Il fattore M di lanfranco caminiti Fu Alberto Ronchey a coniare la locuzione «fattore K». In un editoriale del Corriere della Sera del 30 marzo 1979, Ronchey utilizzò per la prima volta il fattore K – dal russo Kommunizm – per spiegare il mancato ricambio delle forze politiche governative nei primi cinquant'anni dell'Italia repubblicana: l'alternanza al governo era impedita dalla presenza di un grande partito comunista che, per ragioni di equilibri internazionali che si trascinavano dal trattato di Yalta e la spartizione del mondo dopo la Seconda guerra mondiale, non poteva giungere al potere. L’espressione, evocativa e didascalica, era efficace. Spiegava l’esplicita conventio ad excludendum, la vera carta costituzionale mai scritta, durata cinquant’anni, per cui mai e poi mai i comunisti avrebbero potuto governare, quanti voti avessero pure raccolto alle elezioni, e venivano condannati all’opposizione. La minaccia implicita – che fu una tattica continua di logoramento e corruzione e una strategia nera di tensione – era che o si mangiava questa minestra o gli americani erano pronti a qualunque cosa [e ben più di qualcosa nei fatti approntarono]. La promessa, esplicita, era invece il fiume di denaro americano, scoperto e coperto. A cominciare dai famosi cento milioni che De Gasperi andò a prendere proprio poco prima di mettere i comunisti fuori dal governo nel ’47, superando d’un colpo il patto antifascista e lo stallo politico, in un momento in cui tutta l’economia italiana ballava fra una ripresa che non c’era e una disoccupazione crescente, tanto che l’ago elettorale si era spostato tutto verso sinistra [alle elezioni amministrative del ’46 in Sicilia la Dc crollò dal 30 al 20 percento e i comunisti salirono al 33 percento]. Con quei “cento milioni”, che stabilizzarono e rilanciarono l’economia italiana, gli americani si comprarono la golden share della democrazia italiana. Un quadro internazionale – la cortina di ferro, che spaccava a metà l’Europa, e la guerra fredda fra i due imperi, quello americano e quello sovietico – sovradeterminava la nostra “democrazia rappresentativa e parlamentare” condizionandola pesantemente, torcendola e svuotandola della questione principale in gioco a ogni elezione: chi governa. Chi avesse governato era già deciso, a prescindere. Anche per Stalin e i sovietici andava bene così: l’Italia non poteva certo diventare una democrazia popolare come la Romania o la Bulgaria. I partiti politici ruotavano intorno l’asse della “convenzione” e la loro stessa storia ne era pesantemente condizionata, scopertamente e copertamente: le scissioni e le ricomposizioni socialiste, le traiettorie dei liberali e dei repubblicani, il peso della destra, la nascita del centrosinistra, le stesse correnti democristiane, furono quasi sempre il frutto di dinamiche all’interno di quel quadro stabilito, per incrinarlo, ricomporlo, senza mai metterlo in discussione, che non si poteva. Questa è la storia – qui non si ragiona se fu meglio o peggio. Storia che durò oltre il tentativo di Berlinguer – non si governa con il 51 percento, lo strappo con Mosca e il riconoscimento dell’«ombrello atlantico» – del compromesso storico fra comunisti e democristiani per rifondare lo Stato e combatterne la corruzione che devastava i partiti e solo con l’89, la caduta del muro di Berlino, la fine dell’impero sovietico, la ricomposizione delle due Germanie, non fu più in vigore. Forse, è più di una suggestione indicare adesso il governo Monti come il «fattore M». Quale ne è l’essenza? Un quadro internazionale che sovradetermina e condiziona la democrazia rappresentativa e parlamentare subordinando la messa in sicurezza dell’economia nazionale attraverso gli aiuti esterni all’accettazione di una «cortina di ferro»: la cortina di ferro oggi, che per fortuna non c’è la guerra fredda e il quadro internazionale è più frammentato, si chiama unità monetaria europea; l’«ombrello atlantico» si chiama euro. Se guardiamo alla Grecia, questo scenario diventa più evidente, solo perché la situazione era più drammatica. Il bailout, il salvataggio della Grecia, ovvero la tranche dei 130 miliardi di euro – i “cento milioni” di De Gasperi – necessari per arrivare fino a marzo, poi si vedrà, era subordinato alla piena accettazione da parte del parlamento greco del “piano europeo” e alla sottoscrizione da parte dei partiti politici della sua vigenza e cogenza al di là dei risultati elettorali. La democrazia rappresentativa parlamentare subisce una torsione e viene svuotata. Questa è la storia – qui non si ragiona se fosse meglio il “piano” o qualcos’altro. L’invenzione del governo Monti – l’esautoramento internazionale di un governo nazionale democraticamente eletto – nasce su una conventio ad includendum dei partiti, rovesciando il fattore K. Come per la Grecia, tutti i partiti italiani principali – di destra, di sinistra, di centro – sottoscrivono un patto di rinuncia alla modifica del “piano di salvataggio” internazionale, la vera nuova carta costituzionale. Per noi, la promessa, mantenuta, è stata l’intervento della Bce a salvataggio dei titoli italiani e dello spread. L’euro – a differenza della guerra fredda che aveva i democristiani – non ha un suo partito politico diretto in Europa, non è il Ppe, non è la socialdemocrazia, non attraversa e spacca in destra e sinistra la rappresentanza politica. Il suo “partito” è la tecnocrazia di Bruxelles, e sono i suoi rappresentanti, di fatto, i “tecnici” a governare, almeno per ora con evidenza in Grecia e Italia: Papademos e Monti. Il “passo indietro” dei partiti italiani non è una cosa temporanea, non ha scadenza nel 2013, alla data già fissata per le prossime elezioni. Per la Grecia, il patto dovrà durare almeno fino al 2020 – data in cui il debito pubblico dovrebbe rientrare al 120 percento del Pil, o magari fino al 2043, cioè alla fine dello swap sui titoli di Stato. Lentamente, ci si va rendendo conto che dopo Monti niente sarà più come prima. Così c’è chi pensa a tirarsi dietro Monti nel proprio schieramento, chi a fare di un suo ministro il leader del proprio prossimo schieramento, chi a prolungare il tecnicismo – con Monti o un chicchessia altro – ben oltre il 2013. Insomma, il tempo di durata della “convenzione tecnica”, della nuova carta costituzionale, diventa un’incognita. Questa è la storia. Come andò con la conventio ad excludendum, con il fattore K, si sa: l’opposizione sociale fu il motore continuo di un allargamento della democrazia, passando attraverso momenti dolorosi e laceranti, fino al decennio glorioso degli anni Settanta in cui travolse ogni schema, lasciando prevalere una costituzione materiale di diritti e libertà. Come andrà con la conventio ad includendum, con il fattore M, non si sa. È ancora presto, d’altronde. Però, come stiano le cose, questo almeno possiamo dircelo. Nicotera, 27 febbraio 2012