DALLA DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO DEL 1948
ALLA CONVENZIONE DELLE NAZIONI UNITE DEL 2006*
Marie-José Schmitt
[Abstract] Dalla “Dichiarazione dei diritti dell’uomo” del 1948 ad oggi, la legislazione riflette un
cambiamento nella percezione dei gruppi disabili da parte della società.[fine abstract]
Qual è la posizione della società, delle comunità umane e degli stati in relazione alla
disabilità ?
È su tale questione che ci soffermeremo un momento, non per ripercorrere
l’evoluzione della legislazione nei diversi stati europei, ma per comprendere il percorso
delle idee, il cambiamento del modo in cui la società guarda ai gruppi di popolazione
più vulnerabili.
In quanto francese, direi che i Diritti dell’Uomo hanno una storia che risale a più
di sessanta anni fa e se dico questo è per sottolineare che a partire dalla Rivoluzione
Francese questa affermazione di uguaglianza di fronte alla legge è sempre stata fatta in
una situazione di sofferenza, come un sussulto della società in presenza di situazioni di
disparità divenute intollerabili.
Ora, la situazione delle persone con disabilità è stata a lungo intollerabile. Gli
“handicappati” come si diceva ancora poco tempo fa erano considerati come portatori in
sé di una disgrazia, di una malattia (la lebbra) e li si compiangeva pur evitandoli, spesso
semplicemente per non doversi confrontare con la sofferenza. Tuttavia si garantiva loro
allo stesso tempo la sopravvivenza che si esprimeva in concreto nel diritto di mendicare,
poiché non potevano fare nient’altro o si pensava che non potessero fare altro. Gli
invalidi di guerra sono stati i primi ad avere una posizione diversa nella società : si
conosceva la causa della loro disgrazia, il nemico, ed essi erano considerati vittime della
sua crudeltà.
Due avvenimenti storici hanno contemporaneamente fatto evolvere la situazione
delle persone con disabilità. C’è stata innanzitutto la prima guerra mondiale con la
mobilitazione di massa della popolazione attiva. L’intervento dello stato in caso di ferite
*
Relazione tenuta al Convegno A sessant'anni dalla "Dichiarazione Universale dei Diritti Umani": quali
conquiste e quali sfide per le persone con disabilita'?, organizzato dal CID.UE, Consiglio Italiano dei Disabili
per i rapporti con l’Unione Europea, Roma 26 novembre 2008.
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invalidanti era un intervento limitato alla concessione di una pensione per garantire - più
male che bene – il soddisfacimento delle mere necessità quotidiane di coloro che erano
sopravvissuti alla loro disgrazia. C’era l’accettazione passiva di una situazione pur
sempre intollerabile, ma pudicamente coperta da qualche azione caritativa.
La seconda guerra mondiale, poi,
con l’estendersi dei bombardamenti che
causavano un gran numero di vittime civili, ha fatto emergere un concetto di vittima di
guerra che andava oltre quello di ferito in combattimento e l’orrore dell’olocausto ha
provocato un sussulto d’indignazione.
È da questa indignazione che è nata la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani
del 1948 con i suoi valori fondamentali di rispetto della vita e della dignità di ogni
essere umano e dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Nel Consiglio d’Europa gli
Stati si sono allora raccolti intorno ad un trattato il cui titolo ne mostra l’urgenza poiché
tale trattato, firmato nel 1950, qui, a Roma, fu chiamato “Convenzione per la
salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali”.
L’Europa, distrutta dalla crudeltà della guerra, si è unita intorno all’idea di «che
questo non accada mai più » e nell’urgenza di dotarsi di mezzi per salvaguardare ciò che
costituisce la dignità di ogni uomo, essa ha creato a Strasburgo la Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo.
Si trattava essenzialmente di non accettare più l’inaccettabile, la schiavitù, la
tortura, la pena di morte. Impresa lodevole, ma difficile poiché si è dovuto attendere
fino al 2002 per arrivare, con il Protocollo di Vilnius, ad una chiara e totale abolizione
della pena di morte senza riserve né deroghe negli Stati membri del Consiglio d’Europa.
Questo lungo percorso di ciò che potrebbe essere considerato come qualcosa di
evidente, dal momento che la Convenzione proclama il rispetto della dignità riguardante
tutti gli esseri umani dimostra quanto le società siano restie a riconoscere il diritto
inalienabile alla vita e a una vita degna. Intendiamoci bene sul termine dignità: non si
tratta più di sopravvivenza, più o meno possibile economicamente e tollerata
socialmente, ma di un diritto al rispetto della persona umana, alla sua integrità fisica, un
diritto che si può rivendicare nelle aule dei tribunali e della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo a Strasburgo.
In quello stesso tempo, si era ancora lontani da questo riconoscimento per le
persone in situazione di handicap. A partire da uno Stato-Provvidenza “ci si dedicava
caritatevolmente” ai poveri handicappati,
veniva studiato il loro caso e venivano
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concesse pensioni a coloro che erano stati giudicati “meritevoli”, sono state forgiate
politiche sociali che hanno timidamente creato un posto nella società per queste
persone, ma permane sempre in qualche modo questa difficoltà a dare un nome a ciò
che non si vuol vedere, questa ricerca di parole che dicono la differenza e allo stesso
tempo la nascondono. Era l’epoca in cui i bambini con minorazione intellettiva erano
ufficialmente dichiarati “ineducabili”. La società, pur proclamando nel 1948 la
cittadinanza di tutti e l’uguaglianza di fronte alla legge, in certi casi si arrende, si
dichiara impotente e si organizza all’interno di questa contraddizione concedendo
sussidi e qualche raro posto di lavoro riservato per le persone con disabilità.
Il movimento delle persone con disabilità, le numerose associazioni in tutti i paesi
europei hanno fatto progredire lentamente, molto lentamente come sempre, l’idea che la
disabilità è un problema della società e hanno affermato instancabilmente che la persona
con disabilità, proprio perché è una persona umana ha il diritto di godere dell’insieme
dei diritti umani, ivi compresi i diritti economici, culturali e sociali.
Dal 1961 un altro trattato europeo affermava questi diritti in una carta, la Carta
Sociale Europea, un articolo della quale, l’articolo 15, si occupa specificamente dei
diritti delle persone con disabilità Questa Carta, riveduta nel 1996, precisa tali diritti in
materia di educazione, di occupazione e di vita nella società aggiungendo, nella parte V
la lotta contro la discriminazione. Essa è dotata di un meccanismo di ricorso sotto forma
di reclamo collettivo al quale l’Italia ha aderito nel 1997.
Bisogna osservare, tra le due date che segnano prima l’adozione e poi la revisione
della Carta Sociale Europea, l’importante influenza dell’ONU che nel 1981 ha
proclamato l’Anno Internazionale delle Persone Disabili seguito dal Decennio delle
persone disabili 1982-1992 e segnato dall’adozione del Programma Mondiale d’Azione
riguardante le persone disabili.
Una delle principali preoccupazioni degli esperti venuti da tutto il mondo per
preparare,
approfittando dell’impatto suscitato dall’”anno internazionale”, questo
Programma Mondiale, era in effetti quella di restituire alla persona i suoi diritti umani,
la sua dignità. È questo che ha fatto sì che a poco a poco il termine persona disabile
fosse adottato da tutte le legislazioni. La persona, invece di avere la possibilità di
trovare un posto dove viene soltanto tollerata nella società, dovrebbe svolgere in essa
un ruolo attivo e la politica sociale degli Stati dovrebbe essere volta a favorire la
partecipazione delle persone con disabilità. Questo nuovo vocabolario è tutt’altro che
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senza importanza, poiché il modo in cui si parla, in cui si ripetono le parole, allo stesso
tempo riflette e crea la posizione della società nei confronti delle persone con disabilità.
Dovrà passare un quarto di secolo prima che le stesse nozioni entrino definitivamente
nel vocabolario degli Stati. Ci vorrà ancora un po’ di tempo prima che la disuguaglianza
non venga più considerata una fatalità.
L’idea di far seguire un decennio all’anno internazionale delle persone con
disabilità va nello stesso senso. Si trattava per l’ONU di creare un movimento di idee
che avrebbe portato, alla fine, a un cambiamento di atteggiamento. Dieci anni sono ben
necessari per raggiungere tale obbiettivo. C’è sempre un divario tra gli impegni
sottoscritti e la loro attuazione. Il realismo vuole allora che si crei un movimento di
idee, di cui si sa che un giorno non potranno più essere ignorate.
Questo Programma Mondiale è particolarmente ambizioso e contiene in nuce la
futura Convenzione relativa ai Diritti delle Persone con Disabilità. L’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite nel 1983 ha dato in effetti la seguente definizione della
disabilità :
“La disabilità dipende dai rapporti delle persone disabili con il loro ambiente.
Essa insorge quando le persone incontrano degli ostacoli culturali, materiali o sociali
che impediscono loro di accedere ai diversi sistemi della società alla portata dei loro
concittadini. La disabilità è dunque la perdita o la limitazione delle possibilità di
partecipazione in condizioni di parità con gli altri individui alla vita della comunità.1”
Certamente, per dare più forza a queste idee, sarebbe stato necessario un trattato,
una convenzione. Negli anni ’80 diversi tentativi sono stati fatti, anche dall’Italia,
affinché l’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite mettesse in cantiere una
convenzione sui diritti delle persone con disabilità, sfortunatamente sempre senza
successo ed è stato possibile all’epoca ottenere soltanto un documento non vincolante,
ma di grande portata, le Norme Standard per il raggiungimento delle pari opportunità
delle persone disabili adottate nel dicembre 1993 dalle Nazioni Unite. Bisogna tenere a
mente che si tratta di un documento di applicazione del Programma Mondiale che, pur
non essendo una Convenzione che vincola gli Stati firmatari (come noi avremmo
voluto) costituisce una norma che gli stati sono invitati a seguire nel configurare la loro
politica in materia di persone con disabilità. Era stato previsto un meccanismo di
1
Evidenziato da noi
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monitoraggio che ha funzionato in modo efficace per la diffusione di tali norme in tutti i
settori della vita. È stato l’ex ministro svedese della sanità, Bengt Lindqvist, ad essere il
primo “rapporteur” per queste norme, con molta efficacia, soprattutto nei paesi asiatici.
L’Unione europea ha adottato queste norme per il raggiungimento delle pari
opportunità nel 1996
Queste norme dell’ONU provenienti da Reykjavik,
dove erano state
solennemente lanciate nel maggio 1994, hanno dovuto fare un lungo percorso nelle
diverse istituzioni della Comunità europea. Ciò significa che molte persone hanno
contribuito a tutti i livelli ai dibattiti suscitati da questo documento e tre anni sono stati
ben necessari per pervenire all’accordo dei quindici stati allora membri della Comunità
europea sul principio di pari opportunità.
Ci troviamo di fronte a prese di posizione di cui non è facile misurare la portata. Il
principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge viene esteso alla nozione di
uguaglianza nella vita sociale, di parità di accesso alle opportunità offerte dalla società
alle persone che la compongono. È una ripetizione dei Diritti dell’Uomo, ma una
ripetizione utile poiché essa precisa che il principio delle pari opportunità si applica
anche alle persone con disabilità e che nuove Norme per il funzionamento della società
sono necessarie per l’applicazione di questo principio.
Ma che cos’è l’uguaglianza (che cosa sono le pari opportunità)?
L’uguaglianza (o pari opportunità) è un concetto teorico basato su una
presunzione di somiglianza delle opportunità di condurre una vita nel corso della quale
ogni persona può godere dell’insieme dei diritti umani. Come dare forma ad una tale
parità quando le disparità di partenza sono così evidenti ?
Sono state allora seguite due piste :
I movimenti delle persone con disabilità hanno sviluppato l’idea che per godere
dell’insieme dei diritti umani era necessario che le persone in situazione di handicap
beneficiassero, in questa ottica comparativa, di mezzi allo stesso tempo diversi e talvolta
supplementari per stabilire una reale uguaglianza di opportunità. Ciò ha determinato
tutta una riflessione di esperti riuniti nel Forum Europeo della Disabilità.
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L’Unione europea, a Bruxelles, da parte sua, ha valutato che, per mettere in
pratica l'ambizioso principio delle pari opportunità, bisognava occuparsi innanzi tutto di
realizzare la parità di trattamento.
Tutta la storia del diritto, dopo l'affermazione del principio d'uguaglianza nel
secolo dei lumi, è la storia dell’eliminazione delle categorie trattate diversamente, sia in
termini di privilegi (i primogeniti) o in termini di accesso al diritto (gli schiavi, le
donne). Il principio di uguaglianza non consente più queste differenze che per così
lungo tempo sono state considerate socialmente, moralmente e giuridicamente
giustificate. Si ritiene al contrario che certi gruppi della popolazione debbano essere
protetti in maniera più particolare dalla legge contro ogni arbitrio al fine di stabilire
questa uguaglianza. Per questo il Trattato di Amsterdam (1997) sancisce il divieto della
discriminazione in base al genere, alla razza, all'età, alla disabilità, all'orientamento
sessuale, alla religione e alle convinzioni e fa della discriminazione un delitto (art. 13).
Si stabilisce così che nella società europea esistono dei gruppi di persone che non
dispongono delle medesime possibilità di fruire delle opportunità offerte dalla società
stessa in relazione al suo grado di sviluppo. Il trattato si pone l'obbiettivo di sancire la
parità delle opportunità di queste persone mediante la lotta contro le discriminazioni.
Ciò vuol dire che gli atti discriminatori diretti o indiretti sono ormai sanzionabili.
Ma che cosa significa discriminazione?
Discriminazione è trattare qualcuno diversamente da come sia, sia stata o
sarebbe trattata un'altra persona in una situazione analoga.
Questa definizione offre il vantaggio di porre il confronto, la differenza non tanto
a livello della persona con disabilità, ma dei terzi che potrebbero potenzialmente
discriminare direttamente o indirettamente. D'altronde, essa si fonda su situazioni che
vengono considerate oggettivamente facili da confrontare, come l'assunzione al lavoro,
la partenza per un viaggio, la scolarizzazione.
Bisogna sottolineare il progresso importante che si compie con il trattato di
Amsterdam. Le persone con disabilità fino ad allora erano l'oggetto di politiche sociali o
meglio di una pagina specifica nell'importante complesso delle politiche sociali, quella
che concerne questo particolare gruppo di popolazione. Il fatto che la disabilità figuri
nel testo del Trattato di Amsterdam fa entrare le persone con disabilità nell'insieme della
popolazione, esse sono innanzitutto cittadini come gli altri e poi, oltre a questo, persone
da proteggere dalla discriminazione. La protezione da ogni discriminazione costituisce
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un importante passo in avanti nella direzione del riconoscimento dei diritti umani ed è
in questo senso che noi possiamo parlare di un cambiamento di paradigma, poiché
essere cittadini comporta il riconoscimento del ruolo di ciascuno, della partecipazione di
ciascuno alla vita della società.
Non è possibile valutare la parità di trattamento se non si dispone di uno
strumento che consenta di conoscere a fondo la situazione della persona e le modalità di
compensazione che sono necessarie al fine di ristabilire l'uguaglianza di là dalla pura e
semplice lotta contro la discriminazione. Questo strumento è l’OMS (Organizzazione
Mondiale della Sanità) che ce l’ha fornito adottando il 22 maggio 2001 la
Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute.
L'obbiettivo di una classificazione è di consentire la rappresentazione della
situazione di una persona o di un gruppo di persone e di pervenire a una
rappresentazione che possa essere condivisa con gli altri, comunicata, confrontata.
La Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della
Salute, in questo ambito di pari opportunità, si propone di consentire di misurare le
limitazioni dell'attività e le restrizioni alla partecipazione di una persona o di un gruppo
di persone e di evidenziare le barriere che impediscono la partecipazione e ciò che può
facilitarla, termine che si trova già nel Programma Mondiale delle Nazioni Unite nel
1981.
Così si costituisce un primo importante nesso tra parità formale, chiamata parità
delle opportunità, la sua trasposizione nella parità di trattamento, garantita dal divieto
della discriminazione e un approccio concertato delle misure necessarie alla
trasposizione di questa parità di trattamento nella vita quotidiana delle persone in
situazione di handicap.
Dal momento in cui si parla di partecipazione ci si pone in una dinamica di cui la
persona con disabilità è l'attore principale, con il suo progetto personale nelle diverse
sfere della vita e i bisogni che ne scaturiscono. Essa avrà dunque tutte le responsabilità e
i doveri di un protagonista della vita sociale, ruolo che potrà esserle proprio se, e solo
se, troverà l'aiuto alla partecipazione sotto forma di sostegno ed eliminazione delle
barriere.
Ma una legislazione contro la discriminazione non può da sola garantire questa
partecipazione. La parità formale, anche se si può far valere in giudizio, non può
produrre da sola una parità di fatto.
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Di che cosa c’è bisogno allora affinché i diritti umani, tutti i diritti dei cittadini,
intendo dire i diritti civili, economici, sociali e culturali siano garantiti in modo uguale
alle persone in situazione di handicap?
A questo proposito sono state sviluppate due riflessioni tra loro complementari.
L'una ha avuto come risultato che l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottasse
nel gennaio 2001 una risoluzione per la creazione di un Comitato ad hoc incaricato di
elaborare una convenzione riguardante i diritti delle persone con disabilità. L'altra, in
seno al Consiglio d'Europa, nell’ambito della Direzione per la Coesione Sociale, ha
messo in cantiere l'elaborazione di un piano d'azione volto a supportare gli stati ad
attuare la futura convenzione.
Questo piano d'azione fa parte del lavoro di orientamento su grandi tematiche e
scambio d'esperienze del Consiglio d'Europa con i suoi 47 Stati membri. Vi era già stato
un Piano d'Azione riguardante le persone con disabilità nel 1986. Questo nuovo piano
d'azione ha una particolarità: è posto sotto la tutela della Direzione per la Coesione
Sociale. Ora, la “coesione sociale” è stata definita “la capacità di una società di
assicurare il benessere di tutti i suoi membri”. La disabilità dunque è considerata come
un problema della società. Si tratta per la società di dotarsi dei mezzi che le consentano
di assicurare il benessere delle persone con disabilità. In questa logica, il Piano d'Azione
è stato intitolato: Piano d'Azione per la promozione dei diritti e della piena
partecipazione delle persone con disabilità nella società: migliorare la qualità di vita
delle persone con disabilità in Europa, 2006-2015.
Dal punto di vista grammaticale non è un buon titolo, ma poco importa la
grammatica. Si è ritenuto importante aggiungere il riferimento al miglioramento della
qualità di vita delle persone con disabilità proprio per allargarne la portata al benessere
perseguito.
Come indica il titolo, questo Piano d'Azione declina in effetti tre obbiettivi:

la promozione dei diritti

la piena partecipazione

la qualità di vita
Con i suoi tre obbiettivi il piano d'azione è in perfetta sintonia con la Convenzione
riguardante i diritti delle persone con disabilità adottata dall'Assemblea Generale delle
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Nazioni Unite il 13 dicembre 2006, che ha assunto il rango di un trattato internazionale,
dopo le 20 ratifiche necessarie, nella primavera del 2008.
Questa Convenzione è la prima convenzione sui diritti dell’uomo del XXI secolo.
Nell'evoluzione del concetto di parità essa segna un punto d'arrivo perché permette di
passare dall'uguaglianza formale e comparativa all'uguaglianza reale, con misure
concrete elencate per ciascuno dei diritti enunciati. Ciò significa chiaramente che agli
stati incombe l'obbligo di rispettare questi diritti, di garantirli e di promuovere la loro
realizzazione.
Ma la Convenzione relativa ai diritti delle persone con disabilità non è solo la
prima del nostro secolo in ordine cronologico. Essa è "una prima" poiché elenca di volta
in volta i diritti fondamentali di ciascun uomo e i diritti economici, sociali e culturali
che essi implicano. Essa costituisce così un insieme unitario dei diritti che essa
considera nel suo preambolo come aventi un carattere universale, indivisibile,
interdipendente e indissociabile. Essa ha superato la solita dicotomia tra diritti umani e
diritti economici, culturali e sociali e in questo senso essa apre alle persone con
disabilità l'accesso a una parità multidimensionale.
Dal momento che ho seguito con la mia associazione AEH (Action Européenne
des Handicapés) e con l'insieme del movimento delle persone con disabilità questa
evoluzione del modo in cui la società guarda alle persone in situazione di handicap, non
posso che accogliere con favore il fatto che questa evoluzione concettuale si sia
concretizzata in un testo avente forza di trattato internazionale.
Purtroppo, la nostra vecchia Europa è restia a ratificare questa convenzione (ad
oggi soltanto sei ratifiche) e vi è ancora molto lavoro da fare affinché, ora che le
persone con disabilità sono divenute cittadini visibili, tali siano anche i loro diritti nella
vita di tutti i giorni e in tutti i paesi.
Abbiamo gli strumenti, ora bisogna mettersi al lavoro ciascuno al proprio livello e
rapidamente, perché si tratta del benessere di tutti nella nostra società.
Marie- José Schmitt,
Vice-Presidente dell’AEH
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Tiflologia per l’Integrazione
Brevi indicazioni per i collaboratori.
Si offrono di seguito alcune indicazioni di massima a cui gli autori dei contributi dovrebbero
possibilmente attenersi, per venire incontro al lavoro redazionale della segreteria ed alle esigenze
tipografiche della rivista.
La collaborazione a “Tiflologia per l’Integrazione” è libera.
I contributi dovranno pervenire possibilmente via posta elettronica (all’indirizzo:
[email protected]) in formato .doc.
Il testo dovrà essere in carattere Times New Roman 12 con una interlinea di 1,5. I rientri dei paragrafi
dovranno essere di 0,5 a sinistra e a destra.
Si raccomanda particolare cura nella citazione bibliografica, che dovrà seguire il sistema “AutoreData” secondo le regole dell’American Psychological Association (APA).
I riferimenti interni al testo dovranno trovare una esatta corrispondenza nella citazione estesa che si
troverà alla fine dell’articolo.
(Diversi sono i siti internet che offrono una panoramica sullo stile citazionale dell’American
Psychological Association. Si puo’, tra gli altri, vedere:
http://campusgw.library.cornell.edu/newhelp/res_strategy/citing/apa.html).
Gli autori che riportano una bibliografia a corredo del loro articolo (senza rinvii all’interno del testo)
dovranno utilizzare lo stesso metodo citazionale “Autore-Data”.
Si raccomanda inoltre particolare cura nei dati citazionali, dal momento che alla redazione non
sempre è possibile verificarne la correttezza.
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La redazione si riserva comunque il diritto di intervenire sul testo per uniformarlo alle norme
tipografiche.
Si ringrazia per l’attenzione.
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