ai quali oggi più viva è la solidarietà. La mendicità invasiva invece, la si considerava volta alla tutela di beni giuridici di rilievo, tra i quali “lo spontaneo adempimento del dovere di solidarietà”, offeso dal ricorso a “mezzi fraudolenti”. Il primo comma dell’art. 670 venne quindi dichiarato illegittimo costituzionalmente, mentre per il secondo comma la questione di legittimità venne dichiarata non fondata. Con la legge del 25 giugno 1999, n. 205, art.18, viene abrogato l’articolo 670. Attraverso questa legge quindi la differenza tra una mendicità invasiva e una mendicità non invasiva decade, escludendo per entrambi la possibilità di condanna al carcere. Nel disegno di legge 2893 del 2002 venne riproposto di reintrodurre il reato di mendicità. Proposta che non ebbe seguito ma che ci mette in evidenza come ogni tipo di governo, a seconda che sia più o meno legato all’importanza della sicurezza, intesa come difesa da tutto ciò che possa destabilizzare dall’ordine esistente, si accanisca più o meno nei confronti di quelle persone considerate “pericolose”. Oggi quella paura, quelle costruzioni simboliche che criminalizzavano il vagabondo e il mendicante, associandoli strettamente alla delinquenza e al disordine, vengono trasportate direttamente nell’immigrato che viene visto come un “invasore”, come un importatore di degrado e di disordine sociale, la causa principale dell’aumento di criminalità e dell’esplodere del senso di insicurezza che pervade i maggiori centri urbani. Nel governo di questa vera e propria underclass sembra che il sistema penale di polizia tenda a recuperare il suo antico ruolo nel governo della miseria73. 73 Questo sistema viene chiamato da Luigi Ferrajoli “sotto-sistema penale di polizia”. L’esistenza di tale sotto-sistema poliziesco ha consentito ai meccanismi di controllo sociale, in società marcatamente stratificate, di gestire il segmento più basso di popolazione senza che l’ideologia dell’uguaglianza di fronte alla legge andasse in frantumi. L’enorme selettività del sistema a scapito dei settori sociali più marginali fu, appunto, giustificabile grazie al ricorso a quei concetti che costruivano come “classe pericolosa” l’universo sociale che popolava la base della piramide sociale. 43 3. LA MENDICITA’ NELL’IMMAGINARIO COLLETTIVO Come abbiamo potuto osservare, nei vari periodi storici, si sono venute a formare diverse immagini intorno alla figura del mendicante e il sistema legislativo ha avuto una parte fondamentale in questo. “La figura della povertà urbana estrema ancora oggi rimanda contemporaneamente alla prossimità con Gesù, alla decomposizione delle relazioni sociali ad una residualità, alla minaccia del ritorno di situazioni di altri tempi”74.Tutte queste immagini sono compresenti in forma stratificata e ciò è uno dei motivi più importanti della difficile lettura della povertà urbana estrema stessa. Infatti queste immagini, che i vari periodi storici hanno contribuito a creare, sono oggi presenti e si esplicitano in atteggiamenti ora positivi, ora negativi, o entrambi compresenti nei confronti del fenomeno. Come osserva Geremek, il “gesto caritatevole di dare l’elemosina non è stato sostituito con una minaccia di impiccagione per i mendicanti: tale minaccia e tale gesto coesistevano attraversando periodi di debolezza e di forza, di ascesa e di caduta”75. Se la civiltà medioevale aveva celebrato la povertà come una virtù e il povero che concorreva alla redenzione degli uomini ricchi che facevano l’elemosina, come vicarius christi , nell’età moderna questa immagine viene ad essere sostituta da un insieme di connotazioni profondamente negative. In Italia, nonostante fosse stato un paese che non aveva conosciuto la Riforma protestante, la distinzione tra “povertà operose e povertà oziose” , nella seconda metà del XIX secolo viene ad approfondirsi. La povertà non è più considerata un semplice status economico-sociale, essa diviene sintomo di deficienza morale per cui da un lato si attua un processo di restrizione dell’assistenza ai poveri, dall’altro ciò viene giustificato dall’esplicita criminalizzazione dello stato di indigenza. In questo periodo, infatti, quando si afferma di voler eliminare il pauperismo non s’intende voler eliminare l’esistenza della povertà in generale (che è addirittura assunta quale indice della ricchezza delle nazioni76), bensì si esprime l’intenzione di eliminare tutto un’insieme di elementi che fanno del pauperismo un “abitus” morale piuttosto che una condizione socio-economica77. La povertà estrema prende ad essere assimilata al delitto e ciò si esprime nel progressivo 74 M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storico-sociale”, in P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995 , p. 49. 75 B. Geremek, La pietà e la forca, Laterza, Bari, 1995, p. XIII. 76 K. Marx, Il Capitale, Torino, 1975, p. 798. 77 G. Procacci, “L’Economia sociale e governo della miseria”, in AUT/AUT, 167/168, 1978, p.73. 44 inasprimento del trattamento riservato agli indigenti, sempre più equiparati ai delinquenti. Non è più la povertà in sé a consistere in una minaccia per l’ordine sociale, ma le particolari “abitudini fisiche e morali”78 che la contraddistinguono: 1. Mobilità: la quale è in aperta contraddizione con le esigenze di stabilità territoriale e di concentrazione della popolazione laddove necessiti. Il vagabondaggio diviene definitivamente l’archetipo del disordine sociale. 2. Promiscuità: che, oltre a determinare un aumento di difficoltà nel controllo di queste masse d’individui, che restano nell’indistinto, rende molto complesso ogni controllo demografico sulla popolazione da parte del potere pubblico. 3. Indipendenza: che è sintomo di libertinaggio e disordine morale, poiché impedisce che questi individui siano in grado di condurre una vita onesta e di risparmio, accedendo magari ad una qualche proprietà 4. Ignoranza e insubordinazione: cioè la barbarie e la brutalità allo stato puro, da cui consegue l’ignoranza dei propri doveri e, appunto, l’insofferenza alle regole79. Per ovviare a tali aspetti deteriori della povertà è considerata questione determinante l’ “educazione” di queste masse di immorali e queste misure “educative” e allo stesso tempo “repressive” trovano la loro sintesi perfetta nel sistema penitenziario. Come abbiamo visto in precedenza, non è solo nelle istituzioni chiuse che i meccanismi disciplinari si esplicano: pensiamo al ruolo dell’istituzione poliziesca deputata appunto all’estensione della disciplina al di fuori degli spazi disciplinari chiusi. Le prime norme di polizia che colpiscono l’ozio, il vagabondaggio e la mendicità si rintracciano molto indietro nel tempo : nel solo Regno Sabaudo già a partire dal XV secolo esistevano disposizioni che colpivano, con provvedimenti preventivi personali, situazioni soggettive, condizioni di vita o il semplice sospetto di un reato commesso: un susseguirsi di provvedimenti che “intervengono indifferentemente contro oziosi, vagabondi, zingari, questuanti forestieri, sospetti di furto, residenti o forestieri senza reddito o professioni certi”80. Questo lungo processo avviatosi nel XVI secolo avrebbe trasformato delle figure pensate per interventi polizieschi, extragiudiziari, in vere e proprie fattispecie di reato, reati di status che resisteranno al trapasso fra vecchi e nuovi 78 Ibidem, p. 73. 79 Ibidem, p. 74. D. Petrini, “Il sistema di prevenzione personale tra controllo sociale ed emarginazione”, in Storia d’Italia, annale n. 12, La criminalità, Torino, 1997, p. 897. 80 45 ordinamenti giuridici. La relazione al parlamento subalpino del ministro Galgano che proponeva l’approvazione di un disegno di legge (destinato poi a diventare il provvedimento del 1852), in materia di Pubblica Sicurezza, ad esempio considerava l’ozioso e il vagabondo in “permanente reato, frodano la società dalla parte che da ogni cittadino le si deve, e non si può concepire che possano, privi quali sono di mezzi, esistere senza supporre una continua sequela di truffe, di ladronecci e simili (…) se propongo una disposizione eccezionale egli è perché qui si tratta di un delitto eccezionale. Il quale, come ho già detto, è occasione e fonte di tutti gli altri reati e crimini… Essendo origine di tutti gli altri, richiede per speciale considerazione che siano forniti al governo i mezzi necessari per reprimerli rigorosamente (…). All’ozioso e vagabondo già indurito per lunga abitudine nel vizio vuolsi provvedere con pene adeguate che, rendendolo intanto impotente al malaffare, giovino a richiamarlo sul retto sentiero”81. Si commette reato quindi nel solo fatto di essere un vagabondo. L’ozio diviene un reato e all’ozioso non spetta nessun tipo di libertà personale non venendo riconosciuto in sé come persona, in quanto non adempie ad alcun dovere che il vivere civile richiede. L’ozioso “è visto come una belva feroce di cui si deve, con il lavoro e l’obbedienza, trattenere gli istinti”82. La mendicità viene punita in quanto “conseguenza dell’infingardaggine e della scioperatezza”, così si enunciava nel Codice Penale sardoitaliano del 1859. Per cui non è in sé l’atto di chiedere del denaro che viene considerato reato quanto lo stile di vita, è appunto l’ozio in sé ad essere reato, reato contro la pubblica tranquillità, perché essendo l’ozioso privo di mezzi, è automatico che per sopravvivere truffi. Se in epoca moderna quindi la differenza tra povertà e mendicità era una differenza di grado, ma non di natura, nell’800 il divario si fece sempre più profondo tanto che, se da un lato la povertà continuava a rimanere una dimensione costitutiva delle classi popolari, certi suoi attributi, quali la volontarietà, l’abitualità a condotte asociali, erano specifici solamente delle sue forme estreme83 che vengono descritte attraverso l’immagine dell’accattone, dell’ozioso, del vagabondo. La 81 Il ministro specificherà, inoltre, che per i minori l’internamento conseguente all’atto di sottomissione non rispettato “dovrà sempre aver luogo in una casa di lavoro, sia per tenerli lontani dal consorzio d’altri, già troppo viziati e mal consigliati, sia per avviarli in avvenire ad una vita onesta”. (I brani sono riportati in I. Mereu, “Cenni storici alle misure di prevenzione nell’Italia liberale”, in Le misure di prevenzione. Atti del convegno Alghero. Milano). 82 D. Melossi, M. Patarini, Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario, Bologna, 1982, p. 106. 83 M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storico-sociale”, in P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 43. 46 distinzione tra poveri meritevoli e non meritevoli, tra povertà e povertà estrema che il sistema legislativo contribuì a creare, influenzò anche tutto il sistema assistenziale che considererà la povertà estrema la peggiore e la più degradata forma di povertà nell’ambito di una struttura continua che comprende la povertà nel suo complesso. Ritornando al codice del 1859, fondamentale ai fini della punibilità era la distinzione tra mendicante valido e mendicante invalido: il mendicante valido, considerato al pari del vagabondo e dell’ozioso, doveva essere punito in quanto ozioso appunto ; la mendicità per gli inabili veniva tollerata ma sottoposta a controllo, in quanto divenne oggetto di una licenza specifica, licenza che costituì un vero e proprio marchio, stigmatizzando definitivamente la persona, sia come persona inabile sia come povera, escludendola così dalla possibilità di “riscatto”. Con la legge N. 5888 del 23/12/1888 sulla Pubblica Sicurezza, come abbiamo affermato nelle pagine precedenti, si arriva invece alla generale proibizione della mendicità e quindi all’abolizione del permesso di mendicare, ritenendo il ricovero obbligatorio il possibile rimedio contro la mendicità. Per gli inabili, in quanto incapaci di provvedere alla propria sussistenza, il ricovero diviene la migliore soluzione. Attraverso la reclusione ciò che prima non poteva essere nascosto, evitato, lo diviene. Il povero inabile è considerato quindi un “parassita” in quanto incapace di lavorare e produrre, ma lo è non per sua colpa e per questo è “dovere” dello “Stato” provvedere alla sua assistenza. Il mendicante abile al lavoro invece non può essere tollerato e se nel ‘700 fino alla prima metà dell’800 si pensava che attraverso una adeguata educazione al lavoro, poteva essere “redento”, dalla seconda metà dell’800, anche grazie al contributo della scienza medica e di quella psichiatrica in particolare, ciò non si ritenne più possibile. Il nascente positivismo criminologico fornì nuove legittimazioni ai vari tipi di “istituti” di reclusione e contribuì ad una nuova definizione della povertà urbana estrema : la criminalità in generale diviene espressione di “anomalie” biologiche. Cesare Lombroso nel suo L’uomo delinquente, considera la “diversità” cioè la follia, la delinquenza e la povertà come “l’effetto di una inferiorità storico-biologica- è devianza naturale- come lo stato primitivo o animale”84. Il mendicante quindi, viene considerato biologicamente diverso. Il concetto di pericolosità che già esisteva in uno spazio semantico relativo alla sfera dell’immoralità, viene “medicalizzato”, per cui alle considerazioni sulla diversità morale degli oziosi e dei vagabondi, vengono sostituite considerazioni sulla loro diversità biologica e naturale. In 84 M. Patarini, “Le fattispecie soggettive di pericolosità”, in Le misure di prevenzione. Atti del convegno di Alghero, 1975, Milano 47 uno scritto del 1915 di un esponente positivista, vengono distinte diverse classi di vagabondo ed ozioso: vi erano i vagabondi di città e i vagabondi di campagna; ma in ogni caso essi, nelle loro varie categorie, “formano un mondo a sé stante (…) un esercito sterminato nel quale le reclute destinate alla delinquenza si addestrano e si preparano al triste cimento”85. Gli oziosi e i vagabondi sono distinguibili per un’innata incapacità di darsi una stabile dimora, quindi una naturale propensione al vagabondaggio: vagabondi per tendenza, ben distinti però dai vagabondi per necessità, intesa come situazione momentanea alla quale si cerca il prima possibile di porre rimedio. “Il vagabondaggio infatti nel senso più esatto della parola ha origine non tanto da condizioni economiche o sociali che pure hanno la loro importanza, quanto da condizioni ataviche individuali, da forme generative, da predisposizioni somatiche”86. Essi pertanto “sono per predisposizione organica sulla quale opera l’ambiente, spinti alla mendicità, condotti alla frode, posti, per la loro ripugnanza ad un lavoro organizzato, stabile non di rado nella necessità di ricorrere al delitto: di qui la loro pericolosità”87. Ma, ancora di più, essi sono legati al mondo della delinquenza perché è carattere tipico dell’ “uomo delinquente amare l’ozio ed i facili piaceri (…).”88 Patologia sociale o patologia individuale, classi o individui criminali, il discorso sul problema del delitto è così espropriato alla teoria giuridica. Le varie antropologie, psicologie o sociologie criminali, sorte dall’entusiasmo positivista, da questo momento in poi permeeranno dei loro postulati la pratica penale. L’esigenza di ordine, e norme come salvaguardia dello stesso, che ovviamente si manifesta in tutte le società, divenne molto forte tra la fine dell’800 e i primi del ‘900. L’ordine lo possiamo intendere come un tentativo (disperato) di imporre uniformità, regolarità e prevedibilità al mondo umano. La prevedibilità in particolare diviene garanzia di sicurezza. L’altra imposizione è costituita appunto dalla norma che indica, 85 M. Rèbora, “Oziosi e vagabondi”, in Enciclopedia giuridica italiana, 1915, p. 1202 e seg. Ibidem, p. 1202 e seg. 87 Ibidem, p. 1202 e seg. 88 Ibidem, p. 1202 e seg. L'autore ci offre inoltre un saggio delle sue doti d'empirista, descrivendoci tutta una fenomenologia del vagabondaggio e dell'accattonaggio: "li trovate ciechi sui gradini delle chiese con il cagnolino ammaestrato che li guida e tiene in bocca il cappello del padrone, povera bestia impassibile e incolpevole; li vedete donne vecchie lerce e cenciose nell'atrio del tempio vendere scapolari o medaglie, o nell'interno volontarie custodi delle cassette delle elemosine che alleggeriscono dell'obolo con pieghevoli, sottilissime bacchette spalmate di vischio, in un momento di profonda estasi e di raccoglimento intenso; li trovate a frotte nell'interno della città, nelle vie popolose dei sobborghi, uomini e donne, adulti e fanciulli con poche cartoline illustrate, o foglietti di una canzonetta oscena o stupida in mano, o un mazzolino di fiori avvizziti, o due scatolette di cerini in una sgangherata cassetta appesa al collo, gobbi, storpi, guerci, mutilati, piagati, mostri senza braccia e senza gambe, assillare spesso aiutati da un gemebondo organetto delinquente, i passanti, importunarli, seguirli, insolentirli quando non esauditi”. 86 48 come proiezione del modello di ordine sulla nostra condotta, il giusto comportamento da seguire. Ogni tipo di società sceglie il proprio grado di ordine e facendo ciò limita il ventaglio di possibili sistemi (di ordine) alternativi. Per cui, in base al sistema di ordine vigente, alcune forme di condotta che non rientrano nella norma, in quanto si discostano dal modello, vengono considerate anormali, fino a diventare devianti. La linea di demarcazione tra la semplice anormalità e il concetto (più inquietante) di devianza però non è mai così netta; ed è proprio in questa linea non chiara che possiamo inserire la storia della persona senza dimora, perché se in alcuni periodi la figura del mendicante, del vagabondo poteva essere accettata nonostante il comportamento fosse considerato anormale, in altri periodi non era più tollerata89 in quanto deviante, quindi punibile penalmente. Come abbiamo accennato sopra, l’esigenza di controllo e di ordine, in Italia, si esplicitò anche nel sistema assistenziale manifestandosi in una maggiore ingerenza dello Stato nella beneficenza, ambito prima coperto da istituzioni religiose90 e, soprattutto, in una più accentuata categorizzazione dell’utenza titolare del diritto di assistenza. E’ sempre tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 che si definiscono con precisione i presupposti per accedere nell’area dell’assistenza pubblica; essi sono lo stato di bisogno e la dimora. In questo modo, coloro che non rientrano in una particolare categoria, cioè coloro che non hanno una dimora e vivono uno stato di bisogno difficile da inquadrare, non possono essere presi in carico dall’istituzione pubblica. Di queste persone, se ne occuperanno quindi altri istituti. Se pensiamo ad esempio al codice penale del 1889, di liberale impostazione, nonostante non attribuì più rilevanza penale al vagabondaggio, quest’ultimo venne relegato fra i cosiddetti “illeciti di polizia”. Assistiamo ad un lieve aumento dei requisiti richiesti, insomma, per poter essere sottoposti all’ammonizione, al domicilio coatto o all’arresto, ma sostanzialmente il “nuovo” testo unico delle leggi di Pubblica Sicurezza varato dalla sinistra ricalca i precedenti provvedimenti dovuti ai governi di destra, ridando nuova vita a misure di polizia (come il domicilio coatto) nate per esigenze eccezionali. Vecchi arnesi polizieschi si trovarono rilegittimati dall’idea di essere stati sottoposti a maggiori garanzie. Le figure soggettive sottoposte a controllo in 89 “La distinzione tra la semplice anormalità e il concetto ben più inquietante di devianza non viene mai tracciata tuttavia chiaramente e di solito è ampiamente discussa, come nel caso dei limiti della tolleranza, essendo l’atteggiamento che definisce la differenza fra di esse.” Z. Bauman, Lavoro, consumismo e nuove povertà, Città Aperta, Troina, 2004, p. 129. 90 Ricordiamo che con la legge n. 6972 del 17/07/1890, nascono le Istituzioni Pubbliche di Assistenza e le Congregazioni di Carità che avevano il compito di far fronte alle esigenze delle fasce marginali della popolazione. 49 quanto pericolose resteranno sostanzialmente identiche, gli oziosi e vagabondi rimarranno tra le più importanti. Con il codice Rocco del 1930, la distinzione tra mendicità improba e non legale, ozio e vagabondaggio che, come abbiamo accennato, spesso rimaneva solo sulla carta, decade: il legislatore operò la scelta di reprimere comunque la mendicità “in luogo pubblico o aperto al pubblico” con la punizione dell’arresto fino a tre mesi. Il carcere diviene così il principale strumento di controllo nei confronti della persona senza dimora. Il reato (la mendicità) consiste nel suscitare l’altrui sentimento di pietà , una pietà che non può esistere nei confronti di colui che adotta un comportamento a-normale, a-sociale o addirittura anti-sociale, nei confronti di colui che vive oziando in una società in cui il lavoro diviene un dovere, in quanto uno dei valori fondamentali; è nel lavoro che la persona acquisisce un ruolo e una dignità. Il mendicante quindi è assunto quale vero e proprio pericolo per la società al pari del malato di mente, del tossicodipendente, dell’alcolista…L’unico rimedio al problema è la reclusione totale, separare ciò che è normale, quindi buono da ciò che è anormale, quindi fortemente negativo e pericoloso. Nel rapporto tra lavoro e vagabondaggio, è sempre il vagabondaggio a spiegare il non lavoro che diviene una vera e propria scelta, il vagabondaggio quindi è inteso come un fatto individuale e non un problema sociale. Il sentimento di carità, l’aiuto ai poveri, la pietà verso i “bisognosi” e gli “infelici” sembra così essersi eclissata; dall’età moderna in poi “la forca ha steso la sua ombra su quei sentimenti”91. Nonostante ciò, anche nei periodi di grande repressione nei confronti dei vagabondi, non possiamo pensare che le iniziative caritative individuali fossero cessate. “L’ethos medioevale della povertà si indebolisce o si scompone alle soglie dell’età moderna, ma fissa un’impronta fondamentale nella civiltà cristiana, e per questa ragione perdura nella cultura europea come una delle possibilità, una delle proposte”92. Negli anni sessanta –settanta anche l’ Italia viene toccata da “profondi” mutamenti. L’idea che la povertà e l’emarginazione fossero il frutto di una deficienza dell’individuo cui rispondere severamente per mezzo dell’intervento penale, venne mano a mano a decadere, per cui il ruolo riservato alle agenzie penali venne progressivamente restringendosi. Nel corso degli anni ottanta si assiste alla cosiddetta “riscoperta della povertà”93 tanto che si producono numerose ricerche sia su scala nazionale che locale. La povertà è tornata ad essere una condizione socialmente 91 B. Geremek, La pietà e la forca, Laterza, Bari, 1995, p. 264. Ibidem, p. 266. 93 G. Serpellon, “Dalla povertà nascosta alle nuove povertà”, in P. Guidicini, G. Pieretti (a cura di), Le residualità come valore. Povertà urbane e dignità umana, FrancoAngeli, Milano, 1993, pp. 300-308. 92 50 riconosciuta94. Il Welfare deve assumere così quelle funzioni un tempo riservate al sistema penale. Per quanto riguarda il sistema assistenziale, il forte bisogno di istituzionalizzare, di categorizzare e di educare, comincia a venir meno così che, il continuo proliferare e specializzarsi dei vari istituti di ricovero subisca una significativa inversione95. Tra le persone che hanno diritto all’assistenza vi sono anche quelle “prive di un regolare sistema di vita”; in questa “categoria” generica rientrano gli oziosi, i vagabondi, gli alcolizzati, i mendicanti, coloro che non hanno una stabile occupazione e una fissa dimora. In generale però, tutti i sistemi assistenziali considerano queste persone come una massa oscura, pericolosa , da trattare prevalentemente sotto il profilo della “difesa sociale”, della “pubblica sicurezza” e per la maggior parte vengono escluse dalle forme di assistenza economica, in quanto ritenute incapaci di farne buon uso e in ciò notiamo la forte influenza del sistema legislativo nel come trattare queste persone. Vengono infatti apprestati dormitori notturni, dai quali questi “irregolari” escono al mattino per vagabondare attraverso la città: sono allestite anche delle mense ad essi riservate, le così dette “mense dei poveri” e, in altri casi vengono aggiunti altri interventi quali la concessione di abiti, scarpe, attrezzi di lavoro96. Sempre più però l’immagine del “povero” quale pericoloso attentatore dell’ordine sociale, viene ad essere coperta di nuovo dall’immagine del bisognoso di aiuto. La sentenza della Corte Costituzionale del 28-12-1995, n. 519, dichiarando l’illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 670 c. p., non fa altro che dare un peso legislativo a questo “sentire comune” che già le ordinanze della pretura di Firenze e di Modena, sezione distaccata di Carpi, avevano espresso. La sentenza infatti considera che la mendicità è già un reato ormai scarsamente perseguito in concreto, in quanto “nella vita quotidiana, specie nelle città più ricche, non è raro il caso di coloro che senza arrecare alcun disturbo domandino compostamente, se non con evidente imbarazzo, un aiuto ai passanti”. In queste poche righe già possiamo notare il modo in cui viene descritto colui che mendica. Avremmo fatto una grande difficoltà a trovare una simile descrizione in uno scritto dell’800, se non anche dei primi del ‘900. Nella sentenza si prosegue poi mettendo in evidenza anche il “disagio degli organi statali 94 G. Procacci, Governare la povertà. La società liberale e la nascita della questione sociale, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 263-276. 95 “Ad esempio, sempre in Italia, nel 1971 vi erano 64 dormitori con 7394 posti letto, mentre nel 1988 sono solamente 37 con 2479 posti letto”. M. Bergamaschi, “Immagine e trattamento delle povertà estreme in una prospettiva storico-sociale”, in P. Guidicini, G. Pieretti, M. Bergamaschi (a cura di), Povertà urbane estreme in Europa, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 57. 96 Ibidem, p. 57- 58. 51 preposti alla repressione di questo e altri reati consimili chiaramente avvertito e, talora, apertamente manifestato che è sintomo, univoco, di un’abnorme utilizzazione dello strumento penale”. La povertà e l’emarginazione vengono di nuovo considerate come conseguenze di problemi strutturali che riguardano quindi la società e gli atteggiamenti atti a considerare le persone che versano in queste condizioni come pericolose e colpevoli, vengono visti come dei tentativi di nascondere questi problemi nell’ottica sociale appunto. Così nella sentenza: “Gli squilibri e le forti tensioni che caratterizzano le società più avanzate producono condizioni di estrema emarginazione, sì che senza indulgere in atteggiamenti di severo moralismo non si può non cogliere con preoccupata inquietudine l’affiorare di tendenze, o anche soltanto tentazioni, volte a “nascondere” la miseria e a considerare le persone in condizioni di povertà come pericolose e colpevoli. Quasi in una sorta di recupero della mendicità quale devianza, secondo linee che il movimento codificatorio dei secoli XVIII e XIX stilizzò nelle tavole della legge penale, preoccupandosi nel contempo di adottare forme di prevenzione attraverso la istituzione di stabilimenti di ricovero (o getti?) per i mendicanti”. Anche in questa ultima parte si evidenzia l’impossibilità e anche la disumanità nell’adottare forme di prevenzione in stabilimenti di ricovero, o forse meglio detti ghetti, così come vengono viste inquietanti e preoccupanti le tendenze che sono atte a reprimere, piuttosto che ad affrontare, una problematica che è parte integrante del sistema sociale. Per cui è in primo luogo dovere sociale prendersi delle responsabilità ed occuparsi di una problematica che per troppo tempo è stata nascosta, annullata, disumanizzata. Di seguito vengono menzionate le organizzazioni di volontariato che sono la voce della società civile mossa da sentimenti di solidarietà, voce che lo Stato per primo e tutto il sistema legislativo, non possono fare a meno di prendere in considerazione. Infatti ancora nella sentenza si dice che “la coscienza sociale ha compiuto un ripensamento a fronte di comportamenti un tempo ritenuti pericolo incombente per una ordinata convivenza, e la società civile consapevole dell’insufficienza dell’azione dello Stato ha attivato autonome risposte, come testimoniano le organizzazioni di volontariato che hanno tratto la loro ragion d’essere , e la loro regola, dal valore costituzionale della solidarietà. (…). In questo quadro, la figura criminosa della mendicità (…) appare costituzionalmente irragionevole alla luce del canone della ragionevolezza, non potendosi ritenere in alcun modo necessitato il ricorso alla regola penale. Né la tutela dei beni giuridici della tranquillità pubblica (…), può dirsi invero seriamente posta in pericolo dalla mera mendicità che si risolve in una semplice richiesta d’aiuto”. In questa sentenza si parla 52 ancora di mendicità invasiva e mendicità non invasiva, distinzione che ritengo però, ai fini del nostro discorso, di secondaria importanza, soprattutto se consideriamo che anche il reato di mendicità invasiva, previsto nel secondo comma dell’art. 670 c. p., non viene quasi mai perseguito e che con la legge del 25 giugno 1999, n. 205, art. 18 viene cancellato in quanto attraverso questa legge viene abrogato tutto l’art. 670 del c. p.. Dal 1999 quindi la mendicità non è più un reato ma viene considerato una “semplice richiesta di aiuto”. Ora è molto difficile descrivere quali siano i “sentimenti” che la vista della persona senza dimora innescano. Geremek ponendosi la domanda se i sentimenti avessero una storia dice che è impossibile non riconoscere l’importanza degli studi sulla storia dei sentimenti per la storia della società e della cultura, ma dice anche che in questo campo è particolarmente alto il rischio di arbitrio. “Perché si può ritenere che una vera storia dei sentimenti debba risalire fino ad una dimensione biologica della storia umana e prendere in considerazione processi evolutivi talmente lenti da sfuggire all’osservazione dello storico; processi che non si sottomettono alle tecniche d’indagine proprie del mestiere dello storico”97. Nonostante ciò, analizzando le motivazioni dei comportamenti umani e le manifestazioni dei sentimenti (da ben specificare: non i sentimenti stessi), si può constatare che certi comportamenti e sentimenti, in alcuni periodi, riscuotono un maggior consenso di altri, “che esistono cioè <addensamenti> e <diluizioni> sui generis nelle loro manifestazioni”98. Dobbiamo comunque parlare di una coesistenza di alcuni atteggiamenti e sentimenti che possono sembrare agli antipodi. Tornando allo specifico del nostro discorso, vediamo che tutte le società hanno assunto verso i loro poveri un atteggiamento tipicamente ambivalente, complessa mescolanza di due reazioni: la paura e la ripugnanza da un lato, la pietà e la compassione dall’altro; e la sentenza in un certo qual modo mette in evidenza questa ambivalenza: partendo dal presupposto o meglio, dalla constatazione che la coscienza sociale ha compiuto un ripensamento di fronte a comportamenti che un tempo erano ritenuti pericolo incombente per una ordinata convivenza, menziona il sentimento di solidarietà della società civile. Sentimento che spesso può tradursi con il sentimento di compassione che viene esplicato dall’ “aiuto ai bisognosi” di cui molte associazioni di volontariato si occupano. Sentimento che 97 98 B. Geremek, La pietà e la forca, Laterza, Bari, 1995, p. 263. Ibidem, p. 263. 53 affonda le sue radici soprattutto nel cristianesimo99; non a caso molte associazioni in Italia che si occupano di persone senza dimora sono di stampo cattolico. Geremek, considera che il sentimento di solidarietà sia basato sulla reciprocità, ma aggiunge che nell’aiuto ai poveri, è spesso presente una relazione fra il dono – ed i suoi riferimenti antropologici – e la speranza di un valore escatologico dell’azione di aiuto, per cui bisognerebbe dire che l’atto di carità – caritas intesa come amore –inizia soltanto quando vengono esclusi quegli elementi di interesse. “Nei comportamenti sociali si intrecciano notoriamente elementi di <interesse> e di semplice amore del prossimo, di pietà piena di disprezzo e di aiuti veri”100. L’approccio del “compassionevole” è comunque di tipo restrittivo nel senso che la persona viene considerata in quanto bisognosa o mancante di qualche cosa: è sempre il bicchiere mezzo vuoto che viene preso in considerazione, per cui la prima cosa che ci viene in mente di fare è di colmare quei determinati bisogni101. Non che questo sia per forza sbagliato ma dal momento che ci poniamo di fronte ad una persona e la consideriamo mancante, automaticamente stabiliamo una distanza e una differenza, differenza che può divenire ontologica se non riusciamo nemmeno per un attimo a prendere in considerazione altre prospettive. Considerare ad esempio la persona senza dimora dal punto di vista dei diritti (diritti che in questo caso sono disattesi o violati), anziché dei bisogni è molto difficile, lo è soprattutto nell’ottica dell’etica del lavoro, comunque ancora oggi presente con la “vecchia” domanda “perché non vanno a lavorare”. L’attenuante è l’inabilità. L’attenuante può essere quindi la mancanza dovuta ad un problema fisico o psicologico. Oppure un altro attenuante potrebbe essere credere ad un evento traumatico o addirittura ad un insieme di eventi traumatici che hanno portato la persona in strada, tipo la perdita del lavoro, ovviamente non per cause personali, l’abbandono della famiglia, lo sfratto…Altro attenuante ancora è credere nella scelta libera e autonoma di queste persone di uno stile di vita all’insegna dell’anticonformismo, della rinuncia ai modelli di 99 “Durante il mio soggiorno tra i monaci, incontravo ogni giorno questi mendicanti vicino alla chiesa in cui venivano celebrate le funzioni. Il loro volto e il loro destino mi perseguitavano, e alla loro vista sorgeva in me un appello pressante a scendere più in basso nella sofferenza umana. Scorgevo in loro il volto del Crocifisso. Se erano il Cristo e se volevo seguirlo, allora dovevo passare dalla loro parte, cambiare sponda. Non potevo più restare là davanti e passare oltre.”, M. e C. Collard-Gambiez, Un uomo che chiamano clochard, Edizioni Lavoro, Roma, 1999, p. 45. 100 B. Geremek, La pietà e la forca, Laterza, Bari, 1995, p. 265. 101 Scrive Mauss: “Donare, equivale a dimostrare la propria superiorità, valere di più, essere più in alto, magister; accettare senza ricambiare o senza ricambiare in eccesso, equivale a subordinarsi, a diventare cliente o servo, farsi più piccolo, cadere più in basso.” M. Mauss, “Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche”, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, 1991, pp. 153-292. 54 vita prevalenti. Basti dire che quest’ultima è una visione molto elementare e riduttiva di una realtà, che è al contrario, molto eterogenea e dipendente dal contesto temporale102 e soprattutto questa immagine del “barbone” è estremamente riduttiva se si considera che queste persone hanno pressanti problemi nel soddisfacimento dei loro bisogni primari. Altra immagine è quella del povero “buono”, questa, soprattutto, “è un’idea dei ricchi che amano mantenere un’aureola romantica attorno ai poveri. Come se, in nome di buoni sentimenti cristiani o per il loro senso di colpa, volessero salvare l’onore dei poveri rivestendoli di virtù conservate grazie alla povertà, che loro ricchi invece avrebbero perso per colpa delle proprie ricchezze!”103 O condanniamo il povero o lo rivestiamo di tutte le virtù. E’ molto difficile pensare o soprattutto rendersi conto che anche queste persone hanno fatto parte della nostra normalità, è molto difficile abbandonare la barriera che spesso è il gesto stesso del dare l’elemosina a mantenerla. Il misto di paura, rabbia e disapprovazione comunque rimane, soprattutto se il “barbone” viene assimilato al tossico, al criminale all’immigrato…, tutti accumunati in un’unica categoria come esempi di un generico comportamento “antisociale”; in questo caso è soprattutto la paura a prevalere. Confondere la povertà con la criminalità ha inoltre l’effetto di bandire i reietti dall’universo degli obblighi morali. “Se la moralità consiste essenzialmente nel sentirsi responsabili dell’integrità e del benessere delle persone più deboli, svantaggiate e sofferenti, la criminalizzazione della povertà tende ad estinguere questo impulso”.104 Infatti quando i poveri vengono considerati criminali, in potenza o in atto, cessano di costituire un problema morale e ci esimono dalle nostre responsabilità sociali. In questo modo, non si pone più la questione morale di difenderli dalla crudele realtà in cui versano, bensì quella di difendere la vita e i beni delle persone normali dalle minacce che possono provenire dai quartieri degradati, dai ghetti e dalle zone malfamate. L’importante è non cogliere mai ciò che ci può legare a queste persone, l’importante è non cogliere la loro individualità, perché fare questo ci mette a contatto con le nostre paure, con le nostre insicurezze. E’ molto più facile pensarle come causa delle nostre paure, piuttosto che individui che condividono le nostre intime incertezze, i nostri intimi disagi. “Questa è la stranezza più disorientante e spaesante che ci capiti di leggere sul volto dell’altro: L’invito rivolto allo straniero in noi, al nostro straniero interno, a guardare da lontano, per la prima volta, la luna su cui abbiamo 102 L. Berzano, “Il vagabondaggio nella metropoli”, in Sociologia urbana e rurale n. 35, FrancoAngeli, Milano, 1991, pp. 162-163. 103 Michel, Colette Collard-Gambiez, Un uomo che chiamiamo Clochard, Edizioni Lavoro, Roma, 1999. 104 Z. Bauman, Lavoro, consumismo e nuove povertà, Città Aperta, Troina, 2004, p. 119. 55 vissuto, e a porci domande mai poste, a sentire la felicità della loro familiarità ritrovata.”105 Parlando invece di politiche sociali, perché è considerando il problema della persona sena dimora sotto questo punto di vista che possiamo parlare di diritti negati, sicuramente ad oggi la persona senza dimora ha acquisito una maggiore visibilità in quanto il problema viene riconosciuto a livello nazionale: la legge 328, del 2000, sull’assistenza, ad esempio, nell’articolo 27, istituì presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, una Commissione d’indagine sulla esclusione sociale, con il compito di effettuare, anche in collegamento con analoghe iniziative nell’ambito dell’Unione europea, indagini sulla povertà e sull’emarginazione in Italia. Allo scopo di potenziare gli interventi volti ad assicurare i servizi destinati alle persone che versano in situazioni di povertà estrema e ai senza dimora , nell’articolo 28 della stessa legge, si dispose di incrementare il Fondo nazionale per le politiche sociali di una somma pari a venti miliardi delle “vecchie” lire per ciascuno degli anni 2001 e 2002. Peccato che con la riforma del titolo V della Costituzione (legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001) la legge “quadro” del 2000 perda il potere di una legge “quadro” appunto. Uno degli aspetti centrali della riforma è appunto rappresentato dal capovolgimento dell’originario impianto costituzionale di ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni106. Non ci resta che concludere asserendo che è ancora molto lunga la strada da percorrere per poter parlare della persona senza dimora come una persona portatrice dei nostri stessi ed identici diritti e accorgerci che c’è un altro punto di vista: quello di cogliere per primo che il bicchiere sia mezzo pieno! 105 R. Escobar, Metamorfosi della paura, Mulino, Bologna, 1997, p. 159. Allo Stato è riservata la potestà esclusiva e quella concorrente con le Regioni, in un elenco espresso di materie, mentre “aspetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. (ddlc. N. c. 4462 ed altri, art. 3). Per quanto riguarda il settore dell’assistenza sociale, “tale materia non compare né fra le materie esclusive dello Stato né fra quelle di competenza concorrente, dovendo quindi concludersi che, in base alla nuova disciplina costituzionale, l’assistenza sociale appartenga oggi all’ambito delle materie di competenza legislativa regionale primaria. Uno dei settori classici delle politiche sociali, quello socio-assistenziale, viene dunque lasciato alle decisioni ed alle scelte dei governi e dei legislatori regionali i quali non saranno più vincolati all’osservanza dei principi fondamentali e degli indirizzi indicati dallo Stato. (…) In tale sistema rinnovato, la legge 328/2000 avrà forza vincolante fino a quando non intervenga il legislatore regionale ad approvare una nuova normativa dai contenuti incompatibili con la preesistente disciplina statale.” In C. Landuzzi, M. Corazza (a cura di), Minori in città, FrancoAngeli, Milano, 2005, pp. 188-189. 106 56 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Vorrei concludere il mio discorso riprendendo le parole di Xavier Emmanuelli con le quali ho aperto questo lavoro. Emmanuelli ci dice che l’esclusione è prima di tutto nelle nostre teste, nei nostri cuori, nel nostro modo di pensare ed è proprio per questo che è così difficile da cogliere e soprattutto da combattere. Gli atteggiamenti sociopsicologici nei confronti della persona senza dimora oggi non possono essere analizzati e compresi, se non risaliamo alle loro radici storiche; come abbiamo visto essi cambiano molto lentamente e spesso atteggiamenti tra loro in aperto contrasto sono compresenti o si alternano attraverso periodi di debolezza e di forza. La nozione di “povertà urbana estrema” fa parte del lessico contemporaneo; oggi dobbiamo capire che povertà e povertà estreme sono due cose fortemente diverse. Quest’ultime non rappresentano la fascia più bassa della povertà, non sono l’ultimo gradino di un percorso continuo ma hanno ragioni specifiche, mentre, per quanto concerne il passato il concetto di povertà estrema si associa al concetto di mendicità, vagabondaggio, ozio, accattonaggio. Immagini che, in particolare da metà 800, vengono ad assumere una connotazione estremamente negativa soprattutto grazie anche al sistema legislativo. Il vagabondo, l’ozioso non può più essere tollerato in quanto stravolge tutto il sistema etico e morale che ha come fondamento l’etica del lavoro, imperante in questo tipo di società; Il mendicante non suscita pietà perché preferisce uno stile di vita dedito all’ozio, al disordine, alla mancanza di valori e, oltre a ciò, è privo di una stabile dimora, sintomo anch’esso di libertinaggio, di disordine morale poiché impedisce di condurre una vita familiare, onesta, di risparmio, caratteristica in aperta contraddizione con le esigenze del tempo di stabilità territoriale che è invece sinonimo di ordine e controllo allo stesso tempo. La reclusione così diviene l’unica soluzione. Se per tutto il ‘700 fino alla prima metà dell’800 si pensava che attraverso una adeguata educazione al lavoro l’ozioso poteva essere “redento”, dalla seconda metà dell’800, ciò non si ritiene più possibile grazie anche al contributo della scienza medica e di quella psichiatrica in particolare. Il nascente positivismo criminologico fornisce nuove legittimazioni ai vari tipi di “istituti” di reclusione e contribuisce ad una nuova definizione della povertà urbana estrema che viene equiparata alla delinquenza vera e propria espressione di “anomalie” biologiche che non possono essere cambiate ma soltanto essere arginate, soppresse. Il positivismo avrà una forte influenza nel codice penale del 1930 (il codice Rocco) che considererà la 57 mendicità, senza distinzioni tra poveri meritevoli e non, un reato a tutti gli effetti; il carcere diviene così il principale strumento di controllo nei confronti della persona senza dimora. Oggi la povertà è tornata ad essere una condizione socialmente riconosciuta, il mendicante piuttosto che suscitare paura, suscita compassione; la sentenza della Corte Costituzionale infatti, proprio partendo dal presupposto che la mendicità non sia più un pericolo e che il mendicante chiedendo l’elemosina in strada non sia più portatore di disordine in quanto difficilmente con il proprio atteggiamento suscita paura, disdegno, dichiara l’illegittimità costituzionale del primo comma dell’art. 670 c. p. La sentenza ci rimanda quindi all’immagine del mendicante “bisognoso di aiuto”: potremmo dire che segna una svolta importante ma allo stesso tempo non dobbiamo dimenticare che la sentenza, a sua volta, non fa altro che esplicitare e dare un senso legislativo ad un sentire comune già presente. La presenza della persona senza dimora oggi, difficilmente suscita paura quanto piuttosto compassione, sentimento che pone comunque il soggetto verso cui si rivolge in un “mondo” altro privandolo di una dignità soggettiva. Per cui ancora oggi la persona senza dimora è oggetto di stereotipi e luoghi comuni che non permettono di considerare la vita reale di persone portatori dei nostri stessi diritti. 58 FONTI LEGISLATIVE Legge sarda 11-11 1859. Legge 20- 3 1865. Legge 23-12- 1888, n. 5888, legge sulla pubblica sicurezza. Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza 30-6-1889, n. 6144. Regio decreto 19-11-1889, n. 6535. Articoli 670-671 codice penale. Articolo 154, t. u. l. p. s. (r. d. 18-6-1931, n. 773, approvazione del t. u. delle leggi di pubblica sicurezza). Articoli 277, 281, 283, regolamento per l’esecuzione del t. u. 18-6-1931, n. 773 delle leggi di pubblica sicurezza (r. d. 6-5-1940, n. 635. Legge 27-12-1956, n. 1423, misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e la pubblica moralità (nel testo modificato dalla legge 3-81988, n. 327, norme in materia di misure di prevenzioni personali). Articolo 38 Costituzione. Sentenza 7-5-1975, n. 102. Sentenza 28-12-1995, n. 519. Articolo 18, legge 25-6-1999, n. 205. Legge 8-11-2000, n. 328, legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali. Legge costituzionale 18-10- 2001, n. 3, riforma del titolo V della Costituzione. 59 BIBLIOGRAFIA Anderson N., The hobo. The sociology of the Homeless Man, The University Press, Chicago, 1924, tr. It. Il Vagabondo. Sociologia dell’uomo senza dimora, Donzelli, Roma, 1994. Castel R., “Disuguaglianze e vulnerabilità sociale”, in Rassegna italiana di sociologia, n. 1, 1997. Castel R., L’insicurezza sociale, Einaudi, Torino, 2004. Cosseddu A., “Mendicità”, in Digesto, Discipline penalistiche, vol. VII, UTET, Torino, 1993. 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