Capitolo 2 Il mercantilismo, la Fisiocrazia e gli altri precursori del pensiero economico classico Il Mercantilismo fu una Teoria economica nata, a partire dal 1500, come risposta alle conseguenze provocate dall’espansione dell’attività economica, ossia dall’aumento dei traffici, dall’incremento della produzione di beni e dei contratti di compravendita, nonché dal passaggio dalla società feudale a quella moderna. Da allora l’Economia cominciò ad esser vista non più come governo della casa o del singolo imprenditore ma come sistema caratterizzato da leggi e relazioni proprie. Tra i Mercantilisti, i cui esponenti più importanti furono inglesi e francesi, militarono mercanti e uomini d’affari che guardavano al commercio, e a livello teorico puntavano ad evidenziare politica economica e interessi di classe piuttosto che collettivi. Uno degli scopi del Mercantilismo fu quello di favorire la Potenza e la Ricchezza dello Stato questa nuova entità astratta nata a seguito dell’accentramento del potere su di un territorio delimitato e all’interno del quale un sovrano esercitava il dominio assoluto. Secondo i Mercantilisti, la Ricchezza globale del mondo era fissa e ciò, a livello commerciale significava aumento della Potenza e ricchezza nazionale di alcuni Stati e perdita per altri. Al fine di potenziare la crescita economica nazionale venne dunque studiata la funzione del Commercio internazionale e della Bilancia commerciale. Partendo dall’assunto secondo cui lo scopo dell’attività economica è la produzione e non il consumo, il Mercantilismo affermò che i veicoli per giungere alla Ricchezza nazionale erano l’obbligo di ridurre il consumo interno, d’incrementare le esportazioni e d’incentivare la produzione. Inoltre i salari dovevano essere mantenuti bassi sia per vincere la concorrenza internazionale sia per incentivare i lavoratori e quindi aumentare la produzione. Pertanto il Mercantilismo bocciò le Importazioni e propose di bloccarle mediante l’applicazione di tariffe, dazi doganali e incentivi alla produzione statale, lo Stato inoltre, doveva favorire l’aumento produttivo al fine di ottenere una Bilancia commerciale positiva (documento contabile atto alla registrazione delle transazioni economiche avvenute in un determinato periodo di tempo tra residenti e non residenti in un economia statale). Inizialmente i Mercantilisti intendevano la Ricchezza della Nazione come accumulo di riserve di metalli preziosi e dunque la Bilancia commerciale era in attivo se i flussi di materiali aurei si sarebbe diretto verso il proprio Stato. Poi questa idea fu abbandonata per abbracciare quella della bilancia attiva nei confronti dell’intero globo, e le stesse riserve auree potevano essere esportate a patto di acquistare materie prime volte alla produzioni di beni esportabili. I mercantilisti della seconda ora si distinsero per lo studio della Moneta all’interno dell’economia. Bodin ad es. incentrò la sua attenzione sul rapporto proporzionale tra quantità di moneta e livello generale dei prezzi, mentre Hume trattò le relazioni tra il saldo della bilancia commerciale, la quantità di moneta e il livello generale dei Prezzi (Price specie-flow mechanism). Inoltre, sostennero che elementi discriminanti per la variazione dell’attività economica erano i Fattori monetari e non quelli reali. Specificatamente, un adeguata offerta di moneta avrebbe inciso sulla crescita del commercio interno ed estero così che, variazioni della quantità di moneta avrebbero variato il livello della produzione reale. Tra il 1660 e il 1776 si sviluppò la convinzione che l’economia poteva essere studiata come disciplina autonoma. Venne abbandonata, anche se non del tutto, la visione moralista della Scolastica e prese campo lo studio mediante il principio causa-effetto proprio del mondo della Fisica. L’economia era una causalità e comprendere le regole che governavano tale causalità, insieme ad un adeguato intervento statale, avrebbe reso possibile l’analisi economica. Il governo doveva intervenire non intaccando le leggi fondamentali dell’economia o tentando di mutare la natura umana, bensì ricercando leggi e istituzioni tese alla Potenza ed alla Ricchezza della Nazione. Un grande limite del Mercantilismo fu quello di non comprendere il modo di formazione dei prezzi e di distribuzione delle risorse, ciò perché, diversamente dal pensiero classico per il quale dalla ricerca del bene personale derivava anche quello comune, i Mercantilisti vedevano interesse privato e interesse collettivo in continuo contrasto, e tale frizione poteva essere sanata solo dall’intervento Statale. Precursori del Pensiero classico Thomas Mun Mun (1571-1641) fu un dirigente della Compagnia delle Indie Orientali fortemente criticata perché la sua attività determinava per primo, nel rapporto tra Inghilterra e India un livello di importazioni maggiore rispetto alle esportazioni, e secondo una continua fuoriuscita di metalli preziosi i quali venivano usati come mezzo di pagamento. La sua opera più importante fu Il Tesoro dell’Inghilterra dal punto di vista del commercio estero (1664) dove affermò che la ricchezza dell'Inghilterra dipendeva dal commercio estero. Mun era convinto che la ricchezza di un paese coincidesse con le riserve di metalli preziosi, e sosteneva l’attivo della bilancia commerciale al fine di garantire un afflusso di oro e argento verso il territorio nazionale. Compito del governo era quello di regolamentare il commercio estero in modo da avere un attivo nella bilancia commerciale, e ciò era possibile favorendo l'importazione di materie prime a basso costo e l'esportazione di beni, applicando dazi e tariffe protezionistiche sui beni importati, e adottando atti politici che favorissero l’aumento della popolazione e i salari ad un livello basso. La Teoria di Mun era comunque non lineare, egli infatti, riguardo le critiche avanzate alle Compagnia delle Indie sosteneva che nel caso Indiano un bilancio inglese in passivo e un deflusso di metalli preziosi giovavano all’Inghilterra in quanto avrebbero consentito vantaggi commerciali verso il resto del mondo. William Petty Petty (1623-1687) tipico Mercantilista e autore dell’Aritmetica politica, grazie all’ausilio dell’induzione, empirismo e matematica sperimentò le tecniche statistiche come strumento di misurazione dei fenomeni sociali. Petty tentò di misurare la popolazione, il reddito nazionale, le importazioni e le esportazioni, e lo stock di capitale della nazione. Questo pensatore espresse le idee in termini di numero, peso e misura, e accettò solo quelle argomentazioni che hanno un visibile fondamento nella natura rappresentando così un antesignano del moderno approccio economico. Bernard Mandeville Mandeville (1670-1733) criticò i cd. moralisti del sentimento e sostenne il sottoconsumo. Nella sua opera più importante intitolata Favola delle Api, ossia Vizi privati, pubblici benefici ipotizza un mondo simbolico in cui i moralisti facessero abbandonare alle api la prodigalità, l’orgoglio e la vanità giungendo così alla depressione economica. Differentemente dai moralisti che credevano la moralità costituita si da principi razionali ma anche da emozioni e sentimenti, e che questa fosse capace di indirizzare l’egoismo umano verso il bene comune, secondo Mandeville il mondo è dei vizi, egli accetta l’uomo così com’è, ritiene l’egoismo un vizio morale e afferma che il bene comune può nascere dai comportamenti individuali solo se questi sono controllati dallo Stato. Scopo del governo era quello di regolamentare il commercio estero in modo da consentire un'eccedenza delle esportazioni sulle importazioni. Mandeville si dichiarò contrario alla sovrapproduzione, al sottoconsumo e al risparmio privato. Infine, assunto che uno degli elementi base del successo economico è la produzione, si schierò contro il lassismo e a favore di una popolazione numerosa in cui la forza lavoro fosse costituita anche da bambini, in tal modo, essendo il tasso di partecipazione al lavoro molto alto era possibile mantenere salari bassi, vincere la concorrenza internazionale e sostenere un accettabile offerta di lavoro. David Hume Hume (1711-1776) può essere definito come un Mercantilista liberale perché guardò con interesse alle nuove teorie, criticò parzialmente le vecchie, ma nel contempo rimase ancorato alla dottrina mercantilista. Trattando le relazioni tra il saldo della bilancia commerciale, la quantità di moneta e il livello generale dei Prezzi (Price specie-flow mechanism) affermò che la bilancia commerciale non poteva rimanere positiva (esportazioni>importazioni) nel lungo periodo, e ciò perché, a fronte di un costante aumento di quantità dei metalli preziosi anche i prezzi sarebbero aumentati. La conseguenza internazionale di tale situazione era la diminuzione di quantità di oro e argento per gli altri Stati e decremento dei prezzi, e dunque, inversione e tendenziale equilibrio tra esportazioni e importazioni, ossia il paese con la bilancia commerciale positiva avrebbe importato maggiormente (a seguito dei prezzi esteri bassi) quello con la bilancia passiva avrebbe incrementato le esportazioni. In secondo luogo, Hume sposò la teoria secondo cui gli elementi discriminanti per la variazione dell’attività economica ed in particolare della produzione reale e dell’occupazione, sono i Fattori Monetari e non quelli reali. I mercantilisti credevano che la produzione poteva realmente aumentare grazie a variazioni dell'offerta di moneta, i classici invece optarono per variazioni di carattere reale come l’offerta di lavoro o la variazione delle risorse disponibili in quanto le variazioni dell'offerta di moneta avrebbero modificato solo il livello generale di prezzi. Hume era convinto che nonostante il livello assoluto di denaro della nazione non avesse, in termini reali, alcuna influenza sulla produzione, un incremento graduale dell'offerta di moneta avrebbe comportato una maggiore produzione. Altri aspetti che vanno ricordati in Hume sono la stretta connessione tra libertà politica e libertà economica nonché la cd. Proposizione di Hume riguardante la distinzione tra considerazioni di tipo positivo e considerazioni di tipo normativo e dunque ciò che deve essere (affermazione normativa) non può essere derivato da ciò che è (affermazione positiva). Richard Cantillon Cantillon (1680-1734) irlandese e studioso di Locke e Petty, fu autore del Saggio sulla natura del commercio in generale e influenzò le opere di Quesnay. Fu Mercantilista per la visione del commercio estero, e Fisiocratico per l’attenzione posta all’agricoltura, e affermò che il sistema di mercato era in grado di coordinare le attività di produttori e consumatori grazie all’interesse individuale, ovvero gli imprenditori fiutando il profitto personale produrrebbero dei risultati migliori rispetto agli interventi statali. Riguardo alle forze che dettano i prezzi, riuscì a distinguere tra prezzi di mercato determinati da fattori di breve periodo e prezzi di equilibrio di lungo periodo coincidenti con il valore proprio delle merci; inoltre si occupò di aspetti macroeconomici inerenti le variazioni dell’offerta di moneta, dei prezzi e della produzione. La Fisiocrazia Il movimento Fisiocratico il cui leader fu Francois Quesnay (1694-1774) nacque in Francia ed ebbe un esistenza circoscritta tra il 1750 e il 1780. I Fisiocratici studiarono le interrelazioni tra i differenti settori economici , il funzionamento dei mercati non regolamentati e fondarono la loro speculazione sulla Legge Naturale ossia l’esistenza di leggi naturali, che potevano essere analizzate obiettivamente, che sovrintendono al settore economico e poiché sono naturali non possono essere collegate all’attività umana. A differenza dei mercantilisti che guardarono ai fattori monetari come elemento atto all‘aumento della produzione e dunque della Ricchezza, gli economisti francesi si concentrarono sulle forze reali, e sulla convinzione che solo l’agricoltura poteva essere la fonte della Ricchezza nazionale. All’epoca Fisiocratica l’economia francese era frammentata, nella zona settentrionale infatti si diffondevano tecniche moderne, mentre nel resto del paese permaneva una situazione di arretratezza. Partendo da tale presupposto i Fisiocratici enfatizzarono il valore della natura, e ricercarono le cause della ricchezza delle nazioni nonché le politiche atte a consentire un idonea crescita economica. In quel tempo esisteva un disavanzo tra beni prodotti e forze reali impiegate, dunque esisteva un cd. sovrappiù espresso nel concetto di Prodotto netto facilmente individuabile mediante un analisi empirica del processo agricolo. Pagati i fattori produttivi come le sementi, i macchinari o il lavoro dei braccianti, il restante raccolto rappresenta infatti il quantum, la produttività fornita dalla terra ed in particolare la misura del Prodotto netto era data dalla rendita sulla terra. Tale prodotto netto poteva essere ricercato solo nell’agricoltura e non nell’attività industriale considerata sterile ed in grado di fornire solo i costi del lavoro operaio. La relazione tra la rendita sulla terra e il prodotto netto è stata illustrata dai Fisiocratici nel Tableau Economique in cui sono rappresentati agricoltori, proprietari terrieri e artigiani e servitori. Partendo dalla colonna centrale del Tableau, i proprietari spendono il prodotto netto dell'anno precedente acquistando 1.000 libbre di beni dagli artigiani e 1.000 libbre di beni agricoli dagli agricoltori (corrispondenti alle linee diagonali marroni). Le 1.000 libbre spese nel settore agricolo generano 2.000 libbre di credito, di cui metà sono dirette verso i proprietari sotto forma di prodotti, e l'altra metà sotto forma di rendita. Le 1.000 libbre di reddito ricevute dagli artigiani vengono in parte spese in beni agricoli (prima diagonale verde), e quindi, secondo l'ipotesi di base, generano un identico prodotto netto: le 500 libbre della colonna di sinistra che si traducono quindi in un uguale ammontare di rendita diretta verso i proprietari. Le spese degli agricoltori per i beni prodotti dagli artigiani sono poi rappresentate dalle linee diagonali arancioni che vanno dalla colonna di sinistra a quella di destra. Le ipotesi del Tableau economique sono che solo la terra può generare un output più grande dei costi della sua produzione e pertanto la produttività della terra è pari al 100%. Per gli artigiani e servitori invece il valore dei beni prodotti è uguale al pagamento dei fattori produttivi. Obiettivo della "tavola economica" era la rappresentazione dell’interdipendenza tra i settori macroeconomici, il flusso dei redditi monetari tra i vari settori dell'economia, nonché la creazione e la circolazione annuale del prodotto netto all'interno del sistema economico. Secondo la teoria fisiocratica i prezzi si formavano sul mercato per mezzo dell'attività economica, e tale processo di formazione dei prezzi era legato alla legge naturale e in quanto indipendente dalla volontà umana poteva essere oggetto di studio. Nonostante una teoria fisiocratica dei prezzi manchi, questi economisti giunsero alla conclusione che la libera concorrenza avrebbe prodotto i prezzi migliori, e se ogni uomo avesse seguito il proprio interesse personale la comunità ne avrebbe tratto beneficio. Inoltre, essendo il prodotto netto legato alla rendita della terra essi stabilirono che il carico fiscale dovesse gravare in ultima istanza sull‘agricoltura. Ma la conclusione più importante a cui giunsero i fisiocratici fu la loro crescente consapevolezza della funzione dei prezzi nell'integrare le attività economiche, ciò perchè ogni soggetto che lavora opera a favore di altri, e dunque le attività interdipendenti di tutti i soggetti sono integrate per mezzo del sistema di prezzi. La libera concorrenza, così come l’autoregolamentazione del sistema economico, veniva sostenuta dai Fisiocratici in quanto essi come detto, credevano alla legge naturale, e bocciando la teoria protezionista mercantilista sposarono quella del laissez faire. Un esempio degli errori mercantilisti era il vieto di esportazione del grano francese, che mantenendo basso il prezzo del grano nazionale impediva lo sviluppo agricolo. Essi erano convinti che una politica di laissez faire avrebbe comportato una crescita imponente dell'agricoltura francese, e una conseguente trasformazione della struttura economica fondata sull'impresa di piccole dimensioni, alla moderna agricoltura su grande scala, con un aumento generale di ricchezza e di potenza per la Francia. Per i Mercantilisti la fonte del prodotto netto era lo scambio, in particolare nella forma del commercio internazionale, e perciò proponevano misure di politica economica che promuovessero una bilancia commerciale in attivo. Per i Fisiocratici la fonte del prodotto netto era l'agricoltura, e quindi sostenevano che il lassez faire avrebbe generato un aumento della produzione agricola e, in ultima istanza, una crescita economica più sostenuta. Parte Seconda Il pensiero economico classico, Malthus e Marx L’Economia Politica Classica abbraccia un periodo che và dal 1776, anno della pubblicazione della Ricchezza delle Nazioni di A.Smith, sino al 1890. A quest’opera seguirono i Principi di Economia Politica e dell’Imposta (1817) di Ricardo e i Principi di Economia Politica (1848) di J.S Mill. Nonostante gli studiosi classici giunsero a proposte innovative, l’origine delle loro idee deve essere cercata nella Scolastica, nel Mercantilismo e nella Fisiocrazia sebbene esistono tre caratteristiche che differenziano la teoria classica rispetto ai precedenti studi economici. In primo luogo, i classici proposero una visione ottimistica del funzionamento dei mercati dunque si allontanarono dal pensiero medioevale e mercantilista; alla stessa stregua dei fisiocratici, guardarono al mercato come un sistema armonico e autonomo, nonché di giungere alla massima efficienza concedendo ai singoli un ampia libertà. Inoltre, così come scritto da Hume, libertà politica ed economica dovevano essere strettamente correlate. Tuttavia, la visione positiva classica non comportava il trascurare di alcuni problemi reali presenti nel sistema (pensiamo ai conflitti tra proprietari terrieri e classi che intendevano proporre una nuova politica economica) cosicché nacquero nuove riflessioni che avrebbero portato alla nascita dell’economia eterodossa che negava l’armonia del mercato, e proponeva la risoluzione dei conflitti economici non con le sole forze di mercato ma grazie ad un mutamento del sistema, nonchè dell’economia ortodossa che s’aprì all’aiuto fornito dalle soluzioni politiche. In secondo luogo i classici si occuparono della Crescita economica dettata dal fattori economici ma anche culturale, politico, sociale e storico. Al fine di comprendere la crescita economica venne analizzato il sistema dei prezzi come mezzo atto ad allocare le risorse disponibili, e sotto quest’aspetto i classici furono vicini al Mercantilismo e distanti dall’economia neoclassica o dalla moderna microeconomia. Infine, a differenza dei Mercantilisti i quali si convinsero che mediante il sapere era possibile correggere le storture del sistema, i Classici rimasero scettici e guardinghi circa le competenze teoriche. Malthus e Marx sebbene vicini alla scuola classica non possono essere citati come teorici classici. Prendendo ad esame Marx possiamo dire che i punti di maggior vicinanza al classicismo furono: L’evidenza dei conflitti presenti nella società, ed in particolare quello tra capitalisti e lavoratori mediante l’uso della teoria classica del valore-lavoro Analizzò il sistema economico dal lato della dinamica (evoluzione del saggio di profitto,distribuzione del reddito nel tempo) Studiò anch’egli le classi economiche dei capitalisti, proprietari terrieri e lavoratori Marx però, si differenziò in maniera decisiva nell’ideologia, e infatti riteneva che il profitto e l’accumulo del capitale non fossero virtù ma azioni dannose per la classe dei lavoratori. Capitolo 3 Adam Smith Adam Smith e l’economia classica A.Smith visse tra il 1723 ed il 1790, fu influenzato da Hutchenson (1694-1746) e Hume e con il primo contribuì all’aspra critica nei confronti di Mandeville che sosteneva il pregiudizio apportato al sistema economico dal perseguimento dell’interesse individuale al sistema economico, e il necessario intervento statale in economia. Smith affermò l’interdipendenza tra i vari settori dell’economia e le politiche da adottare per incentivare la crescita della Ricchezza di una Nazione. Favorevole al laissez faire predicato dai Fisiocratici, nel suo studio sul funzionamento dei mercati non applicò solamente la teoria ma usò anche le osservazioni di eventi storici ed istituzionali accaduti, inaugurando la cd. Politica economica contestualizzata. Domandandosi se l'intervento del governo produce realmente risultati migliori rispetto al libero funzionamento dei mercati, concluse che i mercati, tendenzialmente, non raggiungono risultati ideali dal punto di vista del benessere sociale, ma empiricamente rilevò che gli effetti dell'intervento statale sono meno efficienti di quelli del libero mercato. Pertanto sposò il laissez faire non perché asserisce la perfetta armoniosità dei mercati bensì perché nel contesto storico e istituzionale inglese il sistema economico tendeva a risultati migliori rispetto a quelli ottenuti con il protezionismo e le politiche governative. Se l’economia come scienza guarda alle relazioni fattuali tra le variabili economiche, ossia all’essere contrapposto al dover essere, oggetto dell’economia normativa, l’economia arte è volta a questione di politica economica e necessita sia della scienza, dunque dei fattori reali che degli obiettivi perseguiti (economia normativa). Detto ciò Smith può essere definito come un politico economico per la sua conoscenza storica e umana, dunque la sua Politica economica contestualizzata è l’economia come arte. Concordemente con i mercantilisti sottolineò l’importanza delle scienze naturali in quanto l’applicazione di queste all’economia avrebbe permesso la scoperta delle leggi economiche. Da poi considerava l’essere umano razionale e guidato dall’interesse personale e infatti, se ogni individuo dispone della libertà di agire, ricercando il proprio utile contribuirà alla soddisfazione dell‘interesse comune. Contrariamente al Mercantilismo invece, considerò i mercati concorrenziali, dotati di fattori di produzione mobili in cerca della migliore remunerazione possibile, e affermò l’utilità dei processi naturali capaci di correggere le storture del sistema economico ancor più di ogni intervento governativo. Nella Ricchezza delle nazioni Smith sostiene un’economia di mercato non soggetta a regolamentazione, dunque un mercato concorrenziale, in cui l'interesse privato condurrà all'ottenimento del bene comune. La chiave per comprendere questo processo risiede nell'attività dei capitalisti. Assunto che gli imprenditori sono mossi dalla logica del profitto, Smith dimostrò come la concorrenza fra capitalisti origina la produzione di beni ad un costo che garantisce al produttore un ricavo appena sufficiente a coprire i costi-opportunità dei vari fattori impiegati. Un profitto superiore a quello normale in un certo settore dell'economia infatti, attraendo nuove imprese, comporterà una diminuzione del prezzo sino a livelli tali da eliminare gli extraprofitti. Anche i consumatori tramite il loro potere d'acquisto producono sul mercato, a seconda delle loro preferenze, aumenti o diminuzione dei prezzi, e conseguentemente profitti superiori o inferiori. Il mercato dunque, senza alcun intervento realizza i desideri dei consumatori al minor costo sociale possibile, giungendo alla migliore allocazione delle risorse presenti al suo interno. Il funzionamento dei mercati concorrenziali Una delle analisi più importanti di Smith fu quella sul Funzionamento dei mercati concorrenziali e specificatamente su come nel lungo periodo il prezzo di un bene equivale al suo costo di produzione. Smith distinse tra Prezzi naturali ossia i prezzi di lungo periodo e Prezzi di mercato o di breve periodo. Partendo dall’assunto che nei mercati concorrenziali esistono molti venditori a cui s’affiancano i detentori delle risorse, i quali conoscono i livelli di profitto, dei salari e delle rendite e sono consapevoli della circostanza che i fattori produttivi sono mobili, quest’ultimi, alla continua ricerca del proprio utile farebbero si che i prezzi tendano a quelli naturali di lungo periodo in maniera che profitto, salari e rendite risultino uniformi nei diversi settori economici. (Supponiamo che il prezzo di un bene > a quello naturale di lungo periodo comportando, nel campo in cui viene prodotto profitti, salari o rendite > rispetto al livello naturale. Tale situazione farebbe spostare le risorse dai settori meno convenienti a quelli più convenienti sino a rendere uniforme la situazione garantendo così un esatta allocazione delle risorse e potenziando al massimo la crescita del sistema). Conseguentemente vengono criticati i monopoli e l’azione politica in campo economico contraria sia alla legge naturale che alla libertà individuale. Proponendo una disamina propria dell’arte dell’economia e usando argomentazioni descrittive e storiche, Smith sostenne che il Protezionismo mercantilista è volto a favorire interessi dei mercanti e uomini d’affari e non il bene comune, e allora i governi sarebbero guidati, strumentalizzati dai commercianti e non proporrebbero misure economiche efficienti. L’analisi di Smith risulta anche obiettiva in quanto la sua critica non è indiscriminata ovvero individua aree da proteggere come per es. quelle delle industrie nascenti o dei beni nazionali quali istruzione o opere pubbliche ecc…, i quali non essendo prodotti da privati non raggiungono i giusti livelli di profitto e quindi livelli di produzione socialmente desiderabili (effetti spillover). All’interno del Pensiero Smithiano assume una particolare importanza il Capitalista che ricercando guadagni e profitti consente la giusta allocazione delle risorse all’interno dello scenario economico. Capitalisti non possono essere i lavoratori i quali ricevono un salario che consente loro di soddisfare solo i bisogni primari e neanche i proprietari terrieri dediti al lusso, ma lo sono gli industriali capaci di accumulare capitale e consentire la crescita economica della Nazione. Per Smith dunque ala Ricchezza delle Nazioni da intendere come crescita economica, reddito prodotto era data dall’accumulazione del capitale (che a sua volta determina divisione del lavoro e proporzione della popolazione impiegata), la quale conduce anche allo sviluppo economico e insieme all’interesse personale permette la giusta distribuzione del capitale tra le industrie. L’obiettivo dell’attività economica era il consumo (secondo i mercantilisti la produzione era fine a se stessa) mentre il lavoro era considerato come origine della Ricchezza delle Nazioni, dettò ciò, ponendosi in disaccordo con il Mercantilismo asserì che la Natura della Ricchezza delle Nazioni non risiedeva nell’accumulazione di metalli preziosi bensì nella produzione annuale di beni e servizi, e tale ricchezza doveva essere misurata in termini Procapite. A tal fine esaminò anche esportazioni e importazioni in quanto mediante le prime era possibile reperire i mezzi di pagamento per le seconde. Le cause della Ricchezza delle Nazioni Secondo Smith le cause della Ricchezza delle Nazioni sono: la Produttività del Lavoro ed il Rapporto tra lavoro produttivo e improduttivo. La Produttività del lavoro discende dalla divisione del lavoro e per spiegare tale affermazione porta l’esempio del lavoratore che produce spilli pur rilevando la monotonia insita nello svolgere uguali operazioni. Se un operaio compirà tutte le attività necessarie alla creazione di uno spillo la produzione sarà bassa, al contrario se le attività vengono suddivise la produzione aumenterà, verità ne è che la divisione di tale fabbricazione in 18 fasi porterà ogni lavoratore a produrre 480 spilli anziché 20. La divisione del lavoro dipende a sua volta dalla grandezza del mercato la quale conduce ad un aumento della vendita di beni, nonchè dall’accumulazione del capitale. Relativamente all’accumulazione Smith sottolinea il tempo trascorso tra l’inizio della produzione e il momento in cui il prodotto finito viene messo sul mercato. La divisione dice Smith, può progredire soltanto in proporzione alla preventiva e graduale accumulazione del capitale poichè quest’ultima consente di sopportare la distanza tra l'inizio della produzione e la vendita di prodotto finale. Dall’accumulazione di capitale dipende anche il Rapporto tra lavoro produttivo e improduttivo, il primo consistente nella produzione di beni che possono essere venduti, il secondo invece, riguarda la produzione di servizi. Se è vero che la natura della Ricchezza delle Nazioni risiede nella produzione annuale di beni servizi l’economia deve tendere al lavoro produttivo, e tale Ricchezza sarà tanto più grande quanto maggiore saranno i lavoratori impiegati nel settore produttivo. Da quanto detto ricaviamo che sia la Produttività del lavoro, sia il Rapporto tra lavoro produttivo e improduttivo dipendono dall’Accumulazione del capitale vista come causa determinante ai fini della Ricchezza delle Nazioni, e la crescita economica sarà tanto maggiore quanto elevata è la proporzione con cui il prodotto totale viene destinato all’accumulazione del capitale. Presupposto all’accumulazione di capitale sono il libero mercato e la Proprietà privata, infatti, attraverso il primo l’investimento economico garantirà la giusta crescita, grazie alla seconda si potrà avere una differenza reddituale necessaria per l’accumulazione del capitale. La teoria del valore La Teoria del valore costituita dai principi che determinano il valore scambiabile dei beni è connessa all’analisi dei Prezzi relativi sia nel breve che nel lungo periodo, nonché ai settori economici dell'agricoltura e della manifattura. Nel breve periodo (coincidente con il periodo di mercato e a cui sono interessati i prezzi di mercato) sia per l’agricoltura che per la manifattura esistono curve di domanda inclinate verso il basso e curve di offerta inclinate verso l'alto, mentre i prezzi di mercato sono dati da entrambe le forze. (La curva di domanda è costituita da Prezzo e quantità, > sarà il 1° < sarà la 2°. L’offerta invece è formata anch’essa da Prezzo e quantità, ma > sarà il 1° > sarà la 2°- Egli spiega i prezzi relativi dal lato dei costi di produzione, ossia dell‘offerta ma s‘interessa anche alla domanda) Riguardo ai Prezzi naturali riferiti al lungo periodo, in agricoltura sono dettati dalla domanda e dall'offerta, dato che la curva di offerta di lungo periodo è inclinata positivamente ed indica costi crescenti. Nel settore della manifattura, la curva di offerta è, a volte perfettamente elastica in quanto i costi rimangono costanti, altre inclinata verso il basso in quanto i costi sono decrescenti, ciò vuol dire, che nel primo caso il prezzo dipende interamente dal costo di produzione, nel secondo caso è correlato sia alla domanda che dall'offerta. Varie sono le interpretazioni circa la Tesi Smithiana sui Prezzi naturali per i manufatti. Alcuni studiosi parlano di semplice incoerenza, altri di disinteresse o di spiegazione dei costi della manifattura, ciò che importa è dire che Smith riflettè coerentemente sul ruolo della domanda della formazione dei prezzi naturali e nell'allocazione delle risorse tra i vari settori dell'economia, ed evidenziò in particolare il ruolo del costo di produzione nel fissare i prezzi relativi. Smith distinse due concetti, quello di valore di scambio e valore d’uso. Il primo è il potere di un bene di acquistarne altri, rappresenta il prezzo del bene in questione, e la sua misura dipende dal mercato; il valore d'uso è invece la peculiarità di un bene di soddisfare i desideri, o in altre parole rappresenta l'utilità che se ne ricava possedendolo o consumandolo, sebbene il valore d‘uso è anche rivestito di riflessioni etiche. Circa l’utilità data dal consumo Smith si concentrò sull'utilità totale piuttosto che su quella marginale e fu proprio questo il suo errore. (L’Utilità totale indica il grado di soddisfazione che gli individui traggono dal consumo di beni e servizi-l’Utilità marginale invece indica l’ammontare per cui l’utilità totale cambia quando il consumo varia di una unità) Nonostante infatti l'utilità totale dell'acqua sia maggiore di quella dei diamanti, accade che l'utilità marginale di un bene diminuisce all'aumentare del suo consumo (legge dell’utilità marginale decrescente) è dunque probabile che un'unità addizionale di acqua conferisca meno utilità rispetto a un'unità addizionale di diamanti. Se ne trae la conclusione, che il prezzo che siamo disposti a pagare per un bene non dipende dalla sua utilità totale ma da quella marginale. Smith non riconobbe questo passaggio: questo spiega perché egli non riuscisse né a trovare una soluzione convincente al paradosso dell'acqua e dei diamanti, né ad individuare la relazione appropriata tra valore d'uso e valore di scambio. Le Tre teorie dei prezzi relativi sviluppate da Smith sono: 1. una teoria del valore basata sul costo del lavoro 2. una teoria del valore basata sul lavoro comandato 3. una teoria del valore basata sul costo di produzione Inoltre immaginò due società economiche, una primitiva in cui non esiste l’accumulazione di capitale e la terra non è stata occupata ma è comune, e l’altra avanzata. Nelle Società primitive il valore di scambio (o il prezzo) di un bene è determinato dalla quantità di lavoro necessaria per produrlo. Ma come va misurata la quantità di lavoro atta a procurarsi un dato bene oggetto della cd. Teoria del valore-lavoro? Sicuramente non è possibile prendere a riferimento solo le ore-lavoro ma bisogna considerare l’abilità del lavoratore, il grado di soddisfazione raggiunto durante la mansione svolta, la difficoltà di questa, eventuali imprevisti, dunque è necessario misurare l’incidenza di ogni variabile. Smith tentò di spiegare l’importanza delle variabili riconducendole al salario del lavoratore, pertanto > sarà il salario > saranno abilità o tipo di lavoro. Tale spiegazione non è però esaustiva perchè il valore di bene uguaglia il salario pagato, e dunque mediante un insieme di prezzi, i salari, si spiega un altro insieme di prezzi, quelli relativi. Per meglio far comprendere la sua teoria valore-lavoro Smith propose un esempio: egli suppone che un cacciatore impieghi due ore per catturare un castoro e lo stesso tempo per due cervi, dunque in termini di valore, un castoro uguaglierà due cervi, ossia il suo prezzo sarà il doppio di quello di un cervo. Detto ciò Smith, chiama Prezzo di equilibrio di lungo periodo il rapporto di scambio per il quale un cervo può essere scambiato con il castoro. Se la domanda dei castori > tanto che 3Cv = 1Ct, ne deriva che il prezzo del castoro sale e contemporaneamente quello del cervo scende, e tali prezzi vengono detti di equilibrio di breve periodo. L’aumento del prezzo del castoro conduce la maggioranza dei cacciatori a dedicare il loro tempo alla caccia del castoro, i cervi infatti diventano acquistabili sia direttamente attraverso la caccia o indirettamente, anziché cacciare cervi gli uomini possono dedicare le loro due ore al castoro ottenendo così un unità aggiuntiva (3 Cv). In tal modo l’offerta di castori > al contrario di quella dei cervi, e conseguentemente il prezzo dei primi diminuirà e quello dei secondi aumenterà. Ciò significa dice Smith che i prezzi superiori a 1Ct = 2Cv sono prezzi di disequilibrio, e che le forze di mercato provvederanno ad abbassarli fino a giungere al livello di equilibrio di lungo periodo. Se il prezzo è < a 1Ct = 2Cv l'offerta di castori calerà e il prezzo dei castori salirà fino a giungere al livello di equilibrio di lungo periodo (o naturale). Questo modello smithiano di determinazione del prezzo attraverso una teoria del costo del lavoro in una società primitiva incontra dei limiti. Lascia perplessi per la visione di lungo periodo, perché i cacciatori siano agenti razionali, calcolatori, e guidati dall’interesse personale, anziché subire abitudini e usanze del tempo. Da poi esiste l'ipotesi di concorrenza perfetta, e quella secondo cui sia il castoro che il cervo possono essere procurati in grandi quantità a un costo medio costante per unità di prodotto, e dunque le curve di offerta nel lungo periodo sono orizzontali o perfettamente elastiche, mentre ci si dovrebbe attendere che le ore necessarie per uccidere un castoro crescano con l'offerta complessiva di castori (< i castori) e la conseguente inclinazione positiva dell‘offerta. Assumendo costi costanti il ruolo della domanda nella determinazione dei prezzi naturali è irrilevante, e le sue eventuali variazioni avrebbero come unico effetto una riallocazione dei fattori della produzione tra le varie industrie. I prezzi dipendono pertanto dal costo di produzione e dall’offerta, e in questo caso Smith proporrebbe una teoria valore-lavoro, ma se l’offerta fosse crescente anche i costi sarebbero tali e il prezzo dipenderebbe dalla domanda e dall’offerta La teoria del lavoro comandato di Smith afferma che "il valore di ogni merce per la persona che la possiede e che non intende usare o consumare ma scambiare con altre merci, è uguale alla quantità di lavoro che le consente di acquistare o avere a disposizione". Ciò significa che chi acquista un bene si risparmia il lavoro per produrlo direttamente. Il valore del bene quindi è il lavoro risparmiato da chi acquista la merce, ovvero "comandato", attraverso l'atto di scambio, al produttore della merce medesima. Per rimanere nell'esempio fatto in precedenza, sappiamo che un castoro comanderà due ore di lavoro e che un cervo comanderà un'ora di lavoro, così che il loro prezzo relativo sarà di nuovo 1Ct = 2Cv dunque la teoria del costo di lavoro che la teoria del lavoro comandato danno gli stessi prezzi relativi. A differenza delle società primitive, in quelle avanzate si ha l’accumulazione del capitale e la terra è divenuta proprietà privata, pertanto non esistono più beni liberi e nel calcolo del prezzo ultimo di una cosa bisogna considerare la retribuzione dei capitalisti sotto forma di Profitti nonchè la retribuzione dei Proprietari terrieri sotto forma di rendita. Supponendo che sia per il cervo che per il castoro i salari siano i ¾ del prezzo del bene, e le rendite più i profitti 1/3 possiamo verificare che la teoria del lavoro come costo e la teoria del lavoro comandato non sono più uguali. Per la prima infatti permane l’eguaglianza 1Ct = 2 Cv ciò perché il costo di un castoro è pari ad un ora di attività e quello di un Cervo a due, diverso è il risultato della Teoria del lavoro comandato. Se X è la quantità di lavoro che un castoro può comandare ricaviamo che ¾ X=2 dunque, X=8/3 o X=2+2/3, ciò vuol dire che un castoro comanderà 2+2/3 di unità di lavoro di cui 2 unità pagate come salari, e 2/3 come profitti e rendite, se ne deduce che il compratore dovrà offrire più unità rispetto a quelle necessarie a procurarselo, ossia la quantità di lavoro che un castoro può comandare è maggiore rispetto alla quantità di lavoro necessaria a produrlo. (Per i cervi se ¾ X=1, X=1+1/3). Se invece consideriamo il Prezzo relativo dei due animali, il rapporto di scambio risultante dalle due teorie è uguale ossia 1:2=(1+1/3):(2+2/3). Ciò secondo Smith avviene perché le retribuzioni del lavoro costituiscono la stessa quota proporzionale del prezzo finale sia nella produzione dei cervi che in quella dei castori. In altri termini, in un sistema economico progredito il lavoro come costo è minore del lavoro comandato ma se il costo del lavoro incide per la stessa percentuale sul prezzo finale per tutte le industrie i prezzi relativi sono gli stessi per entrambe le teorie. Ma un'ipotesi del genere non può ritenersi coerente con le condizioni prevalenti in un'economia progredita in cui la fertilità di terreni non è uniforme, la rendita sarà una quota del prezzo finale, diversa per i beni prodotti su terre di diversa qualità, i rapporti capitale-lavoro varieranno a seconda del settore e infine il profitto tenderà a rappresentare una quota superiore del prezzo finale nelle industrie a maggior intensità di capitale. In tali condizioni, se il costo del lavoro non costituisce la stessa quota proporzionale del Prezzo finale le due teorie daranno vita a Prezzi relativi differenti. Rendendosi conto delle difficoltà Smith abbandonò la teoria basata sulla quantità di lavoro e si proiettò per una Teoria dei Prezzi relativi basata sul costo di produzione. Secondo la Teoria dei Prezzi Relativi basata sul costo di Produzione il prezzo di un bene dipende dai costi di tutti i fattori della produzione, ossia il capitale, la terra ed il lavoro. Il Costo totale per produrre un castoro è allora uguale a salari, profitti e rendite TC(Ct) =W(Ct) + P(Ct) + R(Ct) , e ugualmente per il cervo sarà TC(Cv) =W(Cv) + P(Cv) + R(Cv) . Il prezzo relativo di castoro e cervo può essere così ricavato dal rapporto TC(Ct) = TC(Cv) . Se vengono presi a riferimento costi medi costanti all’aumentare della produzione, i prezzi relativi sono uguali sia con i costi totali che con quelli medi. Se vengono presi a riferimento costi medi variabili il prevalere della concorrenza farebbe sì che l'interesse personale di imprenditori, di lavoratori e di proprietari terrieri porti a prezzi naturali uguali ai costi di produzione. Secondo la Teoria della Distribuzione il reddito personale di ciascun soggetto dipende dai prezzi e dalle quantità di fattori della produzione vendute dai singoli soggetti, ragion per cui il reddito dei salariati discenderà dal costo orario del suo lavoro e dalle ore lavorate, quello dei proprietari dalla quantità di terra o capitale e dal loro prezzo. Dato che all’interno di un sistema economico, salari, profitti e rendite, sono prezzi, i loro valori relativi determineranno la distribuzione dei redditi al suo interno. Nell'ottavo capitolo del Libro I, Smith propose ben cinque teorie dei salari: quella della sussistenza, quella della produttività, della contrattazione, una teoria della rivendicazione residuale, e una teoria del fondo-salari. Riguardo queste bisogna dire come Smith considerava i lavoratori svantaggiati ai Capitalisti, primariamente perché i secondi essendo meno numerosi potevano facilmente accordarsi, da poi la legge stessa era contraria ai salariati perché impediva la loro associazione in sindacati e consentiva una diminuzione del costo lavoro. Inoltre i datori di lavoro possono contare su maggiori risorse dunque potevano vivere anche senza la manodopera al contrario dei lavoratori per i quali il prestare attività era fondamentale per la sussistenza. Secondo La dottrina del fondo-salari esiste una quota di capitale destinata al pagamento dei salari, reso necessario per l'intervallo di tempo richiesto dal processo produttivo. Questo fondo-salari è costituito dal risparmio dei capitalisti accumulato nei periodi pregressi, dunque il Saggio di salario= Fondo Salari/Dimensione Forza lavoro. Data tale formula, secondo Smith un aumento del saggio di salario avrebbe comportato un aumento della popolazione e della forza lavoro, e dunque il salario sarebbe via via diminuito. Riguardo l'origine della Rendita, Smith propose quattro teorie, tutte in contraddizione tra di loro: quella sulla domanda di proprietari terrieri; quella sul monopolio; quella dei vantaggi differenziali e quella della generosità della natura. Anche sull’oggetto della Rendita esiste ambiguità, inizialmente infatti è vista come una delle determinanti dei prezzi, mentre nei capitoli successivi è definita come determinata dai prezzi. Riguardo ai proprietari terrieri questi sono sempre criticati e ciò fa rilevare come Smith avesse compreso a fondo il conflitto sociale tra capitalisti e proprietari. Secondo Smith il Profitto rappresenta la giusta remunerazione data ai capitalisti che nel corso del Processo produttivo forniscono ai lavoratori mezzi di sostentamento e i mezzi di produzione. Assunto che per Smith la crescita economica era direttamente collegata all’accumulazione di capitale l’economista inglese studiò l’andamento temporale del saggio di profitto il quale a suo parere sarebbe diminuito per via di tre ragioni: in primo luogo per la concorrenza sul mercato del lavoro che avrebbe comportato un aumento dei salari e un calo del profitto, per la concorrenza sul mercato dei beni in quanto l’aumento della produzione avrebbe originato una riduzione dei prezzi di vendita e dei profitti, e infine per la concorrenza sul mercato degli investimenti. Nel V capitolo della Ricchezza delle Nazioni Smith analizza gli elementi che dettano il livello generale dei prezzi e la misurazione dei cambiamenti temporali del benessere sociale. Circa il benessere questo è facilmente quantificabile in un economia in cui si produce un solo bene, maggiore infatti è il consumo maggiore è il benessere, quando invece i beni aumentano bisognerebbe riuscire a misurare il benessere anche in condizioni di diverso consumo tra le merci prodotte. Assunto come dato base che il benessere coincide con il prodotto totale della società se la produzione interessa più beni è necessario quantificare il consumo dei beni interessati. Tale somma potrebbe essere realizzata convertendo tutti i prodotti in un’unica unità di misura, ad es. la moneta, questa però varia al variare del livello generale dei prezzi e dunque Smith dopo aver accantonato l’idea di misurare il benessere con l’oro, l’argento o il lavoro in quanto elementi variabili pensò di usare la disutilità del lavoro in quanto uguali quantità di lavoro possono essere sempre considerate come di uguale valore per il lavoratore. La misurazione del benessere allora avviene quantificando i cambiamenti della produzione totale in termini del loro valore monetario, tali cambiamenti vengono corretti in base alle variazioni del livello generale dei prezzi dettate dal prezzo dell’oro o dell’argento in modo che reddito monetario e prezzi nominali vengono convertiti in reddito reale e prezzi reali. Per ultimo è necessario quantificare il benessere confrontando il totale della disutilità del lavoro implicata dalla produzione dei diversi output. Si ha un aumento di benessere quando un sistema riesce a produrre la stessa quantità di beni con meno quantità di lavoro e dunque maggior tempo a disposizione per il lavoratore. Nella trattazione del benessere bisogna sottolineare la mancata definizione e misurazione della quantità di lavoro, e l’assunto secondo cui disporre di una quantità maggiore di beni è meglio che disporre di una minore quantità. Capitolo 4 Ricardo e Malthus Malthus (1766-1834) nel suo saggio sulla popolazione del 1798 partendo da due assunti, il primo secondo cui il cibo è fondamentale per la vita umana, e il secondo che la passione tra uomo e donna è fondamentale al pari del cibo e dunque non scemerà mai, affermò che la Popolazione cresce più velocemente dell’offerta di cibo. La sua teoria poggiò su tre fattori: l’insufficienza di cibo esistente in Inghilterra alla fine del 1700, l’impoverimento delle classi a basso reddito dovuta all’urbanizzazione, e venne scritta per confutare le teorie del padre, nonché dell’inglese Godwin e del francese De Condorcet secondo i quali il carattere umano è condizionato dall’ambiente in cui l’uomo vive ed in particolare miseria, infelicità umana e vizi dovevano essere attribuiti al governo. La teoria sulla popolazione prevede che in assenza d’interventi statali vi sia un incremento geometrico (1,2,4,8,16...) della popolazione e un incremento aritmetico del cibo (1,2,3,4,5...), e da tale discrepanza scaturiscono povertà e miseria. Malthus però, non contemplò un eventuale sviluppo tecnologico come veicolo volto all’aumento degli alimenti e si limitò a prevedere dei controlli sullo sviluppo demografico sia di tipo positivo sia di tipo negativo. I primi erano rappresentati da guerre, carestie o pandemie che incrementano il normale tasso di mortalità, i secondi prevedevano una diminuzione del tasso di natalità mediante un rinvio dei matrimoni anche se ciò sarebbe stato causa di promiscuità sessuale. Nel 1803 Malthus pubblicò un secondo saggio la cui base fu la statistica, e ai controlli di tipo negativo fu aggiunto un freno di natura morale in quanto in assenza di un regolare matrimonio erano esclusi rapporti sessuali. Limiti di Malthus furono quello di non scindere passione sessuale e desiderio di avere figli, e quello di non valutare attentamente come lo sviluppo tecnologico potesse aumentare il cibo a disposizione della popolazione. La sua teoria fu però applicata nell’ambito della dottrina del fondo salari (Smith, Ricardo) secondo cui un aumento del salario avrebbe dapprima fatto crescere la popolazione, e successivamente tale aumento avrebbe fatto diminuire il salario sino a giungere il livello originario, dunque ogni disposizione legislativa (Poor laws) volta a migliorare le condizioni dei poveri era, secondo gli economisti classici, inutile. D.Ricardo (1772-1823) fu autore de I Principi di economia politica e dell’imposta del 1817. I problemi economici più importanti del suo tempo erano la continua ascesa del prezzo del grano, l’incremento delle rendite e la scalata dell’industria ai danni dell’agricoltura, e nell’ambito della politica economica si continuava a discutere circa il controllo o meno da adottare al commercio internazionale. In particolare, secondo gli industriali era necessario un libero mercato, mentre per i proprietari terrieri dovevano essere adottate delle misure necessarie a difendere i prodotti nazionali dalla concorrenza estera, come ad es. la tariffa sull’importazione del grano verso l’Inghilterra. A differenza di Smith, fondò la sua speculazione su ragionamenti teorici ossia utilizzò un metodo astratto e un approccio non contestualizzato al fine di dipanare il problema principale dell’Economia Politica costituito dalla determinazione delle leggi che regolavano la distribuzione del reddito tra proprietari terrieri che ricevevano rendite, capitalisti percettori di profitti e interessi e lavoratori che ricevevano salari. Secondo Ricardo i proprietari terrieri sono parassiti sociali che ricevono rendite in virtù del possesso della terra, non accumulano capitale ma spendono soltanto. La curva di offerta della terra è infatti perfettamente inelastica e il costo opportunità sociale della terra è pari a zero. I lavoratori invece hanno un ruolo passivo, mentre i capitalisti individuati nei produttori e dirigenti, sono la classe più importante, in primo luogo perché rendono possibile un efficiente allocazione delle risorse esistenti nel sistema in quanto investono i capitali nei settori dove possono produrre maggiori profitti (ossia dove la domanda di un certo bene, in condizioni di concorrenza perfetta, viene soddisfatta al minor costo sociale possibile), in secondo luogo perché sono la fonte della crescita economica per via dei loro risparmi e investimenti. Secondo Ricardo la Dottrina del Fondo Salari è data dalla formula Salario reale=Fondo salari/Forza lavoro ove il Fondo salari è determinato l’accumulazione del capitale e la Forza lavoro dalla Teoria di Malthus. Dunque, se nel breve periodo un aumento dell’accumulazione di capitale comporta un proporzionale incremento del salario reale, e quindi un aumento della forza lavoro, nel lungo periodo il salario reale tornerà ai livelli minimi per assicurare la sopravvivenza dei lavoratori. Ricardo affermò che il Reddito lordo è dato dalle quote di reddito distribuite alle tre classi sociali; se a questo si detraggono i salari di sussistenza e il deprezzamento dato dalle somme atte a rimpiazzare i beni esauriti durante la produzione si ottiene il Reddito Netto (Sovrappiù) che può essere anche definito, nel lungo periodo, come somma tra Rendite e Profitti in quanto i salari sopra il livello di sussistenza calano al livello minimo. Assunto che i capitalisti sono l’unica classe che riesce a risparmiare e ad accumulare capitale, per Ricardo, un eventuale diminuzione dei profitti e aumento delle rendite avrebbe provocato nel lungo periodo un calo della crescita economica. Il modello teorico proposto da Ricardo si fondò su nove punti: 1) Teoria del costo lavoro 2) neutralità della moneta su un influenza dei prezzi relativi 3) Coefficienti di produzione fissi per il lavoro e per il capitale: in quanto il rapporto capitale-lavoro non muta al variare dell’output 4) Rendimenti costanti nel settore manifatturiero e rendimenti decrescenti in quello agricolo 5) Piena occupazione 6) Concorrenza perfetta 7) I soggetti economici intesi come individui razionali e calcolatori 8) la tesi malthusiana sulla popolazione 9) la dottrina del fondo salari. Il principio dei rendimenti decrescenti, applicato nel campo agricolo, afferma che se un fattore della produzione è aumentato progressivamente e gli altri fattori rimangono costanti, il tasso d’incremento del prodotto totale è progressivamente minore. Nell’ambito della Teoria ricardiana assume fondamentale importanza la distinzione tra Rendita e Profitto. Assunto che il pagamento effettuato da un imprenditore agricolo al proprietario terriero viene chiamato Rendita, bisogna considerare dice Ricardo, che la corresponsione della somma include sia rendita che profitto determinato dai miglioramenti (bonifiche o costruzioni di edifici) apportati al fondo in oggetto. L’esistenza della Rendita è data dalla Scarsità di terra fertile e dalla legge dei rendimenti decrescenti, e secondo Ricardo la Rendita doveva essere tale da eguagliare il saggio di profitto su terre aventi una diversa fertilità. Supponiamo l’esistenza di tre fondi aventi una diversa fertilità A,B,C a cui sono applicate rispettivamente tre unità di lavoro e capitale, due unità e una unità così da avere i prodotti marginali riportati nella tabella appresso. Il Margine intensivo consente di capire cosa succede quando su di un fondo viene applicata un unita aggiuntiva di lavoro e capitale: con una unità, nel fondo A si ottengono 100 q di grano, con due 190 q, con tre 270. Ciò significa che (con rendimenti decrescenti applicati immediatamente) il prodotto marginale della seconda unità di lavoro e capitale è minore di quello della prima unità e così di seguito, e pertanto al calare del prodotto marginale aumenta la convenienza ad utilizzare terre aventi una fertilità minore come la B. Il Margine estensivo è invece lo spostamento dalla terra di tipo A a quella di tipo B, necessaria conseguenza dell’immediata applicazione del principio dei rendimenti decrescenti (in assenza la sola terra A avrebbe rappresentato l’unica produzione possibile). La misurazione della rendita delle terre è possibile o valutando il processo concorrenziale o calcolando le differenze tra prodotto marginale di un unita di lavoro e capitale al margine intensivo e i prodotti marginali delle unità precedenti. Nel primo caso applicando un unità di lavoro e capitale a tre fondi che abbiano la stessa fertilità del fondo C otterremo un prodotto pari a 240 q, le tre unità applicate al fondo A, sviluppano invece un prodotto pari a 270 q, e dunque la rendita della terra A, crescerà per via della concorrenza tra agricoltori che vorranno assicurarsela, e sarà pari a 30 corrispondente alla Rendita. Applicando un unità a due fondi C avremmo un prodotto di 160 q, ma le due unità applicate al fondo B forniranno un prodotto pari a 170 q e una rendita di 10. Nel secondo caso il calcolo viene fatto comparando i tre prodotti marginali del fondo A, e dunque 30. Se i rendimenti marginali sulla terra A sono inversamente proporzionale alle unità di lavoro e capitale applicate, ossia diminuiscono al loro aumentare, i costi marginali della produzione di grano sono direttamente proporzionali e dunque aumentano all‘aumentare delle unità di lavoro e capitale. Assunto che per costo marginale bisogna intendere l’incremento nel costo totale sostenuto per produrre un unita addizionale di prodotto finale, in un mercato concorrenziale, un incremento della produzione di grano in A produce un aumento del costo marginale e un conseguente spostamento della produzione nel fondo B dove i costi marginali impiegando minori unità di lavoro e capitale sono uguali (se prezzo di mercato di un unità di lavoro e capitale è 100, il cm per margine intensivo 100 sarà 100/100=1, per margine intensivo 90, 1,11 e per 80 1,25, quando invece sulla terra B è tale con due unità di lavoro e capitale, sulla terra C con una). Attraverso l’analisi dei costi della rendita è possibile misurare la stessa in danaro, per far ciò è però necessario moltiplicare il prezzo del grano, uguale al costo marginale per produrre l’ultima unità di grano su ogni fondo (100/80=1,25 $), per la produzione, e dunque fondo A=270*1,25=337,50 $, fondo B=170*1,25=212,50$, fondo C=80*1,25=100. Se il costo totale dell’unità di lavoro e capitale è pari a 100, la rendita del fondo A sarà 337,50-300=37,50$, del fondo B 12,50$ e quella del fondo C =0. In base a tali analisi, si può concludere che la concorrenza tra agricoltori farà si che il prezzo del grano sarà pari al costo marginale dell’unità di output più costosa, la concorrenza per la terra più fertile avrà l’effetto di fare conseguire rendite ai proprietari il cui fondo è maggiormente fertile, e inoltre su tutti i tipi di terra vi sarà un saggio di profitto uniforme. Secondo Ricardo è il prezzo a determinare la rendita e conseguentemente gli elevati prezzi del grano non erano determinati dalle rendite alte ma viceversa. Inoltre, le limitazioni alle importazioni provocate dalle tariffe sul grano, vista la scarsità di terre fertili e il principio dei rendimenti decrescenti avrebbero provocato una diminuzione dei margini intensivo ed estensivo, così come sarebbero diminuiti i prodotti marginali per unità di lavoro e capitale, cosicchè i costi marginali sarebbero cresciuti e quindi doveva prevedersi un aumento del prezzo del grano e delle rendite. Gli studi di Ricardo nonché James, J.S Mill e George fecero nascere delle convinzioni sulla necessità di tassare le rendite dei proprietari terrieri le quali venivano viste come un reddito non guadagnato. In particolare George fondò il single tax movement, movimento della tassazione unica e propose una tassa che i proprietari non potevano rifiutare. Se infatti la curva d’offerta della terra è anaelastica, eventuali tasse graverebbero interamente sul proprietario il quale, per ottenere la rendita, dovrà obbligatoriamente affittare il suo fondo. A differenza di Malthus, Ricardo era contrario alle leggi sul grano in quanto queste avrebbero ridotto il profitto, l’accumulazione di capitale e pertanto la crescita economica del paese, e inoltre a differenza degli economisti che sposarono la Teoria del valore spiegando la determinazione dei prezzi relativi in un dato tempo, egli studiò le forze che provocano, nel tempo, le variazioni dei prezzi relativi. Ricardo affermò che il valore di una merce dipende dalla quantità relativa di lavoro necessaria a produrla e non dal compenso dato all’operaio, e inoltre affermò che il valore d'uso era essenziale per l'esistenza del valore di scambio, anche se non per la sua misura. Ossia, un bene ha un prezzo sul mercato perché la cosa viene domandata dai consumatori, anche se la domanda stessa non costituisce la misura del prezzo. Il prezzo dei beni che danno qualche utilità deriva piuttosto da due fonti: la loro scarsità e la quantità di lavoro necessaria a produrli. Secondo Ricardo, esistono beni riproducibili e beni non riproducibili a piacere, la cui curva d’offerta è inelastica (verticale) e sono caratterizzati dalla scarsità, tipo quadri o monete, il cui valore sarà slegato dalla quantità di lavoro necessaria a produrli e saranno domandati in funzione alla ricchezza e al gusto di coloro i quali li vogliono possedere. Esclusi quest’ultimi, concentrò la sua attenzione sui primi, prodotti nei mercati contraddistinti da concorrenza perfetta, e contemplò soltanto una teoria del valore fondata sul costo del lavoro (dunque escluse quella del lavoro comandato e quella del costo di produzione). Ricardo propose le rispettive soluzioni a cinque problemi fondamentali per elaborare una teoria del valore-lavoro ossia 1)misurare la quantità di lavoro 2) considerare le diverse abilità dei lavoratori 3) spiegare come i beni capitali influenzano i prezzi 4) come includere la terra tra i fattori determinanti del prezzo 5) come includere i profitti tra i fattori determinanti del prezzo. 1) La quantità di lavoro può essere misurata conteggiando il tempo, le ore necessarie a produrre un bene. Smith invece sottolineava l’importanza dell’abilità del lavoratore e l’impegno richiesto dalle varie professioni, le quali determinavano i diversi salari esistenti tra lavoratori. 2) Analizzare le diverse abilità dei lavoratori significa ammettere che un ora di lavoro può produrre una produzione differente in capo al lavoratore A, e al lavoratore B. E infatti, se in un'ora di lavoro, a parità di condizioni, un individuo caccia due cervi e l'altro se le procura uno solo, come possiamo stabilire qual’è la quantità di lavoro necessaria a cacciare un cervo? A tal fine, secondo Ricardo devono essere utilizzati i salari quale misura della loro produttività relativa, e infatti il salario pagato al lavoratore che ha ottenuto due cervi sarà il doppio di quello pagato all‘altro cacciatore. In apparenza sembrerebbe che Ricardo segua Smith e il suo ragionamento circolare, dato che i salari relativi, corrispondenti ai prezzi, vengono impiegati per spiegare i prezzi relativi. In verità però, sviluppa una teoria in grado di spiegare le variazioni nel tempo dei prezzi relativi, e infatti se i salari di lavoratori con abilità diverse mantengono una divergenza costante nel tempo, le variazioni nei prezzi dei prodotti finali non saranno provocate dalla remunerazione del lavoro ma dovranno essere attribuite ad altri fattori. 3) Assunto che i beni sono prodotti mediante l’utilizzo di lavoro e capitale, secondo Ricardo, il capitale è lavoro accumulato, ossia lavoro utilizzato in un periodo pregresso. Se ne deduce che la quantità di lavoro di un bene corrisponde al tempo necessario a produrlo più la quantità di lavoro immanente nel bene capitale usato nella produzione, il quale nel corso del processo produttivo si deprezza. Bisogna però dire che nel bene capitale devono essere inclusi: la remunerazione del lavoro diretto, la remunerazione del lavoro indiretto usato nella produzione del bene capitale nonché l’interesse sulla somma pagata al lavoro indiretto calcolato dal momento del pagamento sino alla vendita del prodotto finale, ma ciò farebbe venir meno una teoria del valore-lavoro. 4)Circa la considerazione della terra come determinante del prezzo supposto che due lavoratori aventi uguali capacità coltivino due fondi con diverse fertilità, e dunque ottengano una produzione diversa, Ricardo misura la quantità di lavoro necessaria a produrre un quintale di grano sfruttando la teoria della rendita. Se il prezzo del grano è pari al costo marginale per produrre l’ultima unità di grano nel modo meno efficiente, dunque in prossimità della rendita nulla, e assunto che la rendita è data dal prezzo; le rendite diverse dovute a diverse fertilità della terra non incidono sul mutamento temporale dei prezzi relativi. 5) I profitti non sono una percentuale costante del prezzo finale dei beni, e ciò perché il capitale è diverso a seconda del settore di produzione, e inoltre perché in base all’industria varia il tasso di sostituzione del capitale. Detto ciò Ricardo ritiene che l’influenza del profitto è trascurabile, in quanto le variazioni dei prezzi relativi nel tempo dipendono dai cambiamenti nelle quantità relative di lavoro incorporato nei beni. Durante i suoi vari scritti Ricardo ammise che le variazioni della quantità di lavoro necessaria a produrre un bene non sono l’unica causa di variazione dei prezzi relativi, esistono infatti altri fattori come le variazioni del saggio di profitto o del saggio di salario, queste però venivano considerate solo teoricamente in quanto dal punto di vista quantitativo erano ininfluenti. Per via di tali presupposti, a metà secolo scorso G.Stigler ha ribattezzato la teoria del valore lavoro di Ricardo come una teoria del 93%. La retta AM rappresenta i prodotti marginali in termini fisici. Supposto che una certa quantità di lavoro e capitale venga applicata alla terra disponibile, il segmento BC rappresenta il prodotto marginale dell’ultima unità applicata di capitale e lavoro, mentre l’area ABCO dà il prodotto totale dell’agricoltura. Com’è possibile determinare la distribuzione del prodotto totale tra salari, profitti e rendite? Per far ciò Ricardo introdusse la cd.teoria residuale. Assunto che la rendita al margine è 0, tutto il prodotto sopra BD costituisce la rendita (ADB). La retta EN da il livello di sussistenza dei salari (secondo Malthus), mentre FC rappresenta il saggio di salario e i salari totali sono dati dall’area EFCO. Sottraendo al saggio di salario il prodotto marginale BC-FC otteniamo BF, mentre l’area DBFE sarà il profitto totale. In tal modo Ricardo ha suddiviso il prodotto totale. Il passaggio cruciale è quello per cui il livello di profitti dipende dal prodotto marginale dell'ultima dose di capitale e lavoro e dal livello di sussistenza del salario reale. Ricardo studiò anche le variazioni delle quote di reddito nazionale ricevute da capitalisti, proprietari terrieri e lavoratori e sebbene giunse all’uguale conclusione di Smith, secondo cui il saggio di profitto sarebbe diminuito con il passare del tempo, non abbracciò le cause proposte dallo stesso ossia la concorrenza sul mercato del lavoro, degli investimenti e dei beni. Nel confutare i ragionamenti di Smith, Ricardo ipotizza un sistema economico "giovane" e ne segue analiticamente il processo di sviluppo. Inizialmente il sistema è contraddistinto da un elevato saggio di profitto e, poiché questo ne è la fonte, si ha anche un elevato saggio di accumulazione del capitale. L'accumulazione del capitale, consente di mantenere alti i saggi di salario reale, e prendendo in considerazione la teoria malthusiana, a seguito di tale incremento la popolazione aumenta. Tale processo comporta anche un aumento della domanda di prodotti alimentari dal settore agricolo, dove i margini intensivo ed estensivo si abbassano con lo sfruttamento superiore delle terre già coltivate e la messa a coltura di terre sempre meno fertili. Se i margini si abbassano, le rendite aumentano e i profitti diminuiscono. Pertanto l'accumulazione di capitale via via diminuisce, sino a divenire zero quando il profitto è nullo: in tal caso l’assenza di profitti e di accumulazioni non produce crescita economica, la popolazione è stabile, i salari sono a livello di sussistenza e le rendite sono al massimo. Quando il saggio di profitto si riduce, i capitali probabilmente verranno indirizzati verso il manifatturiero e nel lungo periodo l’equilibrio è caratterizzato dallo stesso saggio di profitto in tutti i settori dell’economia, ossia il calo dei profitti in un settore provocherà un conseguente calo nell’altro. Tale stato stazionario classico è dato dalla fine della spinta propulsiva dell’accumulazione di capitale. Sfruttando il grafico seguente, quando, durante la crescita economica, l'accumulazione del capitale e la popolazione aumentano, alla terra verranno applicate sempre più unità di capitale e lavoro. Se il margine si estende in modo che OI rappresenta l'ultima dose di capitale e lavoro, il nuovo e più elevato livello della rendita è dato dall'area GAH, i profitti si sono ridotti all'area EGHJ e l'ammontare dei salari corrisponde all'area OEJI. Utilizzando la terra in modo più intensivo il livello della rendita aumenta fino a che il prodotto totale si ripartisce tra salari e rendite, ed i profitti sono nulli. Questo è lo stato stazionario: OP sono le dosi di capitale e lavoro impiegate, EAQ è la rendita, OEQP i salari. Sulla base di tali considerazioni possiamo dire che le leggi sul grano avrebbero accelerato questo processo poiché la conseguenza diretta sarebbe stata un'espansione della produzione nazionale, avrebbero quindi avuto l'effetto di premere sui margini intensivo ed estensivo, tale da rendere i profitti più bassi e far aumentare le rendite. Pertanto le leggi sul grano avrebbero rallentato la crescita economica non supportata dai profitti e affrettato l'inverarsi dello stato stazionario. Ricardo elaborò anche la dottrina del vantaggio comparato applicata all’analisi del commercio internazionale. Supposte due nazioni A e B, se entrambe riescono a produrre un diverso bene ad un costo inferiore rispetto all’altra, tali nazioni potrebbero ottenere un guadagno se si specializzassero nella produzione del bene e successivamente lo commercializzassero, o parimenti secondo la terminologia della teoria del commercio internazionale ogni nazione che vanta un vantaggio assoluto nella produzione di un bene, può trarre guadagno in virtù della specializzazione nella produzione del bene che produce ad un costo minore. Prodotto per unità di lavoro Nazione Vino (litri) Stoffa (metri) Inghilterra 4 2 Portogallo 8 1 Questa tabella illustra la teoria del vantaggio assoluto, l’Inghilterra infatti ha un vantaggio assoluto nella produzione di stoffa, il Portogallo in quella del vino, o altrimenti il costo di produrre stoffa in Inghilterra è minore in Inghilterra che in Portogallo e viceversa, quello della produzione di Vino è minore in Portogallo che in Inghilterra. Si ha convenienza nel commercio internazionale, se la produzione dei due beni può essere aumentata mediante la specializzazione e se vengono raggiunti prezzi internazionali in grado di far guadagnare entrambe le nazioni. Riguardo la prima ipotesi, se gli inglesi trasferiscono un unità di lavoro dal vino alla stoffa, e il Portogallo viceversa, accade che la quantità di lavoro rimane immutata ma la produzione complessiva aumenta. In Inghilterra infatti, la produzione di vino diminuisce di 4 l, e quella di stoffa aumenta di due metri, in Portogallo la produzione di vino aumenta di 8 l, e quella di stoffa diminuisce di un metro. (la Produzione di vino sarà infatti 16 in Portogallo, quella di Stoffa 4 in Inghilterra). Circa i prezzi, se in Inghilterra 1 m di stoffa viene scambiato con due l di vino, il prezzo della stoffa sarà il doppio di quello del vino, dunque gli inglesi scambieranno stoffa per vino solo se riceveranno più di due l di vino per ogni metro di stoffa, viceversa in Portogallo verrà scambiata stoffa per vino solo se un metro di stoffa costerà meno di 8 l. Prodotto per unità di lavoro Nazione Vino (litri) Stoffa (metri) Inghilterra 12 6 Portogallo 8 1 In questo caso, l'Inghilterra ha un vantaggio assoluto per entrambi i beni, e, pertanto i suoi costi di produzione misurati in tempo di lavoro sono minori sia per il vino che per la stoffa. Il principio del vantaggio comparato mostra però che anche con i dati di questa tabella il commercio internazionale sarà la soluzione più vantaggiosa per entrambe le nazioni, e ciò perché l’Inghilterra ha un vantaggio comparato nella produzione di stoffa e il Portogallo in quella di vino. Il vantaggio comparato degli inglesi nella produzione di stoffa è dato dal fatto che mentre in Inghilterra una unità addizionale di stoffa implica la perdita di due unità di vino (12/6=2), in Portogallo i litri di vino cui bisogna rinunciare sono 8; il vantaggio comparato dei portoghesi invece risiede nella produzione di vino ed è dato dal fatto che per avere un litro di vino in più in Portogallo si rinuncia a solo 1/8 di metro di stoffa, mentre in Inghilterra occorre 1/2 metro. Dunque, nonostante l’Inghilterra ha un vantaggio assoluto su entrambi i beni, alla Nazione, lo scambio internazionale converrà sino a quando il Portogallo avrà un vantaggio comparato in una delle due produzioni. Confrontando i costi opportunità della stoffa nei due paesi, partendo dall’ipotesi Ricardiana della piena occupazione, volendo produrre un bene in quantità maggiore, il costo da sostenere può essere misurato in termini della quantità di beni cui dobbiamo rinunciare per poter spostare risorse verso l'industria in espansione. Nazione Vino (litri) Stoffa (metri) Inghilterra ½ metro di stoffa 2 l di vino Portogallo 1/8 metro di stoffa 8 l di vino Pertanto, in Inghilterra il costo opportunità della stoffa (2 litri di vino) è minore di quello portoghese (8 litri di vino), mentre il costo opportunità di vino è minore in Portogallo (1/8 metro di stoffa) che in Inghilterra (1/2 metro di stoffa). Ne consegue che, se l'Inghilterra produce stoffa e la scambia con il vino prodotto dal Portogallo la produzione totale di entrambi i beni aumenterà, ed entrambi i paesi possono trarne un guadagno. Se la produzione è tale da non permettere nessun vantaggio comparato le Nazioni non avranno interesse al commercio internazionale. Attraverso il principio del vantaggio comparato venne dimostrato come fosse sbagliato l’intervento pubblico nel commercio internazionale, nonché l’errata convinzione dei mercantilisti e scolastici circa la possibilità che il commercio è solo fonte di guadagno per un contraente. Il vantaggio comparato infatti fa comprendere che la specializzazione produce ad un aumento della produzione e ad un vantaggio per entrambi i contraenti. Se dunque il principio smithiano del vantaggio assoluto aveva fatto vacillare la posizione protezionistica dei mercantilisti, il vantaggio comparato di Ricardo la fece definitivamente crollare. Malthus e Ricardo disputarono sulla capacità di un sistema capitalistico di mantenere il pieno impiego delle proprie risorse e in tale diatriba risultò determinante la cd.Legge di Say dal nome dell’economista francese J.B Say che la elaborò, e secondo cui un sistema capitalistico garantisce automaticamente la piena occupazione delle sue risorse e alti tassi di crescita economica. In tale ipotesi, se la domanda aggregata per il prodotto finito scende al di sotto dell’offerta provocando sottoccupazione o depressione, cosa accade? Lord Lauderdale e Sismondi affrontarono tale problema all’inizio del 1800 mettendo in discussione la legge di Say, e dunque la possibilità che un sistema economico garantisca in modo automatico la piena utilizzazione delle risorse. Nel 1820 Malthus riprese le loro argomentazioni scontrandosi con Ricardo. Specificamente, Malthus incentrò la sua attenzione sulla domanda effettiva e affermò che il processo di risparmio e investimento non può proseguire indefinitamente senza condurre nel lungo periodo alla stagnazione. Secondo Malthus esiste un tasso appropriato di accumulazione di capitale che l'economia riesce ad assorbire, e un livello troppo elevato di risparmi e investimenti creano dei problemi in quanto, il risparmio conduce ad una diminuzione della domanda de beni di consumo, e l’investimento produce una maggiore produzione di beni. Per poter essere vera la legge di Say dice Malthus, il livello di produzione e del consumo devono crescere costantemente, e poichè la domanda effettiva dei lavoratori e capitalisti è inadeguata a tal fine, occorrerebbe che coloro i quali lavorano nella fornitura di servizi (insegnanti, funzionari) e proprietari terrieri sostengano i consumi. I sostenitori della legge di Say, tra cui Mill e Ricardo, pensavano che il processo di produzione dei beni è sufficiente a generare un potere d'acquisto tale da poterli acquistare a prezzi soddisfacenti, in quanto il fenomeno della sovrapproduzione è possibile solo per mercati particolari ma non a livello globale. Le diminuzioni della produzione interessavano infatti solo il breve periodo, e atteso che il mercato avrebbe autonomamente ripristinato il pieno impiego delle risorse, nel lungo periodo non vi sarebbe stata un'accumulazione di capitale in eccesso. Il valore del prodotto annuale è quindi distribuito a titolo di potere d'acquisto tra i vari soggetti economici e non esiste il problema di accertare se tale potere sia sufficiente a far acquistare i beni prodotti. Una domanda che possiamo porci è, esiste garanzia circa l’utilizzo di un eventuale potere di acquisto sufficiente a riacquistare i beni? Secondo la legge di Say l'offerta crea la propria domanda, ma tale domanda che è potenziale viene espressa sul mercato come domanda effettiva? Ricardo, Mill e Say risposero in tal senso, che tutto il potere d'acquisto potenziale sarebbe ritornato al mercato come domanda o per beni di consumo, o per beni di investimento, escludendo ogni ipotesi di tesoreggiamento ossia conservazione e non utilizzo dell’oro. Ricardo si dimostrò favorevole alla legge di Say intorno ai primi del 1800, quando i vari economisti del tempo cominciarono a discutere sulle origini dell’inflazione che contraddistinse il tempo delle guerre napoleoniche. Tali discussioni diedero vita alla cd. controversia bullionista ove bullions significa metalli preziosi detenuti come riserva monetaria, e che vide schierati da una parte i bullionisti tra cui Ricardo i quali collegavano il fenomeno dell’Inflazione all’espansione monetaria, e dall’altra gli anti bullionisti secondo cui le ragioni dell’Inflazione erano diversi e tra questi andavano inclusi anche i fattori reali (come ad es. i cattivi raccolti). Secondo gli anti bullionisti se l’emissione di moneta fosse stata legata a operazioni finanziarie e commerciali di breve periodo allora non avrebbe mai potuto essere in eccesso, dunque una crescita della moneta proporzionale ai bisogni del commercio reale non poteva causare fenomeni inflattivi. Tale dottrina era denominata delle cambiali reali Real Bills Doctrine e uno dei suoi sostenitori fu Torrens. Un importante esponente bullionista fu Thornton il quale nonostante interessanti osservazioni come il collegamento tra moneta e prezzi, nonché l’influenza della moneta sui prezzi determinata dai tassi d’interesse e dalla concessione dei prestiti in mano alle banche, fu oscurato da Ricardo che affermava la teoria quantitativa della moneta per la quale le variabili monetarie sono un velo dietro cui si nascondono l‘economia reale. In riferimento all’impiego delle macchine nel processo produttivo Ricardo, sino al 1819 affermò che queste avrebbero aumentato il livello del salario reale e parimenti la domanda di lavoro non sarebbe diminuita, dunque l‘occupazione non avrebbe patito alcunché. Nella terza ed ultima edizione dei Principi di Economia Politica, egli specificò che quando il macchinario veniva acquistato destinando a capitale fisso quello che prima era capitale circolante, allora il fondo-salari si riduce e genera disoccupazione. Se invece la macchina viene finanziata con il risparmio, piuttosto che con il capitale circolante, allora la disoccupazione non si verifica. Keynes riprendendo le discussioni tra Malthus e Ricardo si schierò apertamente a favore del primo, ed in particolare analizzò: le diverse vedute sulla legge di Say, la metodologia appropriata per la scienza economica e infine come la vittoria di Ricardo su Malthus aveva cambiato lo sviluppo dell’economia politica come disciplina. Keynes si dichiarò favorevole alla metodologia induttiva di Malthus e contraria a quella astratta di Ricardo, e inoltre affermò che il dominio dell’economista inglese aveva causato un disastro economico in quanto senza le sue nozioni sarebbe stato più semplice determinare le forze che determinano il livello di reddito e occupazione. Capitolo 5 John Stuart Mill e il declino dell’economia politica classica Nassau Senior e J.S Mill elaborarono una metodologia cd. neoricardiana che guardava ad un economica basata su semplici ipotesi teoriche e all’economista come colui che doveva correggere la logica interna del sistema teorico affinchè le conclusioni originassero dalle ipotesi iniziali. Senior definì l’economia come la scienza che tratta della natura della produzione e della distribuzione delle ricchezze, e le cui fondamenta scientifiche devono essere ricondotte a quattro principi: quello del principio di razionalità, in quanto gli esseri umani sono razionali calcolatori e cercano sempre di procurarsi la maggiore ricchezza con il minore sacrificio possibile; quello della dottrina malthusiana della popolazione; il principio dei rendimenti decrescenti in agricoltura; e il principio dei rendimenti crescenti nell'industria. A parere di Senior l’economia doveva essere una scienza positiva e l’economista doveva distinguere tra giudizi normativi e analisi economica di tipo descrittivo, verità ne è che distinse le leggi universali che regolano la natura e la produzione della ricchezza dai principi che governano la distribuzione del reddito, i quali sono invece casuali. L'economista, continua, dovrebbe occuparsi di ciò che "è" e non di ciò che "dovrebbe essere" e le conclusioni a cui giunge, qualunque esse siano, non lo autorizzano minimamente ad aggiungere un commento. Circa la dottrina Malthusiana Nassau Senior riflette l’incertezza dottrinale nel 1836 la definì come una dottrina fondamentale per l’economia, ma anni prima disse che era l’offerta di cibo a crescere più della popolazione e non viceversa. L’incertezza se accettare o meno la teoria di Malthus derivava dal fatto che questa appariva come decisiva per la teoria della distribuzione del reddito proposta da Ricardo. Nell'esempio della teoria della distribuzione del reddito, il livello di sussistenza dei salari (EN) è ricavato dalla teoria malthusiana della popolazione e in base a questo è possibile scindere salari e profitti, ma se il livello di sussistenza dei salari non può più essere determinato con precisione, la curva EN può assumere varie posizioni, e il calcolo dei profitti e salari in un dato tempo, così come quello delle variazioni della distribuzione del reddito nel corso del tempo, resta indeterminato. Se in base alla teoria malthusiana quando il salario si trova al suo livello di sussistenza, un aumento della popolazione e dunque dei salari reali dell'anno corrente non ha ripercussioni sul livello futuro almeno per quattordici anni (quindici anni rappresenta un lungo periodo), la dottrina del fondo salari verte sul breve periodo e prevede che un aumento del salario avrebbe dapprima fatto crescere la popolazione e la forza lavoro, e successivamente tale aumento avrebbe fatto diminuire il salario sino a giungere il livello originario, dunque ogni disposizione legislativa (Poor laws) volta a migliorare le condizioni dei poveri era, secondo gli economisti classici, inutile. Secondo La dottrina del fondo-salari infatti esiste una quota di capitale destinata al pagamento dei salari, reso necessario per l'intervallo di tempo richiesto dal processo produttivo. Questo fondo-salari è costituito dal risparmio dei capitalisti accumulato nei periodi pregressi, e dunque il Saggio di salario=Fondo Salari/Dimensione Forza lavoro. Il cuore del principio dei rendimenti decrescenti è l’applicazione di quantità successive di lavoro e capitale ad una quantità fissa di terra e la conseguente riduzione del prodotto marginale. Un eventuale sviluppo tecnologico poteva nella teoria correggere totalmente o parzialmente i rendimenti decrescenti di breve periodo, o ancora ribaltarli, in modo tale da ottenere nel lungo periodo rendimenti costanti, decrescenti o crescenti. Ma Ricardo, sulla base di dati empirici rifiutò l’ipotesi del bilanciamento e dunque ipotizzò che storicamente si sarebbe assistito a rendimenti decrescenti in agricoltura. L'economia britannica del tempo indicò però che le previsioni del modello ricardiano erano errate, la popolazione infatti cresceva maggiormente rispetto ai lavoratori occupati in agricoltura, ma ambiguamente gli economisti ricardiani, curiosamente, da un lato ammettevano l'evidenza storica e dall'altro continuavano ad attenersi fedelmente al modello tradizionale. Ricardo ipotizzò anche, in un lungo periodo, una diminuzione progressiva del saggio di profitto e ciò perché un aumento del costo dei prodotti agricoli genera all’aumentare della rendita sulla terra inframarginale un calo dei profitti sulla terra marginale (in base alla teoria dei rendimenti storicamente decrescenti). Tale tesi poteva però essere misurata solo con dati empirici e nonostante gli economisti ricardiani non avessero riscontro empirico dei rendimenti storicamente decrescenti, nonchè del calare del saggio di profitto sino al suo annullamento coincidente con lo stato stazionario, i succitati economisti insistevano nell’attenersi a tali previsioni. Riguardo alla teoria del valore Ricardo giunse alla conclusione che i delta del saggio di profitto non incidevano sulle variazioni temporali dei prezzi relativi. Infatti, sebbene i prezzi relativi dipendessero sia dal costo del lavoro che dal costo del capitale (il secondo essendo rappresentato dai profitti), i profitti avevano ben poca rilevanza nella loro determinazione. Gli economisti successivi a Ricardo tentarono di includere nella teoria del valore non solo il costo del lavoro ma anche i costi imputabili al fattore capitale. A tali argomentazioni si affiancarono quelle dei socialisti ricardiani, i quali affermavano che nonostante il lavoro producesse l'intero prodotto non veniva remunerato adeguatamente e la parte eccedente andava ad ingrassare i capitalisti. All’interno di tali disquisizioni Nassau Senior maturò una teoria dell'interesse basata sull'astinenza. Fondamento della teoria di Senior furono riguardo la domanda dei beni, l’importanza attribuita all'utilità, riguardo l'offerta, il ruolo della disutilità vista come un costo reale della produzione. Assunto che gli esseri umani sono razionali e calcolatori, a parere di Senior, i salari rappresentavano il corrispettivo premio al lavoro svolto dagli operai. La produzione di beni capitali inoltre, implica l’astensione dal consumo da parte di alcuni soggetti, i quali secondo Senior non erano i capitalisti a meno che non questi non siano compensati per il loro sacrificio. Dati il lavoro e capitale come due fattori necessari alla produzione dei beni finali, il prezzo dei beni dice Senior, dovrebbe essere tanto elevato da poter remunerare entrambi i costi reali sostenuti per la produzione, dunque la sua teoria del valore poggiò sul costo di produzione, e in particolare il salario rappresentava il rimborso ai lavoratori e il profitto quello dato ai capitalisti. J.S Mill (1806-1873) nel 1848 pubblicò i Principi di Economia Politica con il quale intendeva preservare quanto di buono era stato scritto da Ricardo ma al contempo revisionare l’economica classica. Mill infatti, s’inserì in una tendenza che vide nel corso della prima metà del ‘800 i cd. socialisti pre marxiani confutare alcuni pilastri dell‘economia politica classica, come ad es. la dottrina malthusiana della popolazione o quella dei rendimenti decrescenti in agricoltura. A parere di Mill l’economia è una scienza ipotetica che poggia sul metodo a priori, e l’economista è colui partendo da alcune assunzioni principali giunge a delle conclusioni. Mill accettò le teorie ricardiane ma allo stesso tempo le criticò, fu influenzato da Comte e sposò il metodo deduttivo senza per questo tralasciare i fatti reali in base ai quali possono emergere i cd. fattori di disturbo in presenza dei quali bisogna reimpostare un nuovo ragionamento ed elaborare nuove conclusioni o considerare forze di natura non economica precedentemente tralasciate. Secondo Mill le leggi della produzione erano leggi di natura e non possono mutare per mano del singolo o del governo, le leggi della distribuzione sono invece frutto della società e istituzioni. Mediante le riforme sociali era possibile mutare la distribuzione personale del reddito. In base alla distinzione tra leggi della produzione e leggi della distribuzione Mill oppose allo stato stazionario di Ricardo una visione diversa secondo la quale la distribuzione del reddito sarebbe stata più giusta ed egualitaria, e dunque i salari non sarebbero rimasti al loro livello di sussistenza. Mill fu favorevole all’applicazione di tasse elevate sull’eredità, alla formazione di cooperative di lavoratori con le quali gli stessi avrebbero potuto ottenere profitti ed interessi attivi, e a suo parere i rendimenti decrescenti in agricoltura potevano essere attutiti grazie ad un aumento della scolarizzazione e ad un decremento della crescita della popolazione ottenibile mediante il controllo delle nascite e dei matrimoni, si schierò invece contro i tributi progressivi. Secondo alcuni studiosi Bentham non ebbe una forte influenza su Mill, secondo altri sì, fatto sta che l’utilitarismo di J.Bentham ebbe nell’Inghilterra dei primi ’800 un ruolo determinante, proponendo il controllo sulle nascite e dopo i suoi seguaci suggerirono riforme elettorali, carcerarie, di associazione e di pensiero. Secondo Bentham la natura ha sottomesso l’uomo a due padroni, il dolore e il piacere. L’uomo è quindi alla ricerca continua del piacere e vuole fuggire il dolore. In quest’ottica la politica deve agire consentendo un libero mercato incentivandolo e rimuovendo eventuali ostacoli al commercio. Nonostante l’ascendente che Bentham ebbe su James Mill, il figlio, in primo luogo non accettò il dogmatismo radicale ed in particolar modo un analisi del comportamento umano dettata da dolore e piacere, in secondo luogo contestò la reticenza utilitarista verso le idee innovative. La Filosofia sociale di Mill riguardo le politiche pubbliche da adottare può essere collocata tra il liberismo classico che contraddistinse il periodo della sua formazione e le riforme sociali visto l’interesse mostrato verso i socialisti filosofi che presupponevano una società buona. Elaborando la dottrina Utilitarista Mill arrivò ad una visione articolata di una saggia collettività, ove gli ostacoli per il conseguimento della felicità e della libertà umana sono posti ai minimi termini subordinatamente però, all’aiuto del governo, il quale come scrive nei Principi di Economia politica tutelerà l’infanzia, promuoverà assistenza e assicurerà l’istruzione. Favorevole al laissez faire liberale, Mill considerava armonioso il funzionamento dei mercati ma si preoccupò anche del ruolo dei proprietari terrieri inattivi e causa perenne di conflitto sociale. Ciò nonostante non fu plagiato dai socialisti e infatti riguardo al diritto di proprietà questo, poteva essere abrogato o modificato se contrario al bene comune, la concorrenza invece, venne definita benigna e la conseguenza del monopolio all'interno dei mercati è un'allocazione inefficiente delle risorse. Nel rispetto del dettato di Ricardo, Mill sostenne i saggi di profitto decrescenti nel tempo e il raggiungimento dello stato stazionario il quale però, a differenza di quello prospettato dal predecessore era uno stato stazionario non deprimente e triste. Mill contestò la concorrenza tra uomini e propose la felicità individuale e il benessere collettivo, uno stato stazionario alternativo caratterizzato da una migliore distribuzione del reddito in cui gli uomini potevano dedicarsi sia al benessere economico che non economico, immagina dunque una società buona migliorabile grazie ad un aumento del reddito procapite e una diminuzione della popolazione. Riguardo i diritti delle donne Mill intendeva la discriminazione femminile come un impedimento originario perché dettato dalla nascita, e specialmente in Inghilterra ove i politici si vantavano del raggiungimento dell’uguaglianza sociale tale differenza doveva essere eliminata. La teoria economica di Mill è fondata sul presupposto che non possono essere considerati solo i risultati teorici ma devono essere considerati altri fattori quali ad es.le consuetudini che possono alterare le ipotesi dottrinali. Il filosofo inglese dunque sotto quest’aspetto fu molto vicino all’analisi contestualizzata di Smith, con la quale studiò persino il comunismo e il capitalismo, affermando che avrebbe preferito un comunismo ideale ma assunto che il riscontro con la realtà era diverso, optava per il capitalismo. Anche riguardo la teoria del valore (o dei prezzi relativi) si allontanò da Ricardo e propose un modello teso a spiegare i prezzi relativi e impostato sul costo di produzione in cui i costi monetari possono essere paragonati ai costi reali dunque alla disutilità del lavoro o dell’astinenza (elementi di vicinanza a Senior). Circa la rendita invece ritiene non veritiera la proposizione Ricardiana riguardo un costo opportunità della terra uguale a 0, la qualificazione della rendita come costo sociale di produzione quando esistono usi alternativi della terra. Una cosa può avere un valore di scambio, o un prezzo, deve essere in primo luogo utile e da poi di difficile reperibilità, anche se il valore d’uso detta il valore di scambio solamente in certi casi. Assunto che l’utilità di un bene ossia la domanda e la difficoltà di ottenerlo e l’offerta devono essere preesistenti alla determinazione del prezzo, Mill ipotizza di stabilire il prezzo di una tabacchiera musicale, considerando la produzione di tabacchiere a costi costanti e la produzione di una sola tabacchiera. Con un offerta limitata in modo assoluto, la curva di offerta sarebbe verticale (inelastica) e il prezzo viene dettato dalla domanda e dall’offerta (Fig.1). Ciò avviene per i beni poco importanti come vini o libri rari. Si ha invece una curva di offerta orizzontale (perfettamente elastica) per i beni lavorati il cui prezzo, ipotizzando che i costi marginali siano fissi all‘aumentare della produzione, e dunque si abbiano costi costanti, è dettato dal costo di produzione (Fig.2). I beni agricoli infine, a cui viene applicato il principio dei costi marginali decrescenti, sono soggetti a costi crescenti in quanto i costi marginali aumentano all’aumentare della produzione e il prezzo è dettato dalle circostanze favorevoli o meno o secondo la terminologia moderna il prezzo dipende dal costo marginale dell‘ultimo bene prodotto (Fig.3). In tali ipotesi non vengono trattati i beni che hanno costi decrescenti e curve di offerta di lungo periodo inclinate verso il basso. Il prezzo di equilibrio viene fissato grazie ad un adeguamento del valore, se la domanda aumenta il valore sale, quando la domanda scende così sarà anche per il valore, e conseguentemente se l’offerta cala il valore diminuirà, mentre se aumenta il valore scenderà. Si ha dunque equilibrio quando domanda e offerta diventeranno uguali fra loro. La falla che può essere sottolineata nel sistema Milliano è quella di una mancata analisi dei mercati con concorrenza imperfetta. Mill s’interessò anche su come i vantaggi del commercio internazionale si ripartiscono tra le diverse nazioni che vi partecipano. L’analisi Milliana parte dalla dipendenza delle ragioni di scambio dalla domanda per i prodotti importati da parte dei due paesi. Tale domanda è connessa alle tendenze e alle condizioni dei consumatori dei due paesi, e il prezzo internazionale deve coincidere con il valore per cui le quantità richieste dai paesi saranno sufficienti ad acquistarsi l’una con l’altra. Per tendenze e condizioni di consumatori si riferisce alle posizioni e alle elasticità delle curve di domanda (bisogna a tal fine precisare che non specificò mai il concetto di elasticità della domanda, siano esse elastiche, inelastiche o ad elasticità unitaria). Inoltre considerò i costi di trasporto nell’analisi del commercio estero e come questi potevano disincentivare lo scambio anche in presenza di un vantaggio comparato, le influenze delle tariffe sul commercio internazionale, nonché le variazioni dei prezzi e del reddito. Secondo i sottoconsumisti se i ricchi avessero risparmiato meno e utilizzato le loro risorse monetarie in consumi improduttivi il sistema economico ne avrebbe tratto vantaggio. Mill era contrario a tale convinzione e sostenne la Legge di Say presupponendo come possibile l’offerta eccessiva di determinati beni, ma non la trasposizione di tale condizione a livello macroeconomico nonché un esponenziale e indiscriminata diffusione dell’eccesso di offerta a tutte le merci. Mill presentò tre sistemi economici: il primo basato su un economia di baratto, il secondo dove non esiste credito e la moneta è una merce, il terzo in cui esiste la moneta. In un sistema contraddistinto dal baratto non è possibile avere l’insufficienza della domanda aggregata in quanto i beni sono offerti in relazione alla loro domanda, e dunque la produzione avviene al solo fine di ottenere altri beni. Tale stato di cose permane nel caso d’introduzione della moneta come mezzo di scambio, ma muta quando la moneta assume la funzione di riserva di valore in tal caso infatti si potrebbe avere una sovrapproduzione dettata dal mancato ingresso nel mercato da parte dei venditori che intendono effettuare i loro acquisti. La sua Teoria psicologica del ciclo economico prevede che l'introduzione del credito avrebbe potuto causare una sovrapproduzione di merci, e dunque una sovraemissione di credito in un periodo di espansione e di prosperità avrebbe potuto essere seguita da una contrazione dello stesso, a seguito di un'ondata di pessimismo nella comunità degli affari. In questi casi dice Mill si ha un offerta di moneta insufficiente e tutti i consociati cercano danaro contante facendo sì che la comunità si trasformi in una società di venditori. Dunque l’eccesso di offerta a livello aggregato sarebbe stato causato dal mutamento delle aspettative da parte degli investitori, e non dalla sovrapproduzione dovuta ad un mercato saturo, così come detto da Malthus. Dopo un breve periodo i prezzi del sistema sarebbero mutati con conseguente piena occupazione. Il dibattito bullionista proseguì nella controversia tra la scuola metallica (Currency school) e la scuola bancaria (Banking School). La scuola metallica si rifaceva la posizione bullionista e sosteneva che un regime di circolazione di banconote e di oro, dunque misto, doveva essere disciplinato in maniera ferrea e che quindi, la quantità di moneta circolante doveva variare allo stesso modo in cui sarebbe variata in un sistema perfettamente metallico. Solo tale politica avrebbe potuto evitare l’Inflazione. La scuola bancaria, sosteneva invece una politica monetaria flessibile e la non necessità di adoperare controlli sull'emissione di banconote sempre che le banche avessero agito in accordo con la dottrina delle cambiali reali (Torrens). La Teoria monetaria di Mill si frappose a metà tra queste due vedute: Mill infatti asserì su come le indicazioni della scuola bancaria sarebbero state corrette in tempi normali, ossia con mercati tranquilli. Nel caso di crescita finanziaria speculativa, invece la politica economica migliore era quella della scuola metallica, consistente nel legare l'emissione di banconote alla quantità d'oro disponibile come riserva. Secondo la dottrina del fondo salari il saggio di salario era determinato dalla dimensione della forza lavoro e dal fondo-salari, cosicché qualsiasi tentativo messo in atto dai lavoratori per alzare il livello delle retribuzioni era inutile. Ora, in base a tale dottrina secondo alcuni studiosi del tempo l’esistenza dei sindacati era da ritenere superflua, Mill però, sebbene abbracciò la dottrina del fondo salari al contempo rappresentò l’importanza dei sindacati e dello sciopero come arma in mano ai lavoratori per contrastare il potere del datore di lavoro. La dottrina del fondo-salari infatti lega la domanda di lavoro alla dimensione del fondo-salari; secondo Mill però se l'ammontare massimo dei fondi disponibili al pagamento dei salari è fisso, una data forza lavoro e un dato livello di salario potrebbe anche non esaurire quest'ammontare fisso. Il saggio di salario dunque non è dettato unilateralmente, e pertanto i sindacati possano alzare il saggio grazie al processo della contrattazione. Capitolo 6 Karl Marx Karl Marx nacque a Treviri nel 1818. Nel 1846 aderì alla Lega dei giusti poi trasformatasi in Lega dei comunisti, pubblicando nel 1848 Il Manifesto del Partito Comunista e nel 1867 diede alle stampe il primo volume del Capitale. Marx fu innovativo perché applicò la sua concezione della storia all’economia capitalista cosi da forgiare una nuova teoria economica che guardava non all’equilibrio statico del sistema bensì a quello dinamico. Il suo concetto di storia derivò dalla Legge della Dialettica Hegeliana la quale si esplica in tre momenti: la Tesi, ossia lo Stato di Partenza o affermazione; l’Antitesi o l’opposizione all’affermazione e infine la Sintesi ultima parte del processo dialettico, fusione di tesi e antitesi, e rappresentante un nuovo oggetto avente qualcosa di entrambi gli stadi precedenti, nonché la tesi del periodo storico successivo. La Dialettica non si conclude con la Sintesi, ma segue un percorso a spirale e la storia sarà una catena di idee sempre più vicine alla verità. Tutti i passaggi della civiltà umana possono essere spiegati attraverso la triade come ad es. il commercio tra vendere e comprare, l’Eticità come sintesi tra Diritto e Moralità. A differenza di Hegel, Marx poggiò il suo ragionamento sul Materialismo (per questo si dice Materialismo dialettico), dunque la storia non doveva essere ricercata nel mondo delle idee ma nel mondo reale. Secondo Marx le forze economiche sono quelle da cui diparte il cambiamento storico, tanto che in tutte le società è possibile rintracciare, le forze della produzione e i rapporti di produzione. Le prime sono date dalle risorse materiali disponibili e dalle conoscenze scientifiche e tecniche, e hanno una natura dinamica, i secondi invece, hanno una natura statica e consistono nella proprietà dei mezzi produttivi o nella tipologia dei rapporti di lavoro, i quali a loro volta caratterizzano i rapporti tra gli esseri umani. Forze e mezzi della produzione, unite ai rapporti di produzione costituiscono la cd. Infrastruttura sociale ossia lo scheletro del sistema sociale che decide la forma della Sovrastruttura definita come l’unione delle rappresentazioni culturali come il mito, la religione o la filosofia, dei sistemi normativi costituiti dalle leggi, istituzioni, apparati governativi e dai contenuti della coscienza individuale e collettiva (motivazioni, valori ecc…) e rintracciabile nell’arte, nella musica, o nella religione, atte a mantenere inalterati i rapporti di produzione esistenti. Nella dialettica, i rapporti di produzione sono la tesi, le forze della produzione sono l’antitesi e nello scritto Per la critica dell’economia politica afferma che quando le azioni umane producono un mutamento delle forze e dei mezzi di produzione (nuovi macchinari, concentrazione del capitale) causano uno scompenso tra le realtà e i rapporti di produzione, i quali devono essere sostituiti, e così nasce la cosiddetta rivoluzione sociale volta a sanare la contraddizione esistente tra Infrastruttura e Sovrastruttura. Il nuovo sistema di rapporti di produzione sarà la sintesi e così come il precedente sarà distinto da armonia sino a quando non giungerà ad una nuovo mutamento. In Manoscritti economico-filosofici (1844) Marx evidenzia come l’economia politica classica ha accettato passivamente i mercati senza considerare la natura della proprietà privata e le influenze che i mercati hanno sulle persone. In particolare, egli considera l’alienazione intesa non un processo psichico, ma assunto che l’uomo attraverso la produzione riesce a sentirsi attivo, vitale, tale vitalità viene alienata dalla presenza della proprietà privata e dall’economia di scambio. Alienazione dice Marx è il risultato oggettivo dell’accentramento dei mezzi di produzione e di una distorsione del rapporto tra produzione e necessità dell’uomo. Altro concetto è l’Ideologia che può essere ricercata nella religione, nella politica, nella morale e serve a garantire mediante una serie di convenzioni e precisamente rappresentazioni e razionalizzazioni illusorie della realtà, il potere costituito e gli interessi di una classe dominante e dunque i rapporti di produzione. In base a queste considerazioni Marx contestò la convinzione che il capitalismo fosse un sistema economico ideale in quanto con lo sviluppo degli inevitabili conflitti indotti dal cambiamento nelle forze della produzione, così come era crollato il feudalesimo incapace di rispondere alla tecnologia agricola e agli intesi commerci, anche il capitalismo sarebbe caduto, e avrebbe lasciato spazio dapprima al socialismo e poi al comunismo caratterizzato dalla bontà umana la quale viene occultata dal capitalismo, capace di superare i rapporti di produzione socialisti, un sistema in cui non esistono classi sociali né tanto meno conflitti sociali, e lo Stato, definito come un elemento storico contingente sarebbe scomparso. Marx adottò una metodologia contraria a quella ortodossa, tanto è vero che rifiutò l’analisi del particolare per giungere a quella del sistema economico nel suo tutto, e partì da uno studio della società e dell’economia per capire le incidenze di queste sulle singole parti. Per prima cosa Marx studiò la relazione di scambio tra capitalisti e proletari in quanto questa, era la giusta cartina al tornasole per comprendere la separazione del lavoro dalla proprietà dei mezzi di produzione insita nel sistema capitalistico contraddistinto, non come nel passato dalla produzione per il valore d‘uso (consumo dei beni da parte del produttore) ma dalla produzione per il valore di scambio. Il filosofo tedesco elaborò una teoria sui valori di scambio e al fine di spiegare come nascono i redditi da proprietà si concentrò sui fattori che influenzano i prezzi dei beni manufatti nonché sul prezzo del lavoro prestato dai proletari. Nel mondo capitalistico i prezzi, rappresentano sia relazioni di tipo quantitativo esistenti tra le merci, sia relazioni di tipo qualitative o sociali esistenti tra persone, e presentando la sua teoria sui prezzi relativi assume come dato certo un elemento comune a tutti i beni che può essere misurato quantitativamente. Tale elemento è il lavoro essenziale a produrre un bene, e così come Ricardo Marx scelse una teoria del valore lavoro. Egli assevera l’esistenza del cd. lavoro astratto ossia una quantità totale di lavoro fornita dalla società per la produzione dei beni. Dunque, per produrre un bicchiere è necessario usare una porzione di lavoro astratto e il prezzo del bicchiere sarà dettato dalla quantità di lavoro, misurata in ore. Bisogna però considerare le differenti abilità lavorative mediante le quali si può avere una produzione variabile da soggetto a soggetto, il cd.lavoro qualificato e il filosofo tedesco lo fa considerando il tempo di lavoro socialmente necessario altrimenti inteso come il tempo di lavoro nel quale un lavoratore possessore di abilità nella media riesce a produrre una data merce. Accade allora, che in presenza di abilità superiore alla media, considerando tale tempo, la diversa bravura è valorizzata in rapporto a quella media, e pertanto un eventuale produzione doppia può essere remunerata doppiamente rispetto ad un lavoratore medio. Circa l’incidenza che i beni capitali hanno sulla formazione dei prezzi relativi Marx sostiene (come Ricardo) che il capitale è lavoro accumulato, e quindi il tempo di lavoro necessario alla produzione di un bene è pari al numero di ore spese nella produzione più il numero di ore di lavoro richieste dalla produzione di capitale andato poi distrutto nel processo di produzione. Riguardo il tema dei fondi aventi diversa fertilità e conseguentemente una produzione diversa nonostante l’uguale applicazione di lavoro, Marx ritiene che la superiore produttività è a favore del proprietario il quale l’assorbe come rendita differenziale fermo restando che la concorrenza fa aumentare la rendita sulle terre migliori sino ad uguagliare il saggio di profitto su tutti i fondi considerati. In questo caso è la rendita ad essere dettata dal prezzo e non viceversa. A parere di Marx il valore di una merce = C+V+S dove C è il capitale costante ossia le spese che gli industriali sostengono per acquistare le materie prime e per il deprezzamento sul capitale fisso, V è il capitale variabile dato da salari e stipendi, ed S è il Plusvalore dato dalla differenza tra Ricavo lordo dei capitalisti e Capitale costante e variabile. La scelta sul lavoro come elemento capace di creare valore è data dalla considerazione che gli investimenti fatti per C generano un profitto uguale all’investimento, quelli invece fatte per V producono un profitto superiore. Assunta la concorrenza perfetta Marx studia i prezzi di equilibrio di lungo periodo in tali mercati. Acquistati i diversi fattori produttivi al prezzo concorrenziale di lungo periodo, il bene prodotto viene venduto al prezzo di equilibrio, dunque, date queste condizioni, dove nasce il plusvalore il quale è poi la fonte dei redditi di proprietà? Nasce dal lavoro il quale produce un valore maggiore rispetto a quello per il quale viene pagato: quando infatti dopo un dato numero di ore vengono prodotte merci necessarie ad acquistare i beni fondamentali per il mantenimento del proletario, e il prezzo del lavoro corrisponderà a quelle ore lavorate, tutte le ore di lavoro successive produrranno un plusvalore. Il saggio di plusvalore o di sfruttamento S’ = S/V. Esiste pertanto uno sfruttamento del capitalista detentore dei mezzi di produzione nei confronti del lavoratore, posto davanti ad un bivio, lavorare per un numero di ore maggiori rispetto a quelle necessarie ad acquistare i mezzi necessari al suo sostentamento o non lavorare. Il saggio di Plusvalore può aumentare prolungando la giornata lavorativa, aumentando la produttività del lavoro o diminuendo il salario reale dei lavoratori, ma mentre sui primi due fattori il capitalista può intervenire, riguardo al terzo, dettato dalle forze dei mercati concorrenziali, è impotente. Il saggio di Profitto = P = S / C+V dunque al Saggio di Plusvalore diviso gli investimenti per il capitale totale. La composizione organica del capitale o intensità di capitale di un industria = Q = C/C+V dunque agli investimenti per il capitale costante diviso quelli per il capitale totale. Se S’=S/V > S’ > sarà l’intensità di capitale. Possiamo ancora dire che: P=S’(1-Q) ossia il saggio di profitto varia al variare del saggio di plusvalore e inversamente a Q. Riguardo l’influenza dei profitti sulla determinazione dei prezzi Marx fornì una sua spiegazione la quale risultò però sbagliata. Egli affermò che in presenza di mercati concorrenziali il saggio di plusvalore sarebbe stato uguale in tutte le aziende, e inoltre la concorrenza dei mercati avrebbe prodotto un saggio di profitto uguale in tutte le aziende. Ciò perché se P > in un settore economico ciò avrebbe causato una diversa allocazione delle risorse, cosicchè nel lungo periodo il saggio di Profitto sarebbe stato uguale in tutti i settori. Se P e S’ devono essere uguali in tutti i settori, conseguentemente anche la Composizione organica del capitale sarà uguale, ciò in base alla formula P=S’(1-Q). Bisogna però considerare che questa tesi di Marx era errata in quanto P ed S’ nonché Q variano a seconda del settore di produzione, e infatti volendo fare un es. se S’ =100 sia in in un industria dell’alluminio caratterizzata da un alta intensità di capitale e in un industria di frutti di bosco caratterizzata da un alta intensità di lavoro, ove Q sono rispettivamente pari a 0,75 e 0,25, se vogliamo determinare P nell’industria dell’alluminio=S’(1-Q)=1,00(1-0,75)=0,25 mentre P nell’industria di frutti di bosco=S’(1-Q)=1,00(1-0,25)=0,75. Il saggio di profitto è allora diverso, ed è maggiore nell’industria che ha un alta intensità di lavoro. Sia Smith che Ricardo non riuscirono a sviluppare una teoria del valore lavoro coerente ovvero in grado di spiegare i prezzi relativi nel caso di industrie con diversi rapporti capitale/lavoro, e per superare tale problema, nel terzo volume del Capitale Marx abbandonò l’ipotesi di una Composizione organica del capitale in tutte le aziende e tentò di trasformare il valore delle merci nei prezzi di mercato affinché potesse trattare un economia caratterizzata da diverse composizioni di capitale. Questo tentativo fallì e l’insieme degli studiosi che si è occupato i Marx lo ha ribattezzato come il problema della trasformazione, che ha visto la divisione della dottrina circa la validità da attribuire all’intero sistema marxiano. Marx analizzò il capitalismo ricorrendo alle cd. cinque leggi Marxiane. 1)L’esercito industriale di riserva composto dai disoccupati. Il rifiuto della teoria malthusiana della popolazione comportò la necessità di scoprire una giustificazione circa l’esistenza del plusvalore e dei profitti. Secondo Marx un aumento dell’accumulazione di capitale produce una maggiore domanda di lavoro, ma a differenza di Malthus il plusvalore e i profitti non si riducono in quanto esiste l’esercito di riserva dei disoccupati i quali mantengono elevata l’offerta di lavoro facendo si che i salari rimangano bassi mentre il plusvalore e i profitti siano alti. L’eccesso di offerta di lavoro avviene in primo luogo perché esiste il reclutamento diretto dovuto al cambio dei lavoratori con le macchine: in tal modo si ha un incremento della composizione organica di capitale Q e i lavoratori rimangono disoccupati e senza impiego. In secondo luogo esiste il reclutamento indiretto quando la forza lavoro viene ingrossata da nuovi soggetti come i ragazzi che finiscono la scuola, coloro che hanno perso il lavoro o le casalinghe che manifestano la volontà di lavorare. L’esercito industriale di riserva, il livello dei profitti e dei salari dipendono dalle fasi dei cicli economici. Quando infatti si ha un aumento dell’attività economica (e accumulazione di Capitale) i salari lievitano e l’esercito di riserva diminuisce quantitativamente, l’aumento dei salari fa però diminuire i profitti cosicché i capitalisti cominciano ad utilizzare le macchine e pertanto la disoccupazione conseguente provocherà un ridimensionamento dei salari e un aumento dei profitti. In base a tali conclusioni possiamo affermare che Marx ammettendo una disoccupazione tecnologica persistente nel lungo periodo rifiuta la Legge di Say (secondo cui un sistema capitalistico garantisce automaticamente la piena occupazione delle sue risorse e alti tassi di crescita economica). Molti economisti ortodossi hanno contestato questa prima legge Marxiana, in quanto se Marx ipotizza un mercato concorrenziale e l’offerta di lavoro supera la domanda, i salari devono diminuire sino a quando offerta e domanda non si trovano in una situazione di equilibrio. 2)La caduta tendenziale del saggio di profitto. Ipotizzando il Saggio di Plusvalore costante nel tempo, essendo questo determinato da forze diverse rispetto a quelle che influenzano la composizione organica del capitale, in base alla espressione P=S’(1-Q) ogni variazione positiva di Q farà decrescere P. Dato che la concorrenza esistente sia sul mercato dei beni che sul mercato del lavoro avrebbe, secondo Marx, comportato un aumento di Q inevitabilmente il saggio di Profitto era destinato a diminuire. Riguardo al mercato del lavoro la predisposizione del capitalista ad accumulare capitale comporta un aumento del capitale variabile V e pertanto maggiori quantità di lavoro domandata, cosicché i salari crescono e i disoccupati decrescono. L’incremento della retribuzione dei lavoratori fa si che il Saggio di Plusvalore diminuisca, così come P. A questo punto, al fine di aumentare i profitti, il capitalista può sostituire i lavoratori con le macchine, dunque aumenta la composizione organica di capitale Q ma così facendo se S’ rimane invariato i Profitti diminuirebbero ulteriormente. Riguardo il mercato dei beni la concorrenza implica un graduale calo del saggio di Profitto in quanto i produttori cercherebbero di diminuire i costi di produzione al fine di vendere le merci prodotte ad un prezzo inferiore rispetto a quello di mercato. La diminuzione dei costi di produzione può avvenire utilizzando tecniche innovative le quali farebbero aumentare la composizione organica del capitale Q e con S’ costante i profitti diminuirebbero. L’analisi di lungo periodo del saggio di Profitto poggia su un ipotesi di base, quella cioè della stabilità del Saggio di Plusvalore S’, tuttavia bisogna precisare che questo fattore può, per stessa ammissione di Marx, aumentare, ciò a es. nei casi di aumento della giornata lavorativa, nel caso di incremento di Q conseguente aumento dell’esercito di riserva, diminuzione dei salari e aumento del Saggio di Plusvalore, con l’impiego di donne e bambini che rappresentano un costo minore rispetto ai lavoratori oppure per via del progresso tecnico. Assunto che con un aumento della spesa per investimenti altrimenti detta accumulazione di capitale, in base alla legge dei rendimenti decrescenti si assiste ad una diminuzione del Profitto P, con il progresso tecnico si può avere un incremento di Profitto. E’ possibile attraverso lo sviluppo tecnologico contrastare i rendimenti decrescenti provocati dall’accumulazione di capitale? Assunti come elementi Capitale nell’asse X e Saggio di Profitto in Y, la curva M rappresenta i rendimenti decrescenti prodotti dall’accumulazione di capitale. Un aumento di Capitale comporta in M, una riduzione del Profitto, da P1 a P2, un aumento dello sviluppo tecnologico causa però un incremento del Profitto per ogni livello di Capitale e uno spostamento della curva da M a M’. In tal caso il progresso tecnico ha controbilanciato i rendimenti decrescenti, ma può anche accadere che la curva M’ si sposti ma P non vari, oppure che lo stesso Profitto diminuisca (vedi fig. retro). 3)L’origine delle crisi economiche. Marx indicò una serie di cause che provocano le cd. fluttuazioni economiche, tuttavia non elaborò una vera e propria teoria. Secondo Marx in un economia di baratto l’attività economica ha lo scopo di ottenere un valore d’uso diretto oppure di baratto e pertanto la produzione e il consumo sono sincronizzati. La moneta può mantenere la stessa funzione, questa infatti può essere vista come un mezzo di scambio che facilita la divisione del lavoro e il commercio. Economia di baratto M->M M=Merci Economia monetaria M->D->M D=Denaro Ma ciò in un sistema capitalistico non avviene in quanto lo scopo dell’attività economica non è ottenere un valore d’uso ma quello di produrre valori di scambio e dunque il capitalista detentore di danaro produce merci cedendole in cambio di danaro, e mira ad ottenere un Plusvalore. Economia Capitalista D->M->D’ In cui il Delta D rappresenta il Plusvalore. In base a tale convinzione Marx criticò la legge di Say secondo la quale non esiste differenza tra un economia di baratto e capitalista. A differenza della prima, in un'economia capitalista la sovrapproduzione è molto probabile, e con essa una crisi. Le fluttuazioni cicliche. Marx propone due modelli di Fluttuazione economica, il primo è quello del ciclo economico ricorrente, il secondo quello della distruzione dei valori capitali. Il primo modello prevede che in presenza di sviluppo tecnologico e accumulazione di capitale, la domanda di lavoro sarebbe aumentata e parimenti vi sarebbe stata una diminuzione della quantità di soggetti che compone l’esercito di riserva. In tal modo i salari sarebbero aumentati, il saggio di Plusvalore diminuito così come il Profitto. La diminuzione del Profitto avrebbe però comportato un decremento dell’accumulazione di capitale e l’inizio di una crisi depressiva, la quale però dopo un certo periodo di tempo doveva essere seguita da una nuova espansione. Se infatti la produzione diminuisce e i disoccupati aumentano, i salari sarebbe diminuiti e i profitti aumentati; in tale maniera si sarebbe generata una nuova accumulazione di capitale e una crescita. Il secondo modello s’incentra sulla distruzione dei valori capitali dettata dal deprezzamento del valore dei beni capitali usati in produzione e dovuto ad obsolescenza, o mutamenti di aspettative. Le crisi derivanti da sproporzione. Uno dei dubbi di Marx sul sistema capitalistico riguardava l’incapacità di giungere ad una perfetta allocazione delle risorse tra i diversi settori economici. Date due industrie, se la domanda dei beni prodotti dalla prima aumenta e quella dei beni prodotti dalla seconda diminuisce, in un sistema capitalistico i prezzi e profitti della prima industria aumentano, quelli della seconda calano, e dunque gli imprenditori cercherebbero di allocare le risorse del secondo settore nel primo. In tal modo la situazione vissuta dalla seconda industria, causa la migrazione delle risorse verso altri campi finirebbe ben presto, e dunque quella che Ricardo chiamava Saturazione parziale non contagerebbe l’intero sistema economico. Marx propose una teoria alternativa e affermò che la disoccupazione che avrebbe colpito la seconda azienda poteva interessare tutto il sistema economico. La caduta tendenziale del saggio di Profitto e le crisi economiche. Marx integrò la sua teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto alle teorie delle crisi economiche, e così facendo cercò di invalidare la Legge di Say e smontare il sistema capitalista. Ciò nonostante propose una spiegazione delle crisi economiche partendo dalla stessa legge dell’economista francese. In particolare, assunte per buone tutte le ipotesi che sottendono alla Legge di Say il capitalismo stesso, come sistema economico colmo di contraddizioni, sarebbe stato investito da profonde crisi. Nel breve periodo infatti per aumentare i profitti, i capitalisti avrebbero aumentato Q causato una diminuzione di P, e dunque un minore investimento e l’avvento di crisi economiche. 4)La concentrazione e la centralizzazione del capitale. Sebbene Marx ipotizza un mercato perfettamente concorrenziale in cui esistono piccole imprese, bisogna dire che non ignorò l’esistenza d grandi imprese e la possibilità di una diminuzione della concorrenza in presenza di monopoli. Si hanno tali condizioni dice Marx con la concentrazione di Capitale ossia quando i capitalisti accumulano una grande quantità di capitale cosicché le dimensioni dell’impresa aumentano e la concorrenza diminuisce, oppure con la centralizzazione del Capitale conseguente ad una divisione del capitale esistente in mano a pochi individui. Le imprese di grosse dimensioni possono giungere ad economie di scala, produrre a costi medi inferiori rispetto alle piccole e conseguentemente queste erano destinate a sparire, lasciando spazio ai monopoli. Avrebbero inoltre favorito la centralizzazione del capitale il sistema creditizio e le società di affari. 5)L’immiserimento progressivo del Proletariato. Su quest’ultima legge esistono tre diverse interpretazioni. Secondo la prima, il crescente immiserimento del proletariato in termini assoluti implica che il reddito reale dei lavoratori sarebbe diminuito con lo sviluppo capitalista. La seconda guarda ad immiserimento del proletariato in senso relativo, indicando cioè come la quota del reddito nazionale spettante al proletariato cala nel tempo. La terza sottolinea aspetti non economici della vita, evidenziando come il capitalismo facesse degradare la qualità della vita interessata da schiavitù, ignoranza, aggressività e degradazione morale. Capitolo 7 Jevons, Menger e i fondatori austriaci dell’analisi marginalista Jevons, Menger di Principi di Economia Politica e Walras di Elementi di economia politica pura, avviarono il pensiero economico ortodosso o neoclassico maggiormente propenso alla teoria microeconomica, e vengono ricordati soprattutto per la cd. analisi marginalista dissero cioè, che il valore di un bene dipende dall’utilità marginale che ne avrebbe potuto trarre il consumatore. L’economia neoclassica s’interessò al tema dell’allocazione di risorse scarse tra usi alternativi nei mercati concorrenziali, e fu fondata su una metodologia deduttiva ossia su modelli astratti tesi a studiare il comportamento di consumatori e imprese che agiscono al fine di massimizzare la propria utilità o profitto, e in cui vennero usati sempre più gli strumenti matematici. Tra questi Menger fu l’unico a riavvicinarsi al mondo classico in quanto intendeva rilanciare il tema Smithiano della divisione del lavoro quale mezzo di benessere dello stato. Circa la metodologia Jevons fu vicino a Petty e sostenne la statistica, Menger contrario a strumenti matematici sposò la metodologia Ricardiana del ragionamento astratto e deduttivo, Walras invece sottolineò l’importanza del ragionamento astratto accompagnato dalla matematica. Inoltre il primo applicò l’analisi marginalista a livello del consumatore dunque della domanda, Menger sia alla domanda che all’Offerta, e infine Walras si spinse oltre in quanto presentò un modello di equilibrio generale per il sistema economico. Le inadeguatezze della Teoria classica del valore Assunto che mediante la teoria classica del valore il prezzo di alcuni beni non potevano essere studiati, i marginalisti ritennero tale teoria inadeguata a spiegare la formazione dei prezzi, innanzitutto per la relatività. La teoria del valore-lavoro di Ricardo e quella basata sul costo di produzione presentata da Senior e Mill ad es. prevedevano che i beni offerti in quantità fissa fossero trattati diversamente dagli altri. In secondo luogo, la teoria classica prevedeva che il prezzo di una bene era dettato dai costi sostenuti in passato mentre i tre autori ritenevano sbagliata tale ipotesi. Il valore di un bene invero, dipendendo dall’utilità legata al consumo fa riferimento al futuro e non al pregresso, e infatti tutti i produttori che sbagliano nei loro calcoli della domanda subiscono il dead stock ovvero la scorta improduttiva, in quanto la domanda è tale che il prezzo di vendita è inferiore al costo di produzione. Jevons, Menger e Walras si chiesero dunque se il valore dei beni finali derivava dai prezzi dei fattori della produzione, così come acclarato dalla teoria classica, oppure i prezzi dei beni finali determinavano i valori dei fattori della produzione. A tale domanda i marginalisti risposero affermando che ai fattori della produzione poteva essere attribuito un valore soltanto se tale valore fosse dettato dall’utilità marginale originata dal consumo dei beni finali prodotti grazie a quei fattori, e inoltre i fattori della produzione non potevano conferire alcun valore ai beni finali. Altra critica mossa dai marginalisti fu quella secondo cui il dato che incide in maniera determinante sul prezzo non è l’utilità totale o media ma bensì quella marginale. Categorie di Merci I II III IV V VI VII VIII IX X 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 8 7 6 5 4 3 2 1 0 7 6 5 4 3 2 1 0 6 5 4 3 2 1 0 5 4 3 2 1 0 4 3 2 1 3 2 1 0 2 1 0 1 0 0 0 La tabella di Menger evidenzia le Categorie di Merci secondo il loro ordine d’importanza determinato dalla distanza rispetto alla I categoria, e dunque se l’acqua rientrerà nella prima colonna, i beni di lusso ad es. nella X. I numeri indicano l’utilità marginale la quale cala al crescere della quantità consumata, e pertanto l’utilità marginale di un bene di classe I è 10 per la prima unità consumata, sino ad arrivare a 0 per la undicesima unità. Prendendo in considerazione il paradosso dell’acqua e dei diamanti secondo il quale i diamanti hanno un prezzo elevato pur essendo di scarsa utilità mentre l’acqua ha un prezzo ridotto pur essendo di grande utilità, a cui Smith non riuscì né a trovare una soluzione convincente: assunto l’acqua come bene di classe I e i diamanti di classe 8, quando un consumatore ha consumato 8 unità d’acqua e nessuna di diamanti, l’utilità marginale dovuta al consumo di unità aggiuntiva d’acqua sarebbe 2, quella dei diamanti 3. L’utilità totale dunque (o somma dell’utilità marginale) potrebbe trarci in inganno, l’utilità marginale invece conduce ad una corretta teoria dei prezzi, in quanto la stessa determina la scelta del consumatore. Che cos’è l’utilità?- I confronti di utilità I consumatori pertanto, essere razionali e calcolatori, acquistano in base all’utilità marginale ricavata dal consumo dei diversi beni. Jevons, Menger e Walras non diedero però una definizione di utilità marginale, ne dissero come si misurava, ciò perché la stessa era ritenuta un fenomeno di natura psicologica non misurabile, ogni soggetto poteva infatti considerare il consumo di un bene maggiormente utile rispetto ad un altro, e inoltre la considerarono come una caratteristica dei beni finali. Riguardo a quest’ultimo punto permaneva l’incertezza circa i fattori di produzione e dei beni consumati in via indiretta, e a tale ulteriore problema i marginalisti risposero coniando il termine utilità acquisità in quanto i consumato alras spiegarono anche il principio dell’utilità marginale decrescente per il quale quando il consumo ri avrebbero tratto la loro utilità proprio dal consumo dei beni di scambio. Jevons, Menger e W di un bene cresce la sua utilità marginale diminuisce. Nonostante i tre non erano riusciti a misurare l’utilità dai loro esempi si capisce che la misurazione avveniva in termini cardinali. Un altro aspetto che bisogna considerare è quello dei cd. confronti interpersonali di utilità, ossia la possibilità di confrontare l’utilità ricevuta da due diverse persone riguardo il consumo di un unita aggiuntiva di un bene a cui s’interessò Jevons secondo cui i confronti erano impossibili. Secondo Jevons quando ad un individuo che vanta un reddito elevato giunge un ammontare addizionale di reddito, tale ricezione comporta un’utilità marginale inferiore rispetto a quella di un altro individuo che ha un reddito minore. Data quest’assunzione supposto, primariamente che i confronti personali di utilità possono essere effettuati, e secondariamente che tutti i consociati abbiano la stessa funzione che collega l’utilità al reddito percepito, si può concludere che una distribuzione del reddito ideale, ossia una distribuzione che massimizzi l’utilità totale della società, rappresenta una distribuzione egualitaria del reddito così come possiamo vedere nella fig.1. L’effetto Robin Hood Supposto che al reddito si applica il principio dell’utilità marginale decrescente, la curva I’ rappresenta l’utilità marginale del reddito per la classe ricca e povera, e specificamente OP rappresenta il reddito dei ricchi, OR dei poveri. Se i ricchi vengono tassati di un $ e lo stesso è assegnato ai poveri, l’utilità totale dei primi si riduce di RA e quella dei poveri aumenta di PB, ciò significa che la distribuzione del reddito fa incrementare l’utilità totale sociale in quanto PB>RA sino a poter giungere ad un uguaglianza dei redditi tra le due classi. Ipotizzando che i consociati abbiano funzioni che collegano utilità e reddito diverse in modo che i percettori di redditi elevati abbiano funzioni più alte rispetto a quelle di percettori di redditi bassi, così come possiamo vedere nella fig.2, otteniamo due curve, la RR’ e la PP’ entrambe rappresentanti l’utilità marginale decrescente dei ricchi e poveri. In tal caso dallo stesso ammontare di reddito, i ricchi ricavano un utilità marginale maggiore rispetto a quella dei poveri. Se OR è il reddito dei ricchi e OP dei poveri, assunto che RA è maggiore di PB, una distribuzione del reddito ideale, volta cioè a massimizzare l’utilità totale della società, può essere raggiunta se viene prelevato reddito dai poveri e distribuito tra i ricchi. Tale situazione comporterebbe un effetto Robin Hood rovesciato. Le funzioni di utilità I marginalisti ritenevano che l’utilità che un soggetto riceve dal consumo di un bene dipende in via esclusiva dal consumo già fatto del bene medesimo, e non dalla quantità consumata di altri beni. Secondo Jevons e Walras Utilità totale (utilità ricevuta dal consumo di tutti i beni)= f1(Qa)+f2(Qb)+f3(Qc) dunque viene considerata la quantità consumata dei vari beni e non accettata un eventuale relazione di complementarità o sostituibilità tra i vari tipi di consumo. Nella moderna teoria microeconomica l’equazione è invece Utilità totale = f (Qa,Qb,Qc…). Jevons, Menger e Walras studiarono anche la massimizzazione dell’utilità del consumatore e sue condizioni, si occuparono di una teoria dello scambio, nonché del rapporto tra utilità e domanda: dei tre però, grazie all’applicazione della matematica, quello che riuscì a studiare meglio questi aspetti fu Menger. In base alla seconda legge di Gossen un consumatore che ha a disposizione un reddito limitato, rende massima la propria utilità quando, l’ultima unità di moneta spesa per acquistare un qualunque bene gli procura uguale utilità di quella ricevuta dall’ultima unità di moneta spesa per un qualsiasi altro bene. Tale legge può essere riassunta: Mua/Pa=Mub/Pb=Muc/Pc. Accettando tale legge, in particolare Walras riuscì a dimostrare, matematicamente le equazioni che segnano la massimizzazione dell’utilità del consumatore; nonché, assunto come l’utilità individuale incide sulla domanda dei singoli e di mercato, riuscì a provare la relazione esistente tra funzione di utilità e curve di domanda e conseguentemente che la domanda è dettata dall’utilità marginale. Un altro argomento di studio furono le relazioni che collegano l’utilità marginale alla massimizzazione della soddisfazione del consumatore e allo scambio dei beni sul mercato. Jevons riuscì a dare una dimostrazione di queste relazioni ricorrendo ad un mercato composto da due beni e due individui; se l'individuo A possiede grano e l'individuo B possiede carne, e se possono effettuare delle transazioni, allora l’equilibrio finale è dato: "dal rapporto di scambio tra due merci qualsiasi è il reciproco del rapporto tra i gradi finali di utilità delle quantità di merci disponibili per il consumo dopo effettuato lo scambio". Trasponendo in equazioni questo concetto si ottiene: MU grano a/MU carne a = MU grano b/MU carne b = Qcarne scamb./Qgrano scamb.=Pg/Pc Una valutazione di Jevons e Menger Nonostante Jevons e Menger confutarono la teoria classica del valore non riuscirono a fornire delle motivazioni adeguate alle loro critiche. Analiticamente, confrontando la teoria del valore di Mill e quella dei due marginalisti possiamo trarre delle conclusioni. Nel primo caso, quando cioè Mill prospetta un offerta perfettamente inelastica o verticale, supposto che la teoria classica è fondata sul costo di produzione, esiste difficoltà circa la determinazione del prezzo in quanto, in tal caso il prezzo dipende dall’offerta e dalla domanda, e il costo di produzione potrebbe anche non incidere sull’offerta. Jevons e Menger ritenevano invece, che il prezzo dipenda in via esclusiva dalla domanda presumendo che l’offerta sia fissa, e anche in tal caso non si riesce a determinare il prezzo. Nel secondo caso in cui l’offerta è perfettamente elastica ed esistono costi costanti, il prezzo dipende dal costo di produzione, e Mill ha ragione, i due marginalisti torto. Nel terzo caso, quello contraddistinto da costi crescenti, sia i marginalisti che sostengono la dipendenza del prezzo dall’utilità marginale ossia data l’offerta del bene la domanda determina il prezzo, sia i classici sbagliano, in quanto il prezzo dipende sia dall’offerta che dalla domanda. Gli austriaci della seconda generazione Von Wieser ed Eugen Von Bohm-Bawerk furono seguaci di Menger. Wieser studiò l’economia usando strumenti astratti, coniò il termine utilità marginale e s’interessò ai costi e ai fattori della produzione dimostrando che i fattori produttivi ricevono il loro valore dai beni finali in virtù della cd.imputazione. Il rapporto tra fattori produttivi e prezzi può essere illustrata con la fig.1 in cui esistono tre beni e un solo fattore produttivo F.P impiegato nella produzione di tutti e tre i beni. Le Quantità consumate dei beni finali e loro utilità marginali comportano un utilità marginale di un unità addizionale di A > di B, e un utilità marginale di un unità addizionale di B > di C. C è il bene marginale prodotto, mentre A e B sono detti beni finali inframarginali. A B C I I I FP FP FP Secondo gli austriaci l’utilità marginale di C detta il valore del fattore della produzione marginale, e dunque il valore di un fattore della produzione è dato dal prezzo del bene finale. Per A e B, il valore discende dal valore del fattore della produzione usato per produrli, e dunque i fattori della produzione dettano il prezzo finale. Pertanto il prezzo di un fattore della produzione è misurato mediante l’utilità marginale data dall’ultimo bene, quello finale marginale, nel nostro caso C. Capitolo 8 La diffusione dell’analisi marginalista e la transizione verso l’economia neoclassica Nell’ambito della microeconomia il principio dei rendimenti decrescenti analizza relativamente alle imprese, sia la forma delle curve di offerta di breve periodo sia la forma della curva di domanda dei fattori della produzione. Ricardo applicò il suddetto principio, nell’esame della rendita fondiaria soffermandosi specificamente sulle funzioni di produzione ovvero il rapporto tra la quantità dei fattori produttivi e la quantità di prodotto che poteva ottenersi dalla terra. Il suo studio prevedeva, in primo luogo, che la relazione tra capitale e lavoro in ogni processo produttivo dipendesse dalla tecnologia a disposizione e dunque fosse fissa, e da poi l’aggiunta di unità addizionali di capitale e lavoro ad una data porzione di terra. In base a ciò concluse che il prodotto che poteva ottenersi dalla terra presentava, all’aumentare delle unità di lavoro e capitale rendimenti marginali decrescenti. Il principio dei rendimenti decrescenti fu ripreso 75 anni dopo gli studi Ricardiani, e non per l’analisi della produttività marginale bensì per l’analisi dell’utilità marginale. In questo periodo i teorici della distribuzione basata sulla produzione più importanti furono Von Wieser, Von Bohm Bawerk, Clark, Wicksell, Wicksteed e Edgeworth. La Teoria della Produttività marginale Se ad un fattore produttivo costante si aggiunge un altro fattore variabile, la produzione totale aumenterà ad un tasso crescente, poi ad un tasso decrescente sino a che comincerà a diminuire. Volendo fare un es. ipotizziamo che su 100 acri di terra, dunque sul fattore produttivo fisso, per il periodo di un anno lavori un uomo ottenendo un prodotto totale pari a 10 t di grano, con due anni 21 t ecc…Nelle fig. seguenti possiamo osservare le curve del prodotto totale, del prodotto medio e del prodotto marginale del lavoro ossia del fattore variabile. Lavoro Prodotto Totale lavoro (t grano) Prodotto medio lavoro (t grano) Prodotto marginale del lavoro (t grano) 0 0 0 1 10 10 10 2 21 10,5 11 3 33 11 12 4 46 11,5 13 5 58 11,6 12 6 68 11,3 10 7 75 10,7 7 8 80 10 5 9 83 9,2 3 10 83 8,3 0 11 80 7,3 -3 Assunto che il prodotto totale viene ipotizzato come massimo, il prodotto medio del lavoro si ottiene dividendo il Prodotto totale/Q lavoro e dunque 10/1;21/2;33/3 ecc… Il prodotto marginale invece è dato dalla formula MPPL (Marginale phisical product of labor)=deltaTP/deltaL e dunque (10-0=10;1-0=1 e dunque 10/1=10 e così via sino ad arrivare a 8383=0). Dalla figura 2 si comprende che quando la Quantità di lavoro è Q1 il prodotto marginale del lavoro sarà massimo, per una Quantità Q2 il prodotto medio del lavoro è massimo, e il suo valore coincide con quello del prodotto marginale, infine per una Quantità Q3 il prodotto totale è massimo mentre quello marginale è 0. Pertanto con Quantità di lavoro > Q3 il prodotto totale sarà decrescente e il prodotto marginale sarà negativo. In tal modo, lo studio della funzione di produzione permette di calcolare il prodotto marginale di uno qualsiasi dei fattori della produzione. In base a questi studi gli economisti compresero che la curva di domanda dei fattori della produzione poteva essere ottenuta sfruttando la curva del prodotto marginale. Ipotizzando un impresa operante in un mercato perfettamente concorrenziale che impiega il lavoro come unico fattore produttivo variabile, e vende il prodotto finale in un mercato altrettanto concorrenziale in modo che il prezzo non vari in base alle vendite, la curva di domanda del prodotto finale sarà perfettamente elastica; inoltre ipotizziamo che il lavoro venga acquistato in un mercato concorrenziale e dunque il suo prezzo sia fisso, e dunque anche la curva di offerta del lavoro è perfettamente elastica, in tal caso se l’impresa vuole ottimizzare le proprie vendite acquisterà il lavoro sino a quando l’ultima unità di tale fattore produttivo fa incrementare il suo ricavo complessivo in misura pari all’incremento del costo totale. Tale condizione di ottimalità viene espressa dalla formula: Prezzo lavoro=Prodotto marginale fisico del lavoro X Prezzo del Prodotto In tale formula il Prodotto marginale misura l’incremento del costo totale che consegue all’utilizzo di unità addizionale di lavoro, il Prezzo del Prodotto misura l’incremento del ricavo totale derivante dalla vendita del prodotto aggiuntivo del lavoro (valore del prodotto marginale). Riprendendo l’esempio della funzione di produzione, se un impresa impiega 5 operai il cui costo è 10000 $ e il prezzo del prodotto 1000 $ avremmo: Pl=PmflXPp=0000$<12 (corrispondente a 5 unità) X 1000$ In tal caso l’ultima unità fa aumentare di 10000$ il costo totale, e 12000$ di ricavo totale (5846=12) e dunque i profitti aumentano di 2000$. Facendo lo stesso ragionamento un unità addizionale di lavoro non comporterebbe nessun profitto 10000$lavoro=10000$ di ricavo totale (68-58), mentre la settima farebbe si che il Ricavo totale sia minore del costo del lavoro. Se ne deduce che la condizione di ottimalità di questa impresa è 6 unità di lavoro. Se esistono molteplici fattori produttivi la formula può essere espressa: Mppa/Pa=Mppb/Pb=Mppc/Pc…Mppn/Pn In cui Mppa sono i prodotti marginali in termini fisici, e Pa il prezzo del prodotto. Ora è possibile derivare la domanda di un fattore di produzione la quale può essere definita come la quantità del fattore produttivo che l'impresa desidererebbe acquistare in corrispondenza dei vari prezzi di mercato di tale fattore. Supposto che un impresa impieghi i suoi fattori produttivi in modo ottimale, quando uno di questi diminuisce nel prezzo, l’impresa ne aumenta l’utilizzo sino a che il costo di questo farà si che il prodotto marginale derivante dal suo impiego sia uguale a quello dei prodotti marginali degli altri fattori produttivi, e dunque incrementi il ricavo complessivo in misura pari all’incremento del costo totale. Inoltre secondo la teoria della produttività marginale, in mercati concorrenziali, in condizioni di ottimalità i fattori produttivi hanno un prezzo uguale al valore dei loro rispettivi prodotti marginali. Nell’analisi della rendita fondiaria Ricardo stabilì il lavoro e capitale come un unico fattore variabile da applicare alla terra, fattore produttivo fisso. Dal grafico possiamo vedere le somiglianze tra la teoria ricardiana e quella della produttività marginale. Assunto che in X abbiamo lavoro, e la curva rappresenta il prodotto marginale fisico del lavoro, se applichiamo lavoro pari a OC il prodotto totale sarà OABC ossia la somma dei prodotti marginali. In particolare però Ricardo disse che l’area DBCO rappresenta il salario totale pagato ai lavoratori, mentre il prodotto totale meno l‘area dei salari è pari alla rendita ADB. Al contrario, nella figura 2 sono i salari ad essere calcolati in via residuale e non la rendita. Ricardo però, applicò l'analisi della produttività marginale solo per determinare l'entità della rendita sulla terra, i teorici del marginalismo invece conclusero che qualsiasi fattore poteva variare, che di tutti fattori si poteva calcolare il prodotto marginale, e inoltre l’impresa avrebbe usato i fattori produttivi sino a quando i prezzi avessero uguagliato il valore del prodotto marginale del fattore variabile. L’esaurimento del prodotto Secondo Ricardo il calcolo della rendita è residuale in quanto viene calcolata come sottrazione tra il Prodotto totale, i salari e i profitti. Con tale teoria della distribuzione detta Residuale il prodotto viene completamente distribuito e non viene effettuata la verifica di uguaglianza tra le remunerazioni di tutti i fattori ed il prodotto totale. Tale metodo non è applicabile con la teoria della produttività marginale e al fine di verificare l’uguaglianza tra la somma dei pagamenti dei fattori produttivi e il prodotto totale è necessario applicare l’equazione: Q=MPPl X L + MPPt X T In cui Q rappresenta il prodotto totale, MPPl ed MPPt il prodotto marginale in termini fisici di lavoro e terra, mentre L e T le quantità di lavoro e terra utilizzate. In merito a tale equazione Clark asseriva l’esaurimento del prodotto totale quando ogni fattore produttivo fosse stato pagato in base al suo prodotto marginale, tuttavia però non dimostrò la sua affermazione e all’esaurimento del prodotto s’interessarono anche Wicksteed e Wicksell. Il primo, nel suo Saggio sulla coordinazione delle leggi della distribuzione scrisse che nei mercati perfettamente concorrenziali ogni fattore produttivo sarebbe stato pagato in misura pari al suo prodotto marginale e tentò senza successo di dimostrare l’esaurimento del prodotto. Successivamente a Wicksteed, Flux provò come si ha esaurimento del prodotto quando le proprietà delle funzione di produzione fossero uguali a quelle descritte dal matematico Euler. In particolare, nel caso in cui il prodotto totale venga ad esaurirsi in virtù del pagamento di ogni fattore produttivo, la funzione di produzione deve essere caratterizzata da una proporzionalità tra impiego di tutti i fattori produttivi e prodotto totale, e dunque supponiamo che le quantità di terra e lavoro vengano raddoppiate, anche il prodotto totale raddoppierà in tal caso siamo in presenza di funzioni omogenee di 1° grado. Le funzioni < 1 individuano una situazione in cui un aumento proporzionale nell’impiego dei fattori produttivi causa un aumento meno che proporzionale del prodotto totale, le funzioni > 1 l’aumento proporzionale nell’impiego dei fattori produttivi conduce ad un aumento più che proporzionale del prodotto. Pertanto secondo gli economisti, si hanno Rendimenti costanti di scala quando esiste proporzionalità tra l’aumento del fattori produttivi e l’aumento del Prodotto totale cosicchè il costo medio non si modifica (funzioni omogenee di primo grado). Si hanno invece Rendimenti di scala decrescenti quando i fattori produttivi aumentano proporzionalmente e il Prodotto aumenta in proporzione inferiore (cosicché i costi medi saranno crescenti e la funzione di grado < 1). Specificamente dunque si possono avere tre situazioni: 1. quella dei Rendimenti di scala costanti in cui un impresa con una funzione omogenea di 1° grado opera in mercati perfettamente concorrenziali, ed in tal caso, assunto che i fattori produttivi sono pagati in misura pari al loro valore marginale, e il profitto sarà 0, si avrà esaurimento del prodotto in quanto il ricavo totale è pari al costo totale ossia al pagamento dei fattori produttivi. Prendendo ad es. l’equazione Q=MPPl * L + MPPt * T moltiplicando i lati dell’equazione per il prezzo del bene finale avremo P*Q=P*MPPl*L+P*MPPt*T in cui P*MPPl e P*MPPt rappresentano il valore del prodotto marginale del lavoro e della terra e dunque: P*Q=VMPl*L+VMPt*T. In questa equazione P*Q rappresenta il ricavo totale VMPl*L + VMPt*T il costo totale dell’impresa e dunque, assunta la perfetta concorrenzialità del mercato Ricavo totale e costo totale si eguagliano. 2. quella dei Rendimenti crescenti di scala in cui un impresa con una funzione omogenea di grado > 1 presenta costi marginali inferiori a quelli medi e un prodotto marginale fisico di un fattore superiore a quello medio. In tal caso il ricavo totale sarà inferiore rispetto al pagamento dei fattori produttivi ciò perché in condizioni di perfetta concorrenza l’impresa vende il prodotto finale al prezzo del prodotto marginale. 3. Quella dei Rendimenti decrescenti di scala in cui un impresa con una funzione omogenea di grado < 1 presenta costi marginali superiori a quelli medi e un prodotto marginale fisico di un fattore inferiore al prodotto medio. In tal caso il ricavo totale sarà superiore rispetto al pagamento dei fattori produttivi, e pertanto si avranno profitti. Nel 1902 Wicksell affermò che un impresa può passare attraverso le diverse fasi dei rendimenti di scala. In particolare quando un azienda aumenta la produzione è caratterizzata da rendimenti di scala crescenti, poi passa a quella dei rendimenti costanti e infine a quella dei rendimenti di scala decrescenti. Secondo Wicksell ai fini dell’esaurimento del prodotto, non era determinante la funzione di produzione dell’impresa bensì bisognava guardare al costo medio di lungo periodo, e ciò perché in un mercato concorrenziale l’azienda tende a produrre a costi medi minimi, dunque con un profitto nullo ed in tal caso si ha esaurimento del prodotto. Wicksell sviluppò così il concetto di curva a U di costo medio di lungo periodo dell’impresa, in cui dapprima esistono costi decrescenti e poi costi crescenti. Le implicazioni di natura etica della teoria della Produttività marginale Clark (1847-1938) viene ricordato per la scoperta del concetto di utilità marginale e produttività marginale. Secondo Clark nei mercati perfettamente concorrenziali ogni fattore produttivo deve essere pagato in misura pari al valore del suo prodotto marginale. In particolare la remunerazione rappresentava il parametro che avvalorava il contributo dei vari fattori sia rispetto al bene finale, sia rispetto alla società. In base a tale proposizione, Clark affermò che il capitale doveva essere remunerato come un fattore produttivo, così come la rendita, ogni contestazione circa il pagamento di tali fattori, specialmente quelle di Marx, era secondo l’economista americano pretestuosa, e nei mercati perfettamente concorrenziali la distribuzione del reddito era eticamente corretta in quanto lasciava tralucere come i vari fattori produttivi contribuivano al prodotto economico complessivo della società. Si potrebbe però obiettare a Clark , l’esclusiva analisi fondata su mercati perfettamente concorrenziali e che nella sua visione il reddito di un soggetto dipende dal pagamento dei fattori produttivi che questi detiene e vende, dunque tali redditi non sono lo specchio del contributo individuale al sistema economico ma bensì dei fattori produttivi. La Teoria della Produttività marginale vista come una teoria dell’occupazione La Teoria della produttività marginale venne applicata anche nell’analisi del livello di occupazione. Quando infatti il prezzo del lavoro aumenta, l’azienda risponde con un minore impiego di forza lavoro sino a quando il prodotto marginale di tale fattore sarà uguale al nuovo costo. Assunto che il prezzo del lavoro dipende dalla domanda di lavoro (ricavabile dal valore del prodotto marginale) e dall’offerta, se il prezzo è > a quello di equilibrio e dunque l’offerta > alla domanda, esisterà disoccupazione. Secondo i marginalisti una disoccupazione superiore al 3% fissato come dato della disoccupazione frizionale, è data da un livello di salari superiore a quello di equilibrio e pertanto riconducendo Offerta e domanda al giusto equilibrio, la disoccupazione sarebbe scesa. In conclusione sia disoccupazione che depressioni economiche potevano essere contrastate attraverso la flessibilità dei salari. Tale teoria provocò numerose critiche, tra le quali bisogna ricordare quella di Keynes secondo cui i salari sono si un costo, considerati dal punto di vista dell’impresa, mentre sono un reddito per il lavoratore, perciò bassi salari avrebbe ridotto la disponibilità economica dei lavoratori, e conseguentemente fatto calare la domanda di beni finali. Il prezzo dei beni allora sarebbe diminuito e con esso anche il valore del prodotto marginale del lavoro. Le critiche alla Teoria della produttività marginale (Teoria del Profitto, Capitale e Interesse) La Teoria della produttività marginale fu investita da molte critiche, una delle più importanti fu quella riguardante la impossibilità di misurazione del prodotto marginale di un fattore produttivo, ciò perché il prodotto finale è la fusione tra lavoro, terra e capitale e dunque i diversi prodotti marginali non possono essere individuati. Sebbene la Teoria in esame fosse in grado di spiegare le remunerazioni del lavoro e della terra, esistevano dei problemi circa i profitti e l’interesse. Gli economisti classici nonostante avessero indicati questi due fattori sotto la voce Profitto affermarono che tale era composto: da una somma volta a remunerare l’uso del capitale, e che secondo l’economia moderna viene denominata Interesse; una somma tesa a remunerare l’imprenditore per la direzione e organizzazione dell’azienda, e una somma tesa a remunerare i rischi che l’imprenditore si addossava. Clark fu contrario a considerare l’imprenditorialità come quarto fattore produttivo (terra, lavoro, capitale) e definire il prodotto marginale dell’imprenditore come il contributo che questi offre, sia in ambito direttivo, organizzativo e del rischio, all’impresa. Il pagamento dell’imprenditore infatti non è una forma di profitto, ossia la somma restante dopo che tutti i fattori produttivi sono stati pagati in misura pari al loro prodotto marginale, bensì uno stipendio. Clark, Marshall e Schumpeter intendevano i profitti come un reddito scaturente dalla dinamicità del sistema economico, e in quanto tale avente una natura temporanea. Assunto infatti che un sistema economico si trovi in una situazione di equilibrio di lungo periodo per la quale i fattori produttivi sono remunerati in misura pari al loro prodotto marginale, e i ricavi eguaglino i costi totali, se a seguito di uno sviluppo tecnologico o aumento della domanda di un bene alcuni settori otterranno profitti, tali profitti verranno meno quando gli imprenditori incentivati dall’appetibilità del mercato ove si ottengono profitti sposteranno le loro risorse nel medesimo. In particolare Knight sviluppò una teoria del profitto ed in Rischio, Incertezza e Profitto affermò che esiste l’intrapresa del rischio d’affari contro cui è possibile assicurarsi, come nel caso d’incendi. In tal caso l’assicurazione rappresenterà un costo e il tipo di rischio non rappresenta profitto. Esiste poi l’intrapresa del rischio non assicurabile ed in tal caso si possono avere profitti, perché tale rischio è contraddistinto da incertezza dettata dalla dinamicità del mercato. Nell’ambito della Teoria dell’Interesse (ossia la somma volta a remunerare il capitale) dal 1500 e sino ai primi decenni del 1900, possiamo individuare tre diverse correnti. La prima cd.non monetaria o reale fondata sullo studio delle forze reali di lungo periodo che dettano il saggio dell’interesse. La seconda cd.monetaria comprende sia la teoria dei fondi mutuabili sia la teoria della preferenza per la liquidità. La terza cd.neo-Keynesiana basata sulla fusione delle due teorie precedenti. Specificamente, i mercantilisti (1500-1750) ritennero che un aumento della Quantità di moneta avrebbe aumentato il livello generale dei prezzi, e fatto diminuire il valore della moneta nonché il livello generale dei tassi d’interesse. I classici (1750-1930) invece, credevano che la moneta poteva influenzare il tasso d’interesse solo nel breve periodo, in quanto nel lungo periodo il saggio era dettato da forze reali, dalla cd. produttività del capitale. Una delle discussioni che nacque intorno allo sviluppo della Teoria della produttività marginale fu quella dell’interesse: assunta infatti la proposizione secondo cui nel lungo periodo i profitti sono 0 in quanto i fattori produttivi vengono remunerati in misura pari al loro prodotto marginale e dunque la remunerazione del capitale è nulla, dall’altra i teorici si scontrarono con una situazione reale in cui, anche nel lungo periodo i capitalisti ottenevano interesse. Schumpeter studiò questo problema e fornì tre diverse soluzioni: la prima che guarda ad un terzo fattore produttivo originario di cui l’interesse è il rendimento (a lavoro e terra si aggiunge il capitale), la seconda che contesta l’asserzione secondo cui nel lungo periodo i ricavi sono uguali ai costi totali, e la terza che ammette la Teoria della produttività marginale ma solo per mercati concorrenziali e statici e dunque diversi dal sistema economico reale in cui la dinamicità del sistema o situazione di monopolio ad es. possono creare un interesse positivo. Altre soluzioni furono proposte da: Eugen Bohm Bawerk elaborò la Teoria dell’interesse in base alla quale i beni presenti sono di regola più apprezzati dei beni futuri di uguale specie e numero, volendo fare un es. assunto un interesse positivo, ogni soggetto vuole ricevere un dollaro oggi anziché tra un anno, in quanto la moneta potrebbe tra un anno assumere un valore maggiore. Secondo Bohm Bawerk le cause dell’esistenza dell’interesse dovevano essere ricercate non nella struttura istituzionale della società così come dicevano i socialisti, bensì in considerazioni di natura tecnologica ed economica. A sostegno della sua Teoria dell’interesse fornì tre motivazioni: Una prima causa risiede nella diversità del rapporto di fabbisogno e copertura dei diversi intervalli di tempo. Ciò perché assunto che il valore dei beni dipende dall’utilità marginale e tale utilità decresce al diminuire della quantità dei beni, i beni attuali valgono maggiormente rispetto ai futuri quando i soggetti si aspettano redditi e beni superiori a quelli attuali. La seconda è quella per cui gli esseri umani sottovalutano sistematicamente i bisogni futuri e i mezzi che servono alla loro soddisfazione. In primo luogo perché esiste incertezza sulla durata della propria vita, e poi perché manca immaginazione e forza di volontà tra gli individui. Mentre le prime due cause guardano il mercato dei crediti ai consumatori, la terza interessa il mercato dei crediti ai produttori, e in base ad essa si afferma che l'interesse esiste a motivo della superiorità tecnica di beni attuali rispetto quelli futuri. Con tale affermazione di superiorità tecnica di beni attuali Bohm Bawerk intendeva spiegare come il capitale produce interesse. In particolare, secondo Böhm-Bawerk la produzione dei beni può essere diretta o indiretta, detta anche capitalista. Il metodo diretto non richiede beni capitali, quando ad es. costruiscono un arco con la legna trovata in un bosco. Il metodo indiretto è capitalistico in quanto impiega beni capitali e richiede tempo, ma è maggiormente produttivo rispetto al primo. Ai processi indiretti viene applicata la legge dei rendimenti decrescenti in quanto inizialmente si ha un incremento del prodotto ma successivamente tale prodotto diminuisce. A differenza di Bohm Bawerk, Fisher affermò che le tre proposizioni erano collegate tra loro in quanto i soggetti, in base a decisioni psicologiche, preferivano i beni attuali rispetto a quelli futuri. Fisher era contrario alla classificazione dei redditi in salari, rendite, profitti e interessi, quest’ultimi infatti non sono un reddito ricevuto come remunerazione del capitale bensì una modalità di esame dei flussi di reddito.. Secondo Fisher rendita e interesse rappresentano lo stesso reddito, così come la remunerazione del lavoro poteva essere considerata come interesse, dunque l’Interesse di Fisher non è una parte ma la totalità del reddito e può essere definito come la misura del prezzo che i consociati intendono pagare per ottenere un reddito anticipato. Esistono allora due forze che dettano i tassi di interesse in un'economia di mercato: quelle soggettive inerenti alle preferenze degli individui per i beni o i redditi attuali rispetto a quelli futuri; e le forze oggettive derivanti dalle opportunità alternative di investimento disponibili e dalla produttività dei fattori impiegati nella produzione dei beni finali. Gli individui pertanto modificano il proprio flusso di reddito con debiti, crediti o investimenti, e in tali azioni saranno influenzati dalle preferenze, dai tassi di rendimento degli investimenti e dal saggio d’interesse. Contrariamente a Böhm-Bawerk, che era convinto che la sola produttività del capitale o "superiorità tecnica" dei beni attuali rispetto a quelli futuri potesse spiegare l'esistenza dell'interesse, Fisher affermò che oltre alla produttività del capitale, sono necessarie le preferenze intertemporali degli individui. Capitolo 9 Walras e la Teoria dell’equilibrio economico generale Walras fu il primo economista in grado di sviluppare la Teoria dell’equilibrio economico generale consistente nello studio del funzionamento del sistema economico considerando contemporaneamente tutti i settori interessati. La scienza economica specifica due diversi modelli, quello di equilibrio parziale e quello di equilibrio generale. Nel primo caso esistono un numero di fattori variabili minori rispetto al secondo nel quale vengono mantenute costanti le variabili che non possono essere manipolate dal mondo economico, come ad es. la tecnologia disponibile o le preferenze e gusti dei consumatori. Con i modelli ad equilibrio parziale è possibile studiare il singolo consumatore o un settore di un impresa come quello della carne bovina. Supposto una situazione di equilibrio iniziale, può essere misurata l’influenza che una diminuzione dei costi dell’industria ha sul prezzo della merce. In tal caso l’offerta della merce aumenta e il suo prezzo diminuisce sino a giungere ad un nuovo equilibrio. Se oltre al settore della carne bovina consideriamo anche quello della carne suina, un calo dei costi nel primo settore farà si aumentare l’offerta e diminuire il prezzo della merce, ma al contempo la domanda di carne suina diminuirà (all’aumentare di quella bovina). Anche nel secondo settore si avrà così un calo della domanda, una diminuzione del prezzo e un nuovo afflusso di consumatori tale da compensare il gapp esistente e giungere cioè ad un equilibrio dei settori. L’illustrazione grafica delle interazioni esistenti tra i due mercati è però di difficile attuazione ma Walras riuscì a studiarla e comprenderla mediante il linguaggio matematico. Un esposizione verbale del modello Walrasiano Passando ad un modello di equilibrio generale in cui vengono considerate imprese e consumatori (e non settore pubblico ed estero), ipotizziamo cinque condizioni: 1) che le imprese non scambino tra loro beni intermedi 2) che le preferenze dei consumatori siano stabili 3) che il livello della tecnologia sia fissato stabilmente 4) una piena occupazione 5) che le industrie operino in un sistema perfettamente concorrenziale. Tale modello è rappresentato nella figura seguente, ed in particolare nella parte alta viene raffigurata i mercati dei beni finali, nella parte bassa vengono rappresentati i mercati dei fattori produttivi. Riguardo i beni finali si ha equilibrio quando la quantità offerta (raffigurata dal flusso che dalle imprese va verso i consumatori) e quella domandata (data dalla freccia che dai consumatori si dirige verso le imprese) è uguale; circa i fattori produttivi vige la stessa regola in quanto le imprese domandano i fattori produttivi (lavoro, terra, capitale) ai consumatori favorendo il fluire di un flusso monetario verso quest’ultimi, i consumatori invece offrono tali fattori in maniera tale da fissarne il prezzo, e si ha equilibrio quando la quantità offerta è uguale a quella domandata. In particolare i consumatori ottengono reddito nel mercato dei fattori produttivi e lo spendono in quello dei beni finali, e il flusso di reddito esistente tra imprese e consumatori è pari al reddito nazionale il quale sarà in equilibrio se i soggetti spendono tutti i loro redditi, sarà distribuito sul mercato dei fattori produttivi e dipenderà dai prezzi di tali fattori e dalle quantità vendute per ogni consumatore. Le imprese invece devono produrre una certa quantità di beni al minor costo possibile, e devono attestare la produzione ad un livello che massimizza i profitti. Inoltre, dato il mercato perfettamente concorrenziale, si avrà una situazione di equilibrio di lungo periodo quando il prezzo dei beni finali sarà pari al costo medio della produzione, e il reddito nazionale sarà ad un livello di equilibrio quando le imprese spenderanno tutti i loro ricavi sul mercato dei fattori produttivi. Questo sistema è caratterizzato da una interrelazionalità delle variabili e infatti se il prezzo di un bene finale varia, l’intero sistema verrà rivoluzionato in quanto i consumatori indirizzeranno la loro spesa in maniera diversa, o aumentandola o diminuendola, e parimenti le imprese produrranno una maggiore o minore quantità di merce, e chiederanno fattori produttivi in maniera diversa rispetto al passato. L’interdipendenza sia per la domanda complessiva dei beni finali che per l’offerta può essere espresse mediante equazioni, che nel primo caso correlano il prezzo alla quantità domandata dai vari consumatori, nel secondo caso il prezzo alla quantità offerta dalle imprese, e si avrà equilibrio quando domanda e offerta si eguaglieranno. Specificamente l’equazione esprimerà il reddito e la spesa complessiva, e affinchè esista una situazione di equilibrio del singolo consumatore le due componenti devono essere uguali, e le spese devono massimizzare l’utilità. In ugual modo si può procedere per il mercato dei fattori produttivi, ed in tal caso si avrà equilibrio quando i profitti e costi medi sono pari al prezzo dei fattori. Riguardo al modello Walrasiano possono però essere posti alcuni quesiti, come ad es. è possibile giungere alla situazione di equilibrio generale? Da chi sono fissati i prezzi? E cosa accade in condizioni di disequilibrio? A queste domande Walras non rispose e pertanto il suo modello astratto rimane sotto questo punto di vista è alquanto carente. Le posizioni metodologiche di Walras e Marshall Circa le differenze tra Walras e Marshall il primo si preoccupò degli aspetti di tecnica e di forma dell'analisi, e rappresentò matematicamente il modello del sistema economico nel modo più generale possibile. Marshall invece riteneva la teoria economica come uno strumento utile all'analisi e in quanto tale doveva riferirsi al mondo reale. La politica economica di Walras fu la giusta misura tra socialismo di sinistra e applicazione del laissez faire. Da un lato infatti fu critico nei confronti della dottrina Marxista e dei socialisti utopisti, e dall’altro non accettò passivamente il libero mercato sottolineando che esistevano settori economici in cui era necessario l’interventismo statale. Di JS Mill approvò la convinzione che la rendita fondiaria è un reddito non guadagnato e come tale doveva essere espropriata, senza rendita infatti e con un mercato perfettamente concorrenziale secondo Walras la distribuzione del reddito sarebbe stata “quasi giusta”. Vilfredo Pareto Pareto (1848-1923) fu allievo di Walras e applicò la sua teoria dell’equilibrio economico generale alle analisi di politica economica. In particolare,studiò l'efficienza dell’allocazione delle risorse all’interno del sistema economico nel suo tutto. Fu così rappresentante dell’approccio continentale ossia italiano e francese, che si contrappose a quello britannico fondato sull’equilibrio parziale di Marshall. Secondo Pareto un cambiamento dell’allocazione delle risorse avrebbe migliorato il benessere complessivo se qualcuno avesse potuto migliorare la propria posizione senza che nessun altro la peggiorasse. Dunque partendo da una situazione di risorse scarse, una distribuzione ideale o cd. ottimo paretiano, è quella in cui non è possibile migliorare la posizione di alcun soggetto senza peggiorare la posizione di qualcun altro. Capitolo 10 Alfred Marshall e l’economia neoclassica Insieme a Walras, Marshall (1842-1924) è considerato come il fondatore della moderna Teoria microeconomica ortodossa. Secondo Marshall l’Economia Politica o Economica è lo studio del genere umano, ed in particolare dell’azione individuale e sociale volta a conseguire e usare i requisiti essenziali del benessere. A suo parere la Scienza economica poteva svilupparsi sia come disciplina astratta e autonoma, sia come disciplina legata alle scienze sociali ed in tal caso, un attento studio avrebbe apportato beneficio all’economia e alla società. A differenza dei classici, disse che scopo dell’economia era eliminare la povertà e pertanto tentò d’individuare le cause della stessa e gli strumenti necessari alla sua rimozione. Infine, in contrasto con i teorici del marginalismo non accettò la teoria del consumo come base della scienza economica ma sottolineò l’importanza della domanda e dell’offerta. Riguardo la metodologia Marshalliana questa può essere sintetizzata come la fusione tra metodo teorico, matematico e storico, e proprio per questa sua assenza di dogmatismo, dovuto alla convinzione che la realtà, ossia il sistema economico è differente dalla economia matematica, fu contestato da più parti anche perché espresse il suo pensiero in una continua transazione tra due ragioni differenti. L’analisi Marshalliana del sistema economico diparte da due precise convinzioni: bisogna in primo luogo considerare la mutua dipendenza tra gli elementi esistenti nel sistema, e in secondo luogo l’elemento tempo. Marshall costatò come le cause producono i loro effetti nel corso del tempo e dunque, se una data variabile sta influenzando il sistema economico, è probabile che nel venturo prossimo un’altra variabile produca un autonoma incidenza. Poiché in Economia non è possibile isolare le singole cause e da poi studiarle, Marshall elaborò la sua teoria partendo dalla tecnica Ceteris Paribus letteralmente a parità di condizioni e consistente in un iniziale studio mantenendo costanti la maggior parte degli elementi. Maturò così l’idea di una Teoria dell’equilibrio economico parziale con la quale è possibile dipanare un nodo economico studiando una sfera del sistema senza però considerare l’interdipendenza con gli altri elementi esistenti, i quali vengono mantenuti costanti. Successivamente lo studio dovrebbe procedere facendo variare un fattore alla volta e verificando l’incidenza di questo sul problema affrontato. Il problema dell’elemento temporale Secondo Marshall uno dei maggiori ostacoli cui và incontro un economista è il tempo, in quanto, data l’incidenza di alcune variabili, un analisi di breve periodo può rivelarsi nel lungo periodo errata. Marshall affrontò il problema tempo elencando quattro periodi facenti capo alle condizioni di offerta delle imprese e variabili a seconda del tipo d‘impresa. Il primo è quello del Periodo di mercato caratterizzato dalla brevità, dalla non incidenza del prezzo e da un offerta rigida o inelastica in quanto l’impresa non può variare la produzione. Il secondo è quello del breve periodo in cui al variare del prezzo è possibile correggere la quantità prodotta di un bene nonché l’offerta senza però intervenire sulla struttura produttiva. Data questa condizione, i costi dell’impresa possono essere classificati in Costi primari o diretti o speciali legati da una condizione di proporzionalità alla quantità di beni offerti sul mercato (> Q > C), e Costi Supplementari o fissi non connessi alla quantità di beni offerti sul mercato. Il terzo è il Lungo periodo in cui è possibile mutare la struttura produttiva e dunque la scala di produzione di modo che tutti i costi possono essere trasformati in variabili. In questo caso si ha una curva di offerta maggiormente elastica rispetto al breve periodo, mentre nel lungo periodo tale curva può essere: inclinata positivamente (C> se >Qp), perfettamente elastica (C rimangono uguali), inclinata negativamente ( C decrescenti). Infine si ha il Periodo secolare in cui popolazione o tecnologia possono variare. La Forbice Marshalliana Riguardo la Teoria del Valore gli economisti classici ritenevano determinante l’Offerta o altrimenti i costi di produzione, i marginalisti la Domanda o altrimenti l‘utilità. Marshall propose di risolvere la querelle studiando l’influenza del tempo e considerando l’interdipendenza esistente tra gli elementi economici. Assunto che la curva di domanda dei beni finali è inclinata verso il basso e tendente a destra,(in quanto la quantità aumenta al diminuire del prezzo), mentre la curva di offerta è legata al tempo considerato in quanto nel lungo periodo, se i costi sono fissi, il prezzo dipende dal costo di produzione, Marshall affermò che trovare la causa che determina il prezzo è un impresa ardua, è come voler sapere quale lama di un paio di forbici, la superiore o inferiore, tagli la carta. A proposito della Teoria marginalista contestò l’asserzione secondo cui l’utilità marginale o il costo marginale sono determinanti del prezzo e ciò perché i loro valori nonché il prezzo sono dettati reciprocamente dai fattori che operano al margine, e come, dice Marshall, se in una ciotola giacciono tre palline rappresentanti l’utilità marginale, il costo di produzione e il prezzo; la posizione di ognuna sarà dettata reciprocamente dalle altre. La trattazione della domanda da parte di Marshall Marshall scoprì il Principio di elasticità della domanda rispetto al Prezzo secondo il quale Prezzo e quantità domandata sono inversamente proporzionali e pertanto, la curva di domanda di un bene può essere rappresentata come inclinata verso il basso e verso destra. Tale principio fu applicato anche all’offerta. L’Elasticità definibile come un indicatore della sensibilità della Quantità domandata alle variazione del Prezzo di un bene, viene misurata da un coefficiente calcolato secondo la formula: Ed = - variazione % nella Qdomandata/variazione % nel Prezzo = - deltaQ/Q/deltaP/P Assunto che il Prezzo e la Quantità domandata sono inversamente proporzionali, il coefficiente di elasticità sarà sempre negativo e per convenzione si aggiunge il - per dare a Ed un valore positivo. Specificamente si possono avere tre valori: il primo in cui il Coefficiente = 1 in cui la domanda di un bene ha elasticità unitaria, il secondo con Coefficiente > 1 in cui la domanda di un bene è elastica rispetto al Prezzo e determinato dalla diminuzione del Prezzo e aumento della Q domandata in una % maggiore rispetto al Prezzo (e in un aumento della Spesa Totale (P X Qd) o del Ricavo Totale), il terzo con Coefficiente < 1 in cui la domanda di un bene è inelastica rispetto al Prezzo determinata dalla diminuzione del Prezzo e aumento della Q domandata in una % inferiore rispetto al Prezzo (e diminuzione della Spesa Totale o del Ricavo Totale). A differenza degli economisti contemporanei secondo cui la funzione di utilità individuale ammette la sostituibilità e complementarità dei beni, e può essere scritta come: U= f (Qa,Qb,Qc…Qn), Marshall propose una funzione di utilità additiva che calcola l’utilità totale come somma tra le varie utilità ottenute dal consumo del singolo bene: U= f1*Qa+f2*Qb+f3*Qc… Ipotizzando che l’utilità possa essere misurata grazie al sistema dei Prezzi (se un soggetto spende due $ per ottenere un unita addizionale di un bene, e un $ per un unita addizionale di un altro bene, il primo bene deve assicurare un utilità doppia) nonché la possibilità di effettuare confronti di utilità tra diverse persone, Marshall volle spiegare la forma assunta dalla curva di domanda e per far ciò partendo dal Principio dell’utilità marginale decrescente ( o 1 Legge di Gossen) formulò tale condizione di equilibrio Mua/Pa=Mub/Pb=Muc/Pc…Mun/Pn=Mm (1) che considera la seconda legge di Gossen (ossia un consumatore che ha a disposizione un reddito limitato, rende massima la propria utilità quando, l’ultima unità di moneta spesa per acquistare un qualunque bene, gli procura uguale utilità di quella ricevuta dall’ultima unità di moneta spesa per un qualsiasi altro bene) ed eguaglia il rapporto tra Utilità marginale e Prezzi all’Utilità marginale della moneta. Se l’Utilità marginale della moneta è l’utilità procurata dall’ultimo dollaro di reddito, l’utilità marginale di un bene è data da: Mua = Pa * Mum in cui P è il Prezzo. La curva di domanda può essere ottenuta partendo dalla condizione di un consumatore che massimizza la propria utilità, poi abbassando il prezzo bisogna costruire graficamente il rapporto esistente tra questo e quantità domandata. La variazione negativa del Prezzo comporta però un aumento della Quantità domandata solo in determinati casi, ciò perché il consumatore reagisce alle variazioni o attraverso l’effetto sostituzione o mediante l’effetto reddito. Il primo prevede che all’aumentare del Prezzo di un bene questo venga sostituito con un altro, e la quantità domandata diminuisce, il secondo effetto prevede che una diminuzione del Prezzo di un bene comporta un aumento del potere di acquisto del consumatore, inducendolo ad acquistare la stessa quantità e con il reddito residuale può ad es. acquistare altri beni. Bisogna però considerare anche la qualifica del bene, se questo è normale un aumento reddituale comporta un incremento del consumo e dunque uno spostamento della curva di domanda verso destra e un < Prezzo produce > Qdomandata in virtù dei due effetti, se il bene invece è inferiore il suo consumo diminuisce all’aumentare del reddito e la curva si sposta verso sinistra, esistono però beni inferiori cd.beni di Giffen per i quali l’effetto reddito è maggiore di quello della sostituzione, anche se non esistono dati reali in tal senso (un aumento del Prezzo del pane detta per i poveri una diminuzione della Q domandata di carne o cibi più costosi). In base a queste considerazioni Marshall affermò che la Quantità domandata aumenta al calare del Prezzo, e diminuisce all’aumentare del Prezzo. L’ipotesi di fondo su cui Marshall costruì la curva di domanda fu che l’effetto reddito dovuto a piccole variazioni di prezzo fosse trascurabile in quanto l’Utilità marginale della moneta rimaneva costante. Se nell’equazione 1 il prezzo diminuisce, la Qdomandata aumenta e l’Utilità marginale diminuisce sino a che Mua/Pa sia uguale ai rapporti degli altri beni, e dunque venga uguagliata l’utilità marginale della moneta. Marshall probabilmente mantenne costante l’Utilità marginale della moneta perché non riuscì a distingure gli effetti sostituzione e reddito, e che l’effetto reddito dovuto a piccole variazioni di prezzo fosse trascurabile. Il surplus dei consumatori Marshall riuscì ad elaborare il Principio del surplus dei consumatori assumendo come ipotesi l’invariabilità dell’Utilità marginale della moneta rispetto a piccole variazioni di prezzi. Data questa ipotesi, nell’equazione Mua = Pa * Mum il Prezzo e l’utilità marginale del bene sono direttamente proporzionali, e dunque il Prezzo rappresenta la misura dell’utilità marginale che il bene apporta al consumatore, inoltre le curve di domanda sono inclinate negativamente perché gli individui sono disposti a pagare di più per le unità di bene consumate per prima rispetto a quelle consumate per ultime (principio dell’utilità marginale decrescente). Nel sistema economico accade però che i consumatori acquistano le unità di un bene ad un solo prezzo, e se il prezzo misura l’utilità marginale dell’ultima unità consumata, gli individui ottengono le unità precedenti ad un prezzo più basso rispetto a quello che sono disposti a pagare. Il surplus dei consumatori è dato allora dalla differenza tra ciò che i consumatori pagano realmente per avere il bene e ciò che pagherebbero idealmente per ottenere uguale quantità. Tale concetto venne impiegato nell’analisi del benessere economico e pertanto non guarda ai singoli individui ma a curve di domanda di mercato. Nella fig. sottostante assunto come Prezzo di mercato OC, la quantità domandata del bene sarà OH. Il grafico rappresenta però il mercato nel suo complesso, e dunque possono esistere soggetti disposti a pagare il bene ad un Prezzo MP. Detto ciò il surplus dei consumatori è dato dall’area CAD, la quale rappresenta anche il guadagno monetario ottenuto dai consumatori. Marshall intendeva misurare tale guadagno in termini di utilità e ciò poteva essere fatto mantenendo costante l’Utilità marginale della moneta e utilizzando la funzione di utilità additiva. Edgeworth e Fisher dimostarono però che ciò non era possibile se venivano considerate le relazioni di complementarità e sostituibilità dei beni, escluse nella funzione additiva di Marshall. Il concetto di Surplus dei consumatori è utilizzato anche nello studio delle conseguenze che producono le imposte o i sussidi alle imprese. Nella fig. sottostante viene rappresentata un impresa con costi costanti, e pertanto con curva di offerta perfettamente elastica SS’. Se la domanda è DD’ e siamo in una situazione di equilibrio, il prezzo sarà HA mentre il Surplus dei consumatori è dato dall’area DSA. Con una tassa a carico dell’impresa l’offerta sarà ss’, il nuovo Surplus si ridurrà a Das, il guadagno dei ricavi sarà SKas e la perdita del Surplus sarà maggiore rispetto ai ricavi dell’area Kaa. Marshall dimostra così che una tassa sulla produzione, così come un sussidio (per il quale bisogna partire dalla curva di offerta ss’ e in cui il guadagno nel Surplus sarà minore rispetto alla spesa dovuta al sussidio) non apportano beneficio sociale. Riguardo alle industrie aventi rendimenti decrescenti (curve di offerta inclinate verso l’alto) o rendimenti crescenti (curve di offerta inclinate verso il basso), si poteva avere un beneficio sociale grazie all’imposizione di tasse alle prime e erogazione di sussidi alle seconde, nel primo caso ciò può avvenire solo se la curva di offerta è inclinata in modo tale che il guadagno dei ricavi sia > rispetto alla perdita di Surplus, nel secondo caso quando il guadagno in termini di Surplus > rispetto al costo del sussidio. L’analisi Marshalliana dell’Offerta Marshall riuscì ad individuare perfettamente la forma delle curve di Offerta nei diversi periodi di tempo da lui dettati. Per il periodo di mercato la curva è perfettamente elastica, nel breve periodo invece la forma della curva può essere chiarita dal principio dei rendimenti decrescenti. Riguardo a tale periodo l’economista in esame distinse i costi fissi dai costi variabili, e con questi è possibile affermare che un impresa può continuare a produrre (nel breve periodo) anche quando si trova in perdita, sempre che vengono coperti i costi variabili. La chiusura infatti comporterebbe una perdita uguale ai costi fissi totali, mentre in tal caso la perdita è minore dei costi fissi fino a quando il Ricavo totale è maggiore dei costi variabili totali. La curva di offerta dell’impresa, in mercati perfettamente concorrenziali, equivale quindi alla parte di curva dei costi marginali compresa tra la curva dei costi medi e quella dei costi medi variabili. Se i prezzi diminuiscono al di sotto dei Cmedi, poiché le imprese vende ad un Prezzo insufficiente a coprire tutti i costi, secondo Marshall la curva di offerta nel breve periodo è diversa dalla curva del Cmarginale. Sulla posizione e forma delle curve di costo e Offerta dell’impresa agiscono forze di lungo periodo. Primariamente quelle interne all’impresa come ad es. le economie interne di scala che generano costi decrescenti o le diseconomie interne che generano costi crescenti. Le economie esterne invece, ebbero nell’analisi Marshalliana il compito di riavvicinare le curve di offerta di breve periodo positive delle imprese e industrie e la costatazione che col tempo i costi e prezzi di alcune imprese erano diminuiti. Tali economie infatti, quando le dimensioni dell’industria considerata crescono farebbero spostare verso il basso le curve di costo per l’impresa e per l’industria. In tal caso la curva di offerta di lungo periodo dell’industria è inclinata verso il basso, e dunque una maggiore Q di merce è offerta a prezzi più bassi. Le economie esterne agiscono grazie alla riduzione dei costi che toccano le imprese di un industria quando queste si concentrano in una zona e comunizzano le loro idee, a cui si aggiunge anche risparmio nei costi nelle industrie suppletive e del lavoro qualificato. L’analisi Marshalliana della distribuzione del reddito La determinazione Marshalliana delle rendite, salari, profitti e interesse parte dall’assunto che la domanda di un fattore produttivo è una domanda derivata dipendente dal valore del prodotto marginale di quel fattore. Poiché i prodotti marginali non possono essere facilmente calcolati, egli introduce il cd. prodotto marginale netto definibile come l’incremento del ricavo totale dovuto al lavoro supplementare meno il costo del lavoro supplementare utilizzato. In conclusione evidenzia che non esiste una Teoria della distribuzione basata sulla produttività marginale ma una Teoria della determinazione del Prezzo dei fattori e ciò perché la produttività marginale misura la domanda di un fattore, i prezzi dei fattori invece sono dati dalla reciproca influenza tra domanda, offerta e prezzo al margine. La quasi-rendita Riguardo la possibilità che la remunerazione di un fattore produttivo possa essere considerata come determinazione del prezzo, o al contrario venga dettata da quest’ultimo, Marshall innovò sia la Teoria classica Milliana che la Teoria Marginalista. La prima sosteneva che i prezzi dei beni finali dipendevano dal costo di produzione al margine, e assunto che al margine non esiste rendita, salari, profitti e interesse determinano il prezzo che conseguentemente deve essere studiato come collegato all’Offerta. Al contrario, la seconda, sosteneva che le remunerazioni dei fattori produttivi venivano dettate dai prezzi. Marshall dal suo canto propose di risolvere il tema esaminando il periodo di tempo considerato nonché particolare ipotesi introdotte durante l’esame. Secondo Ricardo assunto che la terra ha un indirizzo agricolo e la sua curva di offerta è perfettamente inelastica, il pagamento che il proprietario della terra riceveva a titolo di rendita dipende dal prezzo del grano. Marshall rivendendo la Teoria Ricardiana sottolineò che guardando al sistema economico complessivo, sebbene esistano delle eccezioni, essendo la rendita dettata dal prezzo deve essere esclusa dai costi della produzione, se invece guardiamo ad un impresa soltanto la rendita rappresenta un costo di produzione e in quanto tale una determinante del prezzo. Nel sistema economico complessivo eccezione alla regola generale, e dunque la rendita è determinante del prezzo, quando la terra è inutilizzata a costo nullo come ad es. nell’America del XX sec. ove la rendita era data dalla coltura della terra. Marshall dimostrò che nel breve periodo salari, profitti e interesse assumono alcune caratteristiche della rendita. Prendendo ad es. il salario, tale, in condizioni di equilibrio di lungo periodo viene inteso come una determinante del prezzo in quanto farà si che il lavoratore non cerchi altri impieghi e inoltre costituisce il prezzo di offerta che viene pagato al fine di ottenere la quantità offerta. Se il salario cresce a seguito di un aumento della domanda di una certa figura professionale, nel breve periodo la curva di offerta sarà meno elastica rispetto al lungo periodo e conseguentemente la crescita del salario non inciderà sulla quantità offerta e il livello del salario rimarrà più alto di quello di lungo periodo. Il fattore produttivo salario in tal caso, è determinato dal prezzo necessario ad accaparrarsi determinate figure professionali. Tale ragionamento fece risolvere Marshall a denominare salari, profitti e interesse quasi-rendita in quanto nel periodo di mercato e nel breve periodo, poiché l’offerta dei fattori produttivi è fissa, questi sono determinanti del prezzo. Studiando la curva di offerta del salario infatti, notiamo che nel periodo di mercato questa è perfettamente inelastica e pertanto > Domanda determinerà salari maggiori poiché la quantità offerta rimarrà eguale, nel breve periodo vi sarà una lieve diminuzione del livello di salario a seguito di un leggero > Offerta, e infine nel lungo periodo, il periodo escluso da Marshall la curva di offerta diventerà elastica e il prezzo non determinerà più il salario. La stessa analisi può essere applicata ai Profitti i quali in condizioni di equilibrio di lungo periodo verranno impiegati per trattenere il capitale e dunque rappresentano un costo della produzione e determinano il prezzo del bene. Al contrario nel breve periodo, in cui costi dell’impresa possono essere classificati in fissi e variabili e i ricavi devono essere tali da remunerare il costo opportunità dei fattori variabili nel loro complesso (che altrimenti migrano verso altre aziende più remunerative), le somme restanti rappresentano il rendimento dei fattori fissi la cui offerta è perfettamente inelastica e dunque i profitti determinano il prezzo del bene. Infine per l’Interesse considerato che nel breve periodo il capitale è un fattore fisso anche in questo caso il suo rendimento può essere definito come una quasi rendita. La differenza tra breve e lungo periodo consiste nel fatto che in quest’ultimo, l’Offerta di fattori produttivi non è più fissa e i prezzi dei beni finali devono essere tali da coprire i costi derivanti dalla produzione, dunque il pagamento dei fattori detta il prezzo il quale deve essere studiato dal punto di vista dell’offerta. Stabilità e instabilità dell’equilibrio Marshall tratta la curva di domanda e di Offerta partendo dall’assunto che la Quantità richiesta o Offerta rappresentano una variabile indipendente, il Prezzo invece è una variabile dipendente, e tale ragionamento deriva dal fatto che le curve sono elementi indicatori per un lato del prezzo massimo che i consumatori sono disposti a pagare per ottenere una data quantità di un bene, e dall’altra il prezzo minimo che gli imprenditori sono disposti a ricevere per vendere una certa quantità di bene prodotto. Nei Principi di Economia Marshall presenta l’equilibrio dei mercati che può essere raggiunto agendo sulla quantità offerta del bene trattato. Nel grafico seguente vediamo che, quando la Quantità è R1, il prezzo di Domanda R1D1 > del Prezzo di Offerta R1S1, e dunque i venditori offrono una quantità maggiore del bene sino a giungere al prezzo di equilibrio, se invece la Quantità è R2, il Prezzo di Offerta R2S2> del Prezzo di Domanda R2D2 e pertanto i venditori saranno costretti a diminuire la quantità Offerta. A differenza di Marshall, Walras e la teoria economica contemporanea indicano che la variabile indipendente e rappresentata dal Prezzo e non dalla domanda, ciò nonostante, le conclusioni raggiunte sono identiche e infatti con una curva di Offerta inclinata positivamente si ottiene il raggiungimento di un equilibrio stabile. Partendo infatti dal Prezzo P2 si ha una Quantità domandata P2D1 < della Quantità Offerta P2S2, e dunque la concorrenza tra imprenditori originerà la situazione di equilibrio, con un Prezzo P1 si ha una Quantità Offerta P1S1 < della Quantità Domandata P1D2 e dunque la concorrenza tra compratori farà aumentare il prezzo sino al livello di equilibrio il quale, supposto una variazione verrà ristabilito nuovamente con uguale dinamica. Nel grafico superiore a) è possibile individuare un equilibrio stabile Marshalliano ossia considerando la quantità come variabile indipendente. In tal caso se la Q > al punto OH, il Prezzo di Offerta è sempre maggiore al Prezzo domandato e dunque i venditori ridurranno la quantità di bene posta sul mercato, se Q < al punto OH i venditori aumenteranno la quantità in quanto il Prezzo della Domanda è superiore a quello Offerto. Se il Prezzo diventa variabile indipendente il grafico a) rappresenta un equilibrio instabile in quanto per prezzi inferiori a Pe la Quantità offerta > quella domandata e i venditori ribasseranno il prezzo, se al contrario il Prezzo salirà ancor più. Nel grafico B invece si ha un equilibrio stabile se consideriamo il Prezzo come variabile indipendente ed un equilibrio instabile se la variabile indipendente è la Quantità. Guardando entrambi i grafici se ne deduce che se la curva di Offerta è inclinata verso il basso e verso destra, la stabilità dell’equilibrio dipende dalle pendenze della domanda e Offerta nonché dal comportamento dei vari operatori. Le fluttuazioni economiche, la moneta e i prezzi Marshall si occupò anche di Macroeconomia: accettò la Legge di Say e affermò che eventuali sottoconsumi derivanti da fluttuazioni economiche non dipendevano dal sistema ma dalla fiducia dei consumatori. Durante il momento di fiducia, depressione economica e disoccupazione potevano essere combattuti mediante un controllo dei mercati e del credito, facendo si che un eccessiva espansione del credito non conducesse alla recessione. Durante una depressione invece, l’esecutivo deve infondere fiducia magari concedendo alle imprese un assicurazione contro i rischi. Circa quanta incidenza hanno le variabili monetarie sul livello generale dei prezzi, assunto che le teorie Marshalliane erano fondate sulla piena occupazione e un livello stabile dei prezzi, egli studiò le determinanti del livello dei prezzi come forma di teoria quantitativa della moneta inserita nel modello di interazione tra domanda e offerta. Capitolo 11 I primi critici dell’economia neoclassica La scuola eterodossa è caratterizzata dalla cd. illegittimità rivelata ossia da un attribuzione da parte della corrente dominante, di scarso o nullo valore alle teorie proclamate. La scuola storica tedesca nata in Germania a partire dal 1840 cominciò a criticare l’ortodossia classica ancor prima di Menger, Jevons, Walras e Marshall. Esponenti della prima scuola storica tedesca furono List e Hildebrand critici della generale applicabilità della teoria ortodossa classica nonché dell’applicazione delle teorie Smithiane, Ricardiane e Milliane all’economia tedesca, la quale differentemente dall’inglese, era prettamente agricola, infine, tranne qualche eccezione sposarono una metodologia fondata sul metodo storico-induttivo negando quello teorico-deduttivo. List ad es. confutò l’adattamento del libero commercio alla Germania o agli Usa, in questi stati infatti, l’economia industriale non era sviluppata come in Uk e dunque erano indispensabili sia il protezionismo e l’introduzione di tariffe. La vecchia scuola storica si occupò principalmente delle leggi che governano la fase di crescita e sviluppo economico avvalorandole con dati storici e statistici, e infatti a proposito dei sistemi economici localizzati nelle zone temperate, List individuò cinque stadi: nomadismo,pastorizia, agricoltura, agricoltura con manifattura e agricoltura con manifattura e commercio. Hildebrand invece ne individuò tre: quello del baratto, quello della moneta e infine quello del credito. Il maggiore esponente della seconda scuola storica tedesca fu Schmoller ma questa, a differenza della prima, mancò di sviluppare teorie circa le fasi di crescita e sviluppo economico. La giovane scuola tedesca restò fedele al metodo storico-induttivo e si occupò delle riforme sociali. Schmoller viene ricordato per il Methodenstreit un dibattito sul metodo intrattenuto con Menger. La scuola storica inglese fu capeggiata da Thomas Cliffe Leslie il quale nonostante l’accettazione della metodologia Smithiana affermò che questa non poteva più essere applicata all’Inghilterra, Toynbee coniò il termine Rivoluzione industriale e applicò il metodo storico-induttivo. Thorstein Veblen- Le critiche di Veblen all’economia ortodossa Veblen (1857-1929) fu il fondatore dell’Istituzionalismo. L’opera più importante che riflette il suo pensiero è The Place of Science in Modern Civilization in cui viene attaccata la validità scientifica delle ipotesi basilari della Teoria neoclassica e proposta una scienza frutto della fusione tra economia, antropologia, sociologia, psicologia e storia. Anche la teoria eterodossa di Marx e della scuola storica fu accusata di mancata validità scientifica. Secondo Veblen la differenza esistente tra quanto proposto da Smith e i suoi successori risiedeva solo nei termini, in quanto presupposti e ipotesi di partenza erano identiche. Alle origini della scienza economica, i teorici spiegavano l’andamento della società mediante il ricorso a forze soprannaturali, dopo, tali forze vennero sostituite dalla convinzione che leggi naturali sovrintendevano al sistema economico e sociale. Da Smith a Marshall dunque, tutti i pensatori accettarono la tendenza al miglioramento ossia l’armonicità del sistema economico, e vennero ad es. sviluppate la Teoria della mano invisibile o le Teorie Marshalliane sull’equilibrio. La Teoria economica ortodossa era secondo Veblen teleologica in quanto il sistema economico veniva descritto come tendente ad un fine, ad un equilibrio di lungo periodo che empiricamente non era mai stato raggiunto e veniva assunto ancor prima dell’inizio dell’analisi, e quindi anche pre darwiniana in quanto Veblen intendeva l’evoluzione come un processo meccanico in grado di far sviluppare gli uomini in base all’ambiente senza collegamenti ad una eventuale finalità che sovrintendesse lo sviluppo. Inoltre la teoria ortodossa era pre darwiniana perchè localizzata su temi statici dell’analisi ed escludeva la trasformazione ed evoluzione del sistema economico, e pertanto doveva lasciare il passo ad un analisi dinamica e darwianiana. Veblen chiamò la teoria ortodossa tassonomica perché mancava di spiegare le componenti del sistema economico e le classificava soltanto. Altra critica verso l’economia ortodossa fu quella di essere rimasta avvinta dai legacci della Teoria della mano invisibile mai verificata. Gli ortodossi ritenevano che l’imprenditore al fine di ottenere profitti avrebbe prodotto beni a bassi costi e la concorrenza avrebbe fatto coincidere interesse dell’imprenditore con quello sociale. A tal proposito Veblen affermò che il profitto e la produzione di beni sono due cose distinte, che il comportamento imprenditoriale nella maggior parte dei casi nuoceva al sistema economico, e negò la coincidenza tra interesse dell’imprenditore e quello collettivo. Riguardo al primo punto, all’epoca di Smith disse Veblen profitto e produzione dei beni viaggiavano di pari passo ma successivamente, con lo sviluppo industriale, questi avevano preso strade diverse. Direttori della produzione o lavoratori erano al suo tempo quelli che producevano beni, i titolari delle imprese ricercavano invece il profitto e in tale ricerca danneggiavano la produzione e conseguentemente la collettività. Le imprese volevano giungere a posizioni di monopolio e non di efficienza, la concorrenza internazionale avrebbe favorito guerre e gli escamotage finanziari erano le cause di depressione economica e disoccupazione. Da tutto ciò si ricava che per Veblen i mercati perfettamente concorrenziali erano un male per la società. L’economia ortodossa era dunque cieca verso gli sviluppi della fisica e biologia, della sociologia e psicologia e tutto ciò aveva profondamente inciso sulla sua validità scientifica, e anche se essa era incentrata sullo studio dell’uomo, l’uomo in quanto tale non era interessato dall’analisi. Infine contestò la mancata risoluzione della dicotomia tra teoria del sistema economico e reale funzionamento del sistema, e a tal fine incitò un lavoro maggiormente empirico e storico-induttivo. L’analisi del capitalismo secondo Veblen La scienza economica secondo la visione di Veblen doveva occuparsi dello studio dell’evoluzione della struttura istituzionale ove per Istituzioni bisogna intendere le convinzioni e consuetudini proprie di un dato tempo. Pertanto al fine di capire l’evoluzione e il funzionamento della sua epoca era necessario un approccio di tipo evoluzionista chiarificatore del rapporto tra peculiarità umane e cultura istituzionalizzata. Il comportamento individuale derivava da modelli prevalenti nati dalle pregresse relazioni tra uomini e cultura e tali aspetti della natura umana furono detti istinti. Secondo Veblen gli istinti che creano le attività economiche sono: quello di parentela volto all‘interessamento per la famiglia, la classe, la nazione o l’intera umanità, quello di bravura consistente nel desiderio di produrre beni di qualità, e tendente all’efficienza ed economia del proprio lavoro, della curiosità fine a se stessa consistente nel voler capire la realtà e infine quello acquisitivo che mira alla ricerca del bene personale in opposizione a quello collettivo. La dicotomia fondamentale Gli istinti di parentela, bravura e curiosità fine a se stessa sono fondamentali per la produzione di beni di qualità che apportano beneficio alla collettività, l’istinto acquisitivo riguarda il solo bene individuale. Lo studio del sistema economico può allora chiarire, il conflitto originato dai due aspetti umani: quello propenso all’economia e quello capace di ostacolare lo sviluppo sociale. Secondo Veblen gli impieghi industriali o tecnologici sono quelli derivanti dall’istinto di parentela, bravura e curiosità e hanno una natura dinamica, a differenza del comportamento cerimoniale un atteggiamento primitivo e mediante il quale i primi uomini mediante Totem o Tabù invocavano l’intervento degli dei per ottenere benefici di diversa natura, il quale però era ancora esistente sotto forma d’impieghi finanziari. Ne la Teoria della Classe agiata Veblen sulla base della dicotomia dimensione cerimoniale e industriale studiò il fenomeno del consumo ostentativo. A differenza del passato l’uomo non viene rispettato in virtù del suo potere predatorio ma in base al reddito elevato il quale al fine di essere riconosciuto dai consociati deve essere ostentato. Il consumo ostentativo degli oggetti acquistati rappresentava in quell’epoca il potere predatorio del soggetto, che per ottenere un reddito elevato ricercava la proprietà assenteista (in cui gli strumenti di produzione non appartenevano più al lavoratore) l’attività finanziaria o quella legale. Veblen criticò anche i responsabili delle università i cd. capitani di erudizione i quali, al pari dei capitani d’industria avevano confuso tra mezzi e fini, penalizzando le accademie del sapere ove dovrebbero prevalere l‘istinto di bravura e curiosità fine a se stessa. Al contrario esistevano comportamenti cerimoniali e impieghi finanziari e l’unico modo per poter salvare le Università era eliminare il rettorato e il senato accademico. Stabilità e tendenze di lungo periodo del capitalismo Secondo la Teoria del ciclo economico durante lo sviluppo del sistema economico le attività finanziarie portano ad un aumento del credito il quale viene compensato dal valore via via maggiore che viene attribuito al capitale. In questo periodo dunque, si ha crescita del credito, del valore dei beni capitali e del prezzo dei beni capitali, e ciò sino a quando non emerge la sproporzione esistente tra la reale capacità dei beni capitali di fruttare guadagni e il valore attribuito al capitale e dunque l’economica rallenta e avviene la liquidazione delle posizioni finanziarie. Il blocco dell’economia comporta un calo dei prezzi, dell’occupazione e del credito, cosicché le aziende vengono ricapitalizzate con dati maggiormente realistici, quelle piccole vengono assorbite dalle grandi o falliscono ed in tal modo la proprietà e l’industria si concentrano in poche mani. Durante questa fase avviene un calo dei salari reali, un aumento dei margini di profitto e pertanto gli eccessi di credito vengono eliminati e il valore finanziario degli affari è maggiormente vicino alla produzione reale. Riguardo alla Tendenze di lungo periodo del capitalismo Veblen non fu risoluto ma limitandosi ad affermare che l’unica certezza era la transitorietà del regime d’affari d’impresa propose diversi scenari. In primo luogo affermò che l’economia industriale poteva addurre giovamento alla società solo se il controllo del sistema sarebbe passato dagli uomini d’affari ai lavoratori e ingegneri, i primi infatti tendevano a bloccare il progresso umano, producendo sempre maggiori beni e intorbidendo la natura umana. Con tale rivolgimento avrebbero trovato la fine la proprietà assenteista e tutte le manipolazioni finanziarie. Veblen criticò la posizione di Marx circa la fine del Capitalismo, in quanto il sistema poteva estinguersi non per mezzo di una rivoluzione del proletariato ma a seguito del suo successo. Il consumismo ostentativo infatti, aveva la forza di provocare tensioni sociali e sconvolgimenti dovuti allo spirito di emulazione. In alternativa poteva succedere una rivoluzione socialista in cui non ci sarebbero state più divisioni di classi anche se, nel lungo periodo, la società poteva politicamente sbilanciarsi a destra se lavoratori e ingegneri si sarebbero lasciati affascinare dal Nazionalismo. Wesley Clair Mitchell Mitchell (1874-1948) fu allievo di Veblen e viene inserito tra gli esponenti della scuola istuzionalista e si soffermò soprattutto sulla metodologia trascurata da Veblen. Tra i suoi lavori più importanti bisogna citare lo studio della storia delle idee economiche con il quale asseverò che le varie teorie erano il frutto delle diverse conclusioni che gli scienziati economici avevano raggiunto dopo aver esaminato i problemi del tempo. Riguardo la Teoria del ciclo economico utilizzò dati storici tralasciando le premesse astratte proprie del mondo ortodosso. Secondo Mitchell grazie allo studio dell’economia era possibile governare in miglior modo le oscillazioni proprie del sistema economico, e accettata la distinzione tra impieghi industriali e finanziari di Veblen ritenne che tali variazioni erano da addebitare al mondo della finanza come risposta alla diminuzione o all’aumento dei profitti. Sebbene ogni ciclo economico è unico, a parere di Mitchell esistono degli elementi simili che rivelano la fase di depressione, ripresa, crescita e crisi. Durante la fase di depressione vengono ad es. originati i punti fermi per la successiva ripresa, l’andamento dei tassi fa si che le imprese inefficienti chiudano i battenti, i costi si riducono; durante la fase di crescita si originano invece i punti fermi della crisi come ad es. aumento dei costi e diminuzione dei profitti. Tra le altre critiche rivolte alla teoria ortodossa bisogna sottolineare la negazione del comportamento umano fondato su una psicologia di tipo edonistico nonché lo studio dello stesso mediante il metodo empirico. John R.Commons Commons (1862-1945) fu un economista americano eterodosso e a seguito del rapporto con Ely fu influenzato dalla scuola storica tedesca. Pur accettando il sistema capitalista propose di apportare alcune correzioni al libero mercato, in primo l’intervento statale. Si occupò di riforme sociali, istruzione univeritaria e mondo del lavoro settore nel quale viene ricordato soprattutto per le innovazioni di legislazione sociale quali la regolamentazione dei servizi pubblici, l’assicurazione contro infortuni sul lavoro o il sussidio di disoccupazione. Il metodo Commons consisteva nello studiare uno specifico problema sociale, poi proporre le conclusioni ai politici che avrebbero dovuto approvare un eventuale disegno di legge e una ottenuta la riforma suggerire la stessa in altri stati. Nel settore universitario fece acquistare notevole importanza all’Università del Wisconsin e incentrò lo studio della scienza economica in base alla metodologia Commons. Oggi tale approccio è mutato ossia è in linea con quello delle altre università. Infine sul tema economia del lavoro Commons presentò a Documentary History of American Industrial Society (1910) una raccolta sulla storia del lavoro americano. La critica di Commons nei confronti della Teoria ortodossa riguardò innanzitutto il tema della formazione del prezzo e dello scambio. Gli agenti dei mercati concorrenziali non erano soggetti razionali e meccanici in quanto tale peculiarità era rinvenibile solamente nei mercati altamente organizzati dove mancavano le forze come l’abitudine o le usanze che incidono sulle transazioni di mercato le quali, possono assumere tre diverse forme. In primo luogo esistono le transazioni relative alla contrattazione, determinanti del prezzo dei beni finali e dei fattori produttivi, e mediante le quali la proprietà può essere trasferita in base ad un libero accordo tra individui che godono degli stessi diritti, anche se l’uguaglianza giuridica non comporta una conseguente uguaglianza di potere economico. Esistono poi le transazioni manageriali che implicano creazione di ricchezza e consistono nella posizione di comando di un soggetto che giuridicamente ed economicamente è gerarchicamente superiore rispetto ad altri (dirigente-dipendente). Infine esistono le transazioni relative al razionamento che interessano le trattative volte all’accordo tra soggetti che hanno l’autorità di dividere benefici e oneri tra determinati consociati. Le Istituzioni sono invece un azione collettiva tesa al controllo, o alla libera azione dell’azione individuale eliminando ad es. dei vincoli. In ogni transazione economica dice Commons sorge un conflitto determinato dalla sperequazione dovuta alla diversa assegnazione tra soggetti, e tale conflitto viene assorbito dalle regole operative ossia l’insieme di abitudini, usanze e leggi. Quando la storia introduce una modificazione accade che alcuni contrasti emergano ugualmente e le regole operative vengono cambiate. Secondo Commons allora, nell’ambito della scienza economica, la storia e il diritto assumono una rilevanza unica. John A.Hobson Hobson (1858-1940) viene ricordato come il padre intellettuale del Welfare state inglese. Al pari degli altri autori eterodossi contestò il laissez faire e rilevò le tre fondamentali inefficienze del sistema economico inglese. Primariamente, per via dei fenomeni di sottoconsumo il sistema non era in grado di garantire il pieno impiego delle risorse; in secondo luogo grazie al loro potere di contrattazione le classi agiate ricevevano ingiustamente un reddito maggiore rispetto a quelle medie; e infine dato che il sistema dei prezzi mira al profitto monetario, la misura dei costi sociali sostenuti e delle utilità sociali prodotte non può essere ricercata nel mercato. Inoltre negò la Legge di Say, la dicotomia tra economica normativa e positiva, e affermò che il fenomeno dell’Imperialismo era nato per la necessità di ovviare all’eccesso di risparmio e all’eccesso di offerta di beni in presenza di pieno impiego. Il capitalismo causava dunque le depressioni economiche che secondo Hobson potevano essere combattute con una tassazione volta ad una più equa distribuzione del reddito, e al sostegno statale nei confronti delle classi povere. Circa la distribuzione del reddito negò la Teoria della produttività marginale e affermò che il pagamento dei fattori produttivi può essere analizzato come remunerazione sufficiente per il mantenimento del fattore preso ad oggetto; remunerazione in grado di far aumentare la quantità e la produttività del fattore, una remunerazione in eccesso a quello che avrebbe garantito la conservazione e la crescita detto sovrappiù improduttivo.