LE LEVE DI UN NUOVO SVILUPPO IL PATRIMONIO CULTURALE Giorgio Ruffolo Il possibile declino della cultura politica (e i modi per scongiurarlo) Non intendo certo parlare della cultura in senso lato, ma di cultura politica. E più propriamente delle radici culturali dell’attuale condizione politica italiana, delle correnti profonde, storiche, che l’ attraversano, delle prospettive sulle quali il loro corso si apre. Del nostro presente politico come storia, insomma. E certo non da storico, che non sono, ma da politico che tenta di guardare un po’ al di là dell’agenda quotidiana, per trarne qualche riflessione pratica. 1. Un giorno forse ci accorgeremo che nel primo quinquennio degli anni novanta c’è stata, nel nostro paese, una vera e propria catastrofe politica, un terremoto che ha fatto emergere strati profondi della nostra società, abbattuto strutture portanti, aperto varchi inquietanti, ma anche promettenti, sul nostro futuro. Forse non si coglie ancora, nel dibattito politico corrente, la radicalità di quella svolta. O almeno, se ne colgono solo gli aspetti più immediatamente preoccupanti, interpretandoli in senso tendenzialmente pessimistico. La nota predominante di quel dibattito, negli ultimi anni, soprattutto a sinistra, ma non solo, è al pessimismo. E io mi permetterei di suggerire qualche cautela nell’uso di certe categorie che hanno tendenza a cristallizzarsi come slogan, come quella di “declino”. Senza negare i vistosi sintomi di tendenze regressive preoccupanti, ci si deve guardare dal considerarle irreversibili. Del resto, non sempre le catastrofi sono, necessariamente, catastrofiche. Come nell’ideogramma cinese la parola crisi, anche la parola catastrofe contiene ambiguamente il disastro e l’occasione. Troppo spesso poi, la necessità di fare il punto a scadenze fisse sullo stato della nazione da parte degli ormai numerosi osservatori sociali accreditati, e l’esigenza di farlo in modo da attirare l’attenzione del pubblico, trasforma ogni evento in un avvento. Così i medioevi e i rinascimenti appaiono e scompaiono sulla scena con ritmo semestrale. Gli umori quotidiani generano annunci di decadenze e di miracoli. 1 E’ indicativa di questa volubilità l’improvvisa denuncia drammatica della crisi delle istituzioni e della enorme inermità della società italiana, da parte di interpreti brillanti delle nostre vicende, che fino a ieri ci avevano lusingato con la rappresentazione della sua miracolosa creatività neurovegetativa. Là dove si sottolineavano, ieri, le virtù della improvvisazione e quell’arte di arrangiarsi che – come dice Alfredo Reichlin non può più ormai compensare i mali antichi del paese, si denuncia oggi, da parte degli stessi profeti di ieri, la carenza delle strutture. Dove si celebrava la multiformità della società informale e la fecondità proteica delle piccole imprese, si lamenta oggi il drammatico bisogno e la disperata carenza delle grandi; e alcuni di quelli che indicavano come fattore di blocco della dinamica politica la presa dei grandi partiti sulla società, lamentano oggi a gran voce il difetto di strutture vertebrate della politica. Forse, un po’ più di pazienza e di coerenza non guasterebbero. 2. Pure, una svolta epocale, alla vigilia della fine del secolo scorso, effettivamente, c’è stata. Una svolta che ha chiuso la fase fondativa della nostra Repubblica (un cinquantennio) aprendone un’altra, piena di incognite. Quella svolta mi pare contrassegnata da una rivolta antipolitica che sottopone a un revisionismo radicale valori e principi del cinquantennio repubblicano. In quegli anni è tramontata la democrazia dei partiti. Ed è venuta alla ribalta una democrazia impolitica Caratteristica essenziale, culturale, di questa emersione è il privatismo. Sotto questo nome raccolgo tre principali correnti di quella che potremmo chiamare, parafrasando Fabio Cusin, la vera antistoria d’Italia: (1) l’antistatalismo (diffidenza, antipatia, odio verso lo Stato, verso la sua burocrazia, verso le sue tasse, ma anche verso le sue regole, in generale); (2) il familismo e le formazioni parafamiliari (clan, mafie,ecc.): la famiglia come perno della società e autentica sede dell’aggregazione sociale; (3) il mercatismo consumistico, come supremo ideale sociale. Le due prime attraversano la storia d’Italia come tonalità minori ma tenaci e potenti: una specie di basso continuo. La terza è nuova e recente: e dalla sua fusione con le altre due nasce quella massa critica che, nel momento della crisi delle strutture politiche della prima repubblica esplode nel fenomeno Berlusconi, portando l’antistoria d’Italia alla ribalta della storia. Anche negli altri paesi si riscontrano forze analoghe. Ma non con caratteristiche così marcate come nel nostro. In nessun paese d’Europa la società civile ha partorito una così potente forza revulsiva nei riguardi del proprio Stato. Certamente non in Francia, paese colbertiano e statalista per antonomasia. Ma neppure in Inghilterra, dove pure la società civile è potente soprattutto nelle sue strutture economiche, e in Germania, dove si esprime soprattutto attraverso le sue autonomie regionali. In tutti e tre questi paesi lo Stato gode di un rispetto indiscutibile. Ritornerò alla fine su quella che a me 2 pare la natura di queste forze, e la possibilità che esse si consolidino in un regime, culturalmente e politicamente retrivo. Ma intanto, è naturale che ci si debba chiedere come si sia aperto il varco a queste forze, precipitando nella crisi epocale degli anni novanta. E’ naturale che ci si debba rivolgere, facendo un passo indietro, alle caratteristiche della democrazia dei partiti instaurata nel dopoguerra, alle sue virtù, che hanno assicurato la sua continuità e ai suoi vizi, che ne hanno determinato la fine e aperto il varco alla democrazia privatistica. 3. In estrema sintesi (questa mia è in senso tecnico una “caricatura” della realtà, un modello semplificato che si offre alla falsificazione) la democrazia repubblicana dei partiti poggiava su due grandi forze antagoniste che nella Costituzione trovarono un punto di convergenza miracoloso. Il compromesso storico non è stato un’aspirazione. E’ stato una realtà. Questa convergenza è stata miracolosa perché, proprio nel pieno di una contesa mondiale tra le due potenze cui quelle forze si riferivano, stabilì una convivenza che ha permesso all’Italia di salvare la sua unità, di non precipitare in un mondo balcanico, di non pagare l’avventura fascista con una definitiva esclusione dall’Occidente capitalistico e democratico. Questa convergenza ha permesso inoltre di assecondare le forze cariche di energia delle quali la società italiana era ricca: contadine, operaie, intellettuali, nella vicenda del miracolo economico italiano. Sono quelle forze che il fascismo, evocandole di continuo retoricamente, non era mai riuscito a organizzare, e che dopo la sconfitta di quello uscirono allo scoperto al sole, come i barboni di Miracolo a Milano. Finalmente, questa convergenza ha permesso un dialogo tra due grandi culture, quella marxista e quella cattolica, che ha dato nobiltà, in Italia, a un confronto altrimenti rozzo. Ma, a quale prezzo? Al prezzo, altissimo, di mancare, una volta ancora nella storia d’Italia, la costruzione di un vero Stato nazionale. Quelle due forze, quelle due culture, erano entrambe, per loro formazione, estranee alla cultura liberale europea, allo Stato nazionale. Erano anomale, in Europa. Entrambe si affidavano a una storia lunga (noi veniamo da molto lontano e andiamo molto lontano, diceva Togliatti. Figurarsi quello che avrebbe potuto dire Moro!) Entrambe detestavano quella che l’eterodossia minoritaria socialista definì, con grande scandalo di cattolici e di comunisti, la democrazia conflittuale (cioè la democrazia delle società moderne e complesse) aspirando ad una superiore unità organica. Non è dunque certo un caso che fin dall’inizio la democrazia dei grandi partiti rifiutasse la ricetta del partito d’azione: rifare, da capo a piedi, lo Stato, lo Stato politico, lo Stato amministrativo, lo Stato economico, e quindi aprire la via maestra del riformismo, che passa attraverso l’egemonia efficiente di uno Stato moderno. 3 Rispetto allo Stato nazionale, entrambe le forze restavano fredde e indifferenti, soddisfatte di adoperarlo ai loro fini trascendenti, non interessate per niente a riformarlo. Il che significava abbandonare lo Stato nelle mani di una burocrazia inefficiente e invadente. 4. Così, la democrazia dei partiti, che aveva permesso il miracolo, mancò di consolidarlo attraverso la costruzione di uno Stato che lo gestisse. Il che rendeva l’economia e la società priva di fondamenta salde. E rendeva vulnerabile la stessa unità nazionale, faticosamente realizzata nel Risorgimento. Il fatto è che quelle due grandi forze che gestirono la Repubblica dei partiti, l’una sempre al governo, l’altra sempre all’opposizione, avevano ereditato una società invertebrata e una nazione opaca a sé stessa. E qui dobbiamo fare ancora una rapidissima carrellata all’indietro, molto indietro. L’incapacità di costituire, dopo l’avventura fascista e il disastro della guerra, uno Stato moderno non era, infatti, che in parte responsabilità delle due grandi forze storiche del dopoguerra. Era un lascito della storia d’Italia, dei milletrecento anni trascorsi dopo la fine dell’unità romana: storia di un paese disunito territorialmente, fin dal tempo della semiconquista longobarda, con un eterno problema di contrapposizione tra il suo nord e il suo sud; e quindi impotente a superare quell’altra fatale contrapposizione della nostra storia: tra lo Stato, anzi gli Stati, prima italiani, poi addirittura stranieri, e la società. Colmare quei due varchi era difficile assai, per i grandi partiti che, obbedendo a potenze mondiali contrapposte, non potevano tradurre la loro potenziale convergenza culturale in attuale alleanza politica. Colmare il primo, quello territoriale, fu la sforzo, faticosissimo e sempre frustrato a causa soprattutto dell’inefficienza dell’amministrazione italiana. A colmare il secondo ci provò, per un breve tempo, Enrico Berlinguer: e presto se ne ritrasse, come fosse stato scottato. Le difficoltà, dunque, venivano dal presente. Ma anche, in parte notevole, dal passato, dalla storia profonda d’Italia. Non c’è bisogno, certo, di evocare la grande storiografia che per diversi sentieri ha tentato, attraverso opere di autori insigni, da Machiavelli a Gramsci, di tracciare un sentiero interpretativo che potesse condurci alle ragioni del fallimento dell’unificazione. Uno dei modi più avvincenti, e secondo me fecondi, di ritentare l’impresa sarebbe quello di raccontarci una storia italiana controfattuale. Di chiederci, per esempio, quale sarebbe stato lo sbocco di un “incontro impossibile” tra il regno del Sud svevo normanno di Federico II e le repubbliche italiane del nord. Oppure, più tardi, di una Confederazione italiana dei cinque stati regionali del Rinascimento, da parte di un Principe machiavelliano e non machiavellico (ma i principi italiani erano assai più machiavellici che machiavelliani). Divertimenti a parte, l’eredità storica della divisione italiana è tremendamente pesante, non soltanto dal punto di vista economico e geopolitico, ma anche, e soprattutto, dal punto di vista etico. Infatti, l’accettazione di quella realtà, della divisione nella libertà, nel medioevo; e della divisione nella servitù, nell’età moderna, 4 ha gettato sulla cultura politica italiana il manto di piombo dell’ipocrisia, dell’intrigo e del cinismo, mascherati da realismo politico. Peggio: ha seminato quel tremendo retaggio del disprezzo verso noi stessi: quella che Carlo Emilio Gadda chiamava con formula icastica “la porca rogna dell’autodenigrazione italiana”. Io non conosco, almeno nell’Europa che frequento, cittadini significativi di altri paesi sovrani, francesi o spagnoli, tedeschi o britannici, che ci godano tanto nel rappresentare, specialmente quando parlano con stranieri, il loro paese usando i toni più abietti: che è la peggior forma di servilismo possibile. I tre secoli di servitù scavarono tra noi e gli altri grandi paesi europei quella distanza che abbiamo sempre rappresentato con la categoria concettuale del ritardo: come se il nostro problema fosse sempre quello di un’imitazione di modelli esterni e mai il prodotto della nostra invenzione storica. Quel ritardo, quella inferiorità, l’Italia sabauda e liberal autoritaria tentò di colmarlo con le avventure coloniali, quella liberal nazionalista con la grande guerra, dopo alcuni poco gloriosi giri di valzer; e il fascismo con la fondazione di una dittatura da avanspettacolo travestita in panni imperiali: una forzatura caricaturale che finì per ampliare il ritardo che voleva colmare a passo romano di parata. Era il prodotto di una piccola borghesia megalomane e frustrata, di un fuoco artificiale che si spense nelle macerie e nella vergogna. Non ci sono però solo fallimenti, nella storia italiana, e in particolare in quella dell’Italia unita, che abbraccia un periodo così breve della storia d’Italia: centotrent’anni appena su millequattrocento. Ci sono, anzi, fasi nelle quali sembra che essa attinga dal profondo le energie necessarie, per colmare i ritardi. Il Risorgimento non è certo uno di questi. Ha ragione Aldo Schiavone. L’unificazione italiana si compie, un po’ avventurosamente, per il rotto della cuffia, in uno dei momenti più depressi della nostra economia e della nostra vita civile. Altro che Inghilterra della gloriosa rivoluzione! Altro che Francia della rivoluzione fatidica! Altro che Germania della kultur bismarckiana! E’ invece, piuttosto, nell’era giolittiana, alle soglie del Novecento, che l’Italia produce in un suo triangolo, limitato ma carico di energie, uno sforzo di industrializzazione e di modernizzazione che avrebbe potuto tradursi, se Turati fosse stato più coraggioso e i massimalisti socialisti meno cretini, in un riformismo italiano moderno. Quella fu la prima occasione di un riformismo italiano abortito. Poi ci fu l’occasione del nostro dopoguerra. Questa volta la Resistenza offriva alle forze vive e vitali del paese una base di lancio ben più potente e propulsiva del risorgimento. Ricostruzione, partecipazione popolare, irruzione sulla scena di una migrazione contadina che, invece di irradiarsi in una diaspora, offrendo le sue energie al mondo intero, si riversava nel nord del paese, dando a un’industria rinascente l’arma di un costo del lavoro competitivo: queste le carte che la classe dirigente del paese seppe giocare con sapiente coraggio. Una volta ancora però l’Italia non è stata capace di consolidare 5 quel successo che l’aveva proiettata, davvero miracolosamente, nel gruppo di testa dei paesi industriali; di costruire-ricostruire davvero uno Stato nazionale moderno, con un suo progetto riformista. Le grandi forze politiche della Repubblica furono capaci di assecondare la crescita dell’economia e della società, non di costruire le strutture politiche, amministrative e tecnologiche che avrebbero potuto rafforzarla e orientarla. 5. Una ipotesi non peregrina che ricaviamo da questo flash back, da questa rapidissima incursione nel passato, è che il patrimonio culturale della politica italiana è fortemente segnato da due caratteristiche strutturali di segno apparentemente opposto: il particolarismo (che si esprime sia nelle glorie municipali sia nella vergogna mafiosa) e l’universalismo (che si esprime nelle glorie e nelle nequizie delle grandi correnti cosmopolitiche, quelle trascendenti del cattolicesimo e quelle immanenti del comunismo). Insomma, le tradizioni politiche italiane, secondo questa ipotesi, correrebbero rispettivamente più in basso e più in alto del livello del nazionalismo statale, non incontrando mai quella che è stata la grande creatura dell’Europa moderna: lo Stato nazionale. In questa divaricazione, che cerca la sua “convergenza parallela” da qualche parte, in uno spazio metapolitico può essersi generata quella ferita, quel varco tra lo Stato e la società civile che è certamente una nota dominante della nostra storia. Quel varco, ripeto, deve essere ritenuto responsabile, in parte non piccola, del fatale ritardo dell’Italia, nella storia moderna, rispetto ai grandi Stati nazionali europei. Abbiamo già considerato le occasioni nelle quali si è tentato invano di colmarlo o di forzarlo: quella mancata del Risorgimento e quella rovinosa del fascismo. E anche le occasioni che si presentarono con premesse e promesse felici e positive, poi solo in parte mantenute: l’industrializzazione alla vigilia, la Resistenza poco meno che a metà del Novecento. Si potrebbe forse aggiungere a queste l’occasione rappresentata dal miracoloso aggancio all’Europa monetaria, pochi anni fa: ma a quel tempo la catastrofe di cui ho parlato all’inizio di questo discorso era già avvenuta, e la sorte della prima repubblica era già segnata. 6. Vorrei ora tornare al punto da cui sono partito, sollevando un problema che mi sta a cuore: le responsabilità della sinistra in questa crisi e nel suo, per ora, infelice esito. Per poi chiudere sui pericoli che questa fase presenta e sulla svolta che si può prospettare per scongiurarli. Penso, non certo da oggi, che una risposta positiva a quella catastrofe, da parte della sinistra italiana, avrebbe potuto darsi attraverso un abbandono definitivo del quadro culturale della sua strategia: voglio dire, del paradigma del compromesso storico, che aveva fiaccato la sua forza, in quanto potenziale alternativa di sinistra, al governo “eterno” delle forze moderate; e aveva impedito l’elaborazione concreta di una strategia laica riformista. 6 Questa opzione, culturale prima che politica, non ci fu: e se questo fu, come io fermamente credo, un errore, fu compiuto simmetricamente e successivamente dalla sua componente minoritaria, socialista, e dalla sua componente maggioritaria, comunista. I socialisti, per molto tempo ruota di scorta riluttante della strategia dei due grandi partiti, in posizione subalterna prima all’uno e poi all’altro, si sottrassero a un certo punto, con Craxi, con uno strappo, a quella condizione umiliante, riacquistando un’autonomia che li poneva obiettivamente in conflitto con ambedue le grandi forze e che sembrava dover essere investita, magari dall’opposizione, e finalmente, in una nuova prospettiva, in un nuovo paradigma riformista e laico, occidentale ed europeo. Sappiamo come andò a finire. Craxi giocò una grande carta su un tavolo angusto. Anziché investire quel salutare riscatto nella strategia “lunga”, ma carica di futuro, di una sfida unitaria e realmente, non propagandisticamente, riformista, la giocò in un gioco stretto e opportunistico, nell’illusione di poter battere separatamente e successivamente quelle forze, incuneandosi tra l’una e l’altra in una posizione di potere acquisita, si deve proprio dire, a qualunque prezzo. Una di quelle forze, nel momento della crisi del sistema, gli rovinò addosso. L’altra gli si parò contro. C’ è in questo tragico errore molto di quel vizio storico della politica italiana che è il tatticismo cinico: una intelligenza di breve termine che può diventare stupidità nel periodo lungo. Non furono più intelligenti e meno cinici i comunisti. Nel pieno di una crisi che traeva origine dall’insofferenza di una società divenuta più esigente e ostile nei confronti di governi inefficaci e di una classe politica parassitaria, pensarono di potersi finalmente sbarazzare di un rivale odiato cavalcando l’orgia giustizialista. Come se quella fosse l’espressione autentica di un grande popolo degli onesti: mentre in essa si mischiava, alla innegabile e sacrosanta reazione di cittadini offesi dalla corruzione generalizzata e sfacciata, una movida antipolitica e antipartitica profonda, organicamente reazionaria. Questa, che alimentava allora il “popolo dei fax”, diventò in pochi anni massa di manovra e di reclutamento scagliata contro la democrazia dei partiti; ma anche delle regole, delle tasse: e delle sentenze della magistratura. Così la sinistra comunista, mentre si adoperava a mascherare il fallimento storico del comunismo dietro la crisi dei governi del CAF, produsse due capolavori: regalò alla destra emergente milioni di elettori socialisti e contribuì ad allargare la breccia attraverso la quale passò l’ondata qualunquista. 7. Ho tentato di individuare quelle che mi sembrano le componenti principali di questo sisma privatistico e qualunquistico: l’antistato (dovrei dire l’antipolitica); il familismo; il mercatismo. Per la prima volta nella storia del nostro paese queste componenti sono state saldate in una combinazione populistico-liberistica dal genio, onore al merito, di un Grande Combinatore. 7 Ci si chiede oggi se questa saldatura ha la resistenza necessaria per durare. Insomma, se si tratta di un normale avvicendamento democratico al potere di una coalizione di destra; o, come alcuni affermano, di un vero e proprio regime. Il mio modesto parere è che non si possa parlare di regime, primo perché quella coalizione ha nel suo seno componenti autenticamente democratiche, anche se minoritarie; secondo, perché si tratta di una formazione ancora allo stato fluido. Ma è indubbio che essa porta in sé una vocazione autentica allo stravolgimento del gioco democratico in un nuovo gioco profondo, come lo definisce Paul Ginsborg: come quel gioco del calcio che sembra la sua metafora più espressiva, dove al posto del cittadino hai il tifoso delle curve e al posto dello Stato hai l’arbitro, appena tollerato e sempre aborrito. L’idea di società sottesa a questo paradigma non è una società vertebrata. E’ un mucchio di granellini di sabbia secca, alla mercè di ogni vento mediatico. Una società destrutturata. Una duna mobile e instabile. Niente a che fare con il fascismo, con il regime dello Stato forte. Ma piuttosto con una condizione di Stato debole che non si affida a un Duce dispotico, ma a uno Zelig proteiforme. Questa è una società pericolosa. Una società alla deriva. Una società apolitica. Una società asociale. Io credo che siamo ancora in tempo per contrastare questa deriva; per ricondurla entro un gioco democratico “normale”. Ma credo anche che, almeno finora, non si sia profilato, nelle forze che oggi formano l’opposizione, alcun disegno strategico capace di dare senso ad una grande riscossa della politica e di raccogliere il consenso necessario per perseguirlo. Parlando con molta franchezza, mi sembra che finora la condotta della opposizione sia orientata molto più verso le formule tattiche combinatorie, che non producono valore aggiunto, che verso un progetto di cambiamento. Tanto che si potrebbe amaramente parafrasare così quel motto di Togliatti: veniamo da molto lontano, e non sappiamo dove stiamo andando. Nelle grandi mobilitazioni di massa che si svolgono in questi giorni, in tutto il mondo, contro la prospettiva di una guerra insensata, non c’è, lo sappiamo, la risposta ai problemi del mondo; ma cìè una immensa domanda di senso, che trascende i limiti angusti della politica combinatoria; e chiede alla politica di produrre il progetto di una società più decente e più giusta. Una domanda che chiede una risposta. 8. Quando parlo di progetto, non intendo una prospettiva utopistica. Intendo una risposta culturale e politica, alta e pragmatica al tempo stesso, al disordine. Un riformismo che sappia raccogliere e ordinare la speranza. Qualche cosa di simile a quella grande risposta riformista che generò negli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso il welfare state: che era un film a regia socialista su sceneggiatura liberale, e che non si può ripetere oggi per la semplice ragione che non c’è più lo state, lo Stato nazionale in grado di contenerlo. 8 Dunque, una risposta che non può essere no global, deve anzi essere global, in tutto e per tutto, in questo mondo globalizzato. O più propriamente, deve essere data da soggetti politici che siano in grado – per dimensioni e potenza – di operare efficacemente in un mondo “globalizzato”. Ecco la straordinaria importanza dell’Europa. Deve dispiegarsi su tutta la superficie segnata da due grandi assi, della qualità e della struttura sociale. Deve muoversi da un principio etico opposto e simmetrico rispetto a quello del privatismo egoista. Lo definirei il principio dell’invidualismo socievole: con al centro la figura dominante del cittadino, non del privato, né del tifoso. E cioè della persona profondamente inserita nella società. Le due dimensioni di una nuova proposta globale riguardano la natura della società (la qualità sociale) e l’organizzazione istituzionale (la sua colonna vertebrale). Il primo di questi due fattori comporta una critica fondamentale dell’idolatria della crescita e del mercato. Si tratta di contrapporre al concetto di crescita un ideale più vasto e complesso: quello dello sviluppo, armonicamente proporzionato, delle grandi componenti sociali del benessere collettivo, in luogo dell’ipertrofia frankesteiniana e distruttiva, di una sola di esse. Il che comporta soprattutto un riorientamento culturale e la costruzione di una nuova bussola al posto di quella fuorviante del PIL. Il secondo riguarda la ristrutturazione della rete istituzionale, internazionale e sociale. Quella fondata sull’equilibrio delle potenze, degli Stati nazionali, battezzata dalla veneranda coppia Metternich-Kissinger, è ormai un dagherrotipo sbiadito. Ci sta pensando la Superpotenza solitaria a metterla in soffitta, con brutale disinvoltura. Ma sostituire la regolazione dell’equilibrio delle potenze con la sregolatezza della Superpotenza non sembra una innovazione rassicurante. Si tratta invece di costruire, come faticosamente ma incoerentemente si sta già facendo, al posto dell’assetto orizzontale degli Stati nazionali, una struttura verticale di reti sovrapposte a vari livelli. A livello mondiale la rete dell’ONU, il solo governo mondiale oggi possibile, articolata in strutture funzionali democraticamente riformate, a partire da quelle della regolazione monetaria, finanziaria e commerciale. A livello “regionale”, la riorganizzazione della struttura orizzontale degli Stati nelle macrostrutture sopranazionali già in formazione, prima fra tutte quella Europa che rappresenta già potenzialmente un polo di riequilibrio. A livello nazionale e sociale – qui De Rita ha ragione1 – si tratta di promuovere la reistituzionalizzazione della società, non attorno a uno Stato monolitico, ma in un nuovo paradigma, una nuova architettura policentrica di organizzazioni rappresentative. Organizzazioni che si raggruppano attorno a tre sistemi fondamentali: quello dell’amministrazione pubblica, fondato sul principio dell’autorità; quello del mercato, fondato sul principio della competizione; quello associativo, fondato sul principio della cooperazione. 1 V. G. De Rita, Il regno inerme, Einaudi, Torino, 2002. 9 Si tratta insomma di porre a fondamento di una proposta della sinistra una nuova concezione dello sviluppo economico e un nuovo modello di organizzazione istituzionale. 9. Questo paradigma offre all’Italia una nuova occasione storica di valorizzare pienamente le grandi risorse della sua identità. Come diceva Benedetto Croce, rifiutandosi all’idea di identità nazionale come impronta genetica, “l’identità di un paese è la sua storia”. Come s’è detto, è proprio attraverso la storia d’Italia che emergono le due principali caratteristiche della sua identità, il particolarismo e l’universalismo. Declinate secondo il loro verso positivo - quello che ha fatto delle repubbliche italiane esaltate da Sismondi e da Quinet la gloria del municipalismo italiano e quello che ha illuminato il mondo con il cosmopolitismo della sua cultura e della sua arte - queste caratteristiche, che non si sono cristallizzate nelle forme dello Stato nazionale, possono trovare in una grande Europa il terreno fecondo per rifiorire. Cito ancora una volta, concludendo, Aldo Schiavone2. Non saprei dire meglio di lui: “Il destino dell’Italia e della sua unione dipende da come sapremo sottrarre la nostra identità allo scacco dello Stato che avrebbe dovuto rappresentarla e proteggerla. Da come sapremo impedire a un fallimento così grave – che ci appartiene, perché esprime il lato debole e oscuro del nostro passato – di trascinare con sé anche la parte migliore di noi, quella che è stata capace di imprese intellettuali e civili uniche nell’itinerario dell’Occidente, e forse dell’intera umanità. In altri termini: se riusciremo a utilizzare ancora una volta in modo vantaggioso quell’insuperata asimmetria fra italiani e Italia, autentica croce della nostra storia….. Oggi si sta profilando per l’Italia l’occasione di un salto di prospettiva: non più cercare di costruire una nazione all’altezza dei tempi, ma semplicemente, per così dire, oltrepassarla, aggirare la meta, e portare il nostro popolo – tutto intero – in una nuova dimensione del suo sviluppo…. E’ l’idea dell’Europa – se vi crediamo – a obbligarci a un viaggio mentale al di là dello Stato-nazione: un compito che non possiamo eludere, per quanto imponga esercizi difficili.” Dunque, l’Europa rappresenta per noi la grande occasione di recuperare il meglio della nostra identità storica – il nostro municipalismo, il nostro cosmopolitismo e, non da ultimo, la nostra inclinazione per la bellezze e per la vita buona - per investirla in un progetto più vasto di quello che si è incarnato nello Stato nazionale. Dobbiamo essere orgogliosi di quell’identità. Respingere una volta per sempre, da una parte la “porca rogna dell’autodenigrazione”; e dall’altra, le pagliacciate del nazionalismo: fascistico o calcistico che sia. In una recensione di un recentissimo libro inglese sull’Italia l’Economist, con il tono supponente che usa spesso quando parla dell’Italia e degli italiani, contrappone la bravura degli inglesi di combattere in guerra all’arte italiana di vivere in pace. A me, spero anche a voi, sta bene così. 2 A. Schiamone, Italiani senza Italia, Storia e identità, Einaudi, Torino, 1998. 10