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Capitolo 2
Il mercantilismo, la Fisiocrazia e gli altri precursori del pensiero economico classico
Il Mercantilismo fu una Teoria economica nata, a partire dal 1500, come risposta alle conseguenze
provocate dall’espansione dell’attività economica, ossia dall’aumento dei traffici, dall’incremento
della produzione di beni e dei contratti di compravendita, nonché dal passaggio dalla società
feudale a quella moderna. Da allora l’Economia cominciò ad esser vista non più come governo
della casa o del singolo imprenditore ma come sistema caratterizzato da leggi e relazioni proprie.
Tra i Mercantilisti, i cui esponenti più importanti furono inglesi e francesi, militarono mercanti e
uomini d’affari che guardavano al commercio, e a livello teorico puntavano ad evidenziare politica
economica e interessi di classe piuttosto che collettivi.
Uno degli scopi del Mercantilismo fu quello di favorire la Potenza e la Ricchezza dello Stato
questa nuova entità astratta nata a seguito dell’accentramento del potere su di un territorio
delimitato e all’interno del quale un sovrano esercitava il dominio assoluto. Secondo i
Mercantilisti, la Ricchezza globale del mondo era fissa e ciò, a livello commerciale significava
aumento della Potenza e ricchezza nazionale di alcuni Stati e perdita per altri.
Al fine di potenziare la crescita economica nazionale venne dunque studiata la funzione del
Commercio internazionale e della Bilancia commerciale.
Partendo dall’assunto secondo cui lo scopo dell’attività economica è la produzione e non il
consumo, il Mercantilismo affermò che i veicoli per giungere alla Ricchezza nazionale erano
l’obbligo di ridurre il consumo interno, d’incrementare le esportazioni e d’incentivare la
produzione. Inoltre i salari dovevano essere mantenuti bassi sia per vincere la concorrenza
internazionale sia per incentivare i lavoratori e quindi aumentare la produzione.
Pertanto il Mercantilismo bocciò le Importazioni e propose di bloccarle mediante l’applicazione di
tariffe, dazi doganali e incentivi alla produzione statale, lo Stato inoltre, doveva favorire l’aumento
produttivo al fine di ottenere una Bilancia commerciale positiva (documento contabile atto alla
registrazione delle transazioni economiche avvenute in un determinato periodo di tempo tra
residenti e non residenti in un economia statale).
Inizialmente i Mercantilisti intendevano la Ricchezza della Nazione come accumulo di riserve di
metalli preziosi e dunque la Bilancia commerciale era in attivo se i flussi di materiali aurei si
sarebbe diretto verso il proprio Stato. Poi questa idea fu abbandonata per abbracciare quella della
bilancia attiva nei confronti dell’intero globo, e le stesse riserve auree potevano essere esportate a
patto di acquistare materie prime volte alla produzioni di beni esportabili.
I mercantilisti della seconda ora si distinsero per lo studio della Moneta all’interno dell’economia.
Bodin ad es. incentrò la sua attenzione sul rapporto proporzionale tra quantità di moneta e livello
generale dei prezzi, mentre Hume trattò le relazioni tra il saldo della bilancia commerciale, la
quantità di moneta e il livello generale dei Prezzi (Price specie-flow mechanism). Inoltre,
sostennero che elementi discriminanti per la variazione dell’attività economica erano i Fattori
monetari e non quelli reali. Specificatamente, un adeguata offerta di moneta avrebbe inciso sulla
crescita del commercio interno ed estero così che, variazioni della quantità di moneta avrebbero
variato il livello della produzione reale.
Tra il 1660 e il 1776 si sviluppò la convinzione che l’economia poteva essere studiata come
disciplina autonoma. Venne abbandonata, anche se non del tutto, la visione moralista della
Scolastica e prese campo lo studio mediante il principio causa-effetto proprio del mondo della
Fisica. L’economia era una causalità e comprendere le regole che governavano tale causalità,
insieme ad un adeguato intervento statale, avrebbe reso possibile l’analisi economica. Il governo
doveva intervenire non intaccando le leggi fondamentali dell’economia o tentando di mutare la
natura umana, bensì ricercando leggi e istituzioni tese alla Potenza ed alla Ricchezza della Nazione.
Un grande limite del Mercantilismo fu quello di non comprendere il modo di formazione dei prezzi
e di distribuzione delle risorse, ciò perché, diversamente dal pensiero classico per il quale dalla
ricerca del bene personale derivava anche quello comune, i Mercantilisti vedevano interesse privato
e interesse collettivo in continuo contrasto, e tale frizione poteva essere sanata solo dall’intervento
Statale.
Precursori del Pensiero classico
Thomas Mun
Mun (1571-1641) fu un dirigente della Compagnia delle Indie Orientali fortemente criticata perché
la sua attività determinava per primo, nel rapporto tra Inghilterra e India un livello di importazioni
maggiore rispetto alle esportazioni, e secondo una continua fuoriuscita di metalli preziosi i quali
venivano usati come mezzo di pagamento.
La sua opera più importante fu Il Tesoro dell’Inghilterra dal punto di vista del commercio estero
(1664) dove affermò che la ricchezza dell'Inghilterra dipendeva dal commercio estero. Mun era
convinto che la ricchezza di un paese coincidesse con le riserve di metalli preziosi, e sosteneva
l’attivo della bilancia commerciale al fine di garantire un afflusso di oro e argento verso il territorio
nazionale. Compito del governo era quello di regolamentare il commercio estero in modo da avere
un attivo nella bilancia commerciale, e ciò era possibile favorendo l'importazione di materie prime a
basso costo e l'esportazione di beni, applicando dazi e tariffe protezionistiche sui beni importati, e
adottando atti politici che favorissero l’aumento della popolazione e i salari ad un livello basso.
La Teoria di Mun era comunque non lineare, egli infatti, riguardo le critiche avanzate alle
Compagnia delle Indie sosteneva che nel caso Indiano un bilancio inglese in passivo e un deflusso
di metalli preziosi giovavano all’Inghilterra in quanto avrebbero consentito vantaggi commerciali
verso il resto del mondo.
William Petty
Petty (1623-1687) tipico Mercantilista e autore dell’Aritmetica politica, grazie all’ausilio
dell’induzione, empirismo e matematica sperimentò le tecniche statistiche come strumento di
misurazione dei fenomeni sociali. Petty tentò di misurare la popolazione, il reddito nazionale, le
importazioni e le esportazioni, e lo stock di capitale della nazione. Questo pensatore espresse le idee
in termini di numero, peso e misura, e accettò solo quelle argomentazioni che hanno un visibile
fondamento nella natura rappresentando così un antesignano del moderno approccio economico.
Bernard Mandeville
Mandeville (1670-1733) criticò i cd. moralisti del sentimento e sostenne il sottoconsumo. Nella
sua opera più importante intitolata Favola delle Api, ossia Vizi privati, pubblici benefici ipotizza un
mondo simbolico in cui i moralisti facessero abbandonare alle api la prodigalità, l’orgoglio e la
vanità giungendo così alla depressione economica.
Differentemente dai moralisti che credevano la moralità costituita si da principi razionali ma anche
da emozioni e sentimenti, e che questa fosse capace di indirizzare l’egoismo umano verso il bene
comune, secondo Mandeville il mondo è dei vizi, egli accetta l’uomo così com’è, ritiene l’egoismo
un vizio morale e afferma che il bene comune può nascere dai comportamenti individuali solo se
questi sono controllati dallo Stato.
Scopo del governo era quello di regolamentare il commercio estero in modo da consentire
un'eccedenza delle esportazioni sulle importazioni.
Mandeville si dichiarò contrario alla sovrapproduzione, al sottoconsumo e al risparmio privato.
Infine, assunto che uno degli elementi base del successo economico è la produzione, si schierò
contro il lassismo e a favore di una popolazione numerosa in cui la forza lavoro fosse costituita
anche da bambini, in tal modo, essendo il tasso di partecipazione al lavoro molto alto era possibile
mantenere salari bassi, vincere la concorrenza internazionale e sostenere un accettabile offerta di
lavoro.
David Hume
Hume (1711-1776) può essere definito come un Mercantilista liberale perché guardò con interesse
alle nuove teorie, criticò parzialmente le vecchie, ma nel contempo rimase ancorato alla dottrina
mercantilista.
Trattando le relazioni tra il saldo della bilancia commerciale, la quantità di moneta e il livello
generale dei Prezzi (Price specie-flow mechanism) affermò che la bilancia commerciale non poteva
rimanere positiva (esportazioni>importazioni) nel lungo periodo, e ciò perché, a fronte di un
costante aumento di quantità dei metalli preziosi anche i prezzi sarebbero aumentati. La
conseguenza internazionale di tale situazione era la diminuzione di quantità di oro e argento per gli
altri Stati e decremento dei prezzi, e dunque, inversione e tendenziale equilibrio tra esportazioni e
importazioni, ossia il paese con la bilancia commerciale positiva avrebbe importato maggiormente
(a seguito dei prezzi esteri bassi) quello con la bilancia passiva avrebbe incrementato le
esportazioni.
In secondo luogo, Hume sposò la teoria secondo cui gli elementi discriminanti per la variazione
dell’attività economica ed in particolare della produzione reale e dell’occupazione, sono i Fattori
Monetari e non quelli reali. I mercantilisti credevano che la produzione poteva realmente
aumentare grazie a variazioni dell'offerta di moneta, i classici invece optarono per variazioni di
carattere reale come l’offerta di lavoro o la variazione delle risorse disponibili in quanto le
variazioni dell'offerta di moneta avrebbero modificato solo il livello generale di prezzi. Hume era
convinto che nonostante il livello assoluto di denaro della nazione non avesse, in termini reali,
alcuna influenza sulla produzione, un incremento graduale dell'offerta di moneta avrebbe
comportato una maggiore produzione.
Altri aspetti che vanno ricordati in Hume sono la stretta connessione tra libertà politica e libertà
economica nonché la cd. Proposizione di Hume riguardante la distinzione tra considerazioni di
tipo positivo e considerazioni di tipo normativo e dunque ciò che deve essere (affermazione
normativa) non può essere derivato da ciò che è (affermazione positiva).
Richard Cantillon
Cantillon (1680-1734) irlandese e studioso di Locke e Petty, fu autore del Saggio sulla natura del
commercio in generale e influenzò le opere di Quesnay. Fu Mercantilista per la visione del
commercio estero, e Fisiocratico per l’attenzione posta all’agricoltura, e affermò che il sistema di
mercato era in grado di coordinare le attività di produttori e consumatori grazie all’interesse
individuale, ovvero gli imprenditori fiutando il profitto personale produrrebbero dei risultati
migliori rispetto agli interventi statali. Riguardo alle forze che dettano i prezzi, riuscì a distinguere
tra prezzi di mercato determinati da fattori di breve periodo e prezzi di equilibrio di lungo periodo
coincidenti con il valore proprio delle merci; inoltre si occupò di aspetti macroeconomici inerenti le
variazioni dell’offerta di moneta, dei prezzi e della produzione.
La Fisiocrazia
Il movimento Fisiocratico il cui leader fu Francois Quesnay (1694-1774) nacque in Francia ed
ebbe un esistenza circoscritta tra il 1750 e il 1780. I Fisiocratici studiarono le interrelazioni tra i
differenti settori economici , il funzionamento dei mercati non regolamentati e fondarono la loro
speculazione sulla Legge Naturale ossia l’esistenza di leggi naturali, che potevano essere
analizzate obiettivamente, che sovrintendono al settore economico e poiché sono naturali non
possono essere collegate all’attività umana.
A differenza dei mercantilisti che guardarono ai fattori monetari come elemento atto all‘aumento
della produzione e dunque della Ricchezza, gli economisti francesi si concentrarono sulle forze
reali, e sulla convinzione che solo l’agricoltura poteva essere la fonte della Ricchezza nazionale.
All’epoca Fisiocratica l’economia francese era frammentata, nella zona settentrionale infatti si
diffondevano tecniche moderne, mentre nel resto del paese permaneva una situazione di
arretratezza. Partendo da tale presupposto i Fisiocratici enfatizzarono il valore della natura, e
ricercarono le cause della ricchezza delle nazioni nonché le politiche atte a consentire un idonea
crescita economica. In quel tempo esisteva un disavanzo tra beni prodotti e forze reali impiegate,
dunque esisteva un cd. sovrappiù espresso nel concetto di Prodotto netto facilmente individuabile
mediante un analisi empirica del processo agricolo. Pagati i fattori produttivi come le sementi, i
macchinari o il lavoro dei braccianti, il restante raccolto rappresenta infatti il quantum, la
produttività fornita dalla terra ed in particolare la misura del Prodotto netto era data dalla rendita
sulla terra. Tale prodotto netto poteva essere ricercato solo nell’agricoltura e non nell’attività
industriale considerata sterile ed in grado di fornire solo i costi del lavoro operaio.
La relazione tra la rendita sulla terra e il prodotto netto è stata illustrata dai Fisiocratici nel
Tableau Economique in cui sono rappresentati agricoltori, proprietari terrieri e artigiani e
servitori.
Partendo dalla colonna centrale del Tableau, i proprietari spendono il prodotto netto dell'anno
precedente acquistando 1.000 libbre di beni dagli artigiani e 1.000 libbre di beni agricoli dagli
agricoltori (corrispondenti alle linee diagonali marroni). Le 1.000 libbre spese nel settore agricolo
generano 2.000 libbre di credito, di cui metà sono dirette verso i proprietari sotto forma di prodotti,
e l'altra metà sotto forma di rendita. Le 1.000 libbre di reddito ricevute dagli artigiani vengono in
parte spese in beni agricoli (prima diagonale verde), e quindi, secondo l'ipotesi di base, generano un
identico prodotto netto: le 500 libbre della colonna di sinistra che si traducono quindi in un uguale
ammontare di rendita diretta verso i proprietari. Le spese degli agricoltori per i beni prodotti dagli
artigiani sono poi rappresentate dalle linee diagonali arancioni che vanno dalla colonna di sinistra a
quella di destra.
Le ipotesi del Tableau economique sono che solo la terra può generare un output più grande dei
costi della sua produzione e pertanto la produttività della terra è pari al 100%. Per gli artigiani e
servitori invece il valore dei beni prodotti è uguale al pagamento dei fattori produttivi.
Obiettivo della "tavola economica" era la rappresentazione dell’interdipendenza tra i settori
macroeconomici, il flusso dei redditi monetari tra i vari settori dell'economia, nonché la creazione e
la circolazione annuale del prodotto netto all'interno del sistema economico.
Secondo la teoria fisiocratica i prezzi si formavano sul mercato per mezzo dell'attività economica,
e tale processo di formazione dei prezzi era legato alla legge naturale e in quanto indipendente dalla
volontà umana poteva essere oggetto di studio. Nonostante una teoria fisiocratica dei prezzi manchi,
questi economisti giunsero alla conclusione che la libera concorrenza avrebbe prodotto i prezzi
migliori, e se ogni uomo avesse seguito il proprio interesse personale la comunità ne avrebbe tratto
beneficio. Inoltre, essendo il prodotto netto legato alla rendita della terra essi stabilirono che il
carico fiscale dovesse gravare in ultima istanza sull‘agricoltura.
Ma la conclusione più importante a cui giunsero i fisiocratici fu la loro crescente consapevolezza
della funzione dei prezzi nell'integrare le attività economiche, ciò perchè ogni soggetto che lavora
opera a favore di altri, e dunque le attività interdipendenti di tutti i soggetti sono integrate per mezzo
del sistema di prezzi.
La libera concorrenza, così come l’autoregolamentazione del sistema economico, veniva sostenuta
dai Fisiocratici in quanto essi come detto, credevano alla legge naturale, e bocciando la teoria
protezionista mercantilista sposarono quella del laissez faire.
Un esempio degli errori mercantilisti era il vieto di esportazione del grano francese, che
mantenendo basso il prezzo del grano nazionale impediva lo sviluppo agricolo.
Essi erano convinti che una politica di laissez faire avrebbe comportato una crescita imponente
dell'agricoltura francese, e una conseguente trasformazione della struttura economica fondata
sull'impresa di piccole dimensioni, alla moderna agricoltura su grande scala, con un aumento
generale di ricchezza e di potenza per la Francia.
Per i Mercantilisti la fonte del prodotto netto era lo scambio, in particolare nella forma del
commercio internazionale, e perciò proponevano misure di politica economica che promuovessero
una bilancia commerciale in attivo. Per i Fisiocratici la fonte del prodotto netto era l'agricoltura, e
quindi sostenevano che il lassez faire avrebbe generato un aumento della produzione agricola e, in
ultima istanza, una crescita economica più sostenuta.
Parte Seconda
Il pensiero economico classico, Malthus e Marx
L’Economia Politica Classica abbraccia un periodo che và dal 1776, anno della pubblicazione della
Ricchezza delle Nazioni di A.Smith, sino al 1890. A quest’opera seguirono i Principi di Economia
Politica e dell’Imposta (1817) di Ricardo e i Principi di Economia Politica (1848) di J.S Mill.
Nonostante gli studiosi classici giunsero a proposte innovative, l’origine delle loro idee deve essere
cercata nella Scolastica, nel Mercantilismo e nella Fisiocrazia sebbene esistono tre caratteristiche
che differenziano la teoria classica rispetto ai precedenti studi economici.
In primo luogo, i classici proposero una visione ottimistica del funzionamento dei mercati dunque
si allontanarono dal pensiero medioevale e mercantilista; alla stessa stregua dei fisiocratici,
guardarono al mercato come un sistema armonico e autonomo, nonché di giungere alla massima
efficienza concedendo ai singoli un ampia libertà. Inoltre, così come scritto da Hume, libertà
politica ed economica dovevano essere strettamente correlate. Tuttavia, la visione positiva classica
non comportava il trascurare di alcuni problemi reali presenti nel sistema (pensiamo ai conflitti tra
proprietari terrieri e classi che intendevano proporre una nuova politica economica) cosicché
nacquero nuove riflessioni che avrebbero portato alla nascita dell’economia eterodossa che negava
l’armonia del mercato, e proponeva la risoluzione dei conflitti economici non con le sole forze di
mercato ma grazie ad un mutamento del sistema, nonchè dell’economia ortodossa che s’aprì
all’aiuto fornito dalle soluzioni politiche.
In secondo luogo i classici si occuparono della Crescita economica dettata dal fattori economici ma
anche culturale, politico, sociale e storico. Al fine di comprendere la crescita economica venne
analizzato il sistema dei prezzi come mezzo atto ad allocare le risorse disponibili, e sotto
quest’aspetto i classici furono vicini al Mercantilismo e distanti dall’economia neoclassica o dalla
moderna microeconomia.
Infine, a differenza dei Mercantilisti i quali si convinsero che mediante il sapere era possibile
correggere le storture del sistema, i Classici rimasero scettici e guardinghi circa le competenze
teoriche.
Malthus e Marx sebbene vicini alla scuola classica non possono essere citati come teorici classici.
Prendendo ad esame Marx possiamo dire che i punti di maggior vicinanza al classicismo furono:
 L’evidenza dei conflitti presenti nella società, ed in particolare quello tra capitalisti e
lavoratori mediante l’uso della teoria classica del valore-lavoro
 Analizzò il sistema economico dal lato della dinamica (evoluzione del saggio di
profitto,distribuzione del reddito nel tempo)
 Studiò anch’egli le classi economiche dei capitalisti, proprietari terrieri e lavoratori
Marx però, si differenziò in maniera decisiva nell’ideologia, e infatti riteneva che il profitto e
l’accumulo del capitale non fossero virtù ma azioni dannose per la classe dei lavoratori.
Capitolo 3
Adam Smith
Adam Smith e l’economia classica
A.Smith visse tra il 1723 ed il 1790, fu influenzato da Hutchenson (1694-1746) e Hume e con il
primo contribuì all’aspra critica nei confronti di Mandeville che sosteneva il pregiudizio apportato
al sistema economico dal perseguimento dell’interesse individuale al sistema economico, e il
necessario intervento statale in economia.
Smith affermò l’interdipendenza tra i vari settori dell’economia e le politiche da adottare per
incentivare la crescita della Ricchezza di una Nazione.
Favorevole al laissez faire predicato dai Fisiocratici, nel suo studio sul funzionamento dei mercati
non applicò solamente la teoria ma usò anche le osservazioni di eventi storici ed istituzionali
accaduti, inaugurando la cd. Politica economica contestualizzata. Domandandosi se l'intervento del
governo produce realmente risultati migliori rispetto al libero funzionamento dei mercati, concluse
che i mercati, tendenzialmente, non raggiungono risultati ideali dal punto di vista del benessere
sociale, ma empiricamente rilevò che gli effetti dell'intervento statale sono meno efficienti di quelli
del libero mercato. Pertanto sposò il laissez faire non perché asserisce la perfetta armoniosità dei
mercati bensì perché nel contesto storico e istituzionale inglese il sistema economico tendeva a
risultati migliori rispetto a quelli ottenuti con il protezionismo e le politiche governative.
Se l’economia come scienza guarda alle relazioni fattuali tra le variabili economiche, ossia
all’essere contrapposto al dover essere, oggetto dell’economia normativa, l’economia arte è volta a
questione di politica economica e necessita sia della scienza, dunque dei fattori reali che degli
obiettivi perseguiti (economia normativa). Detto ciò Smith può essere definito come un politico
economico per la sua conoscenza storica e umana, dunque la sua Politica economica
contestualizzata è l’economia come arte.
Concordemente con i mercantilisti sottolineò l’importanza delle scienze naturali in quanto
l’applicazione di queste all’economia avrebbe permesso la scoperta delle leggi economiche. Da poi
considerava l’essere umano razionale e guidato dall’interesse personale e infatti, se ogni individuo
dispone della libertà di agire, ricercando il proprio utile contribuirà alla soddisfazione dell‘interesse
comune. Contrariamente al Mercantilismo invece, considerò i mercati concorrenziali, dotati di
fattori di produzione mobili in cerca della migliore remunerazione possibile, e affermò l’utilità dei
processi naturali capaci di correggere le storture del sistema economico ancor più di ogni intervento
governativo.
Nella Ricchezza delle nazioni Smith sostiene un’economia di mercato non soggetta a
regolamentazione, dunque un mercato concorrenziale, in cui l'interesse privato condurrà
all'ottenimento del bene comune.
La chiave per comprendere questo processo risiede nell'attività dei capitalisti. Assunto che gli
imprenditori sono mossi dalla logica del profitto, Smith dimostrò come la concorrenza fra
capitalisti origina la produzione di beni ad un costo che garantisce al produttore un ricavo appena
sufficiente a coprire i costi-opportunità dei vari fattori impiegati. Un profitto superiore a quello
normale in un certo settore dell'economia infatti, attraendo nuove imprese, comporterà una
diminuzione del prezzo sino a livelli tali da eliminare gli extraprofitti.
Anche i consumatori tramite il loro potere d'acquisto producono sul mercato, a seconda delle loro
preferenze, aumenti o diminuzione dei prezzi, e conseguentemente profitti superiori o inferiori.
Il mercato dunque, senza alcun intervento realizza i desideri dei consumatori al minor costo sociale
possibile, giungendo alla migliore allocazione delle risorse presenti al suo interno.
Il funzionamento dei mercati concorrenziali
Una delle analisi più importanti di Smith fu quella sul Funzionamento dei mercati concorrenziali e
specificatamente su come nel lungo periodo il prezzo di un bene equivale al suo costo di
produzione. Smith distinse tra Prezzi naturali ossia i prezzi di lungo periodo e Prezzi di mercato o
di breve periodo. Partendo dall’assunto che nei mercati concorrenziali esistono molti venditori a
cui s’affiancano i detentori delle risorse, i quali conoscono i livelli di profitto, dei salari e delle
rendite e sono consapevoli della circostanza che i fattori produttivi sono mobili, quest’ultimi, alla
continua ricerca del proprio utile farebbero si che i prezzi tendano a quelli naturali di lungo
periodo in maniera che profitto, salari e rendite risultino uniformi nei diversi settori economici.
(Supponiamo che il prezzo di un bene > a quello naturale di lungo periodo comportando, nel campo
in cui viene prodotto profitti, salari o rendite > rispetto al livello naturale. Tale situazione farebbe
spostare le risorse dai settori meno convenienti a quelli più convenienti sino a rendere uniforme la
situazione garantendo così un esatta allocazione delle risorse e potenziando al massimo la crescita
del sistema).
Conseguentemente vengono criticati i monopoli e l’azione politica in campo economico contraria
sia alla legge naturale che alla libertà individuale. Proponendo una disamina propria dell’arte
dell’economia e usando argomentazioni descrittive e storiche, Smith sostenne che il Protezionismo
mercantilista è volto a favorire interessi dei mercanti e uomini d’affari e non il bene comune, e
allora i governi sarebbero guidati, strumentalizzati dai commercianti e non proporrebbero misure
economiche efficienti.
L’analisi di Smith risulta anche obiettiva in quanto la sua critica non è indiscriminata ovvero
individua aree da proteggere come per es. quelle delle industrie nascenti o dei beni nazionali quali
istruzione o opere pubbliche ecc…, i quali non essendo prodotti da privati non raggiungono i giusti
livelli di profitto e quindi livelli di produzione socialmente desiderabili (effetti spillover).
All’interno del Pensiero Smithiano assume una particolare importanza il Capitalista che ricercando
guadagni e profitti consente la giusta allocazione delle risorse all’interno dello scenario
economico. Capitalisti non possono essere i lavoratori i quali ricevono un salario che consente loro
di soddisfare solo i bisogni primari e neanche i proprietari terrieri dediti al lusso, ma lo sono gli
industriali capaci di accumulare capitale e consentire la crescita economica della Nazione.
Per Smith dunque ala Ricchezza delle Nazioni da intendere come crescita economica, reddito
prodotto era data dall’accumulazione del capitale (che a sua volta determina divisione del lavoro e
proporzione della popolazione impiegata), la quale conduce anche allo sviluppo economico e
insieme all’interesse personale permette la giusta distribuzione del capitale tra le industrie.
L’obiettivo dell’attività economica era il consumo (secondo i mercantilisti la produzione era fine a
se stessa) mentre il lavoro era considerato come origine della Ricchezza delle Nazioni, dettò ciò,
ponendosi in disaccordo con il Mercantilismo asserì che la Natura della Ricchezza delle Nazioni
non risiedeva nell’accumulazione di metalli preziosi bensì nella produzione annuale di beni e
servizi, e tale ricchezza doveva essere misurata in termini Procapite. A tal fine esaminò anche
esportazioni e importazioni in quanto mediante le prime era possibile reperire i mezzi di pagamento
per le seconde.
Le cause della Ricchezza delle Nazioni
Secondo Smith le cause della Ricchezza delle Nazioni sono: la Produttività del Lavoro ed il
Rapporto tra lavoro produttivo e improduttivo. La Produttività del lavoro discende dalla divisione
del lavoro e per spiegare tale affermazione porta l’esempio del lavoratore che produce spilli pur
rilevando la monotonia insita nello svolgere uguali operazioni. Se un operaio compirà tutte le
attività necessarie alla creazione di uno spillo la produzione sarà bassa, al contrario se le attività
vengono suddivise la produzione aumenterà, verità ne è che la divisione di tale fabbricazione in 18
fasi porterà ogni lavoratore a produrre 480 spilli anziché 20. La divisione del lavoro dipende a sua
volta dalla grandezza del mercato la quale conduce ad un aumento della vendita di beni, nonchè
dall’accumulazione del capitale. Relativamente all’accumulazione Smith sottolinea il tempo
trascorso tra l’inizio della produzione e il momento in cui il prodotto finito viene messo sul
mercato. La divisione dice Smith, può progredire soltanto in proporzione alla preventiva e graduale
accumulazione del capitale poichè quest’ultima consente di sopportare la distanza tra l'inizio della
produzione e la vendita di prodotto finale.
Dall’accumulazione di capitale dipende anche il Rapporto tra lavoro produttivo e improduttivo, il
primo consistente nella produzione di beni che possono essere venduti, il secondo invece, riguarda
la produzione di servizi. Se è vero che la natura della Ricchezza delle Nazioni risiede nella
produzione annuale di beni servizi l’economia deve tendere al lavoro produttivo, e tale Ricchezza
sarà tanto più grande quanto maggiore saranno i lavoratori impiegati nel settore produttivo.
Da quanto detto ricaviamo che sia la Produttività del lavoro, sia il Rapporto tra lavoro produttivo e
improduttivo dipendono dall’Accumulazione del capitale vista come causa determinante ai fini
della Ricchezza delle Nazioni, e la crescita economica sarà tanto maggiore quanto elevata è la
proporzione con cui il prodotto totale viene destinato all’accumulazione del capitale.
Presupposto all’accumulazione di capitale sono il libero mercato e la Proprietà privata, infatti,
attraverso il primo l’investimento economico garantirà la giusta crescita, grazie alla seconda si potrà
avere una differenza reddituale necessaria per l’accumulazione del capitale.
La teoria del valore
La Teoria del valore costituita dai principi che determinano il valore scambiabile dei beni è
connessa all’analisi dei Prezzi relativi sia nel breve che nel lungo periodo, nonché ai settori
economici dell'agricoltura e della manifattura. Nel breve periodo (coincidente con il periodo di
mercato e a cui sono interessati i prezzi di mercato) sia per l’agricoltura che per la manifattura
esistono curve di domanda inclinate verso il basso e curve di offerta inclinate verso l'alto, mentre i
prezzi di mercato sono dati da entrambe le forze. (La curva di domanda è costituita da Prezzo e
quantità, > sarà il 1° < sarà la 2°. L’offerta invece è formata anch’essa da Prezzo e quantità, ma >
sarà il 1° > sarà la 2°- Egli spiega i prezzi relativi dal lato dei costi di produzione, ossia dell‘offerta
ma s‘interessa anche alla domanda) Riguardo ai Prezzi naturali riferiti al lungo periodo, in
agricoltura sono dettati dalla domanda e dall'offerta, dato che la curva di offerta di lungo periodo è
inclinata positivamente ed indica costi crescenti. Nel settore della manifattura, la curva di offerta è,
a volte perfettamente elastica in quanto i costi rimangono costanti, altre inclinata verso il basso in
quanto i costi sono decrescenti, ciò vuol dire, che nel primo caso il prezzo dipende interamente dal
costo di produzione, nel secondo caso è correlato sia alla domanda che dall'offerta.
Varie sono le interpretazioni circa la Tesi Smithiana sui Prezzi naturali per i manufatti. Alcuni
studiosi parlano di semplice incoerenza, altri di disinteresse o di spiegazione dei costi della
manifattura, ciò che importa è dire che Smith riflettè coerentemente sul ruolo della domanda della
formazione dei prezzi naturali e nell'allocazione delle risorse tra i vari settori dell'economia, ed
evidenziò in particolare il ruolo del costo di produzione nel fissare i prezzi relativi.
Smith distinse due concetti, quello di valore di scambio e valore d’uso. Il primo è il potere di un
bene di acquistarne altri, rappresenta il prezzo del bene in questione, e la sua misura dipende dal
mercato; il valore d'uso è invece la peculiarità di un bene di soddisfare i desideri, o in altre parole
rappresenta l'utilità che se ne ricava possedendolo o consumandolo, sebbene il valore d‘uso è anche
rivestito di riflessioni etiche. Circa l’utilità data dal consumo Smith si concentrò sull'utilità totale
piuttosto che su quella marginale e fu proprio questo il suo errore. (L’Utilità totale indica il grado
di soddisfazione che gli individui traggono dal consumo di beni e servizi-l’Utilità marginale invece
indica l’ammontare per cui l’utilità totale cambia quando il consumo varia di una unità) Nonostante
infatti l'utilità totale dell'acqua sia maggiore di quella dei diamanti, accade che l'utilità marginale di
un bene diminuisce all'aumentare del suo consumo (legge dell’utilità marginale decrescente) è
dunque probabile che un'unità addizionale di acqua conferisca meno utilità rispetto a un'unità
addizionale di diamanti. Se ne trae la conclusione, che il prezzo che siamo disposti a pagare per un
bene non dipende dalla sua utilità totale ma da quella marginale. Smith non riconobbe questo
passaggio: questo spiega perché egli non riuscisse né a trovare una soluzione convincente al
paradosso dell'acqua e dei diamanti, né ad individuare la relazione appropriata tra valore d'uso e
valore di scambio.
Le Tre teorie dei prezzi relativi sviluppate da Smith sono:
1. una teoria del valore basata sul costo del lavoro
2. una teoria del valore basata sul lavoro comandato
3. una teoria del valore basata sul costo di produzione
Inoltre immaginò due società economiche, una primitiva in cui non esiste l’accumulazione di
capitale e la terra non è stata occupata ma è comune, e l’altra avanzata.
Nelle Società primitive il valore di scambio (o il prezzo) di un bene è determinato dalla quantità
di lavoro necessaria per produrlo. Ma come va misurata la quantità di lavoro atta a procurarsi un
dato bene oggetto della cd. Teoria del valore-lavoro? Sicuramente non è possibile prendere a
riferimento solo le ore-lavoro ma bisogna considerare l’abilità del lavoratore, il grado di
soddisfazione raggiunto durante la mansione svolta, la difficoltà di questa, eventuali imprevisti,
dunque è necessario misurare l’incidenza di ogni variabile. Smith tentò di spiegare l’importanza
delle variabili riconducendole al salario del lavoratore, pertanto > sarà il salario > saranno abilità o
tipo di lavoro. Tale spiegazione non è però esaustiva perchè il valore di bene uguaglia il salario
pagato, e dunque mediante un insieme di prezzi, i salari, si spiega un altro insieme di prezzi, quelli
relativi.
Per meglio far comprendere la sua teoria valore-lavoro Smith propose un esempio: egli suppone che
un cacciatore impieghi due ore per catturare un castoro e lo stesso tempo per due cervi, dunque in
termini di valore, un castoro uguaglierà due cervi, ossia il suo prezzo sarà il doppio di quello di un
cervo. Detto ciò Smith, chiama Prezzo di equilibrio di lungo periodo il rapporto di scambio per il
quale un cervo può essere scambiato con il castoro. Se la domanda dei castori > tanto che 3Cv =
1Ct, ne deriva che il prezzo del castoro sale e contemporaneamente quello del cervo scende, e tali
prezzi vengono detti di equilibrio di breve periodo. L’aumento del prezzo del castoro conduce la
maggioranza dei cacciatori a dedicare il loro tempo alla caccia del castoro, i cervi infatti diventano
acquistabili sia direttamente attraverso la caccia o indirettamente, anziché cacciare cervi gli uomini
possono dedicare le loro due ore al castoro ottenendo così un unità aggiuntiva (3 Cv).
In tal modo l’offerta di castori > al contrario di quella dei cervi, e conseguentemente il prezzo dei
primi diminuirà e quello dei secondi aumenterà. Ciò significa dice Smith che i prezzi superiori a
1Ct = 2Cv sono prezzi di disequilibrio, e che le forze di mercato provvederanno ad abbassarli fino a
giungere al livello di equilibrio di lungo periodo. Se il prezzo è < a 1Ct = 2Cv l'offerta di castori
calerà e il prezzo dei castori salirà fino a giungere al livello di equilibrio di lungo periodo (o
naturale).
Questo modello smithiano di determinazione del prezzo attraverso una teoria del costo del lavoro in
una società primitiva incontra dei limiti. Lascia perplessi per la visione di lungo periodo, perché i
cacciatori siano agenti razionali, calcolatori, e guidati dall’interesse personale, anziché subire
abitudini e usanze del tempo. Da poi esiste l'ipotesi di concorrenza perfetta, e quella secondo cui sia
il castoro che il cervo possono essere procurati in grandi quantità a un costo medio costante per
unità di prodotto, e dunque le curve di offerta nel lungo periodo sono orizzontali o perfettamente
elastiche, mentre ci si dovrebbe attendere che le ore necessarie per uccidere un castoro crescano con
l'offerta complessiva di castori (< i castori) e la conseguente inclinazione positiva dell‘offerta.
Assumendo costi costanti il ruolo della domanda nella determinazione dei prezzi naturali è
irrilevante, e le sue eventuali variazioni avrebbero come unico effetto una riallocazione dei fattori
della produzione tra le varie industrie. I prezzi dipendono pertanto dal costo di produzione e
dall’offerta, e in questo caso Smith proporrebbe una teoria valore-lavoro, ma se l’offerta fosse
crescente anche i costi sarebbero tali e il prezzo dipenderebbe dalla domanda e dall’offerta
La teoria del lavoro comandato di Smith afferma che "il valore di ogni merce per la persona che
la possiede e che non intende usare o consumare ma scambiare con altre merci, è uguale alla
quantità di lavoro che le consente di acquistare o avere a disposizione". Ciò significa che chi
acquista un bene si risparmia il lavoro per produrlo direttamente. Il valore del bene quindi è il
lavoro risparmiato da chi acquista la merce, ovvero "comandato", attraverso l'atto di scambio, al
produttore della merce medesima. Per rimanere nell'esempio fatto in precedenza, sappiamo che un
castoro comanderà due ore di lavoro e che un cervo comanderà un'ora di lavoro, così che il loro
prezzo relativo sarà di nuovo 1Ct = 2Cv dunque la teoria del costo di lavoro che la teoria del
lavoro comandato danno gli stessi prezzi relativi.
A differenza delle società primitive, in quelle avanzate si ha l’accumulazione del capitale e la terra
è divenuta proprietà privata, pertanto non esistono più beni liberi e nel calcolo del prezzo ultimo
di una cosa bisogna considerare la retribuzione dei capitalisti sotto forma di Profitti nonchè la
retribuzione dei Proprietari terrieri sotto forma di rendita. Supponendo che sia per il cervo che per
il castoro i salari siano i ¾ del prezzo del bene, e le rendite più i profitti 1/3 possiamo verificare che
la teoria del lavoro come costo e la teoria del lavoro comandato non sono più uguali. Per la prima
infatti permane l’eguaglianza 1Ct = 2 Cv ciò perché il costo di un castoro è pari ad un ora di attività
e quello di un Cervo a due, diverso è il risultato della Teoria del lavoro comandato. Se X è la
quantità di lavoro che un castoro può comandare ricaviamo che ¾ X=2 dunque, X=8/3 o X=2+2/3,
ciò vuol dire che un castoro comanderà 2+2/3 di unità di lavoro di cui 2 unità pagate come salari, e
2/3 come profitti e rendite, se ne deduce che il compratore dovrà offrire più unità rispetto a quelle
necessarie a procurarselo, ossia la quantità di lavoro che un castoro può comandare è maggiore
rispetto alla quantità di lavoro necessaria a produrlo. (Per i cervi se ¾ X=1, X=1+1/3).
Se invece consideriamo il Prezzo relativo dei due animali, il rapporto di scambio risultante dalle
due teorie è uguale ossia 1:2=(1+1/3):(2+2/3). Ciò secondo Smith avviene perché le retribuzioni del
lavoro costituiscono la stessa quota proporzionale del prezzo finale sia nella produzione dei cervi
che in quella dei castori. In altri termini, in un sistema economico progredito il lavoro come costo è
minore del lavoro comandato ma se il costo del lavoro incide per la stessa percentuale sul prezzo
finale per tutte le industrie i prezzi relativi sono gli stessi per entrambe le teorie. Ma un'ipotesi del
genere non può ritenersi coerente con le condizioni prevalenti in un'economia progredita in cui la
fertilità di terreni non è uniforme, la rendita sarà una quota del prezzo finale, diversa per i beni
prodotti su terre di diversa qualità, i rapporti capitale-lavoro varieranno a seconda del settore e
infine il profitto tenderà a rappresentare una quota superiore del prezzo finale nelle industrie a
maggior intensità di capitale. In tali condizioni, se il costo del lavoro non costituisce la stessa
quota proporzionale del Prezzo finale le due teorie daranno vita a Prezzi relativi differenti.
Rendendosi conto delle difficoltà Smith abbandonò la teoria basata sulla quantità di lavoro e si
proiettò per una Teoria dei Prezzi relativi basata sul costo di produzione.
Secondo la Teoria dei Prezzi Relativi basata sul costo di Produzione il prezzo di un bene dipende
dai costi di tutti i fattori della produzione, ossia il capitale, la terra ed il lavoro.
Il Costo totale per produrre un castoro è allora uguale a salari, profitti e rendite TC(Ct) =W(Ct) +
P(Ct) + R(Ct) , e ugualmente per il cervo sarà TC(Cv) =W(Cv) + P(Cv) + R(Cv) .
Il prezzo relativo di castoro e cervo può essere così ricavato dal rapporto TC(Ct) = TC(Cv) .
Se vengono presi a riferimento costi medi costanti all’aumentare della produzione, i prezzi relativi
sono uguali sia con i costi totali che con quelli medi. Se vengono presi a riferimento costi medi
variabili il prevalere della concorrenza farebbe sì che l'interesse personale di imprenditori, di
lavoratori e di proprietari terrieri porti a prezzi naturali uguali ai costi di produzione.
Secondo la Teoria della Distribuzione il reddito personale di ciascun soggetto dipende dai prezzi e
dalle quantità di fattori della produzione vendute dai singoli soggetti, ragion per cui il reddito dei
salariati discenderà dal costo orario del suo lavoro e dalle ore lavorate, quello dei proprietari dalla
quantità di terra o capitale e dal loro prezzo. Dato che all’interno di un sistema economico, salari,
profitti e rendite, sono prezzi, i loro valori relativi determineranno la distribuzione dei redditi al
suo interno.
Nell'ottavo capitolo del Libro I, Smith propose ben cinque teorie dei salari: quella della
sussistenza, quella della produttività, della contrattazione, una teoria della rivendicazione
residuale, e una teoria del fondo-salari. Riguardo queste bisogna dire come Smith considerava i
lavoratori svantaggiati ai Capitalisti, primariamente perché i secondi essendo meno numerosi
potevano facilmente accordarsi, da poi la legge stessa era contraria ai salariati perché impediva la
loro associazione in sindacati e consentiva una diminuzione del costo lavoro. Inoltre i datori di
lavoro possono contare su maggiori risorse dunque potevano vivere anche senza la manodopera al
contrario dei lavoratori per i quali il prestare attività era fondamentale per la sussistenza.
Secondo La dottrina del fondo-salari esiste una quota di capitale destinata al pagamento dei salari,
reso necessario per l'intervallo di tempo richiesto dal processo produttivo. Questo fondo-salari è
costituito dal risparmio dei capitalisti accumulato nei periodi pregressi, dunque il Saggio di
salario= Fondo Salari/Dimensione Forza lavoro. Data tale formula, secondo Smith un aumento
del saggio di salario avrebbe comportato un aumento della popolazione e della forza lavoro, e
dunque il salario sarebbe via via diminuito.
Riguardo l'origine della Rendita, Smith propose quattro teorie, tutte in contraddizione tra di loro:
quella sulla domanda di proprietari terrieri; quella sul monopolio; quella dei vantaggi differenziali
e quella della generosità della natura. Anche sull’oggetto della Rendita esiste ambiguità,
inizialmente infatti è vista come una delle determinanti dei prezzi, mentre nei capitoli successivi è
definita come determinata dai prezzi. Riguardo ai proprietari terrieri questi sono sempre criticati e
ciò fa rilevare come Smith avesse compreso a fondo il conflitto sociale tra capitalisti e proprietari.
Secondo Smith il Profitto rappresenta la giusta remunerazione data ai capitalisti che nel corso del
Processo produttivo forniscono ai lavoratori mezzi di sostentamento e i mezzi di produzione.
Assunto che per Smith la crescita economica era direttamente collegata all’accumulazione di
capitale l’economista inglese studiò l’andamento temporale del saggio di profitto il quale a suo
parere sarebbe diminuito per via di tre ragioni: in primo luogo per la concorrenza sul mercato del
lavoro che avrebbe comportato un aumento dei salari e un calo del profitto, per la concorrenza sul
mercato dei beni in quanto l’aumento della produzione avrebbe originato una riduzione dei prezzi
di vendita e dei profitti, e infine per la concorrenza sul mercato degli investimenti.
Nel V capitolo della Ricchezza delle Nazioni Smith analizza gli elementi che dettano il livello
generale dei prezzi e la misurazione dei cambiamenti temporali del benessere sociale.
Circa il benessere questo è facilmente quantificabile in un economia in cui si produce un solo bene,
maggiore infatti è il consumo maggiore è il benessere, quando invece i beni aumentano
bisognerebbe riuscire a misurare il benessere anche in condizioni di diverso consumo tra le merci
prodotte.
Assunto come dato base che il benessere coincide con il prodotto totale della società se la
produzione interessa più beni è necessario quantificare il consumo dei beni interessati. Tale somma
potrebbe essere realizzata convertendo tutti i prodotti in un’unica unità di misura, ad es. la moneta,
questa però varia al variare del livello generale dei prezzi e dunque Smith dopo aver accantonato
l’idea di misurare il benessere con l’oro, l’argento o il lavoro in quanto elementi variabili pensò di
usare la disutilità del lavoro in quanto uguali quantità di lavoro possono essere sempre
considerate come di uguale valore per il lavoratore.
La misurazione del benessere allora avviene quantificando i cambiamenti della produzione totale in
termini del loro valore monetario, tali cambiamenti vengono corretti in base alle variazioni del
livello generale dei prezzi dettate dal prezzo dell’oro o dell’argento in modo che reddito monetario
e prezzi nominali vengono convertiti in reddito reale e prezzi reali. Per ultimo è necessario
quantificare il benessere confrontando il totale della disutilità del lavoro implicata dalla produzione
dei diversi output. Si ha un aumento di benessere quando un sistema riesce a produrre la stessa
quantità di beni con meno quantità di lavoro e dunque maggior tempo a disposizione per il
lavoratore. Nella trattazione del benessere bisogna sottolineare la mancata definizione e
misurazione della quantità di lavoro, e l’assunto secondo cui disporre di una quantità maggiore di
beni è meglio che disporre di una minore quantità.
Capitolo 4
Ricardo e Malthus
Malthus (1766-1834) nel suo saggio sulla popolazione del 1798 partendo da due assunti, il primo
secondo cui il cibo è fondamentale per la vita umana, e il secondo che la passione tra uomo e
donna è fondamentale al pari del cibo e dunque non scemerà mai, affermò che la Popolazione
cresce più velocemente dell’offerta di cibo. La sua teoria poggiò su tre fattori: l’insufficienza di
cibo esistente in Inghilterra alla fine del 1700, l’impoverimento delle classi a basso reddito dovuta
all’urbanizzazione, e venne scritta per confutare le teorie del padre, nonché dell’inglese Godwin e
del francese De Condorcet secondo i quali il carattere umano è condizionato dall’ambiente in cui
l’uomo vive ed in particolare miseria, infelicità umana e vizi dovevano essere attribuiti al governo.
La teoria sulla popolazione prevede che in assenza d’interventi statali vi sia un incremento
geometrico (1,2,4,8,16...) della popolazione e un incremento aritmetico del cibo (1,2,3,4,5...), e da
tale discrepanza scaturiscono povertà e miseria. Malthus però, non contemplò un eventuale sviluppo
tecnologico come veicolo volto all’aumento degli alimenti e si limitò a prevedere dei controlli sullo
sviluppo demografico sia di tipo positivo sia di tipo negativo. I primi erano rappresentati da guerre,
carestie o pandemie che incrementano il normale tasso di mortalità, i secondi prevedevano una
diminuzione del tasso di natalità mediante un rinvio dei matrimoni anche se ciò sarebbe stato causa
di promiscuità sessuale.
Nel 1803 Malthus pubblicò un secondo saggio la cui base fu la statistica, e ai controlli di tipo
negativo fu aggiunto un freno di natura morale in quanto in assenza di un regolare matrimonio
erano esclusi rapporti sessuali. Limiti di Malthus furono quello di non scindere passione sessuale e
desiderio di avere figli, e quello di non valutare attentamente come lo sviluppo tecnologico potesse
aumentare il cibo a disposizione della popolazione. La sua teoria fu però applicata nell’ambito della
dottrina del fondo salari (Smith, Ricardo) secondo cui un aumento del salario avrebbe dapprima
fatto crescere la popolazione, e successivamente tale aumento avrebbe fatto diminuire il salario
sino a giungere il livello originario, dunque ogni disposizione legislativa (Poor laws) volta a
migliorare le condizioni dei poveri era, secondo gli economisti classici, inutile.
D.Ricardo (1772-1823) fu autore de I Principi di economia politica e dell’imposta del 1817. I
problemi economici più importanti del suo tempo erano la continua ascesa del prezzo del grano,
l’incremento delle rendite e la scalata dell’industria ai danni dell’agricoltura, e nell’ambito della
politica economica si continuava a discutere circa il controllo o meno da adottare al commercio
internazionale. In particolare, secondo gli industriali era necessario un libero mercato, mentre per i
proprietari terrieri dovevano essere adottate delle misure necessarie a difendere i prodotti nazionali
dalla concorrenza estera, come ad es. la tariffa sull’importazione del grano verso l’Inghilterra.
A differenza di Smith, fondò la sua speculazione su ragionamenti teorici ossia utilizzò un metodo
astratto e un approccio non contestualizzato al fine di dipanare il problema principale
dell’Economia Politica costituito dalla determinazione delle leggi che regolavano la distribuzione
del reddito tra proprietari terrieri che ricevevano rendite, capitalisti percettori di profitti e
interessi e lavoratori che ricevevano salari.
Secondo Ricardo i proprietari terrieri sono parassiti sociali che ricevono rendite in virtù del
possesso della terra, non accumulano capitale ma spendono soltanto. La curva di offerta della terra è
infatti perfettamente inelastica e il costo opportunità sociale della terra è pari a zero. I lavoratori
invece hanno un ruolo passivo, mentre i capitalisti individuati nei produttori e dirigenti, sono la
classe più importante, in primo luogo perché rendono possibile un efficiente allocazione delle
risorse esistenti nel sistema in quanto investono i capitali nei settori dove possono produrre
maggiori profitti (ossia dove la domanda di un certo bene, in condizioni di concorrenza perfetta,
viene soddisfatta al minor costo sociale possibile), in secondo luogo perché sono la fonte della
crescita economica per via dei loro risparmi e investimenti.
Secondo Ricardo la Dottrina del Fondo Salari è data dalla formula Salario reale=Fondo
salari/Forza lavoro ove il Fondo salari è determinato l’accumulazione del capitale e la Forza
lavoro dalla Teoria di Malthus. Dunque, se nel breve periodo un aumento dell’accumulazione di
capitale comporta un proporzionale incremento del salario reale, e quindi un aumento della forza
lavoro, nel lungo periodo il salario reale tornerà ai livelli minimi per assicurare la sopravvivenza dei
lavoratori.
Ricardo affermò che il Reddito lordo è dato dalle quote di reddito distribuite alle tre classi sociali;
se a questo si detraggono i salari di sussistenza e il deprezzamento dato dalle somme atte a
rimpiazzare i beni esauriti durante la produzione si ottiene il Reddito Netto (Sovrappiù) che può
essere anche definito, nel lungo periodo, come somma tra Rendite e Profitti in quanto i salari sopra
il livello di sussistenza calano al livello minimo. Assunto che i capitalisti sono l’unica classe che
riesce a risparmiare e ad accumulare capitale, per Ricardo, un eventuale diminuzione dei profitti e
aumento delle rendite avrebbe provocato nel lungo periodo un calo della crescita economica.
Il modello teorico proposto da Ricardo si fondò su nove punti: 1) Teoria del costo lavoro 2)
neutralità della moneta su un influenza dei prezzi relativi 3) Coefficienti di produzione fissi per il
lavoro e per il capitale: in quanto il rapporto capitale-lavoro non muta al variare dell’output 4)
Rendimenti costanti nel settore manifatturiero e rendimenti decrescenti in quello agricolo 5) Piena
occupazione 6) Concorrenza perfetta 7) I soggetti economici intesi come individui razionali e
calcolatori 8) la tesi malthusiana sulla popolazione 9) la dottrina del fondo salari.
Il principio dei rendimenti decrescenti, applicato nel campo agricolo, afferma che se un fattore
della produzione è aumentato progressivamente e gli altri fattori rimangono costanti, il tasso
d’incremento del prodotto totale è progressivamente minore.
Nell’ambito della Teoria ricardiana assume fondamentale importanza la distinzione tra Rendita e
Profitto. Assunto che il pagamento effettuato da un imprenditore agricolo al proprietario terriero
viene chiamato Rendita, bisogna considerare dice Ricardo, che la corresponsione della somma
include sia rendita che profitto determinato dai miglioramenti (bonifiche o costruzioni di edifici)
apportati al fondo in oggetto. L’esistenza della Rendita è data dalla Scarsità di terra fertile e dalla
legge dei rendimenti decrescenti, e secondo Ricardo la Rendita doveva essere tale da eguagliare il
saggio di profitto su terre aventi una diversa fertilità.
Supponiamo l’esistenza di tre fondi aventi una diversa fertilità A,B,C a cui sono applicate
rispettivamente tre unità di lavoro e capitale, due unità e una unità così da avere i prodotti marginali
riportati nella tabella appresso.
Il Margine intensivo consente di capire cosa succede quando su di un fondo viene applicata un unita
aggiuntiva di lavoro e capitale: con una unità, nel fondo A si ottengono 100 q di grano, con due 190
q, con tre 270. Ciò significa che (con rendimenti decrescenti applicati immediatamente) il prodotto
marginale della seconda unità di lavoro e capitale è minore di quello della prima unità e così di
seguito, e pertanto al calare del prodotto marginale aumenta la convenienza ad utilizzare terre aventi
una fertilità minore come la B. Il Margine estensivo è invece lo spostamento dalla terra di tipo A a
quella di tipo B, necessaria conseguenza dell’immediata applicazione del principio dei rendimenti
decrescenti (in assenza la sola terra A avrebbe rappresentato l’unica produzione possibile).
La misurazione della rendita delle terre è possibile o valutando il processo concorrenziale o
calcolando le differenze tra prodotto marginale di un unita di lavoro e capitale al margine intensivo
e i prodotti marginali delle unità precedenti. Nel primo caso applicando un unità di lavoro e
capitale a tre fondi che abbiano la stessa fertilità del fondo C otterremo un prodotto pari a 240 q, le
tre unità applicate al fondo A, sviluppano invece un prodotto pari a 270 q, e dunque la rendita della
terra A, crescerà per via della concorrenza tra agricoltori che vorranno assicurarsela, e sarà pari a 30
corrispondente alla Rendita. Applicando un unità a due fondi C avremmo un prodotto di 160 q, ma
le due unità applicate al fondo B forniranno un prodotto pari a 170 q e una rendita di 10. Nel
secondo caso il calcolo viene fatto comparando i tre prodotti marginali del fondo A, e dunque 30.
Se i rendimenti marginali sulla terra A sono inversamente proporzionale alle unità di lavoro e
capitale applicate, ossia diminuiscono al loro aumentare, i costi marginali della produzione di
grano sono direttamente proporzionali e dunque aumentano all‘aumentare delle unità di lavoro e
capitale. Assunto che per costo marginale bisogna intendere l’incremento nel costo totale sostenuto
per produrre un unita addizionale di prodotto finale, in un mercato concorrenziale, un incremento
della produzione di grano in A produce un aumento del costo marginale e un conseguente
spostamento della produzione nel fondo B dove i costi marginali impiegando minori unità di lavoro
e capitale sono uguali (se prezzo di mercato di un unità di lavoro e capitale è 100, il cm per margine
intensivo 100 sarà 100/100=1, per margine intensivo 90, 1,11 e per 80 1,25, quando invece sulla
terra B è tale con due unità di lavoro e capitale, sulla terra C con una). Attraverso l’analisi dei costi
della rendita è possibile misurare la stessa in danaro, per far ciò è però necessario moltiplicare il
prezzo del grano, uguale al costo marginale per produrre l’ultima unità di grano su ogni fondo
(100/80=1,25 $), per la produzione, e dunque fondo A=270*1,25=337,50 $, fondo
B=170*1,25=212,50$, fondo C=80*1,25=100. Se il costo totale dell’unità di lavoro e capitale è pari
a 100, la rendita del fondo A sarà 337,50-300=37,50$, del fondo B 12,50$ e quella del fondo C =0.
In base a tali analisi, si può concludere che la concorrenza tra agricoltori farà si che il prezzo del
grano sarà pari al costo marginale dell’unità di output più costosa, la concorrenza per la terra più
fertile avrà l’effetto di fare conseguire rendite ai proprietari il cui fondo è maggiormente fertile, e
inoltre su tutti i tipi di terra vi sarà un saggio di profitto uniforme.
Secondo Ricardo è il prezzo a determinare la rendita e conseguentemente gli elevati prezzi del
grano non erano determinati dalle rendite alte ma viceversa. Inoltre, le limitazioni alle importazioni
provocate dalle tariffe sul grano, vista la scarsità di terre fertili e il principio dei rendimenti
decrescenti avrebbero provocato una diminuzione dei margini intensivo ed estensivo, così come
sarebbero diminuiti i prodotti marginali per unità di lavoro e capitale, cosicchè i costi marginali
sarebbero cresciuti e quindi doveva prevedersi un aumento del prezzo del grano e delle rendite.
Gli studi di Ricardo nonché James, J.S Mill e George fecero nascere delle convinzioni sulla
necessità di tassare le rendite dei proprietari terrieri le quali venivano viste come un reddito non
guadagnato. In particolare George fondò il single tax movement, movimento della tassazione unica
e propose una tassa che i proprietari non potevano rifiutare. Se infatti la curva d’offerta della terra è
anaelastica, eventuali tasse graverebbero interamente sul proprietario il quale, per ottenere la
rendita, dovrà obbligatoriamente affittare il suo fondo.
A differenza di Malthus, Ricardo era contrario alle leggi sul grano in quanto queste avrebbero
ridotto il profitto, l’accumulazione di capitale e pertanto la crescita economica del paese, e inoltre a
differenza degli economisti che sposarono la Teoria del valore spiegando la determinazione dei
prezzi relativi in un dato tempo, egli studiò le forze che provocano, nel tempo, le variazioni dei
prezzi relativi. Ricardo affermò che il valore di una merce dipende dalla quantità relativa di
lavoro necessaria a produrla e non dal compenso dato all’operaio, e inoltre affermò che il valore
d'uso era essenziale per l'esistenza del valore di scambio, anche se non per la sua misura. Ossia,
un bene ha un prezzo sul mercato perché la cosa viene domandata dai consumatori, anche se la
domanda stessa non costituisce la misura del prezzo. Il prezzo dei beni che danno qualche utilità
deriva piuttosto da due fonti: la loro scarsità e la quantità di lavoro necessaria a produrli.
Secondo Ricardo, esistono beni riproducibili e beni non riproducibili a piacere, la cui curva
d’offerta è inelastica (verticale) e sono caratterizzati dalla scarsità, tipo quadri o monete, il cui
valore sarà slegato dalla quantità di lavoro necessaria a produrli e saranno domandati in funzione
alla ricchezza e al gusto di coloro i quali li vogliono possedere. Esclusi quest’ultimi, concentrò la
sua attenzione sui primi, prodotti nei mercati contraddistinti da concorrenza perfetta, e contemplò
soltanto una teoria del valore fondata sul costo del lavoro (dunque escluse quella del lavoro
comandato e quella del costo di produzione).
Ricardo propose le rispettive soluzioni a cinque problemi fondamentali per elaborare una teoria
del valore-lavoro ossia 1)misurare la quantità di lavoro 2) considerare le diverse abilità dei
lavoratori 3) spiegare come i beni capitali influenzano i prezzi 4) come includere la terra tra i
fattori determinanti del prezzo 5) come includere i profitti tra i fattori determinanti del prezzo.
1) La quantità di lavoro può essere misurata conteggiando il tempo, le ore necessarie a produrre
un bene. Smith invece sottolineava l’importanza dell’abilità del lavoratore e l’impegno richiesto
dalle varie professioni, le quali determinavano i diversi salari esistenti tra lavoratori.
2) Analizzare le diverse abilità dei lavoratori significa ammettere che un ora di lavoro può produrre
una produzione differente in capo al lavoratore A, e al lavoratore B. E infatti, se in un'ora di lavoro,
a parità di condizioni, un individuo caccia due cervi e l'altro se le procura uno solo, come possiamo
stabilire qual’è la quantità di lavoro necessaria a cacciare un cervo? A tal fine, secondo Ricardo
devono essere utilizzati i salari quale misura della loro produttività relativa, e infatti il salario pagato
al lavoratore che ha ottenuto due cervi sarà il doppio di quello pagato all‘altro cacciatore. In
apparenza sembrerebbe che Ricardo segua Smith e il suo ragionamento circolare, dato che i salari
relativi, corrispondenti ai prezzi, vengono impiegati per spiegare i prezzi relativi. In verità però,
sviluppa una teoria in grado di spiegare le variazioni nel tempo dei prezzi relativi, e infatti se i
salari di lavoratori con abilità diverse mantengono una divergenza costante nel tempo, le
variazioni nei prezzi dei prodotti finali non saranno provocate dalla remunerazione del lavoro ma
dovranno essere attribuite ad altri fattori.
3) Assunto che i beni sono prodotti mediante l’utilizzo di lavoro e capitale, secondo Ricardo, il
capitale è lavoro accumulato, ossia lavoro utilizzato in un periodo pregresso. Se ne deduce che la
quantità di lavoro di un bene corrisponde al tempo necessario a produrlo più la quantità di lavoro
immanente nel bene capitale usato nella produzione, il quale nel corso del processo produttivo si
deprezza. Bisogna però dire che nel bene capitale devono essere inclusi: la remunerazione del
lavoro diretto, la remunerazione del lavoro indiretto usato nella produzione del bene capitale nonché
l’interesse sulla somma pagata al lavoro indiretto calcolato dal momento del pagamento sino alla
vendita del prodotto finale, ma ciò farebbe venir meno una teoria del valore-lavoro.
4)Circa la considerazione della terra come determinante del prezzo supposto che due lavoratori
aventi uguali capacità coltivino due fondi con diverse fertilità, e dunque ottengano una produzione
diversa, Ricardo misura la quantità di lavoro necessaria a produrre un quintale di grano sfruttando la
teoria della rendita. Se il prezzo del grano è pari al costo marginale per produrre l’ultima unità di
grano nel modo meno efficiente, dunque in prossimità della rendita nulla, e assunto che la rendita è
data dal prezzo; le rendite diverse dovute a diverse fertilità della terra non incidono sul mutamento
temporale dei prezzi relativi.
5) I profitti non sono una percentuale costante del prezzo finale dei beni, e ciò perché il capitale è
diverso a seconda del settore di produzione, e inoltre perché in base all’industria varia il tasso di
sostituzione del capitale. Detto ciò Ricardo ritiene che l’influenza del profitto è trascurabile, in
quanto le variazioni dei prezzi relativi nel tempo dipendono dai cambiamenti nelle quantità relative
di lavoro incorporato nei beni.
Durante i suoi vari scritti Ricardo ammise che le variazioni della quantità di lavoro necessaria a
produrre un bene non sono l’unica causa di variazione dei prezzi relativi, esistono infatti altri
fattori come le variazioni del saggio di profitto o del saggio di salario, queste però venivano
considerate solo teoricamente in quanto dal punto di vista quantitativo erano ininfluenti. Per via di
tali presupposti, a metà secolo scorso G.Stigler ha ribattezzato la teoria del valore lavoro di Ricardo
come una teoria del 93%.
La retta AM rappresenta i prodotti marginali in termini fisici. Supposto che una certa quantità di
lavoro e capitale venga applicata alla terra disponibile, il segmento BC rappresenta il prodotto
marginale dell’ultima unità applicata di capitale e lavoro, mentre l’area ABCO dà il prodotto
totale dell’agricoltura. Com’è possibile determinare la distribuzione del prodotto totale tra salari,
profitti e rendite? Per far ciò Ricardo introdusse la cd.teoria residuale. Assunto che la rendita al
margine è 0, tutto il prodotto sopra BD costituisce la rendita (ADB). La retta EN da il livello di
sussistenza dei salari (secondo Malthus), mentre FC rappresenta il saggio di salario e i salari totali
sono dati dall’area EFCO. Sottraendo al saggio di salario il prodotto marginale BC-FC otteniamo
BF, mentre l’area DBFE sarà il profitto totale. In tal modo Ricardo ha suddiviso il prodotto totale.
Il passaggio cruciale è quello per cui il livello di profitti dipende dal prodotto marginale dell'ultima
dose di capitale e lavoro e dal livello di sussistenza del salario reale.
Ricardo studiò anche le variazioni delle quote di reddito nazionale ricevute da capitalisti,
proprietari terrieri e lavoratori e sebbene giunse all’uguale conclusione di Smith, secondo cui il
saggio di profitto sarebbe diminuito con il passare del tempo, non abbracciò le cause proposte dallo
stesso ossia la concorrenza sul mercato del lavoro, degli investimenti e dei beni. Nel confutare i
ragionamenti di Smith, Ricardo ipotizza un sistema economico "giovane" e ne segue analiticamente
il processo di sviluppo. Inizialmente il sistema è contraddistinto da un elevato saggio di profitto e,
poiché questo ne è la fonte, si ha anche un elevato saggio di accumulazione del capitale.
L'accumulazione del capitale, consente di mantenere alti i saggi di salario reale, e prendendo in
considerazione la teoria malthusiana, a seguito di tale incremento la popolazione aumenta. Tale
processo comporta anche un aumento della domanda di prodotti alimentari dal settore agricolo,
dove i margini intensivo ed estensivo si abbassano con lo sfruttamento superiore delle terre già
coltivate e la messa a coltura di terre sempre meno fertili. Se i margini si abbassano, le rendite
aumentano e i profitti diminuiscono. Pertanto l'accumulazione di capitale via via diminuisce, sino a
divenire zero quando il profitto è nullo: in tal caso l’assenza di profitti e di accumulazioni non
produce crescita economica, la popolazione è stabile, i salari sono a livello di sussistenza e le
rendite sono al massimo. Quando il saggio di profitto si riduce, i capitali probabilmente verranno
indirizzati verso il manifatturiero e nel lungo periodo l’equilibrio è caratterizzato dallo stesso
saggio di profitto in tutti i settori dell’economia, ossia il calo dei profitti in un settore provocherà un
conseguente calo nell’altro. Tale stato stazionario classico è dato dalla fine della spinta propulsiva
dell’accumulazione di capitale. Sfruttando il grafico seguente, quando, durante la crescita
economica, l'accumulazione del capitale e la popolazione aumentano, alla terra verranno applicate
sempre più unità di capitale e lavoro. Se il margine si estende in modo che OI rappresenta l'ultima
dose di capitale e lavoro, il nuovo e più elevato livello della rendita è dato dall'area GAH, i profitti
si sono ridotti all'area EGHJ e l'ammontare dei salari corrisponde all'area OEJI. Utilizzando la terra
in modo più intensivo il livello della rendita aumenta fino a che il prodotto totale si ripartisce tra
salari e rendite, ed i profitti sono nulli. Questo è lo stato stazionario: OP sono le dosi di capitale e
lavoro impiegate, EAQ è la rendita, OEQP i salari.
Sulla base di tali considerazioni possiamo dire che le leggi sul grano avrebbero accelerato questo
processo poiché la conseguenza diretta sarebbe stata un'espansione della produzione nazionale,
avrebbero quindi avuto l'effetto di premere sui margini intensivo ed estensivo, tale da rendere i
profitti più bassi e far aumentare le rendite. Pertanto le leggi sul grano avrebbero rallentato la
crescita economica non supportata dai profitti e affrettato l'inverarsi dello stato stazionario.
Ricardo elaborò anche la dottrina del vantaggio comparato applicata all’analisi del commercio
internazionale. Supposte due nazioni A e B, se entrambe riescono a produrre un diverso bene ad un
costo inferiore rispetto all’altra, tali nazioni potrebbero ottenere un guadagno se si specializzassero
nella produzione del bene e successivamente lo commercializzassero, o parimenti secondo la
terminologia della teoria del commercio internazionale ogni nazione che vanta un vantaggio
assoluto nella produzione di un bene, può trarre guadagno in virtù della specializzazione nella
produzione del bene che produce ad un costo minore.
Prodotto per unità di lavoro
Nazione
Vino (litri)
Stoffa (metri)
Inghilterra
4
2
Portogallo
8
1
Questa tabella illustra la teoria del vantaggio assoluto, l’Inghilterra infatti ha un vantaggio assoluto
nella produzione di stoffa, il Portogallo in quella del vino, o altrimenti il costo di produrre stoffa in
Inghilterra è minore in Inghilterra che in Portogallo e viceversa, quello della produzione di Vino è
minore in Portogallo che in Inghilterra. Si ha convenienza nel commercio internazionale, se la
produzione dei due beni può essere aumentata mediante la specializzazione e se vengono raggiunti
prezzi internazionali in grado di far guadagnare entrambe le nazioni. Riguardo la prima ipotesi, se
gli inglesi trasferiscono un unità di lavoro dal vino alla stoffa, e il Portogallo viceversa, accade che
la quantità di lavoro rimane immutata ma la produzione complessiva aumenta. In Inghilterra infatti,
la produzione di vino diminuisce di 4 l, e quella di stoffa aumenta di due metri, in Portogallo la
produzione di vino aumenta di 8 l, e quella di stoffa diminuisce di un metro. (la Produzione di vino
sarà infatti 16 in Portogallo, quella di Stoffa 4 in Inghilterra). Circa i prezzi, se in Inghilterra 1 m di
stoffa viene scambiato con due l di vino, il prezzo della stoffa sarà il doppio di quello del vino,
dunque gli inglesi scambieranno stoffa per vino solo se riceveranno più di due l di vino per ogni
metro di stoffa, viceversa in Portogallo verrà scambiata stoffa per vino solo se un metro di stoffa
costerà meno di 8 l.
Prodotto per unità di lavoro
Nazione
Vino (litri)
Stoffa (metri)
Inghilterra
12
6
Portogallo
8
1
In questo caso, l'Inghilterra ha un vantaggio assoluto per entrambi i beni, e, pertanto i suoi costi di
produzione misurati in tempo di lavoro sono minori sia per il vino che per la stoffa. Il principio del
vantaggio comparato mostra però che anche con i dati di questa tabella il commercio internazionale
sarà la soluzione più vantaggiosa per entrambe le nazioni, e ciò perché l’Inghilterra ha un vantaggio
comparato nella produzione di stoffa e il Portogallo in quella di vino. Il vantaggio comparato degli
inglesi nella produzione di stoffa è dato dal fatto che mentre in Inghilterra una unità addizionale di
stoffa implica la perdita di due unità di vino (12/6=2), in Portogallo i litri di vino cui bisogna
rinunciare sono 8; il vantaggio comparato dei portoghesi invece risiede nella produzione di vino ed
è dato dal fatto che per avere un litro di vino in più in Portogallo si rinuncia a solo 1/8 di metro di
stoffa, mentre in Inghilterra occorre 1/2 metro.
Dunque, nonostante l’Inghilterra ha un vantaggio assoluto su entrambi i beni, alla Nazione, lo
scambio internazionale converrà sino a quando il Portogallo avrà un vantaggio comparato in una
delle due produzioni. Confrontando i costi opportunità della stoffa nei due paesi, partendo
dall’ipotesi Ricardiana della piena occupazione, volendo produrre un bene in quantità maggiore, il
costo da sostenere può essere misurato in termini della quantità di beni cui dobbiamo rinunciare per
poter spostare risorse verso l'industria in espansione.
Nazione
Vino (litri)
Stoffa (metri)
Inghilterra
½ metro di stoffa
2 l di vino
Portogallo
1/8 metro di stoffa
8 l di vino
Pertanto, in Inghilterra il costo opportunità della stoffa (2 litri di vino) è minore di quello
portoghese (8 litri di vino), mentre il costo opportunità di vino è minore in Portogallo (1/8 metro di
stoffa) che in Inghilterra (1/2 metro di stoffa).
Ne consegue che, se l'Inghilterra produce stoffa e la scambia con il vino prodotto dal Portogallo la
produzione totale di entrambi i beni aumenterà, ed entrambi i paesi possono trarne un guadagno.
Se la produzione è tale da non permettere nessun vantaggio comparato le Nazioni non avranno
interesse al commercio internazionale.
Attraverso il principio del vantaggio comparato venne dimostrato come fosse sbagliato l’intervento
pubblico nel commercio internazionale, nonché l’errata convinzione dei mercantilisti e scolastici
circa la possibilità che il commercio è solo fonte di guadagno per un contraente. Il vantaggio
comparato infatti fa comprendere che la specializzazione produce ad un aumento della produzione e
ad un vantaggio per entrambi i contraenti. Se dunque il principio smithiano del vantaggio assoluto
aveva fatto vacillare la posizione protezionistica dei mercantilisti, il vantaggio comparato di
Ricardo la fece definitivamente crollare.
Malthus e Ricardo disputarono sulla capacità di un sistema capitalistico di mantenere il pieno
impiego delle proprie risorse e in tale diatriba risultò determinante la cd.Legge di Say dal nome
dell’economista francese J.B Say che la elaborò, e secondo cui un sistema capitalistico garantisce
automaticamente la piena occupazione delle sue risorse e alti tassi di crescita economica.
In tale ipotesi, se la domanda aggregata per il prodotto finito scende al di sotto dell’offerta
provocando sottoccupazione o depressione, cosa accade?
Lord Lauderdale e Sismondi affrontarono tale problema all’inizio del 1800 mettendo in
discussione la legge di Say, e dunque la possibilità che un sistema economico garantisca in modo
automatico la piena utilizzazione delle risorse. Nel 1820 Malthus riprese le loro argomentazioni
scontrandosi con Ricardo. Specificamente, Malthus incentrò la sua attenzione sulla domanda
effettiva e affermò che il processo di risparmio e investimento non può proseguire indefinitamente
senza condurre nel lungo periodo alla stagnazione. Secondo Malthus esiste un tasso appropriato di
accumulazione di capitale che l'economia riesce ad assorbire, e un livello troppo elevato di risparmi
e investimenti creano dei problemi in quanto, il risparmio conduce ad una diminuzione della
domanda de beni di consumo, e l’investimento produce una maggiore produzione di beni. Per poter
essere vera la legge di Say dice Malthus, il livello di produzione e del consumo devono crescere
costantemente, e poichè la domanda effettiva dei lavoratori e capitalisti è inadeguata a tal fine,
occorrerebbe che coloro i quali lavorano nella fornitura di servizi (insegnanti, funzionari) e
proprietari terrieri sostengano i consumi.
I sostenitori della legge di Say, tra cui Mill e Ricardo, pensavano che il processo di produzione dei
beni è sufficiente a generare un potere d'acquisto tale da poterli acquistare a prezzi soddisfacenti,
in quanto il fenomeno della sovrapproduzione è possibile solo per mercati particolari ma non a
livello globale. Le diminuzioni della produzione interessavano infatti solo il breve periodo, e atteso
che il mercato avrebbe autonomamente ripristinato il pieno impiego delle risorse, nel lungo periodo
non vi sarebbe stata un'accumulazione di capitale in eccesso. Il valore del prodotto annuale è quindi
distribuito a titolo di potere d'acquisto tra i vari soggetti economici e non esiste il problema di
accertare se tale potere sia sufficiente a far acquistare i beni prodotti. Una domanda che possiamo
porci è, esiste garanzia circa l’utilizzo di un eventuale potere di acquisto sufficiente a riacquistare i
beni? Secondo la legge di Say l'offerta crea la propria domanda, ma tale domanda che è potenziale
viene espressa sul mercato come domanda effettiva? Ricardo, Mill e Say risposero in tal senso, che
tutto il potere d'acquisto potenziale sarebbe ritornato al mercato come domanda o per beni di
consumo, o per beni di investimento, escludendo ogni ipotesi di tesoreggiamento ossia
conservazione e non utilizzo dell’oro.
Ricardo si dimostrò favorevole alla legge di Say intorno ai primi del 1800, quando i vari economisti
del tempo cominciarono a discutere sulle origini dell’inflazione che contraddistinse il tempo delle
guerre napoleoniche. Tali discussioni diedero vita alla cd. controversia bullionista ove bullions
significa metalli preziosi detenuti come riserva monetaria, e che vide schierati da una parte i
bullionisti tra cui Ricardo i quali collegavano il fenomeno dell’Inflazione all’espansione monetaria,
e dall’altra gli anti bullionisti secondo cui le ragioni dell’Inflazione erano diversi e tra questi
andavano inclusi anche i fattori reali (come ad es. i cattivi raccolti). Secondo gli anti bullionisti se
l’emissione di moneta fosse stata legata a operazioni finanziarie e commerciali di breve periodo
allora non avrebbe mai potuto essere in eccesso, dunque una crescita della moneta proporzionale ai
bisogni del commercio reale non poteva causare fenomeni inflattivi. Tale dottrina era denominata
delle cambiali reali Real Bills Doctrine e uno dei suoi sostenitori fu Torrens. Un importante
esponente bullionista fu Thornton il quale nonostante interessanti osservazioni come il
collegamento tra moneta e prezzi, nonché l’influenza della moneta sui prezzi determinata dai tassi
d’interesse e dalla concessione dei prestiti in mano alle banche, fu oscurato da Ricardo che
affermava la teoria quantitativa della moneta per la quale le variabili monetarie sono un velo
dietro cui si nascondono l‘economia reale.
In riferimento all’impiego delle macchine nel processo produttivo Ricardo, sino al 1819 affermò
che queste avrebbero aumentato il livello del salario reale e parimenti la domanda di lavoro non
sarebbe diminuita, dunque l‘occupazione non avrebbe patito alcunché. Nella terza ed ultima
edizione dei Principi di Economia Politica, egli specificò che quando il macchinario veniva
acquistato destinando a capitale fisso quello che prima era capitale circolante, allora il fondo-salari
si riduce e genera disoccupazione. Se invece la macchina viene finanziata con il risparmio, piuttosto
che con il capitale circolante, allora la disoccupazione non si verifica.
Keynes riprendendo le discussioni tra Malthus e Ricardo si schierò apertamente a favore del primo,
ed in particolare analizzò: le diverse vedute sulla legge di Say, la metodologia appropriata per la
scienza economica e infine come la vittoria di Ricardo su Malthus aveva cambiato lo sviluppo
dell’economia politica come disciplina. Keynes si dichiarò favorevole alla metodologia induttiva di
Malthus e contraria a quella astratta di Ricardo, e inoltre affermò che il dominio dell’economista
inglese aveva causato un disastro economico in quanto senza le sue nozioni sarebbe stato più
semplice determinare le forze che determinano il livello di reddito e occupazione.
Capitolo 5
John Stuart Mill e il declino dell’economia politica classica
Nassau Senior e J.S Mill elaborarono una metodologia cd. neoricardiana che guardava ad un
economica basata su semplici ipotesi teoriche e all’economista come colui che doveva correggere la
logica interna del sistema teorico affinchè le conclusioni originassero dalle ipotesi iniziali. Senior
definì l’economia come la scienza che tratta della natura della produzione e della distribuzione
delle ricchezze, e le cui fondamenta scientifiche devono essere ricondotte a quattro principi: quello
del principio di razionalità, in quanto gli esseri umani sono razionali calcolatori e cercano sempre
di procurarsi la maggiore ricchezza con il minore sacrificio possibile; quello della dottrina
malthusiana della popolazione; il principio dei rendimenti decrescenti in agricoltura; e il
principio dei rendimenti crescenti nell'industria. A parere di Senior l’economia doveva essere una
scienza positiva e l’economista doveva distinguere tra giudizi normativi e analisi economica di tipo
descrittivo, verità ne è che distinse le leggi universali che regolano la natura e la produzione della
ricchezza dai principi che governano la distribuzione del reddito, i quali sono invece casuali.
L'economista, continua, dovrebbe occuparsi di ciò che "è" e non di ciò che "dovrebbe essere" e le
conclusioni a cui giunge, qualunque esse siano, non lo autorizzano minimamente ad aggiungere un
commento.
Circa la dottrina Malthusiana Nassau Senior riflette l’incertezza dottrinale nel 1836 la definì come
una dottrina fondamentale per l’economia, ma anni prima disse che era l’offerta di cibo a crescere
più della popolazione e non viceversa. L’incertezza se accettare o meno la teoria di Malthus
derivava dal fatto che questa appariva come decisiva per la teoria della distribuzione del reddito
proposta da Ricardo.
Nell'esempio della teoria della distribuzione del reddito, il livello di sussistenza dei salari (EN) è
ricavato dalla teoria malthusiana della popolazione e in base a questo è possibile scindere salari e
profitti, ma se il livello di sussistenza dei salari non può più essere determinato con precisione, la
curva EN può assumere varie posizioni, e il calcolo dei profitti e salari in un dato tempo, così come
quello delle variazioni della distribuzione del reddito nel corso del tempo, resta indeterminato.
Se in base alla teoria malthusiana quando il salario si trova al suo livello di sussistenza, un aumento
della popolazione e dunque dei salari reali dell'anno corrente non ha ripercussioni sul livello futuro
almeno per quattordici anni (quindici anni rappresenta un lungo periodo), la dottrina del fondo
salari verte sul breve periodo e prevede che un aumento del salario avrebbe dapprima fatto crescere
la popolazione e la forza lavoro, e successivamente tale aumento avrebbe fatto diminuire il salario
sino a giungere il livello originario, dunque ogni disposizione legislativa (Poor laws) volta a
migliorare le condizioni dei poveri era, secondo gli economisti classici, inutile. Secondo La dottrina
del fondo-salari infatti esiste una quota di capitale destinata al pagamento dei salari, reso necessario
per l'intervallo di tempo richiesto dal processo produttivo. Questo fondo-salari è costituito dal
risparmio dei capitalisti accumulato nei periodi pregressi, e dunque il Saggio di salario=Fondo
Salari/Dimensione Forza lavoro.
Il cuore del principio dei rendimenti decrescenti è l’applicazione di quantità successive di lavoro e
capitale ad una quantità fissa di terra e la conseguente riduzione del prodotto marginale. Un
eventuale sviluppo tecnologico poteva nella teoria correggere totalmente o parzialmente i
rendimenti decrescenti di breve periodo, o ancora ribaltarli, in modo tale da ottenere nel lungo
periodo rendimenti costanti, decrescenti o crescenti. Ma Ricardo, sulla base di dati empirici rifiutò
l’ipotesi del bilanciamento e dunque ipotizzò che storicamente si sarebbe assistito a rendimenti
decrescenti in agricoltura. L'economia britannica del tempo indicò però che le previsioni del
modello ricardiano erano errate, la popolazione infatti cresceva maggiormente rispetto ai lavoratori
occupati in agricoltura, ma ambiguamente gli economisti ricardiani, curiosamente, da un lato
ammettevano l'evidenza storica e dall'altro continuavano ad attenersi fedelmente al modello
tradizionale.
Ricardo ipotizzò anche, in un lungo periodo, una diminuzione progressiva del saggio di profitto e
ciò perché un aumento del costo dei prodotti agricoli genera all’aumentare della rendita sulla terra
inframarginale un calo dei profitti sulla terra marginale (in base alla teoria dei rendimenti
storicamente decrescenti). Tale tesi poteva però essere misurata solo con dati empirici e nonostante
gli economisti ricardiani non avessero riscontro empirico dei rendimenti storicamente decrescenti,
nonchè del calare del saggio di profitto sino al suo annullamento coincidente con lo stato
stazionario, i succitati economisti insistevano nell’attenersi a tali previsioni.
Riguardo alla teoria del valore Ricardo giunse alla conclusione che i delta del saggio di profitto non
incidevano sulle variazioni temporali dei prezzi relativi. Infatti, sebbene i prezzi relativi
dipendessero sia dal costo del lavoro che dal costo del capitale (il secondo essendo rappresentato
dai profitti), i profitti avevano ben poca rilevanza nella loro determinazione. Gli economisti
successivi a Ricardo tentarono di includere nella teoria del valore non solo il costo del lavoro ma
anche i costi imputabili al fattore capitale. A tali argomentazioni si affiancarono quelle dei
socialisti ricardiani, i quali affermavano che nonostante il lavoro producesse l'intero prodotto non
veniva remunerato adeguatamente e la parte eccedente andava ad ingrassare i capitalisti.
All’interno di tali disquisizioni Nassau Senior maturò una teoria dell'interesse basata
sull'astinenza. Fondamento della teoria di Senior furono riguardo la domanda dei beni,
l’importanza attribuita all'utilità, riguardo l'offerta, il ruolo della disutilità vista come un costo
reale della produzione. Assunto che gli esseri umani sono razionali e calcolatori, a parere di Senior,
i salari rappresentavano il corrispettivo premio al lavoro svolto dagli operai. La produzione di beni
capitali inoltre, implica l’astensione dal consumo da parte di alcuni soggetti, i quali secondo Senior
non erano i capitalisti a meno che non questi non siano compensati per il loro sacrificio. Dati il
lavoro e capitale come due fattori necessari alla produzione dei beni finali, il prezzo dei beni dice
Senior, dovrebbe essere tanto elevato da poter remunerare entrambi i costi reali sostenuti per la
produzione, dunque la sua teoria del valore poggiò sul costo di produzione, e in particolare il
salario rappresentava il rimborso ai lavoratori e il profitto quello dato ai capitalisti.
J.S Mill (1806-1873) nel 1848 pubblicò i Principi di Economia Politica con il quale intendeva
preservare quanto di buono era stato scritto da Ricardo ma al contempo revisionare l’economica
classica. Mill infatti, s’inserì in una tendenza che vide nel corso della prima metà del ‘800 i cd.
socialisti pre marxiani confutare alcuni pilastri dell‘economia politica classica, come ad es. la
dottrina malthusiana della popolazione o quella dei rendimenti decrescenti in agricoltura.
A parere di Mill l’economia è una scienza ipotetica che poggia sul metodo a priori, e l’economista
è colui partendo da alcune assunzioni principali giunge a delle conclusioni. Mill accettò le teorie
ricardiane ma allo stesso tempo le criticò, fu influenzato da Comte e sposò il metodo deduttivo
senza per questo tralasciare i fatti reali in base ai quali possono emergere i cd. fattori di disturbo in
presenza dei quali bisogna reimpostare un nuovo ragionamento ed elaborare nuove conclusioni o
considerare forze di natura non economica precedentemente tralasciate.
Secondo Mill le leggi della produzione erano leggi di natura e non possono mutare per mano del
singolo o del governo, le leggi della distribuzione sono invece frutto della società e istituzioni.
Mediante le riforme sociali era possibile mutare la distribuzione personale del reddito.
In base alla distinzione tra leggi della produzione e leggi della distribuzione Mill oppose allo stato
stazionario di Ricardo una visione diversa secondo la quale la distribuzione del reddito sarebbe
stata più giusta ed egualitaria, e dunque i salari non sarebbero rimasti al loro livello di sussistenza.
Mill fu favorevole all’applicazione di tasse elevate sull’eredità, alla formazione di cooperative di
lavoratori con le quali gli stessi avrebbero potuto ottenere profitti ed interessi attivi, e a suo parere i
rendimenti decrescenti in agricoltura potevano essere attutiti grazie ad un aumento della
scolarizzazione e ad un decremento della crescita della popolazione ottenibile mediante il controllo
delle nascite e dei matrimoni, si schierò invece contro i tributi progressivi.
Secondo alcuni studiosi Bentham non ebbe una forte influenza su Mill, secondo altri sì, fatto sta che
l’utilitarismo di J.Bentham ebbe nell’Inghilterra dei primi ’800 un ruolo determinante, proponendo
il controllo sulle nascite e dopo i suoi seguaci suggerirono riforme elettorali, carcerarie, di
associazione e di pensiero. Secondo Bentham la natura ha sottomesso l’uomo a due padroni, il
dolore e il piacere. L’uomo è quindi alla ricerca continua del piacere e vuole fuggire il dolore. In
quest’ottica la politica deve agire consentendo un libero mercato incentivandolo e rimuovendo
eventuali ostacoli al commercio. Nonostante l’ascendente che Bentham ebbe su James Mill, il figlio,
in primo luogo non accettò il dogmatismo radicale ed in particolar modo un analisi del
comportamento umano dettata da dolore e piacere, in secondo luogo contestò la reticenza utilitarista
verso le idee innovative.
La Filosofia sociale di Mill riguardo le politiche pubbliche da adottare può essere collocata tra il
liberismo classico che contraddistinse il periodo della sua formazione e le riforme sociali visto
l’interesse mostrato verso i socialisti filosofi che presupponevano una società buona.
Elaborando la dottrina Utilitarista Mill arrivò ad una visione articolata di una saggia collettività, ove
gli ostacoli per il conseguimento della felicità e della libertà umana sono posti ai minimi termini
subordinatamente però, all’aiuto del governo, il quale come scrive nei Principi di Economia politica
tutelerà l’infanzia, promuoverà assistenza e assicurerà l’istruzione. Favorevole al laissez faire
liberale, Mill considerava armonioso il funzionamento dei mercati ma si preoccupò anche del ruolo
dei proprietari terrieri inattivi e causa perenne di conflitto sociale. Ciò nonostante non fu plagiato
dai socialisti e infatti riguardo al diritto di proprietà questo, poteva essere abrogato o modificato se
contrario al bene comune, la concorrenza invece, venne definita benigna e la conseguenza del
monopolio all'interno dei mercati è un'allocazione inefficiente delle risorse.
Nel rispetto del dettato di Ricardo, Mill sostenne i saggi di profitto decrescenti nel tempo e il
raggiungimento dello stato stazionario il quale però, a differenza di quello prospettato dal
predecessore era uno stato stazionario non deprimente e triste. Mill contestò la concorrenza tra
uomini e propose la felicità individuale e il benessere collettivo, uno stato stazionario alternativo
caratterizzato da una migliore distribuzione del reddito in cui gli uomini potevano dedicarsi sia al
benessere economico che non economico, immagina dunque una società buona migliorabile grazie
ad un aumento del reddito procapite e una diminuzione della popolazione.
Riguardo i diritti delle donne Mill intendeva la discriminazione femminile come un impedimento
originario perché dettato dalla nascita, e specialmente in Inghilterra ove i politici si vantavano del
raggiungimento dell’uguaglianza sociale tale differenza doveva essere eliminata.
La teoria economica di Mill è fondata sul presupposto che non possono essere considerati solo i
risultati teorici ma devono essere considerati altri fattori quali ad es.le consuetudini che possono
alterare le ipotesi dottrinali. Il filosofo inglese dunque sotto quest’aspetto fu molto vicino
all’analisi contestualizzata di Smith, con la quale studiò persino il comunismo e il capitalismo,
affermando che avrebbe preferito un comunismo ideale ma assunto che il riscontro con la realtà era
diverso, optava per il capitalismo.
Anche riguardo la teoria del valore (o dei prezzi relativi) si allontanò da Ricardo e propose un
modello teso a spiegare i prezzi relativi e impostato sul costo di produzione in cui i costi monetari
possono essere paragonati ai costi reali dunque alla disutilità del lavoro o dell’astinenza (elementi
di vicinanza a Senior). Circa la rendita invece ritiene non veritiera la proposizione Ricardiana
riguardo un costo opportunità della terra uguale a 0, la qualificazione della rendita come costo
sociale di produzione quando esistono usi alternativi della terra.
Una cosa può avere un valore di scambio, o un prezzo, deve essere in primo luogo utile e da poi di
difficile reperibilità, anche se il valore d’uso detta il valore di scambio solamente in certi casi.
Assunto che l’utilità di un bene ossia la domanda e la difficoltà di ottenerlo e l’offerta devono
essere preesistenti alla determinazione del prezzo, Mill ipotizza di stabilire il prezzo di una
tabacchiera musicale, considerando la produzione di tabacchiere a costi costanti e la produzione di
una sola tabacchiera. Con un offerta limitata in modo assoluto, la curva di offerta sarebbe verticale
(inelastica) e il prezzo viene dettato dalla domanda e dall’offerta (Fig.1). Ciò avviene per i beni
poco importanti come vini o libri rari. Si ha invece una curva di offerta orizzontale (perfettamente
elastica) per i beni lavorati il cui prezzo, ipotizzando che i costi marginali siano fissi all‘aumentare
della produzione, e dunque si abbiano costi costanti, è dettato dal costo di produzione (Fig.2). I beni
agricoli infine, a cui viene applicato il principio dei costi marginali decrescenti, sono soggetti a
costi crescenti in quanto i costi marginali aumentano all’aumentare della produzione e il prezzo è
dettato dalle circostanze favorevoli o meno o secondo la terminologia moderna il prezzo dipende
dal costo marginale dell‘ultimo bene prodotto (Fig.3).
In tali ipotesi non vengono trattati i beni che hanno costi decrescenti e curve di offerta di lungo
periodo inclinate verso il basso.
Il prezzo di equilibrio viene fissato grazie ad un adeguamento del valore, se la domanda aumenta il
valore sale, quando la domanda scende così sarà anche per il valore, e conseguentemente se
l’offerta cala il valore diminuirà, mentre se aumenta il valore scenderà. Si ha dunque equilibrio
quando domanda e offerta diventeranno uguali fra loro. La falla che può essere sottolineata nel
sistema Milliano è quella di una mancata analisi dei mercati con concorrenza imperfetta.
Mill s’interessò anche su come i vantaggi del commercio internazionale si ripartiscono tra le
diverse nazioni che vi partecipano. L’analisi Milliana parte dalla dipendenza delle ragioni di
scambio dalla domanda per i prodotti importati da parte dei due paesi. Tale domanda è connessa
alle tendenze e alle condizioni dei consumatori dei due paesi, e il prezzo internazionale deve
coincidere con il valore per cui le quantità richieste dai paesi saranno sufficienti ad acquistarsi
l’una con l’altra. Per tendenze e condizioni di consumatori si riferisce alle posizioni e alle
elasticità delle curve di domanda (bisogna a tal fine precisare che non specificò mai il concetto di
elasticità della domanda, siano esse elastiche, inelastiche o ad elasticità unitaria). Inoltre considerò i
costi di trasporto nell’analisi del commercio estero e come questi potevano disincentivare lo
scambio anche in presenza di un vantaggio comparato, le influenze delle tariffe sul commercio
internazionale, nonché le variazioni dei prezzi e del reddito.
Secondo i sottoconsumisti se i ricchi avessero risparmiato meno e utilizzato le loro risorse
monetarie in consumi improduttivi il sistema economico ne avrebbe tratto vantaggio. Mill era
contrario a tale convinzione e sostenne la Legge di Say presupponendo come possibile l’offerta
eccessiva di determinati beni, ma non la trasposizione di tale condizione a livello macroeconomico
nonché un esponenziale e indiscriminata diffusione dell’eccesso di offerta a tutte le merci. Mill
presentò tre sistemi economici: il primo basato su un economia di baratto, il secondo dove non
esiste credito e la moneta è una merce, il terzo in cui esiste la moneta. In un sistema
contraddistinto dal baratto non è possibile avere l’insufficienza della domanda aggregata in quanto i
beni sono offerti in relazione alla loro domanda, e dunque la produzione avviene al solo fine di
ottenere altri beni. Tale stato di cose permane nel caso d’introduzione della moneta come mezzo di
scambio, ma muta quando la moneta assume la funzione di riserva di valore in tal caso infatti si
potrebbe avere una sovrapproduzione dettata dal mancato ingresso nel mercato da parte dei
venditori che intendono effettuare i loro acquisti.
La sua Teoria psicologica del ciclo economico prevede che l'introduzione del credito avrebbe
potuto causare una sovrapproduzione di merci, e dunque una sovraemissione di credito in un
periodo di espansione e di prosperità avrebbe potuto essere seguita da una contrazione dello stesso,
a seguito di un'ondata di pessimismo nella comunità degli affari. In questi casi dice Mill si ha un
offerta di moneta insufficiente e tutti i consociati cercano danaro contante facendo sì che la
comunità si trasformi in una società di venditori. Dunque l’eccesso di offerta a livello aggregato
sarebbe stato causato dal mutamento delle aspettative da parte degli investitori, e non dalla
sovrapproduzione dovuta ad un mercato saturo, così come detto da Malthus. Dopo un breve periodo
i prezzi del sistema sarebbero mutati con conseguente piena occupazione.
Il dibattito bullionista proseguì nella controversia tra la scuola metallica (Currency school) e la
scuola bancaria (Banking School).
La scuola metallica si rifaceva la posizione bullionista e sosteneva che un regime di circolazione di
banconote e di oro, dunque misto, doveva essere disciplinato in maniera ferrea e che quindi, la
quantità di moneta circolante doveva variare allo stesso modo in cui sarebbe variata in un sistema
perfettamente metallico. Solo tale politica avrebbe potuto evitare l’Inflazione.
La scuola bancaria, sosteneva invece una politica monetaria flessibile e la non necessità di
adoperare controlli sull'emissione di banconote sempre che le banche avessero agito in accordo con
la dottrina delle cambiali reali (Torrens).
La Teoria monetaria di Mill si frappose a metà tra queste due vedute: Mill infatti asserì su come le
indicazioni della scuola bancaria sarebbero state corrette in tempi normali, ossia con mercati
tranquilli. Nel caso di crescita finanziaria speculativa, invece la politica economica migliore era
quella della scuola metallica, consistente nel legare l'emissione di banconote alla quantità d'oro
disponibile come riserva.
Secondo la dottrina del fondo salari il saggio di salario era determinato dalla dimensione della
forza lavoro e dal fondo-salari, cosicché qualsiasi tentativo messo in atto dai lavoratori per alzare
il livello delle retribuzioni era inutile. Ora, in base a tale dottrina secondo alcuni studiosi del tempo
l’esistenza dei sindacati era da ritenere superflua, Mill però, sebbene abbracciò la dottrina del fondo
salari al contempo rappresentò l’importanza dei sindacati e dello sciopero come arma in mano ai
lavoratori per contrastare il potere del datore di lavoro. La dottrina del fondo-salari infatti lega la
domanda di lavoro alla dimensione del fondo-salari; secondo Mill però se l'ammontare massimo dei
fondi disponibili al pagamento dei salari è fisso, una data forza lavoro e un dato livello di salario
potrebbe anche non esaurire quest'ammontare fisso. Il saggio di salario dunque non è dettato
unilateralmente, e pertanto i sindacati possano alzare il saggio grazie al processo della
contrattazione.
Capitolo 6
Karl Marx
Karl Marx nacque a Treviri nel 1818. Nel 1846 aderì alla Lega dei giusti poi trasformatasi in Lega
dei comunisti, pubblicando nel 1848 Il Manifesto del Partito Comunista e nel 1867 diede alle
stampe il primo volume del Capitale.
Marx fu innovativo perché applicò la sua concezione della storia all’economia capitalista cosi da
forgiare una nuova teoria economica che guardava non all’equilibrio statico del sistema bensì a
quello dinamico. Il suo concetto di storia derivò dalla Legge della Dialettica Hegeliana la quale si
esplica in tre momenti: la Tesi, ossia lo Stato di Partenza o affermazione; l’Antitesi o l’opposizione
all’affermazione e infine la Sintesi ultima parte del processo dialettico, fusione di tesi e antitesi, e
rappresentante un nuovo oggetto avente qualcosa di entrambi gli stadi precedenti, nonché la tesi del
periodo storico successivo. La Dialettica non si conclude con la Sintesi, ma segue un percorso a
spirale e la storia sarà una catena di idee sempre più vicine alla verità. Tutti i passaggi della civiltà
umana possono essere spiegati attraverso la triade come ad es. il commercio tra vendere e comprare,
l’Eticità come sintesi tra Diritto e Moralità. A differenza di Hegel, Marx poggiò il suo
ragionamento sul Materialismo (per questo si dice Materialismo dialettico), dunque la storia non
doveva essere ricercata nel mondo delle idee ma nel mondo reale.
Secondo Marx le forze economiche sono quelle da cui diparte il cambiamento storico, tanto che in
tutte le società è possibile rintracciare, le forze della produzione e i rapporti di produzione. Le
prime sono date dalle risorse materiali disponibili e dalle conoscenze scientifiche e tecniche, e
hanno una natura dinamica, i secondi invece, hanno una natura statica e consistono nella proprietà
dei mezzi produttivi o nella tipologia dei rapporti di lavoro, i quali a loro volta caratterizzano i
rapporti tra gli esseri umani. Forze e mezzi della produzione, unite ai rapporti di produzione
costituiscono la cd. Infrastruttura sociale ossia lo scheletro del sistema sociale che decide la
forma della Sovrastruttura definita come l’unione delle rappresentazioni culturali come il mito, la
religione o la filosofia, dei sistemi normativi costituiti dalle leggi, istituzioni, apparati governativi e
dai contenuti della coscienza individuale e collettiva (motivazioni, valori ecc…) e rintracciabile
nell’arte, nella musica, o nella religione, atte a mantenere inalterati i rapporti di produzione
esistenti. Nella dialettica, i rapporti di produzione sono la tesi, le forze della produzione sono
l’antitesi e nello scritto Per la critica dell’economia politica afferma che quando le azioni umane
producono un mutamento delle forze e dei mezzi di produzione (nuovi macchinari, concentrazione
del capitale) causano uno scompenso tra le realtà e i rapporti di produzione, i quali devono essere
sostituiti, e così nasce la cosiddetta rivoluzione sociale volta a sanare la contraddizione esistente tra
Infrastruttura e Sovrastruttura. Il nuovo sistema di rapporti di produzione sarà la sintesi e così
come il precedente sarà distinto da armonia sino a quando non giungerà ad una nuovo mutamento.
In Manoscritti economico-filosofici (1844) Marx evidenzia come l’economia politica classica ha
accettato passivamente i mercati senza considerare la natura della proprietà privata e le influenze
che i mercati hanno sulle persone. In particolare, egli considera l’alienazione intesa non un
processo psichico, ma assunto che l’uomo attraverso la produzione riesce a sentirsi attivo, vitale,
tale vitalità viene alienata dalla presenza della proprietà privata e dall’economia di scambio.
Alienazione dice Marx è il risultato oggettivo dell’accentramento dei mezzi di produzione e di una
distorsione del rapporto tra produzione e necessità dell’uomo. Altro concetto è l’Ideologia che può
essere ricercata nella religione, nella politica, nella morale e serve a garantire mediante una serie
di convenzioni e precisamente rappresentazioni e razionalizzazioni illusorie della realtà, il potere
costituito e gli interessi di una classe dominante e dunque i rapporti di produzione.
In base a queste considerazioni Marx contestò la convinzione che il capitalismo fosse un sistema
economico ideale in quanto con lo sviluppo degli inevitabili conflitti indotti dal cambiamento nelle
forze della produzione, così come era crollato il feudalesimo incapace di rispondere alla tecnologia
agricola e agli intesi commerci, anche il capitalismo sarebbe caduto, e avrebbe lasciato spazio
dapprima al socialismo e poi al comunismo caratterizzato dalla bontà umana la quale viene
occultata dal capitalismo, capace di superare i rapporti di produzione socialisti, un sistema in cui
non esistono classi sociali né tanto meno conflitti sociali, e lo Stato, definito come un elemento
storico contingente sarebbe scomparso.
Marx adottò una metodologia contraria a quella ortodossa, tanto è vero che rifiutò l’analisi del
particolare per giungere a quella del sistema economico nel suo tutto, e partì da uno studio della
società e dell’economia per capire le incidenze di queste sulle singole parti.
Per prima cosa Marx studiò la relazione di scambio tra capitalisti e proletari in quanto questa, era
la giusta cartina al tornasole per comprendere la separazione del lavoro dalla proprietà dei mezzi di
produzione insita nel sistema capitalistico contraddistinto, non come nel passato dalla produzione
per il valore d‘uso (consumo dei beni da parte del produttore) ma dalla produzione per il valore di
scambio. Il filosofo tedesco elaborò una teoria sui valori di scambio e al fine di spiegare come
nascono i redditi da proprietà si concentrò sui fattori che influenzano i prezzi dei beni manufatti
nonché sul prezzo del lavoro prestato dai proletari.
Nel mondo capitalistico i prezzi, rappresentano sia relazioni di tipo quantitativo esistenti tra le
merci, sia relazioni di tipo qualitative o sociali esistenti tra persone, e presentando la sua teoria sui
prezzi relativi assume come dato certo un elemento comune a tutti i beni che può essere misurato
quantitativamente. Tale elemento è il lavoro essenziale a produrre un bene, e così come Ricardo
Marx scelse una teoria del valore lavoro. Egli assevera l’esistenza del cd. lavoro astratto ossia una
quantità totale di lavoro fornita dalla società per la produzione dei beni. Dunque, per produrre un
bicchiere è necessario usare una porzione di lavoro astratto e il prezzo del bicchiere sarà dettato
dalla quantità di lavoro, misurata in ore. Bisogna però considerare le differenti abilità lavorative
mediante le quali si può avere una produzione variabile da soggetto a soggetto, il cd.lavoro
qualificato e il filosofo tedesco lo fa considerando il tempo di lavoro socialmente necessario
altrimenti inteso come il tempo di lavoro nel quale un lavoratore possessore di abilità nella media
riesce a produrre una data merce. Accade allora, che in presenza di abilità superiore alla media,
considerando tale tempo, la diversa bravura è valorizzata in rapporto a quella media, e pertanto un
eventuale produzione doppia può essere remunerata doppiamente rispetto ad un lavoratore medio.
Circa l’incidenza che i beni capitali hanno sulla formazione dei prezzi relativi Marx sostiene
(come Ricardo) che il capitale è lavoro accumulato, e quindi il tempo di lavoro necessario alla
produzione di un bene è pari al numero di ore spese nella produzione più il numero di ore di lavoro
richieste dalla produzione di capitale andato poi distrutto nel processo di produzione.
Riguardo il tema dei fondi aventi diversa fertilità e conseguentemente una produzione diversa
nonostante l’uguale applicazione di lavoro, Marx ritiene che la superiore produttività è a favore
del proprietario il quale l’assorbe come rendita differenziale fermo restando che la concorrenza fa
aumentare la rendita sulle terre migliori sino ad uguagliare il saggio di profitto su tutti i fondi
considerati. In questo caso è la rendita ad essere dettata dal prezzo e non viceversa.
A parere di Marx il valore di una merce = C+V+S dove C è il capitale costante ossia le spese che
gli industriali sostengono per acquistare le materie prime e per il deprezzamento sul capitale fisso, V
è il capitale variabile dato da salari e stipendi, ed S è il Plusvalore dato dalla differenza tra Ricavo
lordo dei capitalisti e Capitale costante e variabile. La scelta sul lavoro come elemento capace di
creare valore è data dalla considerazione che gli investimenti fatti per C generano un profitto uguale
all’investimento, quelli invece fatte per V producono un profitto superiore.
Assunta la concorrenza perfetta Marx studia i prezzi di equilibrio di lungo periodo in tali mercati.
Acquistati i diversi fattori produttivi al prezzo concorrenziale di lungo periodo, il bene prodotto
viene venduto al prezzo di equilibrio, dunque, date queste condizioni, dove nasce il plusvalore il
quale è poi la fonte dei redditi di proprietà? Nasce dal lavoro il quale produce un valore maggiore
rispetto a quello per il quale viene pagato: quando infatti dopo un dato numero di ore vengono
prodotte merci necessarie ad acquistare i beni fondamentali per il mantenimento del proletario, e il
prezzo del lavoro corrisponderà a quelle ore lavorate, tutte le ore di lavoro successive produrranno
un plusvalore. Il saggio di plusvalore o di sfruttamento S’ = S/V. Esiste pertanto uno sfruttamento
del capitalista detentore dei mezzi di produzione nei confronti del lavoratore, posto davanti ad un
bivio, lavorare per un numero di ore maggiori rispetto a quelle necessarie ad acquistare i mezzi
necessari al suo sostentamento o non lavorare. Il saggio di Plusvalore può aumentare prolungando
la giornata lavorativa, aumentando la produttività del lavoro o diminuendo il salario reale dei
lavoratori, ma mentre sui primi due fattori il capitalista può intervenire, riguardo al terzo, dettato
dalle forze dei mercati concorrenziali, è impotente. Il saggio di Profitto = P = S / C+V dunque al
Saggio di Plusvalore diviso gli investimenti per il capitale totale.
La composizione organica del capitale o intensità di capitale di un industria = Q = C/C+V dunque
agli investimenti per il capitale costante diviso quelli per il capitale totale. Se S’=S/V > S’ > sarà
l’intensità di capitale. Possiamo ancora dire che: P=S’(1-Q) ossia il saggio di profitto varia al
variare del saggio di plusvalore e inversamente a Q.
Riguardo l’influenza dei profitti sulla determinazione dei prezzi Marx fornì una sua spiegazione
la quale risultò però sbagliata. Egli affermò che in presenza di mercati concorrenziali il saggio di
plusvalore sarebbe stato uguale in tutte le aziende, e inoltre la concorrenza dei mercati avrebbe
prodotto un saggio di profitto uguale in tutte le aziende. Ciò perché se P > in un settore economico
ciò avrebbe causato una diversa allocazione delle risorse, cosicchè nel lungo periodo il saggio di
Profitto sarebbe stato uguale in tutti i settori. Se P e S’ devono essere uguali in tutti i settori,
conseguentemente anche la Composizione organica del capitale sarà uguale, ciò in base alla
formula P=S’(1-Q). Bisogna però considerare che questa tesi di Marx era errata in quanto P ed S’
nonché Q variano a seconda del settore di produzione, e infatti volendo fare un es. se S’ =100 sia in
in un industria dell’alluminio caratterizzata da un alta intensità di capitale e in un industria di frutti
di bosco caratterizzata da un alta intensità di lavoro, ove Q sono rispettivamente pari a 0,75 e 0,25,
se vogliamo determinare P nell’industria dell’alluminio=S’(1-Q)=1,00(1-0,75)=0,25 mentre P
nell’industria di frutti di bosco=S’(1-Q)=1,00(1-0,25)=0,75. Il saggio di profitto è allora diverso,
ed è maggiore nell’industria che ha un alta intensità di lavoro.
Sia Smith che Ricardo non riuscirono a sviluppare una teoria del valore lavoro coerente ovvero in
grado di spiegare i prezzi relativi nel caso di industrie con diversi rapporti capitale/lavoro, e per
superare tale problema, nel terzo volume del Capitale Marx abbandonò l’ipotesi di una
Composizione organica del capitale in tutte le aziende e tentò di trasformare il valore delle merci
nei prezzi di mercato affinché potesse trattare un economia caratterizzata da diverse composizioni
di capitale. Questo tentativo fallì e l’insieme degli studiosi che si è occupato i Marx lo ha
ribattezzato come il problema della trasformazione, che ha visto la divisione della dottrina circa la
validità da attribuire all’intero sistema marxiano.
Marx analizzò il capitalismo ricorrendo alle cd. cinque leggi Marxiane.
1)L’esercito industriale di riserva composto dai disoccupati. Il rifiuto della teoria malthusiana
della popolazione comportò la necessità di scoprire una giustificazione circa l’esistenza del
plusvalore e dei profitti. Secondo Marx un aumento dell’accumulazione di capitale produce una
maggiore domanda di lavoro, ma a differenza di Malthus il plusvalore e i profitti non si riducono in
quanto esiste l’esercito di riserva dei disoccupati i quali mantengono elevata l’offerta di lavoro
facendo si che i salari rimangano bassi mentre il plusvalore e i profitti siano alti. L’eccesso di
offerta di lavoro avviene in primo luogo perché esiste il reclutamento diretto dovuto al cambio dei
lavoratori con le macchine: in tal modo si ha un incremento della composizione organica di
capitale Q e i lavoratori rimangono disoccupati e senza impiego. In secondo luogo esiste il
reclutamento indiretto quando la forza lavoro viene ingrossata da nuovi soggetti come i ragazzi che
finiscono la scuola, coloro che hanno perso il lavoro o le casalinghe che manifestano la volontà di
lavorare.
L’esercito industriale di riserva, il livello dei profitti e dei salari dipendono dalle fasi dei cicli
economici. Quando infatti si ha un aumento dell’attività economica (e accumulazione di Capitale) i
salari lievitano e l’esercito di riserva diminuisce quantitativamente, l’aumento dei salari fa però
diminuire i profitti cosicché i capitalisti cominciano ad utilizzare le macchine e pertanto la
disoccupazione conseguente provocherà un ridimensionamento dei salari e un aumento dei profitti.
In base a tali conclusioni possiamo affermare che Marx ammettendo una disoccupazione
tecnologica persistente nel lungo periodo rifiuta la Legge di Say (secondo cui un sistema
capitalistico garantisce automaticamente la piena occupazione delle sue risorse e alti tassi di
crescita economica). Molti economisti ortodossi hanno contestato questa prima legge Marxiana, in
quanto se Marx ipotizza un mercato concorrenziale e l’offerta di lavoro supera la domanda, i salari
devono diminuire sino a quando offerta e domanda non si trovano in una situazione di equilibrio.
2)La caduta tendenziale del saggio di profitto. Ipotizzando il Saggio di Plusvalore costante nel
tempo, essendo questo determinato da forze diverse rispetto a quelle che influenzano la
composizione organica del capitale, in base alla espressione P=S’(1-Q) ogni variazione positiva di
Q farà decrescere P. Dato che la concorrenza esistente sia sul mercato dei beni che sul mercato del
lavoro avrebbe, secondo Marx, comportato un aumento di Q inevitabilmente il saggio di Profitto era
destinato a diminuire.
Riguardo al mercato del lavoro la predisposizione del capitalista ad accumulare capitale comporta
un aumento del capitale variabile V e pertanto maggiori quantità di lavoro domandata, cosicché i
salari crescono e i disoccupati decrescono. L’incremento della retribuzione dei lavoratori fa si che il
Saggio di Plusvalore diminuisca, così come P. A questo punto, al fine di aumentare i profitti, il
capitalista può sostituire i lavoratori con le macchine, dunque aumenta la composizione organica di
capitale Q ma così facendo se S’ rimane invariato i Profitti diminuirebbero ulteriormente.
Riguardo il mercato dei beni la concorrenza implica un graduale calo del saggio di Profitto in
quanto i produttori cercherebbero di diminuire i costi di produzione al fine di vendere le merci
prodotte ad un prezzo inferiore rispetto a quello di mercato. La diminuzione dei costi di produzione
può avvenire utilizzando tecniche innovative le quali farebbero aumentare la composizione
organica del capitale Q e con S’ costante i profitti diminuirebbero.
L’analisi di lungo periodo del saggio di Profitto poggia su un ipotesi di base, quella cioè della
stabilità del Saggio di Plusvalore S’, tuttavia bisogna precisare che questo fattore può, per stessa
ammissione di Marx, aumentare, ciò a es. nei casi di aumento della giornata lavorativa, nel caso di
incremento di Q conseguente aumento dell’esercito di riserva, diminuzione dei salari e aumento del
Saggio di Plusvalore, con l’impiego di donne e bambini che rappresentano un costo minore rispetto
ai lavoratori oppure per via del progresso tecnico.
Assunto che con un aumento della spesa per investimenti altrimenti detta accumulazione di
capitale, in base alla legge dei rendimenti decrescenti si assiste ad una diminuzione del Profitto P,
con il progresso tecnico si può avere un incremento di Profitto. E’ possibile attraverso lo sviluppo
tecnologico contrastare i rendimenti decrescenti provocati dall’accumulazione di capitale?
Assunti come elementi Capitale nell’asse X e Saggio di Profitto in Y, la curva M rappresenta i
rendimenti decrescenti prodotti dall’accumulazione di capitale. Un aumento di Capitale comporta in
M, una riduzione del Profitto, da P1 a P2, un aumento dello sviluppo tecnologico causa però un
incremento del Profitto per ogni livello di Capitale e uno spostamento della curva da M a M’. In tal
caso il progresso tecnico ha controbilanciato i rendimenti decrescenti, ma può anche accadere che la
curva M’ si sposti ma P non vari, oppure che lo stesso Profitto diminuisca (vedi fig. retro).
3)L’origine delle crisi economiche. Marx indicò una serie di cause che provocano le cd.
fluttuazioni economiche, tuttavia non elaborò una vera e propria teoria. Secondo Marx in un
economia di baratto l’attività economica ha lo scopo di ottenere un valore d’uso diretto oppure di
baratto e pertanto la produzione e il consumo sono sincronizzati. La moneta può mantenere la
stessa funzione, questa infatti può essere vista come un mezzo di scambio che facilita la divisione
del lavoro e il commercio.
Economia di baratto M->M
M=Merci
Economia monetaria M->D->M D=Denaro
Ma ciò in un sistema capitalistico non avviene in quanto lo scopo dell’attività economica non è
ottenere un valore d’uso ma quello di produrre valori di scambio e dunque il capitalista detentore di
danaro produce merci cedendole in cambio di danaro, e mira ad ottenere un Plusvalore.
Economia Capitalista D->M->D’
In cui il Delta D rappresenta il Plusvalore. In base a tale convinzione Marx criticò la legge di Say
secondo la quale non esiste differenza tra un economia di baratto e capitalista. A differenza della
prima, in un'economia capitalista la sovrapproduzione è molto probabile, e con essa una crisi.
Le fluttuazioni cicliche. Marx propone due modelli di Fluttuazione economica, il primo è quello
del ciclo economico ricorrente, il secondo quello della distruzione dei valori capitali. Il primo
modello prevede che in presenza di sviluppo tecnologico e accumulazione di capitale, la domanda
di lavoro sarebbe aumentata e parimenti vi sarebbe stata una diminuzione della quantità di soggetti
che compone l’esercito di riserva. In tal modo i salari sarebbero aumentati, il saggio di Plusvalore
diminuito così come il Profitto. La diminuzione del Profitto avrebbe però comportato un
decremento dell’accumulazione di capitale e l’inizio di una crisi depressiva, la quale però dopo un
certo periodo di tempo doveva essere seguita da una nuova espansione. Se infatti la produzione
diminuisce e i disoccupati aumentano, i salari sarebbe diminuiti e i profitti aumentati; in tale
maniera si sarebbe generata una nuova accumulazione di capitale e una crescita.
Il secondo modello s’incentra sulla distruzione dei valori capitali dettata dal deprezzamento del
valore dei beni capitali usati in produzione e dovuto ad obsolescenza, o mutamenti di aspettative.
Le crisi derivanti da sproporzione. Uno dei dubbi di Marx sul sistema capitalistico riguardava
l’incapacità di giungere ad una perfetta allocazione delle risorse tra i diversi settori economici.
Date due industrie, se la domanda dei beni prodotti dalla prima aumenta e quella dei beni prodotti
dalla seconda diminuisce, in un sistema capitalistico i prezzi e profitti della prima industria
aumentano, quelli della seconda calano, e dunque gli imprenditori cercherebbero di allocare le
risorse del secondo settore nel primo. In tal modo la situazione vissuta dalla seconda industria,
causa la migrazione delle risorse verso altri campi finirebbe ben presto, e dunque quella che
Ricardo chiamava Saturazione parziale non contagerebbe l’intero sistema economico. Marx
propose una teoria alternativa e affermò che la disoccupazione che avrebbe colpito la seconda
azienda poteva interessare tutto il sistema economico.
La caduta tendenziale del saggio di Profitto e le crisi economiche. Marx integrò la sua teoria della
caduta tendenziale del saggio di profitto alle teorie delle crisi economiche, e così facendo cercò di
invalidare la Legge di Say e smontare il sistema capitalista. Ciò nonostante propose una spiegazione
delle crisi economiche partendo dalla stessa legge dell’economista francese. In particolare, assunte
per buone tutte le ipotesi che sottendono alla Legge di Say il capitalismo stesso, come sistema
economico colmo di contraddizioni, sarebbe stato investito da profonde crisi. Nel breve periodo
infatti per aumentare i profitti, i capitalisti avrebbero aumentato Q causato una diminuzione di P, e
dunque un minore investimento e l’avvento di crisi economiche.
4)La concentrazione e la centralizzazione del capitale. Sebbene Marx ipotizza un mercato
perfettamente concorrenziale in cui esistono piccole imprese, bisogna dire che non ignorò
l’esistenza d grandi imprese e la possibilità di una diminuzione della concorrenza in presenza di
monopoli. Si hanno tali condizioni dice Marx con la concentrazione di Capitale ossia quando i
capitalisti accumulano una grande quantità di capitale cosicché le dimensioni dell’impresa
aumentano e la concorrenza diminuisce, oppure con la centralizzazione del Capitale conseguente
ad una divisione del capitale esistente in mano a pochi individui. Le imprese di grosse dimensioni
possono giungere ad economie di scala, produrre a costi medi inferiori rispetto alle piccole e
conseguentemente queste erano destinate a sparire, lasciando spazio ai monopoli. Avrebbero inoltre
favorito la centralizzazione del capitale il sistema creditizio e le società di affari.
5)L’immiserimento progressivo del Proletariato. Su quest’ultima legge esistono tre diverse
interpretazioni. Secondo la prima, il crescente immiserimento del proletariato in termini assoluti
implica che il reddito reale dei lavoratori sarebbe diminuito con lo sviluppo capitalista. La seconda
guarda ad immiserimento del proletariato in senso relativo, indicando cioè come la quota del reddito
nazionale spettante al proletariato cala nel tempo. La terza sottolinea aspetti non economici della
vita, evidenziando come il capitalismo facesse degradare la qualità della vita interessata da
schiavitù, ignoranza, aggressività e degradazione morale.
Capitolo 7
Jevons, Menger e i fondatori austriaci dell’analisi marginalista
Jevons, Menger di Principi di Economia Politica e Walras di Elementi di economia politica pura,
avviarono il pensiero economico ortodosso o neoclassico maggiormente propenso alla teoria
microeconomica, e vengono ricordati soprattutto per la cd. analisi marginalista dissero cioè, che il
valore di un bene dipende dall’utilità marginale che ne avrebbe potuto trarre il consumatore.
L’economia neoclassica s’interessò al tema dell’allocazione di risorse scarse tra usi alternativi nei
mercati concorrenziali, e fu fondata su una metodologia deduttiva ossia su modelli astratti tesi a
studiare il comportamento di consumatori e imprese che agiscono al fine di massimizzare la propria
utilità o profitto, e in cui vennero usati sempre più gli strumenti matematici. Tra questi Menger fu
l’unico a riavvicinarsi al mondo classico in quanto intendeva rilanciare il tema Smithiano della
divisione del lavoro quale mezzo di benessere dello stato. Circa la metodologia Jevons fu vicino a
Petty e sostenne la statistica, Menger contrario a strumenti matematici sposò la metodologia
Ricardiana del ragionamento astratto e deduttivo, Walras invece sottolineò l’importanza del
ragionamento astratto accompagnato dalla matematica.
Inoltre il primo applicò l’analisi marginalista a livello del consumatore dunque della domanda,
Menger sia alla domanda che all’Offerta, e infine Walras si spinse oltre in quanto presentò un
modello di equilibrio generale per il sistema economico.
Le inadeguatezze della Teoria classica del valore
Assunto che mediante la teoria classica del valore il prezzo di alcuni beni non potevano essere
studiati, i marginalisti ritennero tale teoria inadeguata a spiegare la formazione dei prezzi,
innanzitutto per la relatività. La teoria del valore-lavoro di Ricardo e quella basata sul costo di
produzione presentata da Senior e Mill ad es. prevedevano che i beni offerti in quantità fissa
fossero trattati diversamente dagli altri. In secondo luogo, la teoria classica prevedeva che il prezzo
di una bene era dettato dai costi sostenuti in passato mentre i tre autori ritenevano sbagliata tale
ipotesi. Il valore di un bene invero, dipendendo dall’utilità legata al consumo fa riferimento al
futuro e non al pregresso, e infatti tutti i produttori che sbagliano nei loro calcoli della domanda
subiscono il dead stock ovvero la scorta improduttiva, in quanto la domanda è tale che il prezzo di
vendita è inferiore al costo di produzione.
Jevons, Menger e Walras si chiesero dunque se il valore dei beni finali derivava dai prezzi dei
fattori della produzione, così come acclarato dalla teoria classica, oppure i prezzi dei beni finali
determinavano i valori dei fattori della produzione. A tale domanda i marginalisti risposero
affermando che ai fattori della produzione poteva essere attribuito un valore soltanto se tale
valore fosse dettato dall’utilità marginale originata dal consumo dei beni finali prodotti grazie a
quei fattori, e inoltre i fattori della produzione non potevano conferire alcun valore ai beni finali.
Altra critica mossa dai marginalisti fu quella secondo cui il dato che incide in maniera determinante
sul prezzo non è l’utilità totale o media ma bensì quella marginale.
Categorie di Merci
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
10
9
8
7
6
5
4
3
2
1
9
8
7
6
5
4
3
2
1
0
8
7
6
5
4
3
2
1
0
7
6
5
4
3
2
1
0
6
5
4
3
2
1
0
5
4
3
2
1
0
4
3
2
1
3
2
1
0
2
1
0
1
0
0
0
La tabella di Menger evidenzia le Categorie di Merci secondo il loro ordine d’importanza
determinato dalla distanza rispetto alla I categoria, e dunque se l’acqua rientrerà nella prima
colonna, i beni di lusso ad es. nella X. I numeri indicano l’utilità marginale la quale cala al crescere
della quantità consumata, e pertanto l’utilità marginale di un bene di classe I è 10 per la prima unità
consumata, sino ad arrivare a 0 per la undicesima unità. Prendendo in considerazione il paradosso
dell’acqua e dei diamanti secondo il quale i diamanti hanno un prezzo elevato pur essendo di
scarsa utilità mentre l’acqua ha un prezzo ridotto pur essendo di grande utilità, a cui Smith non
riuscì né a trovare una soluzione convincente: assunto l’acqua come bene di classe I e i diamanti di
classe 8, quando un consumatore ha consumato 8 unità d’acqua e nessuna di diamanti, l’utilità
marginale dovuta al consumo di unità aggiuntiva d’acqua sarebbe 2, quella dei diamanti 3. L’utilità
totale dunque (o somma dell’utilità marginale) potrebbe trarci in inganno, l’utilità marginale invece
conduce ad una corretta teoria dei prezzi, in quanto la stessa determina la scelta del consumatore.
Che cos’è l’utilità?- I confronti di utilità
I consumatori pertanto, essere razionali e calcolatori, acquistano in base all’utilità marginale
ricavata dal consumo dei diversi beni. Jevons, Menger e Walras non diedero però una definizione di
utilità marginale, ne dissero come si misurava, ciò perché la stessa era ritenuta un fenomeno di
natura psicologica non misurabile, ogni soggetto poteva infatti considerare il consumo di un bene
maggiormente utile rispetto ad un altro, e inoltre la considerarono come una caratteristica dei beni
finali. Riguardo a quest’ultimo punto permaneva l’incertezza circa i fattori di produzione e dei beni
consumati in via indiretta, e a tale ulteriore problema i marginalisti risposero coniando il termine
utilità acquisità in quanto i consumato alras spiegarono anche il principio dell’utilità marginale
decrescente per il quale quando il consumo ri avrebbero tratto la loro utilità proprio dal consumo
dei beni di scambio. Jevons, Menger e W di un bene cresce la sua utilità marginale diminuisce.
Nonostante i tre non erano riusciti a misurare l’utilità dai loro esempi si capisce che la misurazione
avveniva in termini cardinali.
Un altro aspetto che bisogna considerare è quello dei cd. confronti interpersonali di utilità, ossia la
possibilità di confrontare l’utilità ricevuta da due diverse persone riguardo il consumo di un unita
aggiuntiva di un bene a cui s’interessò Jevons secondo cui i confronti erano impossibili. Secondo
Jevons quando ad un individuo che vanta un reddito elevato giunge un ammontare addizionale di
reddito, tale ricezione comporta un’utilità marginale inferiore rispetto a quella di un altro
individuo che ha un reddito minore. Data quest’assunzione supposto, primariamente che i confronti
personali di utilità possono essere effettuati, e secondariamente che tutti i consociati abbiano la
stessa funzione che collega l’utilità al reddito percepito, si può concludere che una distribuzione
del reddito ideale, ossia una distribuzione che massimizzi l’utilità totale della società, rappresenta
una distribuzione egualitaria del reddito così come possiamo vedere nella fig.1.
L’effetto Robin Hood
Supposto che al reddito si applica il principio dell’utilità marginale decrescente, la curva I’
rappresenta l’utilità marginale del reddito per la classe ricca e povera, e specificamente OP
rappresenta il reddito dei ricchi, OR dei poveri. Se i ricchi vengono tassati di un $ e lo stesso è
assegnato ai poveri, l’utilità totale dei primi si riduce di RA e quella dei poveri aumenta di PB, ciò
significa che la distribuzione del reddito fa incrementare l’utilità totale sociale in quanto PB>RA
sino a poter giungere ad un uguaglianza dei redditi tra le due classi. Ipotizzando che i consociati
abbiano funzioni che collegano utilità e reddito diverse in modo che i percettori di redditi elevati
abbiano funzioni più alte rispetto a quelle di percettori di redditi bassi, così come possiamo vedere
nella fig.2, otteniamo due curve, la RR’ e la PP’ entrambe rappresentanti l’utilità marginale
decrescente dei ricchi e poveri.
In tal caso dallo stesso ammontare di reddito, i ricchi ricavano un utilità marginale maggiore
rispetto a quella dei poveri. Se OR è il reddito dei ricchi e OP dei poveri, assunto che RA è
maggiore di PB, una distribuzione del reddito ideale, volta cioè a massimizzare l’utilità totale della
società, può essere raggiunta se viene prelevato reddito dai poveri e distribuito tra i ricchi. Tale
situazione comporterebbe un effetto Robin Hood rovesciato.
Le funzioni di utilità
I marginalisti ritenevano che l’utilità che un soggetto riceve dal consumo di un bene dipende in
via esclusiva dal consumo già fatto del bene medesimo, e non dalla quantità consumata di altri
beni. Secondo Jevons e Walras Utilità totale (utilità ricevuta dal consumo di tutti i beni)=
f1(Qa)+f2(Qb)+f3(Qc) dunque viene considerata la quantità consumata dei vari beni e non accettata
un eventuale relazione di complementarità o sostituibilità tra i vari tipi di consumo. Nella moderna
teoria microeconomica l’equazione è invece Utilità totale = f (Qa,Qb,Qc…).
Jevons, Menger e Walras studiarono anche la massimizzazione dell’utilità del consumatore e sue
condizioni, si occuparono di una teoria dello scambio, nonché del rapporto tra utilità e domanda:
dei tre però, grazie all’applicazione della matematica, quello che riuscì a studiare meglio questi
aspetti fu Menger.
In base alla seconda legge di Gossen un consumatore che ha a disposizione un reddito limitato,
rende massima la propria utilità quando, l’ultima unità di moneta spesa per acquistare un
qualunque bene gli procura uguale utilità di quella ricevuta dall’ultima unità di moneta spesa per
un qualsiasi altro bene. Tale legge può essere riassunta: Mua/Pa=Mub/Pb=Muc/Pc. Accettando
tale legge, in particolare Walras riuscì a dimostrare, matematicamente le equazioni che segnano la
massimizzazione dell’utilità del consumatore; nonché, assunto come l’utilità individuale incide
sulla domanda dei singoli e di mercato, riuscì a provare la relazione esistente tra funzione di utilità
e curve di domanda e conseguentemente che la domanda è dettata dall’utilità marginale.
Un altro argomento di studio furono le relazioni che collegano l’utilità marginale alla
massimizzazione della soddisfazione del consumatore e allo scambio dei beni sul mercato. Jevons
riuscì a dare una dimostrazione di queste relazioni ricorrendo ad un mercato composto da due beni e
due individui; se l'individuo A possiede grano e l'individuo B possiede carne, e se possono
effettuare delle transazioni, allora l’equilibrio finale è dato: "dal rapporto di scambio tra due merci
qualsiasi è il reciproco del rapporto tra i gradi finali di utilità delle quantità di merci disponibili
per il consumo dopo effettuato lo scambio". Trasponendo in equazioni questo concetto si ottiene:
MU grano a/MU carne a = MU grano b/MU carne b = Qcarne scamb./Qgrano scamb.=Pg/Pc
Una valutazione di Jevons e Menger
Nonostante Jevons e Menger confutarono la teoria classica del valore non riuscirono a fornire
delle motivazioni adeguate alle loro critiche. Analiticamente, confrontando la teoria del valore di
Mill e quella dei due marginalisti possiamo trarre delle conclusioni. Nel primo caso, quando cioè
Mill prospetta un offerta perfettamente inelastica o verticale, supposto che la teoria classica è
fondata sul costo di produzione, esiste difficoltà circa la determinazione del prezzo in quanto, in tal
caso il prezzo dipende dall’offerta e dalla domanda, e il costo di produzione potrebbe anche non
incidere sull’offerta. Jevons e Menger ritenevano invece, che il prezzo dipenda in via esclusiva dalla
domanda presumendo che l’offerta sia fissa, e anche in tal caso non si riesce a determinare il
prezzo. Nel secondo caso in cui l’offerta è perfettamente elastica ed esistono costi costanti, il prezzo
dipende dal costo di produzione, e Mill ha ragione, i due marginalisti torto. Nel terzo caso, quello
contraddistinto da costi crescenti, sia i marginalisti che sostengono la dipendenza del prezzo
dall’utilità marginale ossia data l’offerta del bene la domanda determina il prezzo, sia i classici
sbagliano, in quanto il prezzo dipende sia dall’offerta che dalla domanda.
Gli austriaci della seconda generazione
Von Wieser ed Eugen Von Bohm-Bawerk furono seguaci di Menger. Wieser studiò l’economia
usando strumenti astratti, coniò il termine utilità marginale e s’interessò ai costi e ai fattori della
produzione dimostrando che i fattori produttivi ricevono il loro valore dai beni finali in virtù della
cd.imputazione. Il rapporto tra fattori produttivi e prezzi può essere illustrata con la fig.1 in cui
esistono tre beni e un solo fattore produttivo F.P impiegato nella produzione di tutti e tre i beni. Le
Quantità consumate dei beni finali e loro utilità marginali comportano un utilità marginale di un
unità addizionale di A > di B, e un utilità marginale di un unità addizionale di B > di C. C è il bene
marginale prodotto, mentre A e B sono detti beni finali inframarginali.
A
B
C
I
I
I
FP  FP FP
Secondo gli austriaci l’utilità marginale di C detta il valore del fattore della produzione marginale, e
dunque il valore di un fattore della produzione è dato dal prezzo del bene finale. Per A e B, il valore
discende dal valore del fattore della produzione usato per produrli, e dunque i fattori della
produzione dettano il prezzo finale. Pertanto il prezzo di un fattore della produzione è misurato
mediante l’utilità marginale data dall’ultimo bene, quello finale marginale, nel nostro caso C.
Capitolo 8
La diffusione dell’analisi marginalista e la transizione verso l’economia neoclassica
Nell’ambito della microeconomia il principio dei rendimenti decrescenti analizza relativamente
alle imprese, sia la forma delle curve di offerta di breve periodo sia la forma della curva di
domanda dei fattori della produzione. Ricardo applicò il suddetto principio, nell’esame della
rendita fondiaria soffermandosi specificamente sulle funzioni di produzione ovvero il rapporto tra
la quantità dei fattori produttivi e la quantità di prodotto che poteva ottenersi dalla terra. Il suo
studio prevedeva, in primo luogo, che la relazione tra capitale e lavoro in ogni processo produttivo
dipendesse dalla tecnologia a disposizione e dunque fosse fissa, e da poi l’aggiunta di unità
addizionali di capitale e lavoro ad una data porzione di terra. In base a ciò concluse che il prodotto
che poteva ottenersi dalla terra presentava, all’aumentare delle unità di lavoro e capitale rendimenti
marginali decrescenti.
Il principio dei rendimenti decrescenti fu ripreso 75 anni dopo gli studi Ricardiani, e non per
l’analisi della produttività marginale bensì per l’analisi dell’utilità marginale.
In questo periodo i teorici della distribuzione basata sulla produzione più importanti furono Von
Wieser, Von Bohm Bawerk, Clark, Wicksell, Wicksteed e Edgeworth.
La Teoria della Produttività marginale
Se ad un fattore produttivo costante si aggiunge un altro fattore variabile, la produzione totale
aumenterà ad un tasso crescente, poi ad un tasso decrescente sino a che comincerà a diminuire.
Volendo fare un es. ipotizziamo che su 100 acri di terra, dunque sul fattore produttivo fisso, per il
periodo di un anno lavori un uomo ottenendo un prodotto totale pari a 10 t di grano, con due anni 21
t ecc…Nelle fig. seguenti possiamo osservare le curve del prodotto totale, del prodotto medio e del
prodotto marginale del lavoro ossia del fattore variabile.
Lavoro
Prodotto Totale
lavoro (t grano)
Prodotto medio
lavoro (t grano)
Prodotto marginale
del lavoro (t grano)
0
0
0
1
10
10
10
2
21
10,5
11
3
33
11
12
4
46
11,5
13
5
58
11,6
12
6
68
11,3
10
7
75
10,7
7
8
80
10
5
9
83
9,2
3
10
83
8,3
0
11
80
7,3
-3
Assunto che il prodotto totale viene ipotizzato come massimo, il prodotto medio del lavoro si
ottiene dividendo il Prodotto totale/Q lavoro e dunque 10/1;21/2;33/3 ecc…
Il prodotto marginale invece è dato dalla formula MPPL (Marginale phisical product of
labor)=deltaTP/deltaL e dunque (10-0=10;1-0=1 e dunque 10/1=10 e così via sino ad arrivare a 8383=0). Dalla figura 2 si comprende che quando la Quantità di lavoro è Q1 il prodotto marginale
del lavoro sarà massimo, per una Quantità Q2 il prodotto medio del lavoro è massimo, e il suo
valore coincide con quello del prodotto marginale, infine per una Quantità Q3 il prodotto totale è
massimo mentre quello marginale è 0. Pertanto con Quantità di lavoro > Q3 il prodotto totale sarà
decrescente e il prodotto marginale sarà negativo. In tal modo, lo studio della funzione di
produzione permette di calcolare il prodotto marginale di uno qualsiasi dei fattori della produzione.
In base a questi studi gli economisti compresero che la curva di domanda dei fattori della
produzione poteva essere ottenuta sfruttando la curva del prodotto marginale.
Ipotizzando un impresa operante in un mercato perfettamente concorrenziale che impiega il lavoro
come unico fattore produttivo variabile, e vende il prodotto finale in un mercato altrettanto
concorrenziale in modo che il prezzo non vari in base alle vendite, la curva di domanda del prodotto
finale sarà perfettamente elastica; inoltre ipotizziamo che il lavoro venga acquistato in un mercato
concorrenziale e dunque il suo prezzo sia fisso, e dunque anche la curva di offerta del lavoro è
perfettamente elastica, in tal caso se l’impresa vuole ottimizzare le proprie vendite acquisterà il
lavoro sino a quando l’ultima unità di tale fattore produttivo fa incrementare il suo ricavo
complessivo in misura pari all’incremento del costo totale.
Tale condizione di ottimalità viene espressa dalla formula:
Prezzo lavoro=Prodotto marginale fisico del lavoro X Prezzo del Prodotto
In tale formula il Prodotto marginale misura l’incremento del costo totale che consegue all’utilizzo
di unità addizionale di lavoro, il Prezzo del Prodotto misura l’incremento del ricavo totale derivante
dalla vendita del prodotto aggiuntivo del lavoro (valore del prodotto marginale).
Riprendendo l’esempio della funzione di produzione, se un impresa impiega 5 operai il cui costo è
10000 $ e il prezzo del prodotto 1000 $ avremmo:
Pl=PmflXPp=0000$<12 (corrispondente a 5 unità) X 1000$
In tal caso l’ultima unità fa aumentare di 10000$ il costo totale, e 12000$ di ricavo totale (5846=12) e dunque i profitti aumentano di 2000$. Facendo lo stesso ragionamento un unità
addizionale di lavoro non comporterebbe nessun profitto 10000$lavoro=10000$ di ricavo totale
(68-58), mentre la settima farebbe si che il Ricavo totale sia minore del costo del lavoro. Se ne
deduce che la condizione di ottimalità di questa impresa è 6 unità di lavoro.
Se esistono molteplici fattori produttivi la formula può essere espressa:
Mppa/Pa=Mppb/Pb=Mppc/Pc…Mppn/Pn
In cui Mppa sono i prodotti marginali in termini fisici, e Pa il prezzo del prodotto.
Ora è possibile derivare la domanda di un fattore di produzione la quale può essere definita come
la quantità del fattore produttivo che l'impresa desidererebbe acquistare in corrispondenza dei
vari prezzi di mercato di tale fattore. Supposto che un impresa impieghi i suoi fattori produttivi in
modo ottimale, quando uno di questi diminuisce nel prezzo, l’impresa ne aumenta l’utilizzo sino a
che il costo di questo farà si che il prodotto marginale derivante dal suo impiego sia uguale a
quello dei prodotti marginali degli altri fattori produttivi, e dunque incrementi il ricavo
complessivo in misura pari all’incremento del costo totale. Inoltre secondo la teoria della
produttività marginale, in mercati concorrenziali, in condizioni di ottimalità i fattori produttivi
hanno un prezzo uguale al valore dei loro rispettivi prodotti marginali.
Nell’analisi della rendita fondiaria Ricardo stabilì il lavoro e capitale come un unico fattore
variabile da applicare alla terra, fattore produttivo fisso. Dal grafico possiamo vedere le somiglianze
tra la teoria ricardiana e quella della produttività marginale. Assunto che in X abbiamo lavoro, e la
curva rappresenta il prodotto marginale fisico del lavoro, se applichiamo lavoro pari a OC il
prodotto totale sarà OABC ossia la somma dei prodotti marginali. In particolare però Ricardo disse
che l’area DBCO rappresenta il salario totale pagato ai lavoratori, mentre il prodotto totale meno
l‘area dei salari è pari alla rendita ADB. Al contrario, nella figura 2 sono i salari ad essere calcolati
in via residuale e non la rendita. Ricardo però, applicò l'analisi della produttività marginale solo per
determinare l'entità della rendita sulla terra, i teorici del marginalismo invece conclusero che
qualsiasi fattore poteva variare, che di tutti fattori si poteva calcolare il prodotto marginale, e inoltre
l’impresa avrebbe usato i fattori produttivi sino a quando i prezzi avessero uguagliato il valore del
prodotto marginale del fattore variabile.
L’esaurimento del prodotto
Secondo Ricardo il calcolo della rendita è residuale in quanto viene calcolata come sottrazione tra
il Prodotto totale, i salari e i profitti. Con tale teoria della distribuzione detta Residuale il prodotto
viene completamente distribuito e non viene effettuata la verifica di uguaglianza tra le
remunerazioni di tutti i fattori ed il prodotto totale. Tale metodo non è applicabile con la teoria della
produttività marginale e al fine di verificare l’uguaglianza tra la somma dei pagamenti dei fattori
produttivi e il prodotto totale è necessario applicare l’equazione:
Q=MPPl X L + MPPt X T
In cui Q rappresenta il prodotto totale, MPPl ed MPPt il prodotto marginale in termini fisici di
lavoro e terra, mentre L e T le quantità di lavoro e terra utilizzate.
In merito a tale equazione Clark asseriva l’esaurimento del prodotto totale quando ogni fattore
produttivo fosse stato pagato in base al suo prodotto marginale, tuttavia però non dimostrò la sua
affermazione e all’esaurimento del prodotto s’interessarono anche Wicksteed e Wicksell.
Il primo, nel suo Saggio sulla coordinazione delle leggi della distribuzione scrisse che nei mercati
perfettamente concorrenziali ogni fattore produttivo sarebbe stato pagato in misura pari al suo
prodotto marginale e tentò senza successo di dimostrare l’esaurimento del prodotto.
Successivamente a Wicksteed, Flux provò come si ha esaurimento del prodotto quando le proprietà
delle funzione di produzione fossero uguali a quelle descritte dal matematico Euler. In particolare,
nel caso in cui il prodotto totale venga ad esaurirsi in virtù del pagamento di ogni fattore produttivo,
la funzione di produzione deve essere caratterizzata da una proporzionalità tra impiego di tutti i
fattori produttivi e prodotto totale, e dunque supponiamo che le quantità di terra e lavoro vengano
raddoppiate, anche il prodotto totale raddoppierà in tal caso siamo in presenza di funzioni
omogenee di 1° grado. Le funzioni < 1 individuano una situazione in cui un aumento
proporzionale nell’impiego dei fattori produttivi causa un aumento meno che proporzionale del
prodotto totale, le funzioni > 1 l’aumento proporzionale nell’impiego dei fattori produttivi conduce
ad un aumento più che proporzionale del prodotto.
Pertanto secondo gli economisti, si hanno Rendimenti costanti di scala quando esiste
proporzionalità tra l’aumento del fattori produttivi e l’aumento del Prodotto totale cosicchè il costo
medio non si modifica (funzioni omogenee di primo grado). Si hanno invece Rendimenti di scala
decrescenti quando i fattori produttivi aumentano proporzionalmente e il Prodotto aumenta in
proporzione inferiore (cosicché i costi medi saranno crescenti e la funzione di grado < 1).
Specificamente dunque si possono avere tre situazioni:
1. quella dei Rendimenti di scala costanti in cui un impresa con una funzione omogenea di 1°
grado opera in mercati perfettamente concorrenziali, ed in tal caso, assunto che i fattori
produttivi sono pagati in misura pari al loro valore marginale, e il profitto sarà 0, si avrà
esaurimento del prodotto in quanto il ricavo totale è pari al costo totale ossia al pagamento
dei fattori produttivi. Prendendo ad es. l’equazione Q=MPPl * L + MPPt * T moltiplicando i
lati dell’equazione per il prezzo del bene finale avremo P*Q=P*MPPl*L+P*MPPt*T in cui
P*MPPl e P*MPPt rappresentano il valore del prodotto marginale del lavoro e della terra e
dunque: P*Q=VMPl*L+VMPt*T. In questa equazione P*Q rappresenta il ricavo totale VMPl*L
+ VMPt*T il costo totale dell’impresa e dunque, assunta la perfetta concorrenzialità del
mercato Ricavo totale e costo totale si eguagliano.
2. quella dei Rendimenti crescenti di scala in cui un impresa con una funzione omogenea di
grado > 1 presenta costi marginali inferiori a quelli medi e un prodotto marginale fisico di un
fattore superiore a quello medio. In tal caso il ricavo totale sarà inferiore rispetto al pagamento
dei fattori produttivi ciò perché in condizioni di perfetta concorrenza l’impresa vende il
prodotto finale al prezzo del prodotto marginale.
3. Quella dei Rendimenti decrescenti di scala in cui un impresa con una funzione omogenea di
grado < 1 presenta costi marginali superiori a quelli medi e un prodotto marginale fisico di un
fattore inferiore al prodotto medio. In tal caso il ricavo totale sarà superiore rispetto al
pagamento dei fattori produttivi, e pertanto si avranno profitti.
Nel 1902 Wicksell affermò che un impresa può passare attraverso le diverse fasi dei rendimenti di
scala. In particolare quando un azienda aumenta la produzione è caratterizzata da rendimenti di
scala crescenti, poi passa a quella dei rendimenti costanti e infine a quella dei rendimenti di scala
decrescenti. Secondo Wicksell ai fini dell’esaurimento del prodotto, non era determinante la
funzione di produzione dell’impresa bensì bisognava guardare al costo medio di lungo periodo, e
ciò perché in un mercato concorrenziale l’azienda tende a produrre a costi medi minimi, dunque con
un profitto nullo ed in tal caso si ha esaurimento del prodotto. Wicksell sviluppò così il concetto di
curva a U di costo medio di lungo periodo dell’impresa, in cui dapprima esistono costi decrescenti
e poi costi crescenti.
Le implicazioni di natura etica della teoria della Produttività marginale
Clark (1847-1938) viene ricordato per la scoperta del concetto di utilità marginale e produttività
marginale. Secondo Clark nei mercati perfettamente concorrenziali ogni fattore produttivo deve
essere pagato in misura pari al valore del suo prodotto marginale. In particolare la remunerazione
rappresentava il parametro che avvalorava il contributo dei vari fattori sia rispetto al bene finale, sia
rispetto alla società. In base a tale proposizione, Clark affermò che il capitale doveva essere
remunerato come un fattore produttivo, così come la rendita, ogni contestazione circa il pagamento
di tali fattori, specialmente quelle di Marx, era secondo l’economista americano pretestuosa, e nei
mercati perfettamente concorrenziali la distribuzione del reddito era eticamente corretta in
quanto lasciava tralucere come i vari fattori produttivi contribuivano al prodotto economico
complessivo della società. Si potrebbe però obiettare a Clark , l’esclusiva analisi fondata su mercati
perfettamente concorrenziali e che nella sua visione il reddito di un soggetto dipende dal pagamento
dei fattori produttivi che questi detiene e vende, dunque tali redditi non sono lo specchio del
contributo individuale al sistema economico ma bensì dei fattori produttivi.
La Teoria della Produttività marginale vista come una teoria dell’occupazione
La Teoria della produttività marginale venne applicata anche nell’analisi del livello di
occupazione.
Quando infatti il prezzo del lavoro aumenta, l’azienda risponde con un minore impiego di forza
lavoro sino a quando il prodotto marginale di tale fattore sarà uguale al nuovo costo.
Assunto che il prezzo del lavoro dipende dalla domanda di lavoro (ricavabile dal valore del prodotto
marginale) e dall’offerta, se il prezzo è > a quello di equilibrio e dunque l’offerta > alla domanda,
esisterà disoccupazione. Secondo i marginalisti una disoccupazione superiore al 3% fissato come
dato della disoccupazione frizionale, è data da un livello di salari superiore a quello di equilibrio e
pertanto riconducendo Offerta e domanda al giusto equilibrio, la disoccupazione sarebbe scesa. In
conclusione sia disoccupazione che depressioni economiche potevano essere contrastate attraverso
la flessibilità dei salari. Tale teoria provocò numerose critiche, tra le quali bisogna ricordare quella
di Keynes secondo cui i salari sono si un costo, considerati dal punto di vista dell’impresa, mentre
sono un reddito per il lavoratore, perciò bassi salari avrebbe ridotto la disponibilità economica dei
lavoratori, e conseguentemente fatto calare la domanda di beni finali. Il prezzo dei beni allora
sarebbe diminuito e con esso anche il valore del prodotto marginale del lavoro.
Le critiche alla Teoria della produttività marginale (Teoria del Profitto, Capitale e Interesse)
La Teoria della produttività marginale fu investita da molte critiche, una delle più importanti fu
quella riguardante la impossibilità di misurazione del prodotto marginale di un fattore produttivo,
ciò perché il prodotto finale è la fusione tra lavoro, terra e capitale e dunque i diversi prodotti
marginali non possono essere individuati.
Sebbene la Teoria in esame fosse in grado di spiegare le remunerazioni del lavoro e della terra,
esistevano dei problemi circa i profitti e l’interesse.
Gli economisti classici nonostante avessero indicati questi due fattori sotto la voce Profitto
affermarono che tale era composto: da una somma volta a remunerare l’uso del capitale, e che
secondo l’economia moderna viene denominata Interesse; una somma tesa a remunerare
l’imprenditore per la direzione e organizzazione dell’azienda, e una somma tesa a remunerare i
rischi che l’imprenditore si addossava.
Clark fu contrario a considerare l’imprenditorialità come quarto fattore produttivo (terra, lavoro,
capitale) e definire il prodotto marginale dell’imprenditore come il contributo che questi offre, sia
in ambito direttivo, organizzativo e del rischio, all’impresa. Il pagamento dell’imprenditore infatti
non è una forma di profitto, ossia la somma restante dopo che tutti i fattori produttivi sono stati
pagati in misura pari al loro prodotto marginale, bensì uno stipendio.
Clark, Marshall e Schumpeter intendevano i profitti come un reddito scaturente dalla dinamicità
del sistema economico, e in quanto tale avente una natura temporanea. Assunto infatti che un
sistema economico si trovi in una situazione di equilibrio di lungo periodo per la quale i fattori
produttivi sono remunerati in misura pari al loro prodotto marginale, e i ricavi eguaglino i costi
totali, se a seguito di uno sviluppo tecnologico o aumento della domanda di un bene alcuni settori
otterranno profitti, tali profitti verranno meno quando gli imprenditori incentivati dall’appetibilità
del mercato ove si ottengono profitti sposteranno le loro risorse nel medesimo. In particolare Knight
sviluppò una teoria del profitto ed in Rischio, Incertezza e Profitto affermò che esiste l’intrapresa
del rischio d’affari contro cui è possibile assicurarsi, come nel caso d’incendi. In tal caso
l’assicurazione rappresenterà un costo e il tipo di rischio non rappresenta profitto. Esiste poi
l’intrapresa del rischio non assicurabile ed in tal caso si possono avere profitti, perché tale rischio è
contraddistinto da incertezza dettata dalla dinamicità del mercato.
Nell’ambito della Teoria dell’Interesse (ossia la somma volta a remunerare il capitale) dal 1500 e
sino ai primi decenni del 1900, possiamo individuare tre diverse correnti. La prima cd.non
monetaria o reale fondata sullo studio delle forze reali di lungo periodo che dettano il saggio
dell’interesse. La seconda cd.monetaria comprende sia la teoria dei fondi mutuabili sia la teoria
della preferenza per la liquidità. La terza cd.neo-Keynesiana basata sulla fusione delle due teorie
precedenti. Specificamente, i mercantilisti (1500-1750) ritennero che un aumento della Quantità di
moneta avrebbe aumentato il livello generale dei prezzi, e fatto diminuire il valore della moneta
nonché il livello generale dei tassi d’interesse. I classici (1750-1930) invece, credevano che la
moneta poteva influenzare il tasso d’interesse solo nel breve periodo, in quanto nel lungo periodo il
saggio era dettato da forze reali, dalla cd. produttività del capitale.
Una delle discussioni che nacque intorno allo sviluppo della Teoria della produttività marginale fu
quella dell’interesse: assunta infatti la proposizione secondo cui nel lungo periodo i profitti sono 0
in quanto i fattori produttivi vengono remunerati in misura pari al loro prodotto marginale e
dunque la remunerazione del capitale è nulla, dall’altra i teorici si scontrarono con una situazione
reale in cui, anche nel lungo periodo i capitalisti ottenevano interesse. Schumpeter studiò questo
problema e fornì tre diverse soluzioni: la prima che guarda ad un terzo fattore produttivo originario
di cui l’interesse è il rendimento (a lavoro e terra si aggiunge il capitale), la seconda che contesta
l’asserzione secondo cui nel lungo periodo i ricavi sono uguali ai costi totali, e la terza che ammette
la Teoria della produttività marginale ma solo per mercati concorrenziali e statici e dunque diversi
dal sistema economico reale in cui la dinamicità del sistema o situazione di monopolio ad es.
possono creare un interesse positivo.
Altre soluzioni furono proposte da:
Eugen Bohm Bawerk elaborò la Teoria dell’interesse in base alla quale i beni presenti sono di
regola più apprezzati dei beni futuri di uguale specie e numero, volendo fare un es. assunto un
interesse positivo, ogni soggetto vuole ricevere un dollaro oggi anziché tra un anno, in quanto la
moneta potrebbe tra un anno assumere un valore maggiore.
Secondo Bohm Bawerk le cause dell’esistenza dell’interesse dovevano essere ricercate non nella
struttura istituzionale della società così come dicevano i socialisti, bensì in considerazioni di
natura tecnologica ed economica. A sostegno della sua Teoria dell’interesse fornì tre motivazioni:
Una prima causa risiede nella diversità del rapporto di fabbisogno e copertura dei diversi
intervalli di tempo. Ciò perché assunto che il valore dei beni dipende dall’utilità marginale e tale
utilità decresce al diminuire della quantità dei beni, i beni attuali valgono maggiormente rispetto ai
futuri quando i soggetti si aspettano redditi e beni superiori a quelli attuali. La seconda è quella per
cui gli esseri umani sottovalutano sistematicamente i bisogni futuri e i mezzi che servono alla
loro soddisfazione. In primo luogo perché esiste incertezza sulla durata della propria vita, e poi
perché manca immaginazione e forza di volontà tra gli individui. Mentre le prime due cause
guardano il mercato dei crediti ai consumatori, la terza interessa il mercato dei crediti ai produttori,
e in base ad essa si afferma che l'interesse esiste a motivo della superiorità tecnica di beni attuali
rispetto quelli futuri. Con tale affermazione di superiorità tecnica di beni attuali Bohm Bawerk
intendeva spiegare come il capitale produce interesse. In particolare, secondo Böhm-Bawerk la
produzione dei beni può essere diretta o indiretta, detta anche capitalista. Il metodo diretto non
richiede beni capitali, quando ad es. costruiscono un arco con la legna trovata in un bosco. Il
metodo indiretto è capitalistico in quanto impiega beni capitali e richiede tempo, ma è
maggiormente produttivo rispetto al primo. Ai processi indiretti viene applicata la legge dei
rendimenti decrescenti in quanto inizialmente si ha un incremento del prodotto ma successivamente
tale prodotto diminuisce.
A differenza di Bohm Bawerk, Fisher affermò che le tre proposizioni erano collegate tra loro in
quanto i soggetti, in base a decisioni psicologiche, preferivano i beni attuali rispetto a quelli futuri.
Fisher era contrario alla classificazione dei redditi in salari, rendite, profitti e interessi,
quest’ultimi infatti non sono un reddito ricevuto come remunerazione del capitale bensì una
modalità di esame dei flussi di reddito.. Secondo Fisher rendita e interesse rappresentano lo stesso
reddito, così come la remunerazione del lavoro poteva essere considerata come interesse, dunque
l’Interesse di Fisher non è una parte ma la totalità del reddito e può essere definito come la
misura del prezzo che i consociati intendono pagare per ottenere un reddito anticipato.
Esistono allora due forze che dettano i tassi di interesse in un'economia di mercato: quelle
soggettive inerenti alle preferenze degli individui per i beni o i redditi attuali rispetto a quelli futuri;
e le forze oggettive derivanti dalle opportunità alternative di investimento disponibili e dalla
produttività dei fattori impiegati nella produzione dei beni finali. Gli individui pertanto modificano
il proprio flusso di reddito con debiti, crediti o investimenti, e in tali azioni saranno influenzati dalle
preferenze, dai tassi di rendimento degli investimenti e dal saggio d’interesse.
Contrariamente a Böhm-Bawerk, che era convinto che la sola produttività del capitale o "superiorità
tecnica" dei beni attuali rispetto a quelli futuri potesse spiegare l'esistenza dell'interesse, Fisher
affermò che oltre alla produttività del capitale, sono necessarie le preferenze intertemporali degli
individui.
Capitolo 9
Walras e la Teoria dell’equilibrio economico generale
Walras fu il primo economista in grado di sviluppare la Teoria dell’equilibrio economico generale
consistente nello studio del funzionamento del sistema economico considerando
contemporaneamente tutti i settori interessati.
La scienza economica specifica due diversi modelli, quello di equilibrio parziale e quello di
equilibrio generale. Nel primo caso esistono un numero di fattori variabili minori rispetto al
secondo nel quale vengono mantenute costanti le variabili che non possono essere manipolate dal
mondo economico, come ad es. la tecnologia disponibile o le preferenze e gusti dei consumatori.
Con i modelli ad equilibrio parziale è possibile studiare il singolo consumatore o un settore di un
impresa come quello della carne bovina. Supposto una situazione di equilibrio iniziale, può essere
misurata l’influenza che una diminuzione dei costi dell’industria ha sul prezzo della merce. In tal
caso l’offerta della merce aumenta e il suo prezzo diminuisce sino a giungere ad un nuovo
equilibrio. Se oltre al settore della carne bovina consideriamo anche quello della carne suina, un
calo dei costi nel primo settore farà si aumentare l’offerta e diminuire il prezzo della merce, ma al
contempo la domanda di carne suina diminuirà (all’aumentare di quella bovina). Anche nel secondo
settore si avrà così un calo della domanda, una diminuzione del prezzo e un nuovo afflusso di
consumatori tale da compensare il gapp esistente e giungere cioè ad un equilibrio dei settori.
L’illustrazione grafica delle interazioni esistenti tra i due mercati è però di difficile attuazione ma
Walras riuscì a studiarla e comprenderla mediante il linguaggio matematico.
Un esposizione verbale del modello Walrasiano
Passando ad un modello di equilibrio generale in cui vengono considerate imprese e consumatori
(e non settore pubblico ed estero), ipotizziamo cinque condizioni: 1) che le imprese non scambino
tra loro beni intermedi 2) che le preferenze dei consumatori siano stabili 3) che il livello della
tecnologia sia fissato stabilmente 4) una piena occupazione 5) che le industrie operino in un sistema
perfettamente concorrenziale. Tale modello è rappresentato nella figura seguente, ed in particolare
nella parte alta viene raffigurata i mercati dei beni finali, nella parte bassa vengono rappresentati i
mercati dei fattori produttivi. Riguardo i beni finali si ha equilibrio quando la quantità offerta
(raffigurata dal flusso che dalle imprese va verso i consumatori) e quella domandata (data dalla
freccia che dai consumatori si dirige verso le imprese) è uguale; circa i fattori produttivi vige la
stessa regola in quanto le imprese domandano i fattori produttivi (lavoro, terra, capitale) ai
consumatori favorendo il fluire di un flusso monetario verso quest’ultimi, i consumatori invece
offrono tali fattori in maniera tale da fissarne il prezzo, e si ha equilibrio quando la quantità offerta
è uguale a quella domandata.
In particolare i consumatori ottengono reddito nel mercato dei fattori produttivi e lo spendono in
quello dei beni finali, e il flusso di reddito esistente tra imprese e consumatori è pari al reddito
nazionale il quale sarà in equilibrio se i soggetti spendono tutti i loro redditi, sarà distribuito sul
mercato dei fattori produttivi e dipenderà dai prezzi di tali fattori e dalle quantità vendute per
ogni consumatore. Le imprese invece devono produrre una certa quantità di beni al minor costo
possibile, e devono attestare la produzione ad un livello che massimizza i profitti. Inoltre, dato il
mercato perfettamente concorrenziale, si avrà una situazione di equilibrio di lungo periodo quando
il prezzo dei beni finali sarà pari al costo medio della produzione, e il reddito nazionale sarà ad un
livello di equilibrio quando le imprese spenderanno tutti i loro ricavi sul mercato dei fattori
produttivi.
Questo sistema è caratterizzato da una interrelazionalità delle variabili e infatti se il prezzo di un
bene finale varia, l’intero sistema verrà rivoluzionato in quanto i consumatori indirizzeranno la loro
spesa in maniera diversa, o aumentandola o diminuendola, e parimenti le imprese produrranno una
maggiore o minore quantità di merce, e chiederanno fattori produttivi in maniera diversa rispetto al
passato. L’interdipendenza sia per la domanda complessiva dei beni finali che per l’offerta può
essere espresse mediante equazioni, che nel primo caso correlano il prezzo alla quantità domandata
dai vari consumatori, nel secondo caso il prezzo alla quantità offerta dalle imprese, e si avrà
equilibrio quando domanda e offerta si eguaglieranno. Specificamente l’equazione esprimerà il
reddito e la spesa complessiva, e affinchè esista una situazione di equilibrio del singolo
consumatore le due componenti devono essere uguali, e le spese devono massimizzare l’utilità. In
ugual modo si può procedere per il mercato dei fattori produttivi, ed in tal caso si avrà equilibrio
quando i profitti e costi medi sono pari al prezzo dei fattori.
Riguardo al modello Walrasiano possono però essere posti alcuni quesiti, come ad es. è possibile
giungere alla situazione di equilibrio generale? Da chi sono fissati i prezzi? E cosa accade in
condizioni di disequilibrio? A queste domande Walras non rispose e pertanto il suo modello astratto
rimane sotto questo punto di vista è alquanto carente.
Le posizioni metodologiche di Walras e Marshall
Circa le differenze tra Walras e Marshall il primo si preoccupò degli aspetti di tecnica e di forma
dell'analisi, e rappresentò matematicamente il modello del sistema economico nel modo più
generale possibile. Marshall invece riteneva la teoria economica come uno strumento utile
all'analisi e in quanto tale doveva riferirsi al mondo reale.
La politica economica di Walras fu la giusta misura tra socialismo di sinistra e applicazione del
laissez faire. Da un lato infatti fu critico nei confronti della dottrina Marxista e dei socialisti
utopisti, e dall’altro non accettò passivamente il libero mercato sottolineando che esistevano settori
economici in cui era necessario l’interventismo statale. Di JS Mill approvò la convinzione che la
rendita fondiaria è un reddito non guadagnato e come tale doveva essere espropriata, senza rendita
infatti e con un mercato perfettamente concorrenziale secondo Walras la distribuzione del reddito
sarebbe stata “quasi giusta”.
Vilfredo Pareto
Pareto (1848-1923) fu allievo di Walras e applicò la sua teoria dell’equilibrio economico generale
alle analisi di politica economica. In particolare,studiò l'efficienza dell’allocazione delle risorse
all’interno del sistema economico nel suo tutto. Fu così rappresentante dell’approccio continentale
ossia italiano e francese, che si contrappose a quello britannico fondato sull’equilibrio parziale di
Marshall. Secondo Pareto un cambiamento dell’allocazione delle risorse avrebbe migliorato il
benessere complessivo se qualcuno avesse potuto migliorare la propria posizione senza che
nessun altro la peggiorasse. Dunque partendo da una situazione di risorse scarse, una distribuzione
ideale o cd. ottimo paretiano, è quella in cui non è possibile migliorare la posizione di alcun
soggetto senza peggiorare la posizione di qualcun altro.
Capitolo 10
Alfred Marshall e l’economia neoclassica
Insieme a Walras, Marshall (1842-1924) è considerato come il fondatore della moderna Teoria
microeconomica ortodossa.
Secondo Marshall l’Economia Politica o Economica è lo studio del genere umano, ed in
particolare dell’azione individuale e sociale volta a conseguire e usare i requisiti essenziali del
benessere. A suo parere la Scienza economica poteva svilupparsi sia come disciplina astratta e
autonoma, sia come disciplina legata alle scienze sociali ed in tal caso, un attento studio avrebbe
apportato beneficio all’economia e alla società. A differenza dei classici, disse che scopo
dell’economia era eliminare la povertà e pertanto tentò d’individuare le cause della stessa e gli
strumenti necessari alla sua rimozione. Infine, in contrasto con i teorici del marginalismo non
accettò la teoria del consumo come base della scienza economica ma sottolineò l’importanza della
domanda e dell’offerta.
Riguardo la metodologia Marshalliana questa può essere sintetizzata
come la fusione tra metodo teorico, matematico e storico, e proprio per questa sua assenza di
dogmatismo, dovuto alla convinzione che la realtà, ossia il sistema economico è differente dalla
economia matematica, fu contestato da più parti anche perché espresse il suo pensiero in una
continua transazione tra due ragioni differenti.
L’analisi Marshalliana del sistema economico diparte da due precise convinzioni: bisogna in
primo luogo considerare la mutua dipendenza tra gli elementi esistenti nel sistema, e in secondo
luogo l’elemento tempo. Marshall costatò come le cause producono i loro effetti nel corso del
tempo e dunque, se una data variabile sta influenzando il sistema economico, è probabile che nel
venturo prossimo un’altra variabile produca un autonoma incidenza. Poiché in Economia non è
possibile isolare le singole cause e da poi studiarle, Marshall elaborò la sua teoria partendo dalla
tecnica Ceteris Paribus letteralmente a parità di condizioni e consistente in un iniziale studio
mantenendo costanti la maggior parte degli elementi. Maturò così l’idea di una Teoria
dell’equilibrio economico parziale con la quale è possibile dipanare un nodo economico studiando
una sfera del sistema senza però considerare l’interdipendenza con gli altri elementi esistenti, i
quali vengono mantenuti costanti. Successivamente lo studio dovrebbe procedere facendo variare
un fattore alla volta e verificando l’incidenza di questo sul problema affrontato.
Il problema dell’elemento temporale
Secondo Marshall uno dei maggiori ostacoli cui và incontro un economista è il tempo, in quanto,
data l’incidenza di alcune variabili, un analisi di breve periodo può rivelarsi nel lungo periodo
errata. Marshall affrontò il problema tempo elencando quattro periodi facenti capo alle condizioni
di offerta delle imprese e variabili a seconda del tipo d‘impresa. Il primo è quello del Periodo di
mercato caratterizzato dalla brevità, dalla non incidenza del prezzo e da un offerta rigida o
inelastica in quanto l’impresa non può variare la produzione. Il secondo è quello del breve periodo
in cui al variare del prezzo è possibile correggere la quantità prodotta di un bene nonché l’offerta
senza però intervenire sulla struttura produttiva. Data questa condizione, i costi dell’impresa
possono essere classificati in Costi primari o diretti o speciali legati da una condizione di
proporzionalità alla quantità di beni offerti sul mercato (> Q > C), e Costi Supplementari o fissi non
connessi alla quantità di beni offerti sul mercato. Il terzo è il Lungo periodo in cui è possibile
mutare la struttura produttiva e dunque la scala di produzione di modo che tutti i costi possono
essere trasformati in variabili. In questo caso si ha una curva di offerta maggiormente elastica
rispetto al breve periodo, mentre nel lungo periodo tale curva può essere: inclinata positivamente
(C> se >Qp), perfettamente elastica (C rimangono uguali), inclinata negativamente ( C decrescenti).
Infine si ha il Periodo secolare in cui popolazione o tecnologia possono variare.
La Forbice Marshalliana
Riguardo la Teoria del Valore gli economisti classici ritenevano determinante l’Offerta o altrimenti
i costi di produzione, i marginalisti la Domanda o altrimenti l‘utilità. Marshall propose di risolvere
la querelle studiando l’influenza del tempo e considerando l’interdipendenza esistente tra gli
elementi economici. Assunto che la curva di domanda dei beni finali è inclinata verso il basso e
tendente a destra,(in quanto la quantità aumenta al diminuire del prezzo), mentre la curva di offerta
è legata al tempo considerato in quanto nel lungo periodo, se i costi sono fissi, il prezzo dipende dal
costo di produzione, Marshall affermò che trovare la causa che determina il prezzo è un impresa
ardua, è come voler sapere quale lama di un paio di forbici, la superiore o inferiore, tagli la carta.
A proposito della Teoria marginalista contestò l’asserzione secondo cui l’utilità marginale o il
costo marginale sono determinanti del prezzo e ciò perché i loro valori nonché il prezzo sono
dettati reciprocamente dai fattori che operano al margine, e come, dice Marshall, se in una ciotola
giacciono tre palline rappresentanti l’utilità marginale, il costo di produzione e il prezzo; la
posizione di ognuna sarà dettata reciprocamente dalle altre.
La trattazione della domanda da parte di Marshall
Marshall scoprì il Principio di elasticità della domanda rispetto al Prezzo secondo il quale Prezzo
e quantità domandata sono inversamente proporzionali e pertanto, la curva di domanda di un
bene può essere rappresentata come inclinata verso il basso e verso destra. Tale principio fu
applicato anche all’offerta. L’Elasticità definibile come un indicatore della sensibilità della
Quantità domandata alle variazione del Prezzo di un bene, viene misurata da un coefficiente
calcolato secondo la formula:
Ed = - variazione % nella Qdomandata/variazione % nel Prezzo = - deltaQ/Q/deltaP/P
Assunto che il Prezzo e la Quantità domandata sono inversamente proporzionali, il coefficiente di
elasticità sarà sempre negativo e per convenzione si aggiunge il - per dare a Ed un valore positivo.
Specificamente si possono avere tre valori: il primo in cui il Coefficiente = 1 in cui la domanda di
un bene ha elasticità unitaria, il secondo con Coefficiente > 1 in cui la domanda di un bene è
elastica rispetto al Prezzo e determinato dalla diminuzione del Prezzo e aumento della Q
domandata in una % maggiore rispetto al Prezzo (e in un aumento della Spesa Totale (P X Qd) o del
Ricavo Totale), il terzo con Coefficiente < 1 in cui la domanda di un bene è inelastica rispetto al
Prezzo determinata dalla diminuzione del Prezzo e aumento della Q domandata in una % inferiore
rispetto al Prezzo (e diminuzione della Spesa Totale o del Ricavo Totale).
A differenza degli economisti contemporanei secondo cui la funzione di utilità individuale
ammette la sostituibilità e complementarità dei beni, e può essere scritta come: U= f
(Qa,Qb,Qc…Qn), Marshall propose una funzione di utilità additiva che calcola l’utilità totale come
somma tra le varie utilità ottenute dal consumo del singolo bene: U= f1*Qa+f2*Qb+f3*Qc…
Ipotizzando che l’utilità possa essere misurata grazie al sistema dei Prezzi (se un soggetto spende
due $ per ottenere un unita addizionale di un bene, e un $ per un unita addizionale di un altro bene,
il primo bene deve assicurare un utilità doppia) nonché la possibilità di effettuare confronti di utilità
tra diverse persone, Marshall volle spiegare la forma assunta dalla curva di domanda e per far ciò
partendo dal Principio dell’utilità marginale decrescente ( o 1 Legge di Gossen) formulò tale
condizione di equilibrio Mua/Pa=Mub/Pb=Muc/Pc…Mun/Pn=Mm (1) che considera la seconda
legge di Gossen (ossia un consumatore che ha a disposizione un reddito limitato, rende massima la
propria utilità quando, l’ultima unità di moneta spesa per acquistare un qualunque bene, gli
procura uguale utilità di quella ricevuta dall’ultima unità di moneta spesa per un qualsiasi altro
bene) ed eguaglia il rapporto tra Utilità marginale e Prezzi all’Utilità marginale della moneta.
Se l’Utilità marginale della moneta è l’utilità procurata dall’ultimo dollaro di reddito, l’utilità
marginale di un bene è data da: Mua = Pa * Mum in cui P è il Prezzo.
La curva di domanda può essere ottenuta partendo dalla condizione di un consumatore che
massimizza la propria utilità, poi abbassando il prezzo bisogna costruire graficamente il rapporto
esistente tra questo e quantità domandata. La variazione negativa del Prezzo comporta però un
aumento della Quantità domandata solo in determinati casi, ciò perché il consumatore reagisce alle
variazioni o attraverso l’effetto sostituzione o mediante l’effetto reddito. Il primo prevede che
all’aumentare del Prezzo di un bene questo venga sostituito con un altro, e la quantità domandata
diminuisce, il secondo effetto prevede che una diminuzione del Prezzo di un bene comporta un
aumento del potere di acquisto del consumatore, inducendolo ad acquistare la stessa quantità e con
il reddito residuale può ad es. acquistare altri beni. Bisogna però considerare anche la qualifica del
bene, se questo è normale un aumento reddituale comporta un incremento del consumo e dunque
uno spostamento della curva di domanda verso destra e un < Prezzo produce > Qdomandata in
virtù dei due effetti, se il bene invece è inferiore il suo consumo diminuisce all’aumentare del
reddito e la curva si sposta verso sinistra, esistono però beni inferiori cd.beni di Giffen per i quali
l’effetto reddito è maggiore di quello della sostituzione, anche se non esistono dati reali in tal senso
(un aumento del Prezzo del pane detta per i poveri una diminuzione della Q domandata di carne o
cibi più costosi). In base a queste considerazioni Marshall affermò che la Quantità domandata
aumenta al calare del Prezzo, e diminuisce all’aumentare del Prezzo.
L’ipotesi di fondo su cui Marshall costruì la curva di domanda fu che l’effetto reddito dovuto a
piccole variazioni di prezzo fosse trascurabile in quanto l’Utilità marginale della moneta rimaneva
costante. Se nell’equazione 1 il prezzo diminuisce, la Qdomandata aumenta e l’Utilità marginale
diminuisce sino a che Mua/Pa sia uguale ai rapporti degli altri beni, e dunque venga uguagliata
l’utilità marginale della moneta. Marshall probabilmente mantenne costante l’Utilità marginale
della moneta perché non riuscì a distingure gli effetti sostituzione e reddito, e che l’effetto reddito
dovuto a piccole variazioni di prezzo fosse trascurabile.
Il surplus dei consumatori
Marshall riuscì ad elaborare il Principio del surplus dei consumatori assumendo come ipotesi
l’invariabilità dell’Utilità marginale della moneta rispetto a piccole variazioni di prezzi.
Data questa ipotesi, nell’equazione Mua = Pa * Mum il Prezzo e l’utilità marginale del bene sono
direttamente proporzionali, e dunque il Prezzo rappresenta la misura dell’utilità marginale che il
bene apporta al consumatore, inoltre le curve di domanda sono inclinate negativamente perché gli
individui sono disposti a pagare di più per le unità di bene consumate per prima rispetto a quelle
consumate per ultime (principio dell’utilità marginale decrescente).
Nel sistema economico accade però che i consumatori acquistano le unità di un bene ad un solo
prezzo, e se il prezzo misura l’utilità marginale dell’ultima unità consumata, gli individui ottengono
le unità precedenti ad un prezzo più basso rispetto a quello che sono disposti a pagare. Il surplus dei
consumatori è dato allora dalla differenza tra ciò che i consumatori pagano realmente per avere il
bene e ciò che pagherebbero idealmente per ottenere uguale quantità. Tale concetto venne
impiegato nell’analisi del benessere economico e pertanto non guarda ai singoli individui ma a
curve di domanda di mercato. Nella fig. sottostante assunto come Prezzo di mercato OC, la quantità
domandata del bene sarà OH. Il grafico rappresenta però il mercato nel suo complesso, e dunque
possono esistere soggetti disposti a pagare il bene ad un Prezzo MP. Detto ciò il surplus dei
consumatori è dato dall’area CAD, la quale rappresenta anche il guadagno monetario ottenuto dai
consumatori.
Marshall intendeva misurare tale guadagno in termini di utilità e ciò poteva essere fatto mantenendo
costante l’Utilità marginale della moneta e utilizzando la funzione di utilità additiva. Edgeworth e
Fisher dimostarono però che ciò non era possibile se venivano considerate le relazioni di
complementarità e sostituibilità dei beni, escluse nella funzione additiva di Marshall.
Il concetto di Surplus dei consumatori è utilizzato anche nello studio delle conseguenze che
producono le imposte o i sussidi alle imprese. Nella fig. sottostante viene rappresentata un impresa
con costi costanti, e pertanto con curva di offerta perfettamente elastica SS’. Se la domanda è DD’ e
siamo in una situazione di equilibrio, il prezzo sarà HA mentre il Surplus dei consumatori è dato
dall’area DSA. Con una tassa a carico dell’impresa l’offerta sarà ss’, il nuovo Surplus si ridurrà a
Das, il guadagno dei ricavi sarà SKas e la perdita del Surplus sarà maggiore rispetto ai ricavi
dell’area Kaa. Marshall dimostra così che una tassa sulla produzione, così come un sussidio (per
il quale bisogna partire dalla curva di offerta ss’ e in cui il guadagno nel Surplus sarà minore
rispetto alla spesa dovuta al sussidio) non apportano beneficio sociale. Riguardo alle industrie
aventi rendimenti decrescenti (curve di offerta inclinate verso l’alto) o rendimenti crescenti (curve
di offerta inclinate verso il basso), si poteva avere un beneficio sociale grazie all’imposizione di
tasse alle prime e erogazione di sussidi alle seconde, nel primo caso ciò può avvenire solo se la
curva di offerta è inclinata in modo tale che il guadagno dei ricavi sia > rispetto alla perdita di
Surplus, nel secondo caso quando il guadagno in termini di Surplus > rispetto al costo del sussidio.
L’analisi Marshalliana dell’Offerta
Marshall riuscì ad individuare perfettamente la forma delle curve di Offerta nei diversi periodi di
tempo da lui dettati. Per il periodo di mercato la curva è perfettamente elastica, nel breve periodo
invece la forma della curva può essere chiarita dal principio dei rendimenti decrescenti. Riguardo a
tale periodo l’economista in esame distinse i costi fissi dai costi variabili, e con questi è possibile
affermare che un impresa può continuare a produrre (nel breve periodo) anche quando si trova in
perdita, sempre che vengono coperti i costi variabili. La chiusura infatti comporterebbe una perdita
uguale ai costi fissi totali, mentre in tal caso la perdita è minore dei costi fissi fino a quando il
Ricavo totale è maggiore dei costi variabili totali. La curva di offerta dell’impresa, in mercati
perfettamente concorrenziali, equivale quindi alla parte di curva dei costi marginali compresa tra la
curva dei costi medi e quella dei costi medi variabili. Se i prezzi diminuiscono al di sotto dei Cmedi,
poiché le imprese vende ad un Prezzo insufficiente a coprire tutti i costi, secondo Marshall la curva
di offerta nel breve periodo è diversa dalla curva del Cmarginale.
Sulla posizione e forma delle curve di costo e Offerta dell’impresa agiscono forze di lungo periodo.
Primariamente quelle interne all’impresa come ad es. le economie interne di scala che generano
costi decrescenti o le diseconomie interne che generano costi crescenti. Le economie esterne
invece, ebbero nell’analisi Marshalliana il compito di riavvicinare le curve di offerta di breve
periodo positive delle imprese e industrie e la costatazione che col tempo i costi e prezzi di alcune
imprese erano diminuiti. Tali economie infatti, quando le dimensioni dell’industria considerata
crescono farebbero spostare verso il basso le curve di costo per l’impresa e per l’industria. In tal
caso la curva di offerta di lungo periodo dell’industria è inclinata verso il basso, e dunque una
maggiore Q di merce è offerta a prezzi più bassi. Le economie esterne agiscono grazie alla
riduzione dei costi che toccano le imprese di un industria quando queste si concentrano in una zona
e comunizzano le loro idee, a cui si aggiunge anche risparmio nei costi nelle industrie suppletive e
del lavoro qualificato.
L’analisi Marshalliana della distribuzione del reddito
La determinazione Marshalliana delle rendite, salari, profitti e interesse parte dall’assunto che la
domanda di un fattore produttivo è una domanda derivata dipendente dal valore del prodotto
marginale di quel fattore. Poiché i prodotti marginali non possono essere facilmente calcolati, egli
introduce il cd. prodotto marginale netto definibile come l’incremento del ricavo totale dovuto al
lavoro supplementare meno il costo del lavoro supplementare utilizzato. In conclusione evidenzia
che non esiste una Teoria della distribuzione basata sulla produttività marginale ma una Teoria
della determinazione del Prezzo dei fattori e ciò perché la produttività marginale misura la
domanda di un fattore, i prezzi dei fattori invece sono dati dalla reciproca influenza tra domanda,
offerta e prezzo al margine.
La quasi-rendita
Riguardo la possibilità che la remunerazione di un fattore produttivo possa essere considerata
come determinazione del prezzo, o al contrario venga dettata da quest’ultimo, Marshall innovò sia
la Teoria classica Milliana che la Teoria Marginalista. La prima sosteneva che i prezzi dei beni
finali dipendevano dal costo di produzione al margine, e assunto che al margine non esiste rendita,
salari, profitti e interesse determinano il prezzo che conseguentemente deve essere studiato come
collegato all’Offerta. Al contrario, la seconda, sosteneva che le remunerazioni dei fattori produttivi
venivano dettate dai prezzi. Marshall dal suo canto propose di risolvere il tema esaminando il
periodo di tempo considerato nonché particolare ipotesi introdotte durante l’esame.
Secondo Ricardo assunto che la terra ha un indirizzo agricolo e la sua curva di offerta è
perfettamente inelastica, il pagamento che il proprietario della terra riceveva a titolo di rendita
dipende dal prezzo del grano. Marshall rivendendo la Teoria Ricardiana sottolineò che guardando
al sistema economico complessivo, sebbene esistano delle eccezioni, essendo la rendita dettata dal
prezzo deve essere esclusa dai costi della produzione, se invece guardiamo ad un impresa soltanto
la rendita rappresenta un costo di produzione e in quanto tale una determinante del prezzo. Nel
sistema economico complessivo eccezione alla regola generale, e dunque la rendita è determinante
del prezzo, quando la terra è inutilizzata a costo nullo come ad es. nell’America del XX sec. ove la
rendita era data dalla coltura della terra.
Marshall dimostrò che nel breve periodo salari, profitti e interesse assumono alcune
caratteristiche della rendita. Prendendo ad es. il salario, tale, in condizioni di equilibrio di lungo
periodo viene inteso come una determinante del prezzo in quanto farà si che il lavoratore non cerchi
altri impieghi e inoltre costituisce il prezzo di offerta che viene pagato al fine di ottenere la quantità
offerta. Se il salario cresce a seguito di un aumento della domanda di una certa figura professionale,
nel breve periodo la curva di offerta sarà meno elastica rispetto al lungo periodo e
conseguentemente la crescita del salario non inciderà sulla quantità offerta e il livello del salario
rimarrà più alto di quello di lungo periodo. Il fattore produttivo salario in tal caso, è determinato
dal prezzo necessario ad accaparrarsi determinate figure professionali.
Tale ragionamento fece risolvere Marshall a denominare salari, profitti e interesse quasi-rendita in
quanto nel periodo di mercato e nel breve periodo, poiché l’offerta dei fattori produttivi è fissa,
questi sono determinanti del prezzo. Studiando la curva di offerta del salario infatti, notiamo che
nel periodo di mercato questa è perfettamente inelastica e pertanto > Domanda determinerà salari
maggiori poiché la quantità offerta rimarrà eguale, nel breve periodo vi sarà una lieve diminuzione
del livello di salario a seguito di un leggero > Offerta, e infine nel lungo periodo, il periodo escluso
da Marshall la curva di offerta diventerà elastica e il prezzo non determinerà più il salario.
La stessa analisi può essere applicata ai Profitti i quali in condizioni di equilibrio di lungo periodo
verranno impiegati per trattenere il capitale e dunque rappresentano un costo della produzione e
determinano il prezzo del bene. Al contrario nel breve periodo, in cui costi dell’impresa possono
essere classificati in fissi e variabili e i ricavi devono essere tali da remunerare il costo opportunità
dei fattori variabili nel loro complesso (che altrimenti migrano verso altre aziende più
remunerative), le somme restanti rappresentano il rendimento dei fattori fissi la cui offerta è
perfettamente inelastica e dunque i profitti determinano il prezzo del bene. Infine per l’Interesse
considerato che nel breve periodo il capitale è un fattore fisso anche in questo caso il suo
rendimento può essere definito come una quasi rendita. La differenza tra breve e lungo periodo
consiste nel fatto che in quest’ultimo, l’Offerta di fattori produttivi non è più fissa e i prezzi dei beni
finali devono essere tali da coprire i costi derivanti dalla produzione, dunque il pagamento dei
fattori detta il prezzo il quale deve essere studiato dal punto di vista dell’offerta.
Stabilità e instabilità dell’equilibrio
Marshall tratta la curva di domanda e di Offerta partendo dall’assunto che la Quantità richiesta o
Offerta rappresentano una variabile indipendente, il Prezzo invece è una variabile dipendente, e
tale ragionamento deriva dal fatto che le curve sono elementi indicatori per un lato del prezzo
massimo che i consumatori sono disposti a pagare per ottenere una data quantità di un bene, e
dall’altra il prezzo minimo che gli imprenditori sono disposti a ricevere per vendere una certa
quantità di bene prodotto. Nei Principi di Economia Marshall presenta l’equilibrio dei mercati che
può essere raggiunto agendo sulla quantità offerta del bene trattato.
Nel grafico seguente vediamo che, quando la Quantità è R1, il prezzo di Domanda R1D1 > del
Prezzo di Offerta R1S1, e dunque i venditori offrono una quantità maggiore del bene sino a
giungere al prezzo di equilibrio, se invece la Quantità è R2, il Prezzo di Offerta R2S2> del Prezzo
di Domanda R2D2 e pertanto i venditori saranno costretti a diminuire la quantità Offerta.
A differenza di Marshall, Walras e la teoria economica contemporanea indicano che la variabile
indipendente e rappresentata dal Prezzo e non dalla domanda, ciò nonostante, le conclusioni
raggiunte sono identiche e infatti con una curva di Offerta inclinata positivamente si ottiene il
raggiungimento di un equilibrio stabile. Partendo infatti dal Prezzo P2 si ha una Quantità
domandata P2D1 < della Quantità Offerta P2S2, e dunque la concorrenza tra imprenditori originerà
la situazione di equilibrio, con un Prezzo P1 si ha una Quantità Offerta P1S1 < della Quantità
Domandata P1D2 e dunque la concorrenza tra compratori farà aumentare il prezzo sino al livello di
equilibrio il quale, supposto una variazione verrà ristabilito nuovamente con uguale dinamica.
Nel grafico superiore a) è possibile individuare un equilibrio stabile Marshalliano ossia
considerando la quantità come variabile indipendente. In tal caso se la Q > al punto OH, il Prezzo
di Offerta è sempre maggiore al Prezzo domandato e dunque i venditori ridurranno la quantità di
bene posta sul mercato, se Q < al punto OH i venditori aumenteranno la quantità in quanto il Prezzo
della Domanda è superiore a quello Offerto. Se il Prezzo diventa variabile indipendente il grafico a)
rappresenta un equilibrio instabile in quanto per prezzi inferiori a Pe la Quantità offerta > quella
domandata e i venditori ribasseranno il prezzo, se al contrario il Prezzo salirà ancor più. Nel grafico
B invece si ha un equilibrio stabile se consideriamo il Prezzo come variabile indipendente ed un
equilibrio instabile se la variabile indipendente è la Quantità. Guardando entrambi i grafici se ne
deduce che se la curva di Offerta è inclinata verso il basso e verso destra, la stabilità dell’equilibrio
dipende dalle pendenze della domanda e Offerta nonché dal comportamento dei vari operatori.
Le fluttuazioni economiche, la moneta e i prezzi
Marshall si occupò anche di Macroeconomia: accettò la Legge di Say e affermò che eventuali
sottoconsumi derivanti da fluttuazioni economiche non dipendevano dal sistema ma dalla fiducia
dei consumatori. Durante il momento di fiducia, depressione economica e disoccupazione potevano
essere combattuti mediante un controllo dei mercati e del credito, facendo si che un eccessiva
espansione del credito non conducesse alla recessione. Durante una depressione invece, l’esecutivo
deve infondere fiducia magari concedendo alle imprese un assicurazione contro i rischi. Circa
quanta incidenza hanno le variabili monetarie sul livello generale dei prezzi, assunto che le teorie
Marshalliane erano fondate sulla piena occupazione e un livello stabile dei prezzi, egli studiò le
determinanti del livello dei prezzi come forma di teoria quantitativa della moneta inserita nel
modello di interazione tra domanda e offerta.
Capitolo 11
I primi critici dell’economia neoclassica
La scuola eterodossa è caratterizzata dalla cd. illegittimità rivelata ossia da un attribuzione da
parte della corrente dominante, di scarso o nullo valore alle teorie proclamate.
La scuola storica tedesca nata in Germania a partire dal 1840 cominciò a criticare l’ortodossia
classica ancor prima di Menger, Jevons, Walras e Marshall. Esponenti della prima scuola storica
tedesca furono List e Hildebrand critici della generale applicabilità della teoria ortodossa classica
nonché dell’applicazione delle teorie Smithiane, Ricardiane e Milliane all’economia tedesca, la
quale differentemente dall’inglese, era prettamente agricola, infine, tranne qualche eccezione
sposarono una metodologia fondata sul metodo storico-induttivo negando quello teorico-deduttivo.
List ad es. confutò l’adattamento del libero commercio alla Germania o agli Usa, in questi stati
infatti, l’economia industriale non era sviluppata come in Uk e dunque erano indispensabili sia il
protezionismo e l’introduzione di tariffe. La vecchia scuola storica si occupò principalmente delle
leggi che governano la fase di crescita e sviluppo economico avvalorandole con dati storici e
statistici, e infatti a proposito dei sistemi economici localizzati nelle zone temperate, List individuò
cinque stadi: nomadismo,pastorizia, agricoltura, agricoltura con manifattura e agricoltura con
manifattura e commercio. Hildebrand invece ne individuò tre: quello del baratto, quello della
moneta e infine quello del credito.
Il maggiore esponente della seconda scuola storica tedesca fu Schmoller ma questa, a differenza
della prima, mancò di sviluppare teorie circa le fasi di crescita e sviluppo economico. La giovane
scuola tedesca restò fedele al metodo storico-induttivo e si occupò delle riforme sociali. Schmoller
viene ricordato per il Methodenstreit un dibattito sul metodo intrattenuto con Menger.
La scuola storica inglese fu capeggiata da Thomas Cliffe Leslie il quale nonostante l’accettazione
della metodologia Smithiana affermò che questa non poteva più essere applicata all’Inghilterra,
Toynbee coniò il termine Rivoluzione industriale e applicò il metodo storico-induttivo.
Thorstein Veblen- Le critiche di Veblen all’economia ortodossa
Veblen (1857-1929) fu il fondatore dell’Istituzionalismo. L’opera più importante che riflette il suo
pensiero è The Place of Science in Modern Civilization in cui viene attaccata la validità scientifica
delle ipotesi basilari della Teoria neoclassica e proposta una scienza frutto della fusione tra
economia, antropologia, sociologia, psicologia e storia. Anche la teoria eterodossa di Marx e della
scuola storica fu accusata di mancata validità scientifica.
Secondo Veblen la differenza esistente tra quanto proposto da Smith e i suoi successori risiedeva
solo nei termini, in quanto presupposti e ipotesi di partenza erano identiche. Alle origini della
scienza economica, i teorici spiegavano l’andamento della società mediante il ricorso a forze
soprannaturali, dopo, tali forze vennero sostituite dalla convinzione che leggi naturali
sovrintendevano al sistema economico e sociale. Da Smith a Marshall dunque, tutti i pensatori
accettarono la tendenza al miglioramento ossia l’armonicità del sistema economico, e vennero ad
es. sviluppate la Teoria della mano invisibile o le Teorie Marshalliane sull’equilibrio.
La Teoria economica ortodossa era secondo Veblen teleologica in quanto il sistema economico
veniva descritto come tendente ad un fine, ad un equilibrio di lungo periodo che empiricamente
non era mai stato raggiunto e veniva assunto ancor prima dell’inizio dell’analisi, e quindi anche
pre darwiniana in quanto Veblen intendeva l’evoluzione come un processo meccanico in grado di
far sviluppare gli uomini in base all’ambiente senza collegamenti ad una eventuale finalità che
sovrintendesse lo sviluppo. Inoltre la teoria ortodossa era pre darwiniana perchè localizzata su temi
statici dell’analisi ed escludeva la trasformazione ed evoluzione del sistema economico, e pertanto
doveva lasciare il passo ad un analisi dinamica e darwianiana. Veblen chiamò la teoria ortodossa
tassonomica perché mancava di spiegare le componenti del sistema economico e le classificava
soltanto.
Altra critica verso l’economia ortodossa fu quella di essere rimasta avvinta dai legacci della Teoria
della mano invisibile mai verificata. Gli ortodossi ritenevano che l’imprenditore al fine di ottenere
profitti avrebbe prodotto beni a bassi costi e la concorrenza avrebbe fatto coincidere interesse
dell’imprenditore con quello sociale. A tal proposito Veblen affermò che il profitto e la produzione
di beni sono due cose distinte, che il comportamento imprenditoriale nella maggior parte dei casi
nuoceva al sistema economico, e negò la coincidenza tra interesse dell’imprenditore e quello
collettivo. Riguardo al primo punto, all’epoca di Smith disse Veblen profitto e produzione dei beni
viaggiavano di pari passo ma successivamente, con lo sviluppo industriale, questi avevano preso
strade diverse. Direttori della produzione o lavoratori erano al suo tempo quelli che producevano
beni, i titolari delle imprese ricercavano invece il profitto e in tale ricerca danneggiavano la
produzione e conseguentemente la collettività. Le imprese volevano giungere a posizioni di
monopolio e non di efficienza, la concorrenza internazionale avrebbe favorito guerre e gli
escamotage finanziari erano le cause di depressione economica e disoccupazione. Da tutto ciò si
ricava che per Veblen i mercati perfettamente concorrenziali erano un male per la società.
L’economia ortodossa era dunque cieca verso gli sviluppi della fisica e biologia, della sociologia e
psicologia e tutto ciò aveva profondamente inciso sulla sua validità scientifica, e anche se essa era
incentrata sullo studio dell’uomo, l’uomo in quanto tale non era interessato dall’analisi. Infine
contestò la mancata risoluzione della dicotomia tra teoria del sistema economico e reale
funzionamento del sistema, e a tal fine incitò un lavoro maggiormente empirico e storico-induttivo.
L’analisi del capitalismo secondo Veblen
La scienza economica secondo la visione di Veblen doveva occuparsi dello studio dell’evoluzione
della struttura istituzionale ove per Istituzioni bisogna intendere le convinzioni e consuetudini
proprie di un dato tempo. Pertanto al fine di capire l’evoluzione e il funzionamento della sua epoca
era necessario un approccio di tipo evoluzionista chiarificatore del rapporto tra peculiarità umane e
cultura istituzionalizzata. Il comportamento individuale derivava da modelli prevalenti nati dalle
pregresse relazioni tra uomini e cultura e tali aspetti della natura umana furono detti istinti. Secondo
Veblen gli istinti che creano le attività economiche sono: quello di parentela volto
all‘interessamento per la famiglia, la classe, la nazione o l’intera umanità, quello di bravura
consistente nel desiderio di produrre beni di qualità, e tendente all’efficienza ed economia del
proprio lavoro, della curiosità fine a se stessa consistente nel voler capire la realtà e infine quello
acquisitivo che mira alla ricerca del bene personale in opposizione a quello collettivo.
La dicotomia fondamentale
Gli istinti di parentela, bravura e curiosità fine a se stessa sono fondamentali per la produzione di
beni di qualità che apportano beneficio alla collettività, l’istinto acquisitivo riguarda il solo bene
individuale. Lo studio del sistema economico può allora chiarire, il conflitto originato dai due
aspetti umani: quello propenso all’economia e quello capace di ostacolare lo sviluppo sociale.
Secondo Veblen gli impieghi industriali o tecnologici sono quelli derivanti dall’istinto di
parentela, bravura e curiosità e hanno una natura dinamica, a differenza del comportamento
cerimoniale un atteggiamento primitivo e mediante il quale i primi uomini mediante Totem o Tabù
invocavano l’intervento degli dei per ottenere benefici di diversa natura, il quale però era ancora
esistente sotto forma d’impieghi finanziari.
Ne la Teoria della Classe agiata Veblen sulla base della dicotomia dimensione cerimoniale e
industriale studiò il fenomeno del consumo ostentativo. A differenza del passato l’uomo non viene
rispettato in virtù del suo potere predatorio ma in base al reddito elevato il quale al fine di essere
riconosciuto dai consociati deve essere ostentato. Il consumo ostentativo degli oggetti acquistati
rappresentava in quell’epoca il potere predatorio del soggetto, che per ottenere un reddito elevato
ricercava la proprietà assenteista (in cui gli strumenti di produzione non appartenevano più al
lavoratore) l’attività finanziaria o quella legale. Veblen criticò anche i responsabili delle università i
cd. capitani di erudizione i quali, al pari dei capitani d’industria avevano confuso tra mezzi e fini,
penalizzando le accademie del sapere ove dovrebbero prevalere l‘istinto di bravura e curiosità fine a
se stessa. Al contrario esistevano comportamenti cerimoniali e impieghi finanziari e l’unico modo
per poter salvare le Università era eliminare il rettorato e il senato accademico.
Stabilità e tendenze di lungo periodo del capitalismo
Secondo la Teoria del ciclo economico durante lo sviluppo del sistema economico le attività
finanziarie portano ad un aumento del credito il quale viene compensato dal valore via via
maggiore che viene attribuito al capitale. In questo periodo dunque, si ha crescita del credito, del
valore dei beni capitali e del prezzo dei beni capitali, e ciò sino a quando non emerge la
sproporzione esistente tra la reale capacità dei beni capitali di fruttare guadagni e il valore
attribuito al capitale e dunque l’economica rallenta e avviene la liquidazione delle posizioni
finanziarie. Il blocco dell’economia comporta un calo dei prezzi, dell’occupazione e del credito,
cosicché le aziende vengono ricapitalizzate con dati maggiormente realistici, quelle piccole
vengono assorbite dalle grandi o falliscono ed in tal modo la proprietà e l’industria si concentrano in
poche mani. Durante questa fase avviene un calo dei salari reali, un aumento dei margini di profitto
e pertanto gli eccessi di credito vengono eliminati e il valore finanziario degli affari è maggiormente
vicino alla produzione reale.
Riguardo alla Tendenze di lungo periodo del capitalismo Veblen non fu risoluto ma limitandosi ad
affermare che l’unica certezza era la transitorietà del regime d’affari d’impresa propose diversi
scenari. In primo luogo affermò che l’economia industriale poteva addurre giovamento alla società
solo se il controllo del sistema sarebbe passato dagli uomini d’affari ai lavoratori e ingegneri, i
primi infatti tendevano a bloccare il progresso umano, producendo sempre maggiori beni e
intorbidendo la natura umana. Con tale rivolgimento avrebbero trovato la fine la proprietà
assenteista e tutte le manipolazioni finanziarie.
Veblen criticò la posizione di Marx circa la fine del Capitalismo, in quanto il sistema poteva
estinguersi non per mezzo di una rivoluzione del proletariato ma a seguito del suo successo. Il
consumismo ostentativo infatti, aveva la forza di provocare tensioni sociali e sconvolgimenti dovuti
allo spirito di emulazione. In alternativa poteva succedere una rivoluzione socialista in cui non ci
sarebbero state più divisioni di classi anche se, nel lungo periodo, la società poteva politicamente
sbilanciarsi a destra se lavoratori e ingegneri si sarebbero lasciati affascinare dal Nazionalismo.
Wesley Clair Mitchell
Mitchell (1874-1948) fu allievo di Veblen e viene inserito tra gli esponenti della scuola
istuzionalista e si soffermò soprattutto sulla metodologia trascurata da Veblen. Tra i suoi lavori più
importanti bisogna citare lo studio della storia delle idee economiche con il quale asseverò che le
varie teorie erano il frutto delle diverse conclusioni che gli scienziati economici avevano raggiunto
dopo aver esaminato i problemi del tempo. Riguardo la Teoria del ciclo economico utilizzò dati
storici tralasciando le premesse astratte proprie del mondo ortodosso. Secondo Mitchell grazie allo
studio dell’economia era possibile governare in miglior modo le oscillazioni proprie del sistema
economico, e accettata la distinzione tra impieghi industriali e finanziari di Veblen ritenne che tali
variazioni erano da addebitare al mondo della finanza come risposta alla diminuzione o all’aumento
dei profitti. Sebbene ogni ciclo economico è unico, a parere di Mitchell esistono degli elementi
simili che rivelano la fase di depressione, ripresa, crescita e crisi. Durante la fase di depressione
vengono ad es. originati i punti fermi per la successiva ripresa, l’andamento dei tassi fa si che le
imprese inefficienti chiudano i battenti, i costi si riducono; durante la fase di crescita si originano
invece i punti fermi della crisi come ad es. aumento dei costi e diminuzione dei profitti.
Tra le altre critiche rivolte alla teoria ortodossa bisogna sottolineare la negazione del
comportamento umano fondato su una psicologia di tipo edonistico nonché lo studio dello stesso
mediante il metodo empirico.
John R.Commons
Commons (1862-1945) fu un economista americano eterodosso e a seguito del rapporto con Ely fu
influenzato dalla scuola storica tedesca. Pur accettando il sistema capitalista propose di apportare
alcune correzioni al libero mercato, in primo l’intervento statale. Si occupò di riforme sociali,
istruzione univeritaria e mondo del lavoro settore nel quale viene ricordato soprattutto per le
innovazioni di legislazione sociale quali la regolamentazione dei servizi pubblici, l’assicurazione
contro infortuni sul lavoro o il sussidio di disoccupazione. Il metodo Commons consisteva nello
studiare uno specifico problema sociale, poi proporre le conclusioni ai politici che avrebbero dovuto
approvare un eventuale disegno di legge e una ottenuta la riforma suggerire la stessa in altri stati.
Nel settore universitario fece acquistare notevole importanza all’Università del Wisconsin e
incentrò lo studio della scienza economica in base alla metodologia Commons. Oggi tale approccio
è mutato ossia è in linea con quello delle altre università. Infine sul tema economia del lavoro
Commons presentò a Documentary History of American Industrial Society (1910) una raccolta sulla
storia del lavoro americano.
La critica di Commons nei confronti della Teoria ortodossa riguardò innanzitutto il tema della
formazione del prezzo e dello scambio. Gli agenti dei mercati concorrenziali non erano soggetti
razionali e meccanici in quanto tale peculiarità era rinvenibile solamente nei mercati altamente
organizzati dove mancavano le forze come l’abitudine o le usanze che incidono sulle transazioni di
mercato le quali, possono assumere tre diverse forme. In primo luogo esistono le transazioni
relative alla contrattazione, determinanti del prezzo dei beni finali e dei fattori produttivi, e
mediante le quali la proprietà può essere trasferita in base ad un libero accordo tra individui che
godono degli stessi diritti, anche se l’uguaglianza giuridica non comporta una conseguente
uguaglianza di potere economico. Esistono poi le transazioni manageriali che implicano creazione
di ricchezza e consistono nella posizione di comando di un soggetto che giuridicamente ed
economicamente è gerarchicamente superiore rispetto ad altri (dirigente-dipendente). Infine
esistono le transazioni relative al razionamento che interessano le trattative volte all’accordo tra
soggetti che hanno l’autorità di dividere benefici e oneri tra determinati consociati.
Le Istituzioni sono invece un azione collettiva tesa al controllo, o alla libera azione dell’azione
individuale eliminando ad es. dei vincoli. In ogni transazione economica dice Commons sorge un
conflitto determinato dalla sperequazione dovuta alla diversa assegnazione tra soggetti, e tale
conflitto viene assorbito dalle regole operative ossia l’insieme di abitudini, usanze e leggi. Quando
la storia introduce una modificazione accade che alcuni contrasti emergano ugualmente e le regole
operative vengono cambiate. Secondo Commons allora, nell’ambito della scienza economica, la
storia e il diritto assumono una rilevanza unica.
John A.Hobson
Hobson (1858-1940) viene ricordato come il padre intellettuale del Welfare state inglese. Al pari
degli altri autori eterodossi contestò il laissez faire e rilevò le tre fondamentali inefficienze del
sistema economico inglese. Primariamente, per via dei fenomeni di sottoconsumo il sistema non
era in grado di garantire il pieno impiego delle risorse; in secondo luogo grazie al loro potere di
contrattazione le classi agiate ricevevano ingiustamente un reddito maggiore rispetto a quelle
medie; e infine dato che il sistema dei prezzi mira al profitto monetario, la misura dei costi sociali
sostenuti e delle utilità sociali prodotte non può essere ricercata nel mercato.
Inoltre negò la Legge di Say, la dicotomia tra economica normativa e positiva, e affermò che il
fenomeno dell’Imperialismo era nato per la necessità di ovviare all’eccesso di risparmio e
all’eccesso di offerta di beni in presenza di pieno impiego. Il capitalismo causava dunque le
depressioni economiche che secondo Hobson potevano essere combattute con una tassazione volta
ad una più equa distribuzione del reddito, e al sostegno statale nei confronti delle classi povere.
Circa la distribuzione del reddito negò la Teoria della produttività marginale e affermò che il
pagamento dei fattori produttivi può essere analizzato come remunerazione sufficiente per il
mantenimento del fattore preso ad oggetto; remunerazione in grado di far aumentare la quantità e
la produttività del fattore, una remunerazione in eccesso a quello che avrebbe garantito la
conservazione e la crescita detto sovrappiù improduttivo.
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