I I T TEMI E M S DELLA NUTRIZIONE Sicurezza in alimentazione Dal campo alla tavola A cura di Ermanno Lanzola Già Ordinario di Scienza dell’Alimentazione e Direttore del Centro Ricerche sulla Nutrizione Umana e la Dietetica. Università degli Studi di Pavia Gianfranco Piva Ordinario di Nutrizione ed Alimentazione Animale. Direttore Istituto Scienze degli Alimenti e della Nutrizione. Università Cattolica S. Cuore di Piacenza Con la collaborazione di Carlo Brera, Giorgio Calabrese, Enzo Chiesara, Ivano De Noni, Francesca Debegnach, Stefania Di Giacomo, Marina Miraglia, Gian Pietro Molinari, Lorenzo Morelli, Alberto Poli, Giorgio Poli, Carla Roggi, Sonia Radice, Filippo Salvini, Chiara Gallo Stampino ISTITUTO DANONE ISTITUTO DANONE P ER LA R ICERCA E LA C ULTURA M O T I VA Z I O N I DELLA E N UTRIZIONE OBIETTIVI anone è una società multinazionale operante nel settore alimentare. La sua “mission” istituzionale è quella di migliorare l’alimentazione umana, sia con prodotti di alta qualità ed elevato valore nutrizionale, sia con iniziative di ricerca e di divulgazione scientifica. In quest’ottica ha deciso di destinare importanti risorse alla ricerca e alla cultura della nutrizione, dando vita all’Istituto Danone. D L’Istituto Danone si prefigge di: Incoraggiare la ricerca scientifica sul rapporto tra alimentazione e salute Promuovere una corretta educazione alimentare Diffondere i risultati della ricerca nutrizionale presso gli operatori della salute e dell’educazione alimentare Costituire un anello di giunzione tra il mondo scientifico e gli operatori della salute e dell’educazione alimentare Gli obiettivi dell’Istituto Danone sono quindi due: Conoscere – attraverso la promozione di ricerche, proprie o di terzi, nel settore nutrizionale Far conoscere – attraverso attività editoriali e congressuali mirate a diffondere la cultura della nutrizione Comitato Scientifico Istituto Danone Marcello Giovannini (Presidente), Ermanno Lanzola, Carlo Vergani (Vicepresidenti), JeanMichel Antoine, Bruno Berra, Gabriele Bianchi Porro, Vittorio Bottazzi, Michele O. Carruba, Salvatore Castiglione, Alberto Galli, Lorenzo Morelli, Alberto Notarbartolo, Gianfranco Piva, Pierpaolo Resmini, Enrica Riva. Segreteria Scientifica Carlo Agostoni, Arturo Della Torre Sede Istituto Danone: Via Alserio, 10 – 20159 Milano Supplemento a “Lettera dell’Istituto Danone - ITEMS NEWS” Direttore Scientifico: Marcello Giovannini Segreteria Scientifica: Carlo Agostoni, Arturo Della Torre Direttore Responsabile: Marcello Giovannini Comitato di redazione: Jean-Michel Antoine, Bruno Berra, Gabriele Bianchi Porro, Vittorio Bottazzi, Michele O. Carruba, Salvatore Castiglione, Alberto Galli, Ermanno Lanzola, Lorenzo Morelli, Alberto Notarbartolo, Gianfranco Piva, Pierpaolo Resmini, Enrica Riva, Carlo Vergani. Editore e Redazione: Èlite Communication Srl - Viale Teodorico, 3 - 20149 Milano Registrazione del Tribunale di Milano n. 567 del 17.09.1999 Tutti i diritti riservati Nessuna parte può essere riprodotta senza l’autorizzazione scritta dell’Editore Finito di stampare nel mese di Ottobre 2004 Stamperia Artistica Nazionale - Torino I I T TEMI E M S DELLA NUTRIZIONE Sicurezza in alimentazione Dal campo alla tavola A cura di Ermanno Lanzola Già Ordinario di Scienza dell’Alimentazione e Direttore del Centro Ricerche sulla Nutrizione Umana e la Dietetica. Facoltà di Medicina e Chirurgia. Università degli Studi di Pavia Gianfranco Piva Ordinario di Nutrizione ed Alimentazione Animale. Direttore Istituto Scienze degli Alimenti e della Nutrizione. Facoltà di Agraria. Università Cattolica S. Cuore di Piacenza Con la collaborazione di Carlo Brera, Francesca Debegnach, Marina Miraglia Istituto Superiore di Sanità, Centro Nazionale per la Qualità degli Alimenti e per i Rischi Alimentari, Reparto Organismi Geneticamente Modificati e Xenobiotici di Origine Fungina Giorgio Calabrese Authority Europea Sicurezza Alimentare (E.F.S.A.) Istituto Nazionale Ricerca degli Alimenti e della Nutrizione (I.N.R.A.N.) Enzo Chiesara, Sonia Radice Dipartimento di Farmacologia, Chemioterapia e Tossicologia Facoltà di Medicina e Chirurgia. Università degli Studi di Milano Ivano De Noni Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari e Microbiologiche Facoltà di Agraria. Università degli Studi di Milano Stefania Di Giacomo, Filippo Salvini Clinica Pediatrica Ospedale San Paolo. Facoltà di Medicina e Chirurgia Università degli Studi di Milano Gian Pietro Molinari Laboratori di Tecnologia e Merceologia Facoltà di Agraria. Università Cattolica S. Cuore di Piacenza Lorenzo Morelli Istituto di Microbiologia. Facoltà di Agraria. Università Cattolica S. Cuore di Piacenza Alberto Poli Facoltà di Medicina e Chirurgia. Università degli Studi di Milano Giorgio Poli Dipartimento di Patologia Animale, Sezione di Microbiologia e Immunologia Comitato Interfacoltà per il Corso di Laurea in Biotecnologie Facoltà di Medicina Veterinaria. Università degli Studi di Milano Carla Roggi, Chiara Gallo Stampino Dipartimento di Scienze Sanitarie Applicate e Psicocomportamentali Sezione di Scienza dell’Alimentazione. Facoltà di Medicina e Chirurgia Università degli Studi di Pavia I ndice Prefazione 5 E. Lanzola, G. Piva Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo 7 E. Lanzola, G. Piva Concetto di sicurezza alimentare ed elementi di legislazione 29 G. Calabrese Concetto di rischio in alimentazione 37 C. Roggi, C. Gallo Stampino Elementi di tossicologia alimentare 53 E. Chiesara, S. Radice Qualità e controllo 63 G.P. Molinari Sicurezza microbiologica 79 L. Morelli Le micotossine nella filiera agroalimentare 101 M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera Sicurezza tecnologica in alimentazione 123 I. De Noni Organismi geneticamete modificati 149 A. Poli, G. Poli Infezioni da alimenti 161 F. Salvini, S. Di Giacomo 5 P refazione Per una fortuita coincidenza questo volume della collana ITEMS vede la luce a breve distanza di tempo dalla delibera dell’Unione Europea che stabilisce in Italia la sede dell'Authority per la sicurezza degli alimenti. L’istituzione dell'Authority, come viene specificato nel capitolo di questo volume redatto da G. Calabrese, è il risultato di una riforma della politica alimentare europea basata sul riconoscimento del principio dell'analisi del rischio. La nuova strategia comunitaria per la sicurezza della catena alimentare era già stata anticipata nel “Libro verde” del 1997 (Principi generali della legislazione alimentare nell’Unione Europea) e nel ”Libro bianco sulla sicurezza alimentare” del 1999 e aveva trovato le sue basi negli importanti insegnamenti tratti dalle vicende della crisi determinata dalla BSE. Lo sviluppo di questa politica ha portato alla riorganizzazione della normativa alimentare con il regolamento 178/2002, che fornisce il quadro delle definizioni e dei principi giuridici della futura legislazione alimentare europea. Il nuovo approccio alla sicurezza degli alimenti ha portato anche all’istituzione di un organismo innovativo che è appunto l’Authority europea per la sicurezza degli alimenti, che dal mese di dicembre 2003 ha sede a Parma ed i cui compiti sono specificati nel capitolo sopra ricordato di G. Calabrese. La missione globale dell’Authority, centrata sulla valutazione dei rischi, è infatti diretta a fornire soprattutto pareri scientifici, totalmente indipendenti, che costituiscano le basi delle normative comunitarie sulla sicurezza degli alimenti. L’Istituto Danone e gli Autori di questo volume sono dunque lieti di approfittare della sua uscita, praticamente in concomitanza con l'insediamento in Italia dell’Authority, per esprimere alla medesima i più fervidi auguri di grande successo nell'espletamento della sua missione. Ermanno Lanzola Gianfranco Piva 7 E voluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo E. Lanzola*, G. piva** *Centro Ricerche sulla Nutrizione Umana e la Dietetica. Facoltà di Medicina e Chirurgia Università degli Studi di Pavia **Istituto Scienze degli Alimenti e della Nutrizione. Facoltà di Agraria Università Cattolica S. Cuore di Piacenza “L’analisi storica dei dati demografici evidenzia come una vita particolarmente lunga e un buono stato di salute siano un recente dono del cielo” (M.K. Matossian, 1989). Secondo lo stesso autore, fino al 1750 l’aspettativa di vita di un membro della nobiltà britannica era di soli 36,7 anni. Si tratta di un valore non dissimile da quello tipico della società romana al tempo del massimo splendore dell’impero. Sono dati molto lontani da quelli raggiunti da pochi anni nei paesi più sviluppati come in Italia, ove l’aspettativa di vita ha ormai superato gli ottant’anni. Solo alcuni decenni fa, anche in zone oggi celebrate per le particolari prerogative di salubrità dei cibi che vi vengono prodotti e per l’ottima qualità della vita, la situazione era drammaticamente differente. Un’interessante analisi della situazione in Toscana viene fatta nel volume curato dall’Accademia dei Georgofili dal titolo “In cucina ... ai Georgofili - Alimenti, pietanze e ricette fra ’700 e ’800” (Fi- renze 2001). Si rappresenta uno spaccato delle disponibilità alimentari e delle abitudini culinarie in quel periodo. Come fa rilevare Mariani Costantini in un recente, interessante articolo, che si richiama anche a pubblicazioni precedenti di Emilio Sereni e Giancarlo Biasin, è possibile ricavare da scritti di vario genere letterario elementi per ricostruire l’evoluzione storica dell’alimentazione popolare. In particolare, per quanto riguarda l’Ottocento italiano, risulta evidente, prendendo come riferimento alcuni fra i testi più rappresentativi che, se per il ceto medio la mensa era frugale, per il ceto più basso era decisamente povera. Valgano come esempi la realtà rappresentata dal quadro descritto nel sonetto “La bona famija”, datato 28 novembre 1831, di Giuseppe Gioacchino Belli e quella del sonetto “Li polli de li vitturali” dello stesso Autore, datata 28 ottobre 1833. Ancora Mariani Costantini richiama alla memoria come la situazione alimentare dell’epoca in Italia trovi ri- 9 Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo flessi anche nei romanzi di Alessandro Manzoni e di Giovanni Verga e per l’Europa, in particolare per l’Inghilterra, nel polemico romanzo “Le Avventure di Oliver Twist“ di C. Dickens. History” (1989), esamina, nel periodo intercorrente fra il quattordicesimo e il diciottesimo secolo, la possibile relazione esistente fra la comparsa di grandi epidemie ed il consumo di alimenti, soprattutto certi cereali, sospettati di contenere sostanze tossiche. Si trattò di eventi che determinarono una drammatica mortalità e furono responsabili di una grave depressione demografica in Europa. Alcuni dei molteplici esempi citati ed attentamente documentati danno un’informazione di come la qualità degli alimenti possa avere condizionato la storia, l’assetto socio-politico e religioso in molte aree. Fra la fine del Medio Evo e l’inizio del Rinascimento, più precisamente nel 1400, la popolazione vivente in Italia era molto ridotta (Tabella 1). Vaste zone ed interi villaggi erano praticamente disa- Le grandi epidemie tra xiv e xviii secolo L’insufficienza di cibo era drammatica e cronica. Alcune manifestazioni carenziali, tra le quali la pellagra e lo scorbuto, erano endemiche e colpivano tutte le classi sociali. La qualità dei cibi aveva chiaramente grandi responsabilità sullo stato sanitario, sulla qualità e aspettativa di vita delle popolazioni. Si tratta di aspetti ben documentati da Matossian, su base europea, che nel volume “Poisons of the Past Molds, Epidemics, and Tabella 1 POPOLAZIONE RESIDENTE ED INCIDENZA DI EPIDEMIE IN ITALIA ED EUROPA NORD OCCIDENTALE (*) DAL 1351 AL 1499 (McEvedy et al., 1978; Biraben, 1976; cit. da Matossian M.K. (1989) modificata Periodo storico (Anni) Popolazione stimata in Italia (Milioni) Popolazione stimata in Europa Nord Occidentale* (Milioni) Numero Epidemie in Italia Numero Epidemie in Europa Nord Occidentale* 1351-1430 7 26,75 235 625 1431-1499 10 23,40 220 710 * Isole britanniche, Francia, Paesi Bassi, Germania, Austria, Boemia, Svizzera 10 E. Lanzola, G. Piva manifestava un comportamento definibile “bizzarro”. Matossian, nell’intento di comprenderne le ragioni, ha analizzato il succedersi delle epidemie a partire dall’Alto Medio Evo in relazione con l’alternarsi delle situazioni climatiche, traendo la convinzione di una possibile relazione più con la qualità dei cibi che con la quantità; tanto è vero che in situazioni di abbondanza di cereali si riscontrava, a volte, un’incidenza più frequente della peste, specie della peste bubbonica. Il dato viene fatto risalire alla proliferazione di topi nei granai, quando i cereali venivano conservati più a lungo del solito e spesso venivano alterati da attacchi di insetti e di muffe. Nel Medio Evo le popolazioni erano fortemente dipendenti dai cereali. La segale era il cereale più utilizzato per fare il pane, soprattutto a nord delle Alpi, seguita dall’orzo, dal frumento, dall’avena, dal riso e da molti altri cereali minori oggi quasi scomparsi. Nei due anni precedenti la comparsa della grande pandemia che colpì l’Europa fra il 1348 ed il 1350, il clima era stato estremamente piovoso, freddo, umido, i raccolti scarsi e di cattiva qualità. Inoltre, a causa delle poche giornate di sole, non sempre bitati, sul territorio vivevano circa 7 milioni di persone (oggi ne vivono oltre 55 milioni). La popolazione era concentrata nei borghi e nelle poche città. L’Europa Nord Occidentale non presentava certo una situazione migliore; nello stesso periodo la popolazione era stimata in 26,7 milioni di abitanti (Tabella 1). Alla fine del Medio Evo la popolazione complessiva dell’Europa Nord Occidentale e dell’Italia si attestava su un valore di poco superiore ai 33 milioni di abitanti. Le “epidemie” erano un fatto ricorrente; fra il 1400 e il 1500 le cronache ne riportano ben 1790, accompagnate spesso da gravi carestie, anche se non sempre è chiaro il rapporto causa-effetto fra carestia e il manifestarsi di una “epidemia”. Le epidemie falcidiavano le popolazioni delle città e dei borghi e le popolazioni rurali, togliendo forza lavoro alla coltivazione dei campi, con effetti drammatici sulle fragilissime economie e sulla disponibilità di alimenti. L’influenza del clima sulla diffusione delle epidemie L’andamento di varie epidemie, ad un’analisi epidemiologica attenta, 11 Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo avevano potuto essere essiccati adeguatamente. La pandemia colpì non solo l’uomo ma anche, e in modo evidente, i topi e si ebbe anche un’elevata mortalità fra cavalli, bovini, pecore, capre e altri animali domestici. Il grafico riportato di seguito (Figura 1) evidenzia in modo drammatico lo stato della popolazione in Normandia, fra il 1250 e il 1550. A partire dal 1350 si ebbe un progressivo decremento demografico che vide la popolazione ridotta a circa il 45% attorno al 1380, per scendere a poco più del 30% attorno al 1460. Occorreranno quasi 100 anni per avviarsi a ritornare alla normalità. Condizioni climatiche caratterizzate da elevata piovosità, alta umidità e temperature relativamente basse erano risultate estremamente favorevoli allo sviluppo sui cereali, in campo e in magazzino, di muffe responsabili della produzione di varie micotossine. Nello stesso periodo, i paesi a clima più secco e freddo (Islanda, il nord della Norvegia e della Svezia, la Finlandia, larghe aree della Russia o dei Balcani), furono colpiti dalla pandemia in ritardo, solo quando si verificarono condizioni di elevata piovosità. Nei territori a clima secco, la pandemia non si diffuse e non causò elevata mortalità, nonostante i commerci e gli spostamenti degli abitanti rendessero il contagio possibile. Matossian osserva che, oltre al contagio, “altri fattori aggravanti o altre malattie erano probabilmente necessari per causare un’elevata mortalità” e conclude che “se queste premesse sono corrette, appare giustificato orientare l’attenzione dall’agente patogeno causale della peste al sistema immunitario di difesa degli uomini e dei topi”. Figura 1 100 80 Indice Andamento dell’indice della popolazione nella Normandia orientale fra il 1250 ed il 1550 (Bois, 1984 – citato da Matossian, 1989) 60 40 1314 = 100 20 1250 1300 1350 12 1400 Anni 1450 1450 1500 E. Lanzola, G. Piva Significativo è il fatto che la situazione migliorò drasticamente all’aumentare della percentuale di frumento nella dieta a scapito di altri cereali e soprattutto della segale. La quota del frumento utilizzato nell’alimentazione è passata in certe zone dal 30% circa nel periodo 1300-1350 a quasi l’80% nel periodo 1450-1500 (Tabella 2). I processi per stregoneria, fra la fine del 1550 e la prima metà del 1600, furono particolarmente concentrati nelle zone dove era prevalente il consumo di segale. La segale, in condizioni climatiche sfavorevoli, può essere facilmente contaminata dalla Claviceps purpurea, i cui sclerozi contengo vari alcaloidi, alcuni dei quali a effetto allucinogeno. Sono le aree a nord delle Alpi, caratterizzate in quel periodo da clima freddo e particolarmente umido, ove questi episodi raggiunsero una particolare intensità (Figura 2). L’Irlanda con un’alimentazione a base di latticini e orzo è stata praticamente indenne, oltre che da situazioni epidemiche, anche dai processi per stregoneria. In Inghilterra, nello stesso periodo storico si era verificata una situazione di bassa fertilità ad andamento variabile, condizionata dal modificarsi del rapporto fra il prezzo della segale e quello del frumento. La fertilità diminuiva quando il prezzo del frumento era elevato e aumentava il consumo di segale. La se- Disturbi legati al consumo di segale I Medici inglesi avevano evidenziato, a metà del diciassettesimo secolo, una relazione fra la dieta a base di segale e una serie di disturbi nervosi anche gravi, con manifestazioni caratterizzate da convulsioni e allucinazioni che facevano considerare le persone colpite indemoniate. A volte gli ammalati erano sottoposti a pratiche esorcistiche. In alcune situazioni queste manifestazioni nervose portarono anche a processi con l’accusa di stregoneria. Tabella 2 Variazioni delle percentuali di frumento nella dieta nella zona di Lione (Lorcin, 1974, citata da Matossian, 1989) Anni Percentuale di frumento 1300-1350 30,8 1350-1400 51,5 1400-1450 66,0 1450-1500 78,8 13 Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo Figura 2 Distribuzione dei processi per stregoneria nell’Europa Occidentale fra il 1580 ed il 1650 (Monter, 1980 – citato da Matossian, 1989) gale era il cereale base per la preparazione del pane che anche le madri allattanti consumavano. Gli alcaloidi della segale cornuta, eliminati con il latte, determinavano un’elevata mortalità dei neonati. Alcuni medici francesi avevano già preso coscienza di questa situazione tanto che, all’inizio del 1600, consiglia- vano alle madri lattanti di consumare pane bianco per evitare che i loro bambini avessero “spasmi”. Un famoso quadro del pittore fiammingo Peter Brugel il Vecchio (ca 1525-1569), “I mendicanti”, documenta i drammatici effetti dell’ergotismo su alcune vittime in Olanda (Figura 3). 14 E. Lanzola, G. Piva Figura 3 “I mendicanti” Peter Brugel Il fuoco di S. Antonio gione di Limoges in Francia, migliaia di persone vennero colpite da una strana malattia caratterizzata da convulsioni, dolori lancinanti alle estremità e vaste lesioni cutanee, accompagnate da febbre alta e senso di bruciore insopportabile; in pochi giorni si poteva manifestare la gangrena e la morte. In casi meno gravi il decorso si svolgeva in modo subacuto ma con sofferenze ed esiti più o meno analoghi attribuibili all’azione vasocostrittrice dell’ergotamina, il più importante principio attivo della segale cornuta. Proprio a causa del senso di bruciore insopportabile, la malattia venne chiamata in Francia “mal des Anche la particolare situazione di panico che percorse la Francia nel 1789 e che si associò a manifestazioni di particolare ferocia in occasione della Rivoluzione Francese, sembra possa essere associabile al consumo di segale di cattiva qualità per le avverse condizioni climatiche di quel periodo. Già quasi un millennio prima della Rivoluzione Francese, si hanno notizie storiche che fanno risalire gravi episodi di malattia che hanno coinvolto intere popolazioni, agli alcaloidi della segale cornuta. Nell’autunno del 943, nella re- 15 Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo ardents” e “Fuoco di S. Antonio”* o “Ignis Sacer” in Italia. L’ergotismo epidemico assurse a tale importanza nel Medio Evo e in alcuni secoli successivi da essere compreso fra le pestilenze, sospettato di essere una malattia infettiva trasmissibile e diffusiva. Peraltro l’infezione e la diffusibilità esistevano, anche se non avvenivano direttamente attraverso l’uomo bensì attraverso la contaminazione dei cereali; l’uomo ne subiva la conseguenza tossica per via alimentare, consumando pane e prodotti cerealicoli contaminati dal fungo. Per soccorrere l’ingente numero dei colpiti sorse l’Ordine degli Antoniani del Delfinato. S. Antonio fu considerato il Patrono protettore: da ciò la denominazione “Fuoco di S. Antonio”. L’Ordine degli Antoniani si diffuse ben presto in molte nazioni dove furono fondati ospedali dedicati al Santo protettore: fra le mansioni di questo Ordine vi era quella di praticare le amputazioni degli arti cancrenosi. Le porte degli ospedali e dei chiostri dell’Ordine erano tinte di rosso, simbolo del fuoco, o recavano Figura 4 Ex voto di scampati alla morte dipinte le fiamme. Gli arti amputati delle persone scampate alla morte venivano talora essiccati e conservati quasi come ex voto di chi riusciva a sopravvivere (Figura 4). Micotossine negli alimenti La scomparsa dell’ergotismo, come è stato già accennato, è dovuta * La denominazione “Fuoco di S. Antonio” è anche attribuita all’herpes zoster. La denominazione colloquiale comune alle due malattie deriva senza dubbio da una similitudine della sintomatologia principale, l’intenso bruciore della zona del corpo interessata. Peraltro le differenze tra le due affezioni morbose restano sostanziali e consistono soprattutto nel fatto che l’herpes zoster è malattia sporadica, non epidemica per riattivazione del virus latente varicella-zoster nelle radici dorsali dei gangli nervosi e si presenta con maggiore frequenza tra i 60 e i 70 anni. 16 E. Lanzola, G. Piva alla scoperta della relazione intercorrente fra cereali parassitati dal fungo e insorgenza della malattia. Ancora all’inizio dell’era moderna, Inghilterra, paesi dell’Europa Centrale e Orientale erano stati pesantemente condizionati, nello sviluppo demografico, dalle micotossine negli alimenti. La situazione ha cominciato a migliorare via via che il frumento ha preso il posto della segale nell’alimentazione delle popolazioni anche nelle aree del C e n tro N o rd e d e l l’E st dell’Europa. La riduzione della segale per ottenere farina destinata alla panificazione, l’evoluzione dei sistemi di molitura, attenti a eliminare le granelle alterate e le impurezze, il controllo sempre più attento della qualità dei grani, ha posto sotto controllo il rischio dell’ergotismo. Altre micotossine, come i tricoteceni e le aflatossine (attualmente sono note oltre trecento molecole che appartengono a questa classe di sostanze) contaminavano i cereali e altri prodotti alimentari vegetali ed animali. La presenza nel latte di aflatossine M1, dovuta all’ingestione di granelle di mais ad elevata presenza di aflatossine B1 ingerite dalle vacche, è problema di questi mesi. L’evoluzione storica della sicurezza alimentare La strada dell’uomo verso la conquista della “sicurezza alimentare” è stata molto lunga e costellata di episodi forse meno drammaticamente generalizzati di quelli ricordati per le micotossine, ma che hanno lasciato una scia di sofferenze e di morti. Note storiche sulla sicurezza alimentare risalgono peraltro a 1215.000 anni or sono, quando l’uomo di Cro Magnon morì vittima di un’intossicazione alimentare. Le sue ossa fossilizzate hanno conservato traccia di questo avvenimento provocato da una malattia delle graminacee. Si ignora, ovviamente, se egli abbia ingerito un po’ di erba erroneamente scelta ovvero sia stato vittima della maldestra preparazione di un pasto. È difficile ipotizzare quanto tempo ci sia voluto perché i suoi contemporanei riuscissero a individuare e quindi a eliminare dai loro pasti l’erba incriminata o quante vittime ci siano state prima che l’uomo preistorico potesse discriminare i funghi commestibili da quelli velenosi. Per soddisfare la propria fame, l’uomo ha dovuto correre continuamente rischi spesso anche mortali. 17 Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo Curioso e significativo al tempo stesso è l’episodio occorso ai soldati greci che facevano parte della spedizione di Ciro il Giovane contro il fratello Artaserse, re di Persia, nel 401 a.C. Conclusasi tragicamente la spedizione con la morte di Ciro, i Greci dovettero intraprendere una lunga e penosa marcia, dalla Babilonia al Ponto, descritta magistralmente da Senofonte nell’Anabasi. Nell’ultima e più avventurosa fase della marcia arrivarono una sera, stanchi ed affamati a Trebisonda, sulla riva del mar Nero, ai piedi delle boscose montagne del Ponto, dove trovarono una grande quantità di miele su cui si gettarono con avidità. Purtroppo, soprattutto coloro che ne avevano mangiato di più, andarono incontro a una forma di avvelenamento con sintomi a carico dell’apparato gastro-enterico, ma anche con vertigini, offuscamento della vista e fenomeni di incoscienza. Oggi sappiamo che tale avvelenamento era legato al nettare fornito alle api da alcune specie di azalee, di rododendri, di oleandri e forse di allori montani che contengono un veleno, l’andromedotossina, responsabile dell’episodio. Altro episodio legato al miele viene ricordato durante la guerra di secessio- ne americana, quando un gruppo di soldati di una guarnigione lamentò manifestazioni molto gravi a carico del sistema nervoso a seguito dell’ingestione di miele prodotto da api che avevano bottinato su fiori di Datura. Nel miele si erano verosimilmente accumulati gli alcaloidi della Datura (scopolamina, atropina e iosciamina). Il caso Franklin L’evoluzione della conoscenza ha influito in modo rilevante sul controllo della sicurezza e delle disponibilità alimentari, ma non sempre tutto è andato nel migliore dei modi. In senso lato si può applicare anche alla sicurezza in alimentazione l’aforisma di Henri Poincaré: “plus la science accroit le cercle de ses connaissances et plus grandit autour le cercle d’ombre”. Vale la pena ricordare, a questo proposito, un tragico avvenimento accaduto alla metà dell’Ottocento: il destino della spedizione Franklin, che è rimasto uno dei più grandi misteri delle esplorazioni geografiche. Nell’autunno del 1984, comparvero su alcune riviste internazionali le fotografie di un giovane marinaio dell’epoca vittoriana, John Torrington, 18 E. Lanzola, G. Piva trovato pressoché intatto nella sua tomba nei ghiacci dell’isola Beechey, tra Groenlandia e Canada. Era un marinaio appartenente all’equipaggio di una delle due navi inglesi, Erebus e Terror, che sotto il comando di Sir John Franklin erano salpate nel maggio del 1845 alla ricerca del passaggio di Nord-Ovest. Si trattava di due navi a vela ma fornite di macchina a vapore ausiliaria, provviste di ogni più moderno ritrovato tecnologico disponibile all’epoca. Particolare attenzione era stata riservata agli approvvigionamenti alimentari che avrebbero dovuto coprire un arco di tre anni, tempo massimo previsto per la spedizione. Facevano parte delle provviste alimentari 61.987 kg di farina, 16.749 litri di bevande alcoliche, 909 litri di “vino per ammalati”, 4.287 kg di cioccolata, 1.069 kg di the e inoltre carne in scatola, confezionata in circa 8.000 latte e lattine da 1,2,4,6 e 8 libbre secondo il metodo Appert, all’epoca ormai acquisito. Della spedizione e dei 129 uomini che ne facevano parte non si seppe più nulla, tranne vaghe informazioni fornite da eschimesi nei decenni che seguirono. È grazie al ritrovamento, da parte di ricercatori dell’Università di Alberta, in Canada, del corpo del marinaio Tor- rington e al successivo esame delle ossa dello stesso e di altri membri dell’equipaggio, in seguito rintracciati, che il mistero poté essere chiarito. L’elevato tasso di piombo riscontrato nelle ossa (da 10 a 30 volte più elevato rispetto alla media di soggetti normali non esposti) ha portato, infatti, a ritenere che si sia trattato di un avvelenamento collettivo da piombo dovuto a un’imperfetta saldatura delle scatole di carne. In base a ricerche successivamente condotte su resti ritrovati, non è difficile supporre che gli equipaggi del Terror e dell’Erebus, bloccati dai ghiacci in uno degli stretti che stavano attraversando, siano andati incontro a eccessivi apporti di piombo. L’avvelenamento da piombo determinò non soltanto la perdita di forza fisica ma anche la riduzione delle capacità mentali, quanto mai necessarie per l’assunzione di corrette decisioni, soprattutto da parte degli Ufficiali, nelle circostanze critiche in cui si erano venuti a trovare. La spiegazione, del tutto recente, dei motivi della tragica conclusione della spedizione Franklin, considerata al momento della partenza una delle più attrezzate tra tutte quelle che avevano affrontato i mari artici, non può non fare riflettere sull’importanza e 19 Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo sulla complessità dei problemi connessi alla sicurezza alimentare, nonché sull’evoluzione che il concetto di questa ha subito nel corso dei secoli fino ai giorni nostri. La tragedia del Terror e dell’Erebus rappresenta, infatti, l’altro aspetto, quello dei rischi, connesso al progresso della Scienza. Senza dubbio è stata una grande invenzione quella del commerciante di generi alimentari de la rue des Lombards a Parigi, Nicolas Appert, resa nota nel 1810 con la sua pubblicazione “L’art de conserver pendant plusieurs années toutes le substances animales et vegetales”. Si può dire che essa abbia dato l’avvio a una continua evoluzione tecnologica, sviluppatasi durante tutto il XX secolo. pomodoro. Diffusione non facile e guardata con sospetto da molti. Non solo la malnutrizione legata ai cibi contaminati da muffe (illustrate da Matossian) o da altri contaminanti più o meno accidentali, ma anche situazioni carenziali gravi, come ricorda Scaramuzzi (In cucina… ai georgofili. Alimenti, pietanze, ricette tra ’700 e ’800, Firenze 2001) erano endemiche. In Toscana, fra il ’700 e l’800, scorbuto e pellagra erano un grosso problema e colpivano tutti i ceti sociali. L’allora neonata Accademia dei Georgofili, fondata nel 1753, si pose proprio il compito di migliorare lo stato alimentare di quelle popolazioni. Il presidente Scaramuzzi dice testualmente: “I Georgofili, nei primi cento anni di attività, fra ’700 e ’800 [...] dovettero necessariamente preoccuparsi soprattutto del fondamentale bisogno di soddisfare le esigenze alimentari indispensabili. Cercarono quindi di valorizzare tutti gli alimenti disponibili e illustrarono le possibilità di utilizzarli nel migliore dei modi. Si adoperarono per fare apprezzare anche alcune piante che erano state introdotte dal nuovo mondo già da due secoli, ma che stentavano a diffondersi, incontrando le umane diffidenze verso ciò che è nuovo”. Un particolare sforzo fu fatto dall’Accademia per favorire la diffusione della L’accademia dei georgofili Nello stesso secolo si è potuto usufruire, almeno in Europa, della radicale variazione nella disponibilità di alimenti che si ebbe con gli effetti della prima globalizzazione geo-mercantile (Quadro Curzio, 1999) conseguente alla scoperta dell’America, con la diffusione in Europa della coltivazione della patata, del mais e più tardi del 20 E. Lanzola, G. Piva coltivazione e dell’utilizzo della patata, a integrazione dei cereali, per fare il pane. Ampia la varietà dei cereali utilizzati allora con diverse modalità per la panificazione, quali il frumento, l’orzo, l’avena, la segale, il farro, il sorgo e il granoturco, ma la loro disponibilità era insufficiente e la qualità spesso lasciava a desiderare. bro Bianco (2000) che asserisce che gli abitanti dell’Unione “non hanno mai goduto di un livello di sicurezza alimentare così elevato come l’attuale”. Questa espressione ha significato globale e comprende sia gli aspetti quantitativi sia gli aspetti qualitativi, quindi la “food safety” e la “food security”. È questo il frutto della “rivoluzione verde” che, a partire dagli anni cinquanta ha consentito, prima nei paesi occidentali e poi in gran parte del mondo, di aumentare in senso quantitativo le produzioni agricole. I vantaggi derivanti da questa maggiore disponibilità di nuovi alimenti non sono stati analoghi per tutte le popolazioni. Da poco più di un decennio (Landi, 2003) i nutrizionisti hanno iniziato a segnalare la “sindrome della fame nascosta”. Sindrome dipendente da carenze di alcune vitamine e oligoelementi. Le nuove varietà di cereali ad alta efficienza produttiva hanno contribuito a ridurre il problema della fame in molte aree, ma a causa della loro scarsa dotazione di vitamine e minerali, hanno determinato nelle popolazioni situazioni di squilibri alimentari. Un recente rapporto dell’ONU (UNEP/Grid, 2003) ricorda che “1,5 miliardi di bambini e metà delle donne in Food safety e Food security L’Accademia aveva come uno dei propri obiettivi primari quello di migliorare lo stato alimentare delle popolazioni. Si cominciano a delineare gli elementi che sono alla base della sicurezza alimentare come la intendiamo oggi, e che racchiudono due concetti base correttamente espressi dall’inglese, che distingue la “food safety“ e la “food security”. Con la prima espressione (food safety) si intende la salubrità o la garanzia di non tossicità degli alimenti, mentre con la seconda (food security) si dovrebbe intendere la disponibilità adeguata di alimenti (Cannella, 2003). Il problema alimentare, almeno in Europa, ha subito una drastica evoluzione, soprattutto negli ultimi cinquant’anni e la situazione attuale nella UE è ben rappresentata da un’espressione del Li- 21 Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo gravidanza nel mondo sono anemici per carenza di ferro“ e che la “situazione è particolarmente grave nel Sud e nel Sud Est dell’Asia, dove la rivoluzione verde ha avuto molto successo”. Oltre alla carenza di ferro, di rilievo sono le carenze di zinco e di vitamina A. Landi (2003) segnala che “secondo la FAO, nel mondo è in atto una pandemia di anemia che colpisce nei paesi poveri. […] Il 40% dei decessi legati al parto (circa 500.000 all’anno) sono dovuti a forme acute di anemia”. Ci troviamo di fronte, in vaste aree del mondo, a una tipica emergenza nutrizionale. L’Europa è indenne da queste situazioni ma, nonostante tutto, il consumatore è ansioso. Il miracolo, realizzato in pochi decenni, di avere reso disponibile cibo abbondante e di ottima qualità, è stato dimenticato. Si guarda con sospetto al progresso scientifico e alle innovazioni tecnologiche. Si è alla ricerca di una nuova forma di “sicurezza”, di quella sicurezza identificabile come “food safety”, avendo superato la preoccupazione della “food security”, che fino a pochi decenni fa assillava ogni padre di famiglia. La “sicurezza alimentare” ha come base il monitoraggio della filiera alimentare, cioè di quell’insieme di processi che portano dalla produzione al consumo. Si tratta di un’insieme di controlli che riguardano gli aspetti chimici, biologici, microbiologici e tossicologici secondo un approccio integrato che parte dall’identificazione dei punti critici (HACCP) e si concretizza in un sistema che identifica gli alimenti in tutte le fasi del processo produttivo (rintracciabilità). È un approccio relativamente nuovo. L’istinto ha guidato l’uomo, fin dalla preistoria, nella ricerca, nella valutazione della qualità e nella scelta del cibo. L’istinto, progressivamente, nelle fasi di sviluppo delle civiltà, è stato integrato dall’esperienza e dalla tradizione orale, in modo da evitare il consumo di cibi dannosi. Sono così state orientate le abitudini alimentari delle popolazioni nelle diverse aree geografiche, e religioni o filosofie le hanno spesso codificate. Quando l’esperienza è stata trasformata in conoscenza ha avuto inizio l’approccio scientifico al problema della nutrizione, quale oggi lo conosciamo. Frodi alimentari Nel contesto della sicurezza alimentare si inserisce, non ultimo, il problema delle frodi alimentari la cui 22 E. Lanzola, G. Piva evoluzione storica meriterebbe una trattazione a parte. La frode alimentare, infatti, è vecchia quanto il mondo: le prime valutazioni analitiche degli alimenti furono di tipo sensoriale e deputate, al tempo degli Egiziani, agli assaggiatori che avevano il compito di tutelare il sovrano da avvelenamenti, di dare un giudizio sulla qualità dei prodotti e di svelare le frodi. Risale al 1780 a.C. una legge del re Hammurapi che vieta la vendita di birra annacquata (Anklam, Battaglia, 2001). È questo probabilmente il primo documento storico che detta leggi di interesse alimentare. L’adulterazione degli alimenti era un fatto piuttosto comune e in India, 2000 anni fa, vi erano norme per prevenire le frodi nei cereali e nei grassi alimentari. L’adulterazione del vino era diffusa nell’impero romano. Plinio lamentava che a Roma non fosse possibile bere vino genuino; l’adulterazione è accennata nelle iscrizioni pompeiane: ne sono una prova indiretta i prefetti dell’Annona che nella Roma antica dovevano vigilare sugli alimenti; Diocleziano, con l’Editto del 301, tentò di disciplinare i prezzi del mercato. Anche nel Medio Evo questa bevanda era sofisticata con acetato di piombo per renderla più dolce. Sempre nel Medio Evo gli alchimisti misero a punto un metodo basato sull’impiego di carta o stoffa impregnata di solfito che, in presenza di acetato di piombo, dava origine a una macchia nerastra di solfuro di piombo. In tutte le epoche e sotto tutti i regimi sono state emanate norme sulla produzione e il commercio delle sostanze alimentari. Frodi alimentari e progresso scientifico In epoca moderna, tuttavia, le frodi alimentari hanno potuto giovarsi, paradossalmente, dello stesso progresso scientifico; in effetti la scienza è, in questo caso, un’arma a doppio taglio: da un lato permette, grazie alle nuove possibilità di analisi, di scoprire più facilmente le frodi; allo stesso tempo, tuttavia, per le stesse ragioni ne favorisce la realizzazione. In qualche caso, e in certi periodi, si è avuta la sensazione che il progresso scientifico sia servito più a favorire le frodi che a prevenirle. Vale la pena ricordare, sotto il profilo storico, quanto ha scritto J.C. Drummond nel suo libro “The Englishman’s food” (1991). Sembra che il periodo in cui le frodi alimentari hanno 23 Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo raggiunto una frequenza molto elevata sia stato tra il 1800 e il 1850, periodo caratterizzato, come è noto, da notevoli scoperte scientifiche nei settori della chimica, della fisica e della medicina, nonché da importanti innovazioni tecnologiche. In quel periodo spicca il nome di un chimico di origine tedesca, F. Accum, professore di chimica in un Istituto di Londra, che dedicò gran parte della sua vita all’analisi chimica degli alimenti. Nel 1820 pubblicò un libro sulle adulterazioni alimentari e la presenza di veleni nel cibo che ebbe grande successo. Molte delle adulterazioni descritte da Accum, quali l’impiego di allume nella panificazione, l’aggiunta di solfato di ferro alla birra, di capsico alla mostarda, erano praticate già da molto tempo, ma la denuncia di Accum ebbe grande risonanza in quanto era suffragata dai risultati delle analisi chimiche. Egli, inoltre, mise in evidenza molti aspetti dei trucchi praticati durante la produzione e la manipolazione di alimenti e bevande, quali ad esempio la falsificazione del vino partendo dal sidro e svelando che persino il “deposito” caratteristico del “porto” invecchiato veniva imitato facendo depositare sulla superficie interna delle bottiglie un leggero strato di su- pertartrato di potassio. La vicenda è molto interessante anche per i risvolti che ne seguirono. Accum, infatti, venne perseguitato in tutti i modi dai produttori e dai commercianti danneggiati dalle sue denunzie; a sua volta, però, prestò il fianco ad alcune accuse quali la pessima abitudine che aveva di asportare pagine dai libri che consultava in biblioteca. La stampa, comunque, cominciò ad interessarsi al problema delle frodi alimentari e la rivista medica Lancet si fece promotrice, nel 1851, di un nucleo di polizia scientifica (Scientific Detective Police) il cui compito era quello di investigare e scoprire frodi e adulterazioni alimentari. Oggi la frode sembra essersi spostata soprattutto nel settore della pubblicità, dando luogo alla cosiddetta “pubblicità ingannevole”. Il fenomeno è dovuto in parte alla grande diffusione dei mass media e, anche in questo caso paradossalmente, alle accresciute cognizioni del pubblico sui temi dell’alimentazione e della nutrizione. Atteggiamento dei consumatori Ci si può chiedere, a questo punto, quale sia l’atteggiamento del consuma- 24 E. Lanzola, G. Piva tore di fronte al problema della sicurezza alimentare. Senza dubbio, rispetto al passato, è più informato e anche più esigente; ha imparato a leggere le etichette, scrive o telefona alle varie associazioni dei consumatori quando si trova ad affrontare qualche problema. Desidera che il prodotto alimentare sia pratico, che abbia una durata di utilizzazione ragionevolmente lunga, così da poterlo conservare senza fare la spesa ogni giorno; nello stesso tempo, però, pretende che mantenga tutte le caratteristiche del prodotto naturale, a cominciare dal gusto. Per rispondere a queste aspettative l’industria fa del suo meglio (cottura sotto vuoto, mild technologies ecc.) ma deve fronteggiare anche un altro caratteristico atteggiamento del consumatore: la diffidenza verso i prodotti nuovi, la cosiddetta “neofobia alimentare”. È sufficiente riflettere sul tempo che c’è voluto perché gli alimenti surgelati entrassero, alcuni decenni or sono, nella consuetudine delle preparazioni culinarie e sull’odierno atteggiamento nei riguardi dei cibi geneticamente modificati (OGM). In questo caso poi si assiste all’assurdo che l’ingegneria genetica non è soltanto accettata ma auspicata quando si tratta di interventi e trattamenti terapeutici, mentre viene rifiutata senza appello quando è riferita agli alimenti, anche se per apportare miglioramenti qualiquantitativi agli stessi (cibo di Frankestein!). È il medesimo atteggiamento che nel ’600 ostacolò l’accettazione della patata nell’alimentazione umana perché la si riteneva causa della lebbra e della scrofolosi. Sicurezza alimentare e qualità della vita Negli ultimi decenni sono stati molteplici gli scandali che hanno compromesso la fiducia del consumatore, a partire dal vino addizionato di metanolo, al problema dei residui di antibiotici e di farmaci, alla contaminazione da PCB e diossine, alla presenza di micotossine, di metalli pesanti ed alla questione degli OGM. La sicurezza alimentare, intesa in senso globale, è perciò alla base della sicurezza nutrizionale. La nutrizione dovrebbe avere come obiettivo il soddisfacimento del benessere psico-fisico, non solo dal punto di vista sensoriale, ma come ottimizzazione dello stato di salute con attenzione alla prevenzione delle malattie metaboliche (obesità, diabete ecc.), di quelle cardio-dege- 25 Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo nerative (ipertensione, cardiovasculopatie), alle sindromi di origine carenziale ecc. L’evoluzione storica della nutrizione si è caratterizzata, in modo più o meno conscio, per varie fasi evolutive (Tabella 3). Un campo di indagine nuovo è offerto dalla disponibilità di nuove tecnologie derivanti dalla rivoluzione geno- mica che dovrebbe consentirci di conoscere meglio le relazioni intercorrenti fra particolari nutrienti e trascrizione dei geni (Averna et al, 2002), anche se “Ad oggi, nessun intervento farmacologico, genetico o ambientale si è dimostrato efficace nel prolungare la vita media degli animali; tuttavia la semplice restrizione calorica aumenta la vita media del 30-40% in un certo numero Tabella 3 Evoluzione storica della nutrizione Fase naturalistica: guidata dall’istinto e governata da norme religiose/filosofiche che soddisfano, ad un tempo, esigenze economiche ed igieniche. Fase dell’energia chimica: rappresenta il primo tentativo di approccio scientifico, basato sull’identificazione degli alimenti come fonte di energia chimica. Fase dei minerali: è forse una delle prime prese di coscienza di situazioni carenziali in certe aree. Fase vitaminica o biologica: è la scoperta del fabbisogno di composti essenziali con l’attribuzione di un ruolo determinante nei processi biologici. Fase degli standard alimentari: è una razionalizzazione dei suggerimenti per ridurre i problemi dovuti a squilibri alimentari e per migliorare la qualità della vita. Fase degli aminoacidi: è la presa di coscienza dell’essenzialità della qualità delle proteine. Fase degli additivi (probiotici, prebiotici, conservanti, antiossidanti ecc.): la diffusione del loro utilizzo coincide con la presa di coscienza della funzione profilattico-salutistica del cibo; così in molti casi il farmaco è diventato alimento. Fase degli alimenti funzionali (nutraceutici): implica il ritorno in veste scientifica all’uso degli alimenti, oltre che per il loro apporto plastico, energetico, dietetico e di mezzo di informazione biologica, anche per le loro azioni benefiche su una o più funzioni dell’organismo (EUFOSE – Diplok et al. 1999).* Fase delle biotecnologie: offre prospettive affascinanti per le possibili evoluzioni cognitive, relative alla qualità e alla sicurezza alimentare, ma che, secondo alcuni, pone interrogativi inquietanti. * “Un alimento può essere considerato funzionale se viene soddisfacentemente dimostrato che può implicare un senso benefico e mirato su una o più funzioni dell’organismo, al di là di adeguati effetti nutritivi, in modo tale che risultino evidenti un miglioramento dello stato di salute e di benessere e/o una riduzione del rischio di malattia. Un alimento funzionale deve restare alimento e deve mostrare i suoi effetti nelle quantità che ci si può aspettare vengano normalmente consumate con la dieta. Non è quindi né una pillola, né una capsula, ma parte del normale regime alimentare“. 26 E. Lanzola, G. Piva di organismi, compresi lieviti, Drosophila, Caenorhabditis elegans, roditori e scimmie” (Averna et al. 2002). Si aggiunga che l’OMS, nel suo rapporto del giugno 2002 “National Cancer Control Programme: policies and managerial guidelines”, evidenzia come fattori alimentari si possano associare al 30% dei casi di tumore nei paesi avanzati e al 20% nei paesi in via di sviluppo. Molto quindi dobbiamo ancora conoscere sui rapporti fra nutrizione e stato di salute. Oggi il concetto di sicurezza alimentare viene recepito nei programmi di Sanità Pubblica degli Organismi nazionali e internazionali preposti alla materia; un importante passo avanti è stato compiuto considerando in senso complessivo la sicurezza alimentare nel suo duplice aspetto nutrizionale e igienico. In Italia il D.M. 16 Ottobre 1998 ha istituito, nell’ambito del Dipartimento di Prevenzione delle Aziende Sanitarie Locali, il Servizio di Igiene degli Alimenti e della Nutrizione (SIAN) che, come lascia intendere la denominazione, unisce nella stessa ottica l’area funzionale di Igiene degli alimenti e delle bevande e l’area funzionale di Igiene della nutrizione. A livello europeo il “Libro bianco della sicurezza alimentare”, pubblicato nel Gennaio 2000, stabilisce che questa deve basarsi su un approccio completo e integrato e deve considerare l’intero sistema alimentare in modo coerente, efficace e dinamico. A sua volta il “Rapporto sul lavoro della Commissione europea nel settore della nutrizione in Europa”, pubblicato nell’ottobre 2002, ribadisce che la preoccupazione per la sicurezza in alimentazione e quella per la nutrizione non possono essere disgiunte. Quando, infatti, gli apporti alimentari sono minacciati da contaminazioni a rischio, quali ad esempio la BSE, legata al consumo di prodotti carnei, ovvero da tossinfezioni per la presenza di salmonella nei prodotti a base di uova, i consumatori possono rispondere modificando i loro modelli alimentari con il risultato di cambiamenti nei profili nutrizionali delle loro diete. Si tratta, come è facilmente intuibile, di un nuovo approccio al problema della sicurezza in alimentazione, basato su cognizioni attuali e logiche, che impegnano tutti i protagonisti coinvolti nel sistema, e cioè i Governi, l’industria, il commercio e i consumatori secondo uno schema che già nel 1990 l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva presentato ricorrendo 27 Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo Figura 5 Approccio al problema della Sicurezza Alimentare secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità WMO 90212 (1990) ALIMENTI PIU’ SICURI PER TUTTI RIPARTIZIONE DELLE RESPONSABILITA' Normative sui prodotti alimentari Raccolta di dati ricerca Consigli per l’industria il commercio il pubblico Buona pratica dei produttori e dei distributori Consumatori informati e avvisati Assicurazione della qualità e controllo degli alimenti trattati Sicurezza delle pratiche alimentari domestiche Processi e tecnologie appropriati Partecipazione comunitaria Messa in atto dei servizi di igiene e sanità correlati Amministratori e manipolatori degli alimenti qualificati GOVERNO INDUSTRIA E COMMERCIO Gruppi attivi di consumatori CONSUMATORE IMPEGNO NAZIONALE PER LA SICUREZZA DEI PRODOTTI ALIMENTARI RUOLO DIRIGENTE DELL’OMS PER UN CONSENSUS INTERNAZIONALE SUI PROBLEMI, LE POLITICHE E LE AZIONI IN MATERIA DI SICUREZZA DEI PRODOTTI ALIMENTARI all’immagine caratteristica del frontone di un tempio (Figura 5). In conclusione si può dire che le numerose ricerche scientifiche effettuate negli ultimi decenni nel settore della sicurezza in alimentazione ed in aree vicine (scienze agrarie, biologiche, ambientali, chimiche, tossicologiche ecc.) abbiano permesso di ricavare una considerevole mole di informazioni che evidenziano sempre più la necessità di considerare la dieta come un tutto unitario per quanto riguarda i suoi componenti. Inoltre si cominciano a intravedere nuovi parametri utili per definire meglio il concetto di “dieta salubre”. Per “dieta salubre” si può intendere una dieta nella quale le sostanze potenzialmente tossiche sono assenti o a livelli tollerabili e nella quale tutte le sostanze nutritive si trovino in rapporti equilibrati e in quantità idonea ad assicurare i fabbisogni nutrizionali, tenuto conto delle interazioni tra le varie sostanze all’interno della dieta e dell’organismo umano. Si tratta di un concetto che ha la sua base nelle analisi delle “diete totali” che consente di trarre indicazioni difficilmente ottenibili attraverso altre vie. Con questo sistema di indagine (da molti anni operativo negli USA) è possibile misurare con soddisfacente ap- 28 E. Lanzola, G. Piva prossimazione le ingestioni con la dieta di determinate sostanze da parte di gruppi selezionati di popolazione, allo scopo di individuare i gruppi a rischio e di seguire i trends temporali. La sicurezza alimentare come ciascuno di noi la vorrebbe, quale fattore di benessere, di qualità e di lunga vita non è ancora completamente raggiunta. L’approccio sistemico che viene oggi sviluppato rappresenta una via molto promettente. La sicurezza alimentare è oggi una disciplina interspecialistica che si ricollega alla microbiologia, alla virologia, all’immunologia, all’allergologia, alla chimica tossicologica, alla farmacologia, ma non può prescindere dalle scienze agronomiche e dalla climatologia. 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In questo contesto, devono essere inclusi requisiti relativi ai mangimi, fra cui quelli legati strettamente alla loro produzione e al loro utilizzo, quando questi siano riservati agli animali destinati alla produzione alimentare. A questo proposito, l’U.E. ha scelto di perseguire un elevato livello di tutela della salute nell’elaborazione della legislazione alimentare, che essa applica in modo non discriminatorio, a prescindere dal fatto che gli alimenti o i mangimi siano in commercio sul mercato interno o su quello internazionale. Esamineremo tutta la legislazione innovativa propria dell’Unione Europea per salvaguardare la salute dei cittadini europei e ne trarremo le conseguenze operative, valutando dettagliatamente i vari punti critici. Quando la legislazione alimentare tende a ridurre, eliminare o evitare un rischio per la salute, le tre componenti interconnesse dell’analisi del rischio, Libera circolazione degli alimenti La libera circolazione degli alimenti, in tutta Europa e nel mondo, presuppone che questi siano sicuri e sani, perché contribuiscono in modo significativo sia alla salute che al benessere dei cittadini e, di conseguenza, ai loro interessi sociali ed economici. Nell’Unione Europea, oggi composta da 25 paesi, la libera circolazione degli alimenti e dei mangimi può essere realizzata soltanto se i requisiti di sicurezza non presentano differenze significative da uno Stato membro all’altro. Oggi, purtroppo, esistono notevoli difformità in relazione ai concetti, ai principi e alle procedure tra legislazioni degli Stati membri, in materia di sicurezza degli alimenti. Occorre, pertanto, procedere al ravvicinamento di tali concetti, principi e procedure, in modo da costituire una base comune per le 31 Concetto di sicurezza alimentare ed elementi di legislazione cioè la valutazione, la gestione e la comunicazione del rischio, forniscono una metodologia sistematica per definire provvedimenti oppure altri interventi a tutela della salute, che siano efficaci, proporzionali e mirati. accrescendo, così, il senso di fiducia reciproca. Visto che alcuni prodotti autorizzati dalla legislazione alimentare, quali i pesticidi o gli additivi per i mangimi, possono comportare rischi per l’ambiente o per la sicurezza dei lavoratori, l’E.F.S.A. deve valutare anche alcuni aspetti legati all’ambiente e alla protezione dei lavoratori, in conformità alla legislazione pertinente. Per garantire ai cittadini l’assoluta certezza della neutralità dei membri dell’E.F.S.A., è stato necessario nominare esperti indipendenti, scelti tra una vasta gamma di categorie professionali e non, suddivisi per nazionalità. L’Authority europea della sicurezza alimentare (european food safety authority o e.f.s.a.) L’istituzione di un’Authority Europea per la Sicurezza Alimentare (European Food Safety Authority o E.F.S.A.) è avvenuta il 28 gennaio 2002, grazie alla pubblicazione del regolamento CE n. 178/2002 del parlamento europeo e del consiglio europeo. La sua funzione è quella di rafforzare l’attuale sistema di assistenza tecnico-scientifica, che non è più in grado di soddisfare le crescenti esigenze di sicurezza. L’E.F.S.A. funge da punto di riferimento scientifico indipendente nella valutazione del rischio e contribuisce a garantire, in tal modo, il regolare funzionamento del mercato interno. Questa Authority è assolutamente autonoma, proprio per garantire e informare sia i consumatori sia i produttori, Definizione di “alimento” Si intende per alimento o prodotto alimentare, qualsiasi sostanza o prodotto trasformato, destinato a essere ingerito o di cui si prevede, ragionevolmente, che possa essere ingerito da esseri umani. Sono comprese le bevande, le gomme da masticare e qualsiasi sostanza, compresa l’acqua, intenzionalmente incorporata negli alimenti, nel corso della loro produzione, preparazione o trattamento. 32 G. Calabrese Non sono compresi: a) i mangimi; La valutazione del rischio si basa sugli elementi scientifici a disposizione ed è svolta in modo indipendente, obiettivo e trasparente. La gestione del rischio tiene conto dei risultati della valutazione del rischio e, in particolare, dei pareri delle autorità preposte, nonché di altri aspetti come il principio di precauzione, laddove sussistano le condizioni ideali per raggiungere gli obiettivi generali in materia di legislazione alimentare. Per quanto riguarda il principio di precauzione, è bene ricordare che, a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, in circostanze specifiche venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione di incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio, necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute che la comunità europea persegue, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio. La legislazione alimentare si prefigge di tutelare gli interessi dei consumatori e di costituire una base per consentire loro di compiere scelte consapevoli in relazione agli alimenti di cui usufruiscono. b) gli animali vivi, a meno che siano preparati per l’immissione sul mercato, ai fini del consumo umano; c) i vegetali prima della raccolta; d) i medicinali ai sensi delle direttive del consiglio 65/65/CEE e 92/73/CEE; e) i cosmetici ai sensi della direttiva 76/768/CEE del consiglio; f) il tabacco e i prodotti del tabacco, ai sensi della direttiva 89/622/CEE del consiglio; g) le sostanze stupefacenti o psicotrope, ai sensi della convenzione unica delle Nazioni Unite sugli stupefacenti del 1961 e della convenzione delle Nazioni Unite sulle sostanze psicotrope del 1971; h) i residui e i contaminanti. Analisi del rischio Ai fini del conseguimento di un elevato livello di tutela della vita e della salute umana, la legislazione alimentare si basa sull’analisi del rischio, tranne quando ciò non sia confacente alle circostanze o alla natura del provvedimento. 33 Concetto di sicurezza alimentare ed elementi di legislazione Essa tende a prevenire: a) le pratiche fraudolente o ingannevoli; di evitare specifici effetti nocivi per la salute provocati da un alimento o categoria di alimenti. b) l’adulterazione degli alimenti; 4) Per determinare se un alimento sia dannoso per la salute, occorre prendere in considerazione quanto segue: a) non soltanto i probabili effetti immediati, a breve termine, a lungo termine dell’alimento sulla salute di una persona, ma anche su quella dei suoi discendenti; b) i probabili effetti tossici di un alimento; c) la particolare sensibilità, sotto il profilo della salute, di una specifica categoria di consumatori, nel caso in cui l’alimento sia destinato ad essa. c) ogni altra situazione in grado di indurre in errore il consumatore. Requisiti di sicurezza degli alimenti In riferimento ai principi della tutela, sono stati definiti precisi requisiti di sicurezza degli alimenti. 1) Gli alimenti a rischio non possono essere immessi sul mercato. 2) Gli alimenti sono considerati a rischio nei seguenti casi: a) se sono dannosi per la salute; b) se non sono adatti al consumo umano. 5) Per determinare se un alimento sia inadatto al consumo umano, occorre prendere in considerazione se l’alimento sia inaccettabile, secondo l’uso previsto, a causa di contaminazione dovuta a materiale estraneo o ad altri motivi, o in seguito a putrefazione, deterioramento o decomposizione. 3) Per determinare se un alimento sia a rischio, occorre prendere in considerazione quanto segue: a) le normali condizioni d’uso dell’alimento da parte del consumatore in ciascuna fase della produzione, della trasformazione e della distribuzione; b) le informazioni messe a disposizione del consumatore, comprese le informazioni riportate sull’etichetta o altre informazioni generalmente accessibili al consumatore sul modo 6) Se un alimento a rischio fa parte di una partita o lotto, si presume che tutti gli alimenti contenuti in quella partita o lotto siano a rischio a meno che, a seguito di valutazione approfondita, risulti infondato ritenere che il resto del- 34 G. Calabrese la partita o lotto sia a rischio. tiche l’E.F.S.A. ha costituito un “panel” di grandi esperti mondiali per conoscere non solo la tecnologia usata per modificare geneticamente l’organismo vegetale, ma anche gli effetti da essa causati. Si ipotizzano alcune variazioni di ordine nutritivo che riguardano: a) l’alterazione di nutrienti “maggiori”; 7) Se un alimento a rischio fa parte di una partita, lotto o consegna di alimenti della stessa classe o descrizione, si presume che tutti gli alimenti contenuti, siano a rischio, a meno che, a seguito di una valutazione approfondita, risulti infondato ritenere che il resto della partita, lotto o consegna, sia a rischio. b) le alterazioni della biodisponibilità; 8) Gli alimenti conformi a specifiche disposizioni comunitarie riguardanti la sicurezza alimentare sono considerati sicuri in relazione agli aspetti disciplinati dalle stesse disposizioni. c) le modifiche quantitative a carico dei nutrienti. Ma le maggiori preoccupazioni riguardano la possibile assimilazione di materiale genetico manipolato tecnologicamente. Ci sono molte paure che scientificamente sembrano assolutamente non verificate, in quanto, prive di fondamento. È bene, quindi, fare un raffronto fra le due posizioni. 9) Se l’alimento è a rischio o se ci sono sospetti, anche se è conforme alle specifiche disposizioni della legislazione alimentare, deve essere sottoposto alle autorità competenti per imporre delle restrizioni sul mercato oppure per disporne il ritiro. A) Chi ha paura degli O.G.M: • teme che ci possa essere una possibile dispersione nell’ambiente dei microrganismi utilizzati nelle biotecnologie; • teme la possibile diffusione nell’ambiente dei nuovi “caratteri transgenici” ad altri organismi, con possibile ricaduta sugli equilibri ambientali; Rintracciabilità degli alimenti Sono tante le critiche nei confronti dei prodotti di origine biotecnologica, sia per quanto riguarda l’aspetto nutrizionale sia per quello di natura tossicologica. Per approfondire queste problema- 35 Concetto di sicurezza alimentare ed elementi di legislazione nell’intestino, una volta ingeriti; • si ricorre a “ geni suicidi” che rendono i microrganismi dipendenti dal “medium” di coltura: se dispersi nell’ambiente non potrebbero sopravvivere; • ci si avvale di mezzi diagnostici che controllano la diffusione dei microrganismi nell’ambiente e sono in grado di arrestare subito l’eventuale “fuga”. • sostiene che gli alimenti ottenuti da piante o animali transgenici potrebbero costituire un rischio per il consumatore; • ribadisce la temuta trasmissione di geni della resistenza ad alcuni tipi di categorie di antibiotici. B) Chi non ha paura degli O.G.M. dichiara che la fuga di microrganismi ingegnerizzati non può avvenire a causa di diverse strategie: • si usano sistemi di controllo che assicurano la gestione della “manipolazione; • vengono utilizzati ceppi batterici deboli, incapaci di sopravvivere Il dibattito rimane aperto, ma la scienza va avanti e sicuramente si troverà un punto di mediazione che metta d’accordo le due parti, con la validazione scientifica fornita dai dati di una profonda e seria ricerca. Riferimenti bibliografici Capuano A, Dugo G, Restani P: Tossicologia degli alimenti. Ed. Utet, 1999. Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee del 28\01\2002. Regolamento (CE) n.178\2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio. 36 C oncetto di rischio in alimentazione C. Roggi C. Gallo Stampino Dipartimento di Scienze Sanitarie Applicate e Psicocomportamentali Sezione di Scienza dell’Alimentazione. Facoltà di Medicina e Chirurgia Università degli Studi di Pavia nante, dei livelli critici di accettabilità entro i quali lo stato di salute del consumatore non venga compromesso. Fondamentale per garantire la sicurezza alimentare è perciò l’analisi del rischio, consistente nell’esame sistematico di tutta la filiera produttiva di un alimento, dalle materie prime ai processi di lavorazione, conservazione e distribuzione, per determinarne i rischi e definirne le necessarie misure preventive. Una corretta analisi del rischio richiede: 1) l’identificazione di un pericolo per la salute umana (natura della contaminazione o del difetto riscontrato); Introduzione Per rischio si intende la probabilità che un pericolo si realizzi e/o si manifesti e porti all’insorgenza dell’evento indesiderato (malattia). Nessuna attività umana, compresi mangiare e bere, è priva di rischi; di conseguenza, anche nel campo della sicurezza alimentare, sarebbe illusorio mirare al raggiungimento di una condizione totalmente scevra da rischio: il concetto di “rischio zero” va pertanto abbandonato, mentre va introdotto quello di “rischio accettabile”. Questo significa che è necessario stabilire, per ogni contami- Figura 1 Analisi del rischio Componenti dell’analisi del rischio Valutazione del rischio Gestione del rischio 37 Comunicazione del rischio Concetto di rischio in alimentazione 2) la valutazione della gravità delle conseguenze del pericolo identificato; 4) la gestione del pericolo identificato attraverso opportuni interventi preventivi e correttivi; 3) la valutazione della probabilità di comparsa del pericolo (rischio); 5) la comunicazione del pericolo. Tabella 1 Classificazione dei pericoli (Pearson AM e Dutson TR 1996) Biologici Chimici Fisici Microrganismi e loro tossine Veleni Sostanze estranee Batteri: forme vegetative e sporigine Muffe Lieviti Virus Parassiti Veleni vegetali Additivi volontari Sostanze chimiche originate nei processi Concimi Pesticidi Residui di antibiotici Additivi non intenzionali Sofisticazioni Cessioni dagli imballaggi Confezioni non integre Contaminanti industriali Metalli pesanti Isotopi radioattivi Vetro Legno Sassi, terriccio Metallo Materiale di confezionamento Ossa, lische Materiale di costruzione Insetti Residui di animali Effetti personali Animali marini come fonte di composti tossici Pesci Molluschi Sostanze in grado di provocare reazioni Allergizzanti Intolleranze alimentari Disordini metabolici Reazioni farmacologiche Idiosincrasie Reazioni anafilattiche Nutrizione Eccessivo addizionamento di nutrienti Carenze nutrizionali o errata formulazione del prodotto Fattori antinutrizionali Distruzione o perdita di nutrienti durante il processo e lo stoccaggio Etichettatura nutrizionale non accurata 38 C. Roggi, C. Gallo Stampino Per pericolo si intende qualsiasi “proprietà” dell’alimento che lo renda insicuro per il consumo umano costituendo un rischio inaccettabile per la salute del consumatore. In campo alimentare esistono tre classi di pericoli: biologici, chimici e fisici (Tabella1). Tra questi, contrariamente a quanto percepito dall’opinione pubblica, molto impressionata e allarmata da eventuali inquinamenti chimici, sono i pericoli biologici a costituire il maggior problema per la salute del consumatore, costituendo negli USA il 93% delle cause di malattie derivate da alimenti, contro il 4% di casi dovuti a pericoli chimici. scita delle cosiddette tossinfezioni alimentari, con incidenze, solo ad esempio per quanto riguarda la situazione americana, che variano da 12,6 a 81 milioni di casi l’anno e costi stimati tra 1,9 e 8,4 miliardi di dollari. L’OMS stima che nelle aree a più alto tenore economico almeno il 10% della popolazione sia annualmente interessata da patologie connesse al consumo di alimenti: in Italia sono stati rilevati 300.000 casi l’anno, ma si tratta sicuramente di dati sottostimati, non essendo l’attuale rete di sorveglianza epidemiologica capace di assicurare la notifica di tutti gli eventi. A questi elevati numeri inoltre corrispondono alti costi, non soltanto in termini economici per l’azienda responsabile e per tutta la società, sottoforma di perdita di giornate lavorative, di mercato, di spese mediche legali e assicurative, ma anche, in modo non quantificabile, in quanto a sofferenza umana. Tutto questo rende ulteriormente necessario attuare misure preventive efficaci nel garantire l’igienicità di ciò che viene posto sul mercato. Le malattie infettive di origine microbiologica trasmesse con gli alimenti sono classificate come infezioni, tossinfezioni e intossicazioni. Le infezioni sono determinate dall’ingestione e dalla successiva replicazione Pericoli biologici I pericoli di natura biologica comprendono batteri, virus e protozoi. Mentre i pericoli macrobiologici (mosche e insetti) per quanto sgradevoli non rappresentano, in genere, un rischio per la sicurezza alimentare (se non quello indiretto di agire da vettori), i pericoli microbiologici, principalmente i microrganismi patogeni, sono spesso causa di malattie derivate da alimenti, come dimostra il trend in evidente cre- 39 Concetto di rischio in alimentazione nell’organismo ospite del microrganismo patogeno stesso, generalmente con bassi valori di dose infettante, periodi di incubazione relativamente lunghi e con interessamento di tipo gastrointestinale e/o sistemico; qualora alla proliferazione del patogeno nell’organismo faccia anche seguito la liberazione di tossine si parla di tossinfezione. Le intossicazioni, invece, sono provocate dall’ingestione di tossine prodotte da microrganismi in fase attiva di proliferazione negli alimenti. Essendo l’agente causale preformato, le malattie conseguenti hanno come caratteristica periodi di incubazione brevi e soTabella 2 Classificazione dei principali pericoli biologici (Pearson AM e Dutson TR 1996) no solitamente associate dal punto di vista epidemiologico a determinati tipi di prodotti alimentari. Possono essere termostabili e quindi resistenti ai normali processi di riscaldamento come nel caso della tossina da Staphylococcus aureus o termolabili, quindi inattivabili con il calore, come nel caso della tossina da Clostridium botulinum. Nella tabella 2 i pericoli biologici vengono classificati in funzione della severità del rischio. I patogeni riportati nel primo gruppo rappresentano un serio pericolo per la salute del consumatore; quelli del se- 1. Gravi Clostridium botulinum tipo A, B, E e F Shigella dysenteriae Salmonella typhi, paratyphi A, B Virus Epatite A e E Brucella abortis, suis Vibrio cholerae 01 Vibrio vulnificus Taenia solium Trichinella spiralis 2. Moderati: potenziali gravi complicanze 3. Lievi: complicanze limitate Listeria monocytogenes Salmonella spp Shigella spp Escherichia coli enterovirulento Streptococcus pyogenes Rotavirus Norwalk virus Entamoeba histoliytica Diphyllobothrium latum Ascaris lumbricoides Cryptosporidium parvum Bacillus cereus Campylobacter jejuni Clostridium perfringens Staphylococcus aureus Vibrio cholerae, non-01 Vibrio parahaemolyticus Yersinia enterocolitica Giardia lamblia Taenia saginata 40 C. Roggi, C. Gallo Stampino condo gruppo sono considerati rischi moderati, sebbene in alcune circostanze, nei gruppi di popolazione più suscettibili, possano comportare complicanze anche molto gravi. Infine i patogeni del terzo gruppo sono quelli responsabili dei comuni casi di malattia di origine alimentare, che in genere non comportano frequenti e preoccupanti conseguenze. Esistono concrete possibilità di una immissione sul mercato di materie prime, specialmente se di origine animale, con un certo grado di contaminazione biologica. Diversi sono, infatti, i patogeni che possono colonizzare l’intestino degli animali da allevamento e contaminare, in fase di macellazione, non solo le carcasse, ma anche il terreno, le acque superficiali e conseguentemente i vegetali coltivati e/o irrigati. L’insorgenza delle malattie infettive di origine alimentare va quindi riferita principalmente a due fattori: la contaminazione e la colonizzazione. Tabella 3 Principali meccanismi in gioco nella diffusione delle malattie infettive di origine alimentare (dati ottenuti da indagini epidemiologiche) (Bryan 1988) Il prodotto può essere contaminato all’origine oppure può subire una contaminazione secondaria durante le fasi di processo. Se a questo subentra una cattiva conservazione si creano le condizioni ottimali per la proliferazione (Tabella 3). Il mancato controllo di questi fattori porta così, anche nei paesi a più alto tenore economico, a un alto tasso di incidenza di patologie di tipo gastro-intestinale. Per il controllo dei pericoli biologici è perciò necessario: 1) eliminare o ridurre i pericoli, per esempio tramite trattamenti termici, irradiazione, o liofilizzazione; 2) prevenire la ricontaminazione; 3) inibire la crescita e/o la produzione di tossine, ad esempio controllando le caratteristiche intrinseche dei prodotti alimentari, le modalità di conservazione e di confezionamento. Fattore 1°: contaminazione % casi - prodotto contaminato all’origine e inadeguatamente trattato con il calore 47 - ricontaminazione da sorgente umana 32 - ricontaminazione ambientale 15 Fattore 2°: colonizzazione % casi - raffreddamento lento dopo trattamento termico 48 - conservazione prolungata 34 - refrigerazione inadeguata 19 41 Concetto di rischio in alimentazione Nella tabella 4 sono riportati, per le principali categorie di prodotti alimentari, i più importanti patogeni distinti nelle forme infettive (cellule vegetative controllabili con i comuni processi di stabilizzazione, quali la pastorizzazione) e nelle forme produttrici di tossine e/o spore che, non completamente eliminabili, possono solo essere ridotte a un livello non pericoloso. Pericoli chimici La contaminazione chimica dei prodotti alimentari può verificarsi in qualsiasi Tabella 4 Potenziali patogeni negli alimenti (Snyder 1992) Alimenti Patogeni Forme vegetative Tossine e/o spore Carni, pollame e uova Salmonella spp Campylobacter jejuni E. coli Y. enterocolitica L. monocytogenes Virus Epatite A Trichinella spiralis S. aureus (tossina) C. perfringens C. botulinum B. cereus Pesci Salmonella spp Vibrio spp Y. enterocolitica Virus Epatite A S. aureus (tossina) C. botulinum Metaboliti tossici Molluschi Salmonella spp Vibrio spp Y. enterocolitica Shigella Virus Epatite A Norwalk virus S. aureus (tossina) C. botulinum Metaboliti tossici Vegetali Salmonella spp L. monocytogenes Shigella spp Virus Epatite A Norwalk virus Giardia lamblia S. aureus (tossina) C. botulinum B. cereus Virus Epatite A Norwalk virus S. aureus (tossina) C. botulinum B. cereus Cereali, legumi e frutta secca Salmonella spp Aflatossine (muffe) Spezie Salmonella spp Latte e derivati Salmonella spp Y. enterocolitica L. monocytogenes E. coli S. aureus (tossina) C. botulinum C. perfringens B. cereus Campylobacter jejuni Shigella spp Virus Epatite A Norwalk virus 42 S. aureus (tossina) C. perfringens B. cereus C. Roggi, C. Gallo Stampino Tabella 5 I principali pericoli chimici (Rhodehamel EJ 1992) Naturalmente presenti Derivati dal processo produttivo Micotossine Sgombrotossina (istamina) Ciguatossina Tossine dei funghi Tossine dei pesci PSP, DSP, NSP, ASP Pyrrolizidine alcaloidi Fitoemagglutinina Policlorinati bifenili (PCBs) Prodotti chimici usati in produzione primaria: pesticidi, fungicidi, fertilizzanti, insetticidi, antibiotici e ormoni della crescita Elementi tossici e loro composti: piombo, zinco, arsenico, mercurio e cianuro Additivi alimentari: conservanti, aromatizzanti, coloranti, integratori Prodotti derivati dallo stabilimento alimentare Lubrificanti, detergenti/disinfettanti, cessioni da imballaggi Tabella 6 Misure preventive per il controllo dei pericoli chimici (Rhodehamel EJ 1992) I. Controllo al ricevimento Specifiche per le materie prime Certificati di garanzia dei fornitori Controlli casuali II. Controllo prima dell’uso Verificare la reale necessità dell’uso di un prodotto chimico Assicurarsi della corretta purezza, formulazione ed etichettatura Controllare le quantità aggiunte III. Controllo durante lo stoccaggio e l’utilizzo Prevenire le condizioni che favoriscano la produzione delle sostanze tossiche naturali IV. Inventario di tutti i prodotti chimici usati in stabilimento Verifica dell’uso Documentazione dell’uso fase del processo produttivo, dalla produzione delle materie prime fino al momento del consumo del prodotto finito. Gli effetti sulla salute umana possono essere a lungo termine (cronici), come per i composti cancerogeni e alcuni metalli (per esempio piombo, cadmio e mercurio) che si depositano e si accumulano per anni nei tessuti corporei, oppure a breve termine (acuti), per in- gestione di dosi elevate. I pericoli chimici connessi alla filiera alimentare vengono distinti in due classi principali (Tabella 5): 1) naturalmente presenti; 2) derivati dal processo produttivo. Per il controllo dei pericoli chimici si possono adottare misure preventive illustrate nella tabella 6. 43 Concetto di rischio in alimentazione Bisogna tenere presente che la contaminazione fisica di un prodotto alimentare può verificarsi in qualsiasi momento del processo produttivo, anche dopo i trattamenti tesi al controllo dei pericoli microbiologici. Quindi la caduta accidentale di un corpo estraneo può avere una duplice ripercussione in termini di rischi fisici e biologici. Per tali ragioni è importante che le buone pratiche di produzione assicurino il controllo dei pericoli fisici e siano previsti strumenti, tipo “metal detector” e raggi x, in grado di rilevare materiali estranei quali metalli ferrosi e non, frammenti di ossa. Pericoli fisici Per pericolo fisico si intende la presenza nel prodotto alimentare di corpi estranei che possono causare danni o malattia; sono inclusi in questa classe anche capelli, sporco, polvere, grasso, carta (Tabella 7). La presenza di corpi estranei rappresenta un pericolo per due motivi: • possono essere causa di lesioni all’apparato digerente e di soffocamenti (questo soprattutto nel caso di prodotti destinati all’infanzia); • possono essere veicoli di microrganismi patogeni. Tabella 7 Principali materiali di interesse per il rischio fisico e loro sorgenti (Rhodehamel EJ 1992) Materiali Danni potenziali Fonte Vetro Ferite, emorragie, interventi chirurgici per la rimozione Bottiglie, vasi, lampade, utensili, strumenti di misura Legno Ferite, infezioni, soffocamenti, interventi chirurgici per la rimozione Campi, pagliericci, scatole, edifici Pietre Soffocamenti, danni ai denti Campi, edifici Metalli Tagli, infezioni, interventi chirurgici per la rimozione Macchinari, campi, fili degli impianti elettrici, dipendenti Insetti o loro parti Malattie, traumi, soffocamenti Campi, contaminazioni post-processo Ossa Soffocamenti, traumi Campi, errori di produzione Plastica Soffocamenti, ferite, infezioni, interventi chirurgici per la rimozione Campi, impianto di confezionamento, pagliericci, dipendenti Effetti personali Soffocamenti, ferite, danni ai denti, interventi chirurgici per la rimozione Dipendenti 44 C. Roggi, C. Gallo Stampino to, consentendone la tipizzazione e la quantificazione, permette di predisporre interventi, linee guida, raccomandazioni che lo riducano ai livelli più bassi possibili o comunque che lo contengano entro valori di accettabilità. In questo consiste appunto la seconda componente dell’analisi del rischio, un processo volto a stabilire le regole per ridurre un rischio valutato, a selezionare e porre in atto le strategie necessarie per il suo controllo (nella tabella 8 sono riportati esempi generali e molto pratici di misure preventive per il controllo dei rischi biologici). Fondamentalmente l’obiettivo è di rendere minima, attraverso il processo di sicurezza, la probabilità di esposizione al rischio. Infine, la “comunicazione del rischio” consiste nel processo interattivo Analisi del rischio L’analisi del rischio, tema fondamentale della nuova filosofia della sicurezza alimentare, è costituita, come abbiamo illustrato precedentemente, da tre componenti: 1) valutazione del rischio; 2) gestione del rischio; 3) comunicazione del rischio. La “valutazione del rischio” ne costituisce la prima tappa e consiste in una stima scientifica degli effetti di danno o potenzialmente di danno per la salute derivante dall’esposizione umana a pericoli di origine alimentare. Costituisce l’elemento chiave per arrivare alla “gestione del rischio” in quanTabella 8 Esempi pratici del controllo del rischio biologico Rischio Misure di prevenzione Tossine preformate stabili al calore Es. tossina Staphylococcus aures tossina emetica Bacillus cereus Materie prime • Caratteristiche dell’agente etiologico e/o della tossina • Dimostrazione del controllo durante la fornitura • Certificato d’analisi Personale • Lavaggio mani • Copertura di eventuali tagli/ferite • Uso mascherine copribocca/coprinaso • Libretto sanitario Comportamenti durante la lavorazione • Controllo dei parametri tempo e temperatura per inibire la crescita del microrganismo Segue a pagina successiva 45 Concetto di rischio in alimentazione Tabella 8 Segue da pagina precedente Rischio Misure di prevenzione Patogeni in forma vegetativa Es. Salmonella Listeria monocytogenes Vibrio parahaemolyticus Yersinia enterocolitica… Materie prime • Trattamento con calore • Verifica della possibilità di sopravvivenza/crescita dei microrganismi patogeni • Prova di controllo durante il processo di fornitura • Certificato di analisi • Controllo della temperatura • Controllo dei fattori intrinseci come pH, sale, zucchero, acidi organici… • Procedimenti come irradiazione, sterilizzazione… Contaminazione crociata • Imballaggio intatto • Flusso logico del procedimento, comprendente: - Separazione del personale, delle attrezzature, delle aree - Percorsi “sporchi” e sistemazione delle aree Forme sporigene Es. Clostridium perfringens Bacillus subtilis Bacillus licheniformis Bacillus cereus Materie prime • Caratteristiche delle derrate • Dimostrazione del controllo durante la fornitura • Certificato di analisi • Trattamento con calore • Trattamento con calore associato ad acidità e concentrazione di zucchero • Integrità dell’imballaggio, clorazione dell’acqua raffreddante e controllo del recipiente raffreddante • Fattori intrinseci come pH, sale, zucchero, acidi organici… • Altri processi letali, (es. irradiazione) Contaminazione crociata • Imballaggio intatto • Controllo degli infestanti • Flusso logico del procedimento Virus Es. Epatite A • • • • Parassiti Protozoi Es. Cryptosporidium parvum Giardia intestinalis Micotossine Es. Patulina Aflatossina • • • • • • Rigoroso controllo dell’irrigazione e del lavaggio di insalata e vegetali Trattamenti letali (es. irradiazione, con calore) Rigorose procedure di igiene personale per chi manipola gli alimenti Ispezione veterinaria per controllo di parassiti come Toxoplasma condii, Tenia in manzo e maiale e Trichinella in maiale Congelamento (-18°C), riscaldamento (>76°C), essiccamento, salatura Uso di acqua depurata Pastorizzazione latte Trattamento con calore dell’acqua usata come ingrediente Buone pratiche di immagazzinamento Riduzione acqua libera a valori < 0.7 46 C. Roggi, C. Gallo Stampino di scambio di informazioni e di opinioni sui rischi tra esperti (di valutazione, di gestione…) e altre parti interessate (individui, gruppi, istituzioni). Secondo una recente definizione dell’U.S. National Research Council Committee, deve riguardare non solo argomenti strettamente inerenti la natura del rischio, ma anche dubbi, reazioni a messaggi sul rischio o a provvedimenti legali e istituzionali intrapresi per la sua gestione. Dal momento che la comunicazione del rischio prevede la comunicazione della decisione raggiunta in seguito ai processi di valutazione e gestione, permette così il coinvolgimento del pubblico nel cosiddetto “ciclo della gestione del rischio”, un modello secondo il quale le preoccupazioni del pubblico e di tutte le parti interessate vanno considerate attivamente a ogni stadio del processo di gestione del rischio, inclusa la valutazione (Figura 2). Questo modello rappresenta così una sintesi dei processi alla base dell’analisi del rischio, essendo costituito da sei tappe fondamentali: 1) definire il problema e collocarlo nel contesto; 2) analizzare i rischi associati al problema collocato nel contesto; 3) esaminare le opzioni per gestire i rischi; Figura 2 Ciclo della gestione del rischio (Risk management cycle - U.S. Presidential/ Congressional Commission on Risk Assessment and Management 1997) Problemi/ contesto Rischi Valutazioni Coinvolgere Opzioni Azioni Decisioni 47 Concetto di rischio in alimentazione 4) prendere decisioni sulle opzioni che possono essere adottate; senta per le relazioni e le abitudini familiari e sociali. In altri termini ciò significa che, più che il rischio stesso, sono le caratteristiche dei destinatari a determinarne la percezione: le caratteristiche sociali, culturali e individuali amplificano ed esagerano un rischio piuttosto che un altro, come dimostrato nella tabella 9. Consumatori e scienziati valutano il rischio in modo molto diverso perché diversi sono i rispettivi punti di partenza e i linguaggi utilizzati: quello scientifico e statistico degli esperti e quello intuitivo del pubblico. L’ambito di lavoro della comunicazione del rischio è proprio questo gap che separa la descrizione scientifica dei rischi, in costante evoluzione, dalla percezione pubblica degli stessi. A tutt’oggi, da parte degli operatori del settore alimentare manca un sistematico sforzo nella corretta comunicazione dei rischi alimentari, mentre spesso le informazioni scientifiche so- 5) intraprendere azioni per implementare le decisioni; 6) verificare i risultati dell’azione intrapresa. Tutti questi sei punti, rappresentanti le prime due componenti dell’analisi del rischio, valutazione e gestione, prevedono la collaborazione e l’interazione di tutte le parti che compongono la filiera alimentare, compreso il consumatore finale, presupposto indispensabile perché le decisioni e le conclusioni raggiunte con l’analisi del rischio non siano contestate e sfidate. La percezione del rischio L’esperienza ha dimostrato che il rischio, più che sulla base di numeri oggettivi ma impersonali, è “vissuto” alla luce della minaccia che rappre- Tabella 9 Percezione del rischio (in ordine decrescente) Rischio reale Rischio percepito Errori di alimentazione Pesticidi Microrganismi e tossine di origine batterica OGM Micotossine Additivi Pesticidi Errori di alimentazione Additivi Microrganismi e tossine di origine batterica OGM Micotossine 48 C. Roggi, C. Gallo Stampino no parziali, sporadiche, interpretate in modo contraddittorio e mescolate con la paura della gente. Tutto ciò ha contribuito ad aumentare enormemente il distacco tra mondo scientifico-produttivo e pubblico. Sicuramente l’industria alimentare deve assumersi la primaria responsabilità di questa attività, ma nel contempo si rendono necessari altri interventi coordinati che coinvolgano, oltre a chi produce e trasforma, anche: • chi elabora i programmi politici e di sorveglianza alimentare, attraverso l’istituzione di agenzie che rappresentino punti di riferimento scientifici indipendenti; • chi si occupa di informazione, attraverso la creazione di scuole per giornalismo scientifico; • il pubblico in generale, attraverso interventi di comunicazione interattiva organizzati dalle strutture di educazione sanitaria e dei servizi sanitari che, per la loro storica funzione e collocazione, possono raggiungere ampie fasce di popolazione. le decisioni politiche e le discussioni pubbliche si basino sulle migliori informazioni disponibili. Sicuramente però, una comunicazione del rischio efficace, aumentando il grado di comprensione di particolari problemi e interventi e assicurando alle persone coinvolte un’adeguata informazione nei limiti delle conoscenze disponibili, aiuterà a ripristinare il livello di fiducia nelle politiche di sicurezza alimentare, in questi ultimi anni fortemente minata da gravi scandali alimentari (basti ricordare la BSE o il pollo “alla diossina”). CONCLUSIONI Quando si parla di rischio in alimentazione, si fa riferimento al concetto di rischio accettabile ed è fondamentale al riguardo fornire alla popolazione messaggi chiari e comprensibili, finalizzati a fornire all’individuo, di ogni età e livello sociale, opportuni elementi di giudizio e a creare una ben precisa coscienza alimentare per il consolidamento di un corretto, igienicamente salutare e adeguato modo di alimentarsi. In buona parte della popolazione non esiste una cultura relativa all’igiene degli alimenti, mentre, per contro, esistono tradizioni e abitudini alimentari che prescin- Tali interventi non sempre si dimostreranno capaci di ridurre i conflitti e facilitare la gestione del rischio. Del resto, la comunicazione del rischio non è un processo volto a manipolare l’opinione pubblica, ma a permettere che 49 Concetto di rischio in alimentazione dono dall’applicazione delle più elementari norme igieniche. Ad esempio, l’attuale tendenza al ritorno al “naturale”, in opposizione alle recenti innovazioni tecnologiche e la ricerca di prodotti “freschi e genuini”, non sottoposti a trattamenti di risanamento considerati depauperanti del valore nutritivo, addirittura potenzialmente nocivi, costituisce un serio rischio per la Salute Pubblica. Alla luce di tali considerazioni è importante che, chi si occupa di alimen- tazione a qualsiasi livello, non ignori le convinzioni dell’opinione pubblica, ma anzi prenda atto dei meccanismi sociali che ne stanno alla base per rispondere in modo positivo e razionale alle esigenze emerse. Queste risposte devono basarsi non solo su evidenze scientifiche prodotte dai più avanzati studi (epidemiologici, tossicologici eccetera), ma anche considerare i diversi fattori che condizionano la percezione del rischio (Tabella10). Tabella 10 Alcuni fattori che influenzano la percezione del rischio (Covello e Merkhofer 1994) Volontarietà dell’esposizione I rischi volontari sono meglio accettati di quelli ritenuti imposti Controllabilità I rischi ritenuti sotto il proprio controllo (es. tossinfezione alimentare domestica) sono meglio accettati di quelli percepiti come sotto il controllo di altri (es. residui pesticidi) Chiarezza dei benefici I rischi portatori di indubbi benefici sono meglio accettati di quelli privi di (o con pochi) vantaggi Distribuzione dell’esposizione I rischi distribuiti imparzialmente sono meglio accettati di quelli distribuiti in modo non omogeneo Fonte e origine del rischio I rischi naturali sono meglio accettati di quelli tecnologici e/o indotti dall’uomo Potenziale catastrofico I rischi statistici sono meglio accettati di quelli catastrofici Familiarità I rischi familiari sono meglio accettati di quelli esotici Impatto sui bambini I rischi che riguardano i bambini destano più preoccupazione di quelli che riguardano principalmente gli adulti Incertezza scientifica I rischi ritenuti sconosciuti o incerti (DNA ricombinante) sono meno accetti di quelli ritenuti scientificamente “tradizionali” Comprensione I rischi di difficile comprensione sono meno accetti di quelli di semplice spiegazione Spaventosità delle conseguenze I rischi con conseguenze spaventose non sono accettati (es. il morbo di Creutzfeldt-Jakob è considerato un modo terribile di morire) Fiducia Nelle istituzioni e nel sistema agroalimentare Attenzione dei media Sensazionalismo per aumentare le vendite o gli ascolti che tende a privilegiare quello che “fa notizia” e che non necessariamente coincide con quello che rassicura 50 C. Roggi, C. Gallo Stampino Mossel DAA, Drion EF Risk analysis as applied to the protection of the consumer against food-trasmitted diseases of microbial aetiology. In: Jarvis B, Christian JKB & Michener HD (Eds): Food Microbiology and Technology. Medicina Viva, Parma, pp 417-30, 1979. Riferimenti bibliografici Ceglie D Legge 281/98: prima di tutto i diritti di utenti e consumatori. Alimenti&Bevande, 3/4, 5-6, 1999. Commissione delle Comunità Europee. Libro bianco sulla sicurezza alimentare. Bruxelles, 12.1.2000 COM (1999) 719 def. Mossel DAA et al. Essentials of the microbiology of foods: a textbook for advanced studies. John Wiley&Sons Ltd, pp 217-67, 1995. Covello VT, Merkhofer MW Risk Assessment Methods. Plenum Press, New York, 319. 1994. NACMCF Principles of risk assessment for illness caused by foodborne biological agents. National Advisory Committee on Microbiological Criteria for Food, 1993. Decreto Legislativo 26 maggio 1997, n. 55. 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Introduzione L’assunzione degli alimenti rappresenta un evento indispensabile al mantenimento della salute ed alla conservazione della specie umana. Anche questi però, come tutto ciò che si trova in natura, non sfuggono alla legge di Paracelso (“Dose sola facit ut venenum sit”) e possono infatti essere direttamente o indirettamente tossici in quanto sono in grado di causare effetti negativi sull’organismo a causa della presenza di: • componenti naturali: sostanze di origine vegetale o animale presenti naturalmente negli alimenti che, se assunti a dosi eccessive, risultano tossiche (es: inibitori enzimatici, composti cianogenici, goitrogeni, psicoattivi, vasoattivi e tossine di origine animale ecc.); • contaminanti: sostanze di origine naturale o sintetica presenti negli alimenti (es: tossine batteriche e fungine, pesticidi e farmaci ecc.) in maniera indipen- In questo contesto è importante sottolineare come la maggior parte della popolazione sia estremamente preoccupata dalla presenza di additivi e contaminanti negli alimenti. Questo fenomeno di massa è per lo più attribuibile sia all’allarmismo creato dai media nell’opinione pubblica, sia a una notevole disinformazione generale. La demonizzazione dell’utilizzo degli additivi alimentari ha raggiunto una tal 53 elementi di tossicologia alimentare portata che la maggior parte della popolazione ignora l’esistenza di una disciplina finalizzata allo studio della sicurezza d’uso di tali composti, quale la tossicologia alimentare. Quest’ultima è infatti dedicata allo studio degli effetti indesiderabili derivanti da sostanze presenti o non presenti naturalmente negli alimenti, siano esse di origine sintetica, animale o vegetale (additivi e contaminanti). A supporto di quanto appena detto risulta evidente come, per il consumatore medio, il rischio (inteso come probabilità statistica che vi sia un pericolo e/o compaia un danno) più elevato sia attribuibile alla presenza di pesticidi e additivi alimentari, quando in realtà questi rappresentano la minor causa di effetti tossici dovuti all’alimentazione (vedi tabella 9 capitolo “Concetto di rischio in alimentazione”). Gli additivi alimentari erano infatti in uso già al tempo dei romani, i quali utilizzavano sia il sale sia l’affumicatura, modalità quest’ultima che è ancora molto utilizzata. Anche nel medioevo vi era l’abitudine di utilizzare diverse spezie provenienti dall’oriente, non solo per migliorare la palatabilità del cibo, ma anche per conservare meglio alcuni alimenti. Nella seconda metà del 1800, in seguito alla Rivoluzione Industriale, l’impiego degli additivi subì una grossa impennata, favorendo quindi anche l’insorgere di fenomeni di lucro e di adulterazione. Nel primo caso basti pensare alle ghiande nel caffè e alla polvere di mattoni nel cacao, mentre nel secondo al piombo e al rame utilizzati per colorare dolci, prodotti vegetali e formaggi. Ovviamente, negli anni successivi, l’adulterazione divenne un problema di ampia portata, tant’è che già nel 1820 Frederick Accum, pubblicò un libro dal titolo “A treasure on adulteration of food and culinary poisons”, nel quale l’autore presentava un metodo scientifico per scoprire le adulterazioni alimentari ponendo così le basi per una delle prime leggi sulla sicurezza degli alimenti che venne promulgata in Gran Bretagna nel 1860 e costituì la base del “US Food and Drug Act” del 1906. Cenni storici L’approvvigionamento e la conservazione del cibo sono due problemi da sempre presenti nella storia dell’uomo. Viene da sé quindi che per garantire una scorta alimentare sufficiente per diversi periodi è stato necessario introdurre dei metodi che permettessero di conservare i prodotti nell’arco dell’anno. 54 E. Chiesara, S. Radice Committee on Food Additives” (JECFA), la “Food and Agriculture Organization of the United Nation” (FAO) e la “World Health Organization” (WHO). Fu proprio il JECFA che, sulla base di quanto detto in precedenza da Leheman e Fitzhugh, sviluppò il concetto di ADI (Acceptable Daily Intake; Quantità Giornaliera Accettabile) definendola come “una quantità definita di additivo alimentare, espressa sulla base del peso corporeo, che può essere ingerita ogni giorno per tutta la vita senza alcun effetto sulla salute umana”. Da questo momento il concetto di ADI venne accettato anche dal Joint FAO/WHO Meeting on Pesticides Residues (JMPR) e dalla Environmental Protection Agency (EPA), che lo utilizzò anche per i contaminanti, sebbene il termine ADI venga sostituito con il termine Dose di Riferimento (RfD). Le basi scientifiche della moderna tossicologia alimentare Nel ventesimo secolo c’è stato un notevole incremento dei processi coinvolti nella produzione e nella conservazione dei cibi che richiedevano l’aggiunta di sostanze naturali o di sintesi (additivi), il cui utilizzo era finalizzato sia a migliorare la sicurezza dal punto di vista microbiologico, che a preservare le qualità dei cibi nel tempo. La portata di questo incremento è stata tale che il mondo scientifico, e in particolar modo i tossicologi, si è impegnato per garantire una sicurezza d’uso degli additivi per ovviare a qualsiasi effetto tossico sulla salute umana. Fu così che nel 1950 la “US Food and Drug Administration” (FDA) e la “Food Protection Committee of the National Research Council”, sottolinearono l’importanza della valutazione della sicurezza in campo alimentare, proponendo attraverso due massimi esperti (Leheman e Fitzhugh della FDA) l’importanza del “fattore di sicurezza” (vedi paragrafo successivo). La spinta in tal senso è stata tale che nel 1955 vennero costituite altre organizzazioni scientifiche e comitati di esperti nel campo, quali la “Joint Expert La valutazione del rischio tossicologico (Risk Assesment) Criteri per la determinazione dell’ADI: le basi teoriche Come precedentemente detto, gli additivi, come tutti i composti chimici, possono 55 elementi di tossicologia alimentare produrre effetti dannosi su una popolazione quando assunti in quantità eccessiva. Gli esperti si riferiscono al “potenziale effetto dannoso” come al pericolo (“hazard”) associato a quella sostanza, dove per sostanza si intende “un agente biologico, chimico o fisico” che potenzialmente può causare un effetto avverso sulla salute. È importante sottolineare che il rischio che tale pericolo si verifichi dipende essenzialmente dall’esposizione alla sostanza. È vero infatti che il pericolo è una caratteristica intrinseca della sostanza, ma senza una esposizione non ci sarebbe la possibilità che tale pericolo si esprima. La determinazione dell’ADI è una forma specifica di valutazione del rischio perché definisce i limiti di esposizione al di sotto dei quali non compaiono effetti indesiderabili per la salute umana. Questo concetto comporta l’esistenza di un livello soglia per parecchi tipi di effetti Tabella 1 Tipi di tossicità tossici, dove per livello soglia si intende un livello di assunzione al di sotto del quale non si manifestano tali effetti, sia perché la sostanza non ha effetto, sia perché i meccanismi omeostatici sono stati in grado di annullare i cambiamenti apportati. Nella tabella 1 sono riassunti alcuni esempi di effetti avversi associati alla tossicità del composto. Come verrà riportato successivamente, il calcolo per la determinazione dell’ADI presuppone la conoscenza del NOEL (No Observed Effect Level) o del NOAEL (No Observed Adverse Effect Level). In quest’ultimo caso però è importante discriminare se gli effetti osservati durante gli studi di tossicità sono ascrivibili a una risposta adattativa, senza implicazioni per lo stato di salute dell’animale, oppure se sono realmente un’evidenza dell’effetto tossico della sostanza allo studio. In questo caso non si può parlare di NOAEL, ma Effetti avversi Variazioni funzionali Riduzione del peso corporeo Variazioni morfologiche Anormalità patologiche Mutagenesi Variazioni ereditabili a livello del DNA, che potrebbero potenzialmente essere causa di cancro e anormalità fetali Cancerogenesi Cancro Neurotossicità Cambiamenti comportamentali, sordità Immunotossicità Depressione del sistema immunitario, fenomeni di ipersensibilità e allergia Tossicità riproduttiva Sterilità, teratogenesi, embriotossicità 56 E. Chiesara, S. Radice di LOAEL (Lowest Observed Adverse Effect Level). Decidere se un effetto è realmente indesiderabile dipende da specifiche circostanze ed è un concetto caratterizzante gli studi di valutazione del rischio. Ad esempio, il diminuito accrescimento del peso corporeo accompagnato da una diminuita assunzione di cibo, potrebbe essere attribuibile al fatto che elevate dosi di sostanza nel cibo diminuiscono la sua palatabilità, piuttosto che a un effetto indesiderabile della sostanza stessa. È importante comunque sottolineare che NOAEL e NOEL non sono due proprietà della sostanza, ma sono delle osservazioni sperimentali. Considerando che non è etico somministrare una sostanza potenzialmente tossica a volontari umani e che oggigiorno si tende a minimizzare l’utilizzo degli animali da laboratorio, ne consegue che i metodi alternativi (test “in vitro” e modellistica) sono sempre in continuo aumento. Questi modelli sono molto utili in quanto forniscono informazioni dei meccanismi d’azione, ma sicuramente non sono sufficienti per fornire un completo quadro tossico di una sostanza. Di seguito sono schematizzati i principali test utilizzati in un completo studio di tossicità finalizzato a fornire i parametri necessari per la determinazione dell’ADI. • Tossicità acuta orale: singola somministrazione orale. Definisce il grado di tossicità. • Tossicità a breve termine: somministrazioni giornaliere ripetute per 14-28 giorni. Definisce il potenziale tossico. • Tossicità subcronica: somministrazioni giornaliere ripetute per 90 giorni. Definisce i target di tossicità e indica le dosi utilizzabili per gli studi di tossicità cronica. Si utilizzano due specie diverse. • Tossicità cronica e cancerogenesi: somministrazioni giornaliere ripetute per 2 anni. Fornisce i parametri (NOEL, NOAEL) utilizzati per la determinazione Criteri per la determinazione dell’ADI: i test utilizzati Le strategie finalizzate a ottenere dati utilizzabili per una valutazione del rischio e che quindi forniscano certezze per determinare la sicurezza d’uso di un determinato additivo alimentare comprendono: • la valutazione della struttura chimica e dell’attività biologica della sostanza; • modelli per lo studio “in vitro” (es: colture cellulari); • animali da laboratorio; • volontari umani. 57 elementi di tossicologia alimentare dell’ADI. Si utilizzano roditori ed almeno una specie di non roditori. • Genotossicità: test a breve termine per valutare l’interazione con il DNA (mutazioni e alterazioni cromosomiche). Si utilizzano diversi test sia “in vivo” che “in vitro” su batteri e cellule di mammifero. • Tossicità riproduttiva e dello sviluppo: somministrazioni giornaliere ripetute prima, durante e dopo la gestazione. Forniscono informazioni degli effetti sulla fertilità maschile e femminile, sullo sviluppo fetale e neonatale, oltre che su possibili effetti ereditari. Si utilizzano roditori per gli studi multigenerazionali e due specie diverse in quelli di sviluppo. • Immunotossicità: test a breve termine e subcronici. Studia le variazioni della struttura e delle funzioni dei tessuti, delle cellule e dei mediatori coinvolti nella risposta immunitaria. • Neurotossicità: test a breve termine e subcronici. Studia le variazioni della struttura, delle funzioni e dei mediatori del SNC, oltre che del comportamento della specie utilizzata. zione che composti chimici, quali gli additivi e i contaminanti, vengono assunti per periodi molto lunghi (a volte per tutta la vita), ma a concentrazioni molto basse. La valutazione del rischio, di un singolo additivo o contaminante, deve determinare l’ADI, che, come detto prima, rappresenta la quantità giornaliera assumibile. L’ADI si ottiene applicando la seguente formula: ADI = NOEL (NOAEL)/SF dove il NOEL rappresenta la dose senza effetto, espressa in mg/kg peso corporeo, ottenuta dagli studi sperimentali a lungo termine (tossicità cronica) condotti su più specie animali. Per porsi in una condizione di massima sicurezza, normalmente deve venir utilizzato il NOEL relativo alla specie animale rivelatasi più sensibile, ovvero quella specie in cui l’effetto tossico della sostanza si è manifestato alla dose più bassa. A volte al posto del NOEL viene utilizzato il NOAEL, anch’esso espresso in mg/kg peso corporeo, quella concentrazione cioè alla quale non sono stati osservati effetti indesiderabili. Il fattore di sicurezza (SF), o fattore di incertezza, è un valore compreso per Criteri per la determinazione dell’ADI: come si calcola La valutazione del rischio tossicologico viene fatta tenendo in considera- 58 E. Chiesara, S. Radice lo più fra 10 e 1000 e provvede a dare un adeguato margine di sicurezza al consumatore nell’estrapolazione dei dati dall’animale all’uomo. Il SF più utilizzato è 100 (10x10) dove: • 10 è un fattore per le differenze interspecie; ad esempio una maggior sensibilità umana alla sostanza se paragonata a quella del modello animale utilizzato (minor eliminazione dal corpo, maggior equilibrio fra attivazione e detossificazione); • 10 è un fattore per le differenze intra-specie; ad esempio esiste la possibilità che parte della popolazione umana possa essere più a rischio a causa di differenze individuali anche su base genetica. Un SF pari a 10 viene utilizzato solo quando sono conosciuti sia gli effetti avversi della sostanza che la sua relazione dose-risposta nell’uomo. In realtà molto spesso vengono utilizzati fattori di sicurezza più elevati (200 o 1000), soprattutto in quelle situazioni in cui si hanno a disposizione scarsi dati di tossicità cronica e quindi di un NOEL/NOAEL scarsamente rappresentativo, oppure quando la sostanza ha provocato effetti di dubbia interpretazione e necessita quindi di una rigida valutazione rischio/beneficio. Criteri per la determinazione dell’ADI: fattori di variazione e di incertezza Gli studi di tossicologia oggigiorno sono condotti utilizzando animali da laboratorio, la maggior parte dei quali roditori, che sono stati allevati in modo specifico per questo fine. Infatti, questi animali sono ceppi selezionati e vengono cresciuti in modo molto controllato per quanto riguarda la dieta, la purezza dell’acqua, la temperatura ambientale, i cicli luce/buio, l’igiene e le condizioni atmosferiche. Questi controlli, sia ambientali che genetici, fanno sí che gli animali utilizzati siano molto simili l’un l’altro e che quindi rispondano in modo relativamente omogeneo a un insulto tossico. Tutto ciò ovviamente porta a una diminuzione delle variabili e a un aumento della sensibilità dello studio nell’identificazione degli effetti a basse dosi. In contrasto, è evidente il fatto che vi è un’enorme variabilità all’interno della popolazione umana se paragonata a quella degli animali da laboratorio. Infatti, la sensibilità nei confronti di una sostanza può essere influenzata da svariati fattori individuali e ambientali quali ad esempio le variazioni genetiche, lo stato 59 elementi di tossicologia alimentare ormonale, l’età, lo stato di salute e l’ambiente in cui l’individuo stesso vive (Tabella 2). Ne consegue che è fondamentale considerare, quando si utilizzano le informazioni derivanti da studi di tossicità sperimentale: • le differenze esistenti fra gli animali da esperimento e l’uomo (variabilità inter-specie); • le differenze di sensibilità verso un insulto tossico esistenti nella popolazione umana (variabilità intra-specie). presupporre un riparo o una rigenerazione. Tutte queste fonti di variabilità ed incertezza sono molto importanti nella valutazione dell’ADI (Tabella 3). Applicabilità dell’ADI a diversi sottogruppi Neonati e bambini Nonostante l’ADI rappresenti la dose alla quale un composto può venir ingerito per tutta la vita senza alcuna compromissione dello stato di salute, rimane sempre vivo il problema dell’esistenza di sottogruppi all’interno della popolazione umana che potrebbero non essere abbastanza protetti dall’ADI stessa. In tal senso, è da sempre stata fatta molta attenzione nei confronti dei neonati (dalla nascita ai 12 mesi) e dei bambini (dall’anno ai 12 anni) i All’interno di queste due categorie è opportuno considerare le due maggiori cause di variabilità: • la tossicocinetica - il destino a cui va incontro il composto una volta assorbito dall’organismo, come venga cioè distribuito, biotrasformato ed eliminato; • la tossicodinamica - gli effetti del composto sull’organismo portano ad una risposta tossica che può anche Tabella 2 Esempi di fattori esterni che possono influenzare la suscettibilità ad un insulto tossico Dieta Fattori ambientali Alcool Metalli pesanti Carboidrati Pesticidi Grassi Inquinanti industriali Proteine Derivati dal petrolio Prodotto di pirolisi (durante la cottura) Pesticidi (come inquinanti) Vitamine Fumo 60 E. Chiesara, S. Radice Tabella 3 Estrapolazione animale uomo Fonti di incertezza nella determinazione dell’ADI • Correlazione fra NOEL/NOAEL e dose soglia • Predisposizione di effetti a basse dosi basati su studi condotti ad alte dosi • Differenza tra le diverse specie animali Variazioni interindividuali nella popolazione umana • Interne: genetiche, sesso e stato di salute • Esterne: nutrizione, fumo, inquinanti ambientali, alcol, ecc quali differiscono, rispetto ad un adulto sano nelle: • caratteristiche tossicocinetiche - minori livelli di enzimi deputati alla biotrasformazione ed alla detossificazione, soprattutto nei prematuri; • caratteristiche tossicodinamiche (possono essere più sensibili all’insulto tossico). to che le differenze in alcune funzioni fisiologiche e nella capacità metabolizzante/detossificante non comportano variazioni nel destino della sostanza all’interno dell’organismo. Alla luce di ciò gli addetti ai lavori suggeriscono che i bambini possono utilizzare l’ADI, anche perché nella determinazione di questo valore sono fondamentali gli studi di tossicità riproduttiva e di sviluppo, nei quali vengono determinati i possibili effetti tossici di un composto durante le fasi di sviluppo di un organismo. Considerando quanto detto, i neonati costituiscono un sottogruppo a sé, ovvero un gruppo a cui non è possibile applicare l’ADI, anche alla luce del fatto che non esistono studi di routine che simulino l’esposizione ad additivi attraverso il latte materno. Per tutti questi motivi gli additivi alimentari non sono permessi nelle formulazioni destinate alla prima infanzia. Per quanto riguarda i bambini, non sembrano esserci dati che facciano ipotizzare una maggior possibilità di rischio di questo sottogruppo nei confronti degli additivi alimentari. Infatti, è ormai no- Altri gruppi suscettibili Esistono dei polimorfismi genetici e particolari situazioni cliniche che predispongono gli individui a certe forme di tossicità. Ad esempio le persone affette da fenilchetonuria non devono consumare cibi contenenti l’aspartame in quanto la fenilalanina è uno dei suoi principali componenti. 61 elementi di tossicologia alimentare Un altro gruppo a rischio è composto dagli individui affetti da allergie alimentari. Se un individuo è sensibile ad una particolare sostanza non esiste una dose sicura, ma sono sufficienti solo tracce della sostanza, per provocare effetti potenzialmente pericolosi anche per la vita stessa. Bisogna comunque ricordare che alla base delle allergie alimentari molto spesso vi sono composti presenti naturalmente nei cibi (proteine dell’uovo, del latte di mucca ecc), piuttosto che gli additivi alimentari. Anche se, pur essendo pochi gli studi in tal senso, quelli esistenti evidenziano che gli additivi tendono a peggiorare una situazione patologica già esistente, piuttosto che a crearne una nuova. Gli individui affetti da allergie alimentari non sono validamente tutelati dall’ADI, ma devono provvedere a gestire il rischio eliminando gli alimenti in cui sono contenute le sostanze a cui sono allergici. Riferimenti bibliografici Clayton B, Kroes R, Larsen JC, Pascal G Applicability of the ADI to infants and children. Food Additives and Contaminants, 15: Suppl. 89, 1998. Antony DC, Graham DG Casarett and Doull’s Toxicology. Eds: Klassen CD, Amdur MO, Doull, Macmillan, New York, 407-431, 1990. Kroes R, Galli C, Munro I, Schilter I, Tran LA, Walker R, Wurtzen G Threshold of toxicological concern for chemical substances pressent in diet: a pratical tool for assessing the need for toxicity testing. Food and Chemical Toxicology, 38: 255-312, 2000. 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La qualità deve, quindi, coinvolgere tutto il processo precedente e successivo: ossia la progettazione, la scelta dei materiali, la rete dei fornitori, l’impiego delle tecnologie, l’organizzazione del lavoro, sino ad arrivare allo stoccaggio, al trasporto, alla distribuzione del prodotto. Nel caso specifico dell’alimentare, si suole definire questo con uno slogan: “la qualità dalla terra alla tavola”. Si parla, in altre parole, di “Qualità Totale” che non è altro che la somma delle qualità realizzate da tutte le imprese nelle varie fasi che precedono, realizzano e seguono la produzione. Queste imprese rappresentano la filiera pro- La qualità e la sicurezza alimentare Il termine “Qualità” è stato coniato negli Stati Uniti come la “capacità di soddisfare le esigenze del cliente che usufruisce di un prodotto o servizio”. Fino a alla fine del XX secolo il termine è rimasto molto povero di significati concreti e solo a partire dal 1980 questo approccio ha iniziato a diffondersi nelle aziende industriali degli Stati Uniti e d’Europa. I giapponesi, al contrario, ne hanno fatto uno dei pilastri della loro rinascita industriale, e quindi uno dei fattori principali del grande sviluppo economico di questo Paese nella seconda metà del XX secolo. Nell’attuale fase storica, caratterizzata da una sempre più marcata internazionalizzazione, la qualità è decisiva per la competitività delle imprese e dei sistemi economici, per la sicurezza ed a garanzia dell’utente. Qualità e sicurezza alimentare sono due obiettivi fondamentali per il consu- 63 Qualità e controllo duttiva del prodotto. Esse devono essere strettamente legate fra di loro in modo da costituire una catena (catena o cerchio della qualità) lungo i cui anelli circolano le informazioni sulle esigenze e la soddisfazione del cliente-utente. La qualità è un’opzione strategica che serve ad accrescere la capacità competitiva delle imprese, migliorando al tempo stesso il livello di soddisfacimento del consumatore. Ossia, il miglioramento qualitativo del prodotto che, se riesce ad esaltare caratteristiche innovative e se ancorato a precisi standard riconoscibili, può aumentare la penetrazione di mercato e permettere la differenziazione dei prodotti. La sicurezza alimentare, nell’accezione primitiva del termine, era riferita, in senso stretto, alla disponibilità materiale di approvvigionamenti alimentari. Col tempo il concetto si è notevolmente esteso, investendo problematiche generali concernenti lo sviluppo agricolo, la produzione alimentare, gli aiuti alimentari, il commercio internazionale e, segnatamente, l’igiene dei prodotti alimentari, cosicché attualmente qualità e salubrità degli alimenti sono considerate elementi fondamentali di sicurezza alimentare. Anche se limitata ai soli aspetti della qualità e della salubrità, l’area della sicurezza alimentare abbraccia numero- se altre aree di interesse generale, quali l’inquinamento ambientale, la produzione agricola, la tecnologia industriale ecc., fino a coprire l’area di carattere sanitario, che costituisce la finalità ultima della sicurezza igienica degli alimenti e cioè l’area della protezione della salute dei consumatori. La sicurezza deve tradursi in un sistema obbligatorio che rende rintracciabile la presenza di requisiti definiti dalla legislazione alimentare lungo l’intera filiera produttiva. È evidente che la sicurezza si estende dalla fase della produzione agricola alla trasformazione, distribuzione e commercializzazione dei prodotti. Pertanto la qualità e la sicurezza viaggiano affiancate e possono rappresentare un elemento di gestione comune. La strategia di qualità interviene al di sopra del livello di sicurezza, che è la soglia obbligatoria per immettere un alimento al consumo. Oggi c’è una disponibilità mercantile contemporanea (ed anche extrastagionale per l’ortofrutta) che integra le produzioni locali. Sono stati in tal modo sovvertiti i tradizionali assortimenti che spesso in passato hanno consentito uno standard alimentare più equilibrato, anche sotto il profilo nutrizionale. Ciò è stato possibile in seguito al progresso, non solo tecnologico, che si 64 G.P. Molinari è verificato nel settore della produzione agricola, ma anche, e soprattutto, per lo sviluppo delle tecnologie di trasformazione, produzione e conservazione degli alimenti che assicurano un tal aumento della serbevolezza che rende possibile una dilatazione dei tempi della sua disponibilità. Per questi motivi si sta affermando la convinzione che l’attuale offerta mercantile di massa debba perfezionarsi, privilegiando in particolare la qualità. Una qualità che è sempre più intesa in senso polivalente: cioè la combinazione di caratteri apparenti (forma, colore, pezzatura, freschezza ecc.), organolettici (sapore, aroma, consistenza ecc.), nutrizionali (vitamine, sali minerali, acidi organici, fibre, pectine ecc.) e igienico-sanitari. È, insomma, un concetto di qualità globale quello che sta prevalendo, nel quale la salubrità occupa un posto preminente. sicurezza delle produzioni alimentari non godeva di una disciplina comunitaria, se non per alcune sporadiche eccezioni, in quanto allora la normativa era riservata ai singoli Paesi membri. Per superare le differenze fra le normative tecniche nazionali, la legislazione comunitaria nei primi anni di attività, ha pianificato uno sforzo legislativo per definire un prodotto i cui aspetti tecnici, produttivi e qualitativi, fossero interamente disciplinati da norme comunitarie e che avrebbe potuto liberamente circolare in tutti i paesi membri, senza doversi uniformare alle singole discipline nazionali. Per questo, nel 1979, la Corte di Giustizia ha introdotto il principio del “mutuo riconoscimento”, in base al quale un prodotto può liberamente essere commercializzato in tutti i Paesi comunitari. Questa normativa, ancora insoddisfacente per quanto riguarda l’aspetto igienico delle produzioni alimentari, trovò molte difficoltà legate a tre sostanziali motivi: Politiche nazionali e comunitarie della qualità e della sicurezza alimentare 1) l’eterogeneità delle legislazioni nazionali dei paesi membri; 2) il diverso modo di concepire la qualità a livello nazionale; per i paesi nordici e anglosassoni la qualità è legata alla sicurezza del prodotto, Nel XX secolo, fino alla metà degli anni ’80, l’aspetto legato alla qualità e 65 Qualità e controllo alle caratteristiche nutrizionali e alla conformità a determinati standard produttivi, mentre, per i paesi mediterranei, la qualità è legata soprattutto alla vocazionalità del territorio, dunque al legame con il territorio, alla tradizionalità del processo produttivo e al talento dell’uomo; requisiti essenziali di qualità che i prodotti devono soddisfare per poter essere ammessi sul mercato. La legislazione comunitaria degli anni successivi, dedicata specificatamente all’igiene delle produzioni alimentari ed alla salubrità degli alimenti, impone agli operatori del sistema una responsabilità diretta attraverso l’attuazione di due distinti fattori di prevenzione: • l’adozione di un sistema scientifico di analisi dei rischi e monitoraggio dei punti critici del processo; • l’applicazione dell’autocontrollo aziendale a garanzia della salubrità del processo, con l’introduzione di controlli e di sistemi di sicurezza nella fase di produzione. 3) l’esistenza di norme tecniche in ogni paese membro; queste norme sono regole, emanate da enti di normazione riconosciuti giuridicamente, alle quali il produttore decide di aderire volontariamente. In tal caso otterrà una certificazione da parte dell’ente ed il diritto d’uso di un marchio; la certificazione è dunque una forma di garanzia esterna della qualità, che regola i rapporti contrattuali tra committenti e fornitori, tra produttori e clienti. Il sistema così delineato e recepito nei paesi membri, non fa altro che trasferire alla sicurezza igienica alcuni dei concetti base di qualità di un sistema produttivo: responsabilità, analisi del processo, prevenzione delle non conformità, controllo. La qualità, attualmente a livello comunitario, è garantita e legata all’impiego di pratiche agricole ecocompatibili, all’origine geografica dei prodotti e alla tradizione della lavorazione attraverso quattro regolamenti che costituiscono i Queste difficoltà hanno portato la Comunità europea a definire, con la risoluzione 85/C136/01 del 7 maggio 1985, il “nuovo approccio della politica di armonizzazione”. Con questo nuovo approccio da una parte vi è l’armonizzazione della normativa con la garanzia da parte del produttore della certificazione documentata (certificazione UNI EN ISO) e dall’altra vi è la decisione di armonizzare progressivamente soltanto i 66 G.P. Molinari pilastri della politica comunitaria per la qualità: • Reg CEE 2092/91 relativo al metodo di produzione biologico dei prodotti agricoli e alla indicazione di tale metodo sui prodotti agricoli e sulle derrate alimentari; • Reg. CEE 2078/92 relativo ai metodi di produzione integrata; • Reg CEE 2081/92 relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli e alimentari, DOP e IGP; • Reg CEE 2082/92 relativo alle attestazioni di specificità dei prodotti agricoli e alimentari. tatura delle carni e degli ortofrutticoli. Con l’inizio del 2005 buona parte delle produzioni alimentari saranno contrassegnate da etichette che ne indicano: l’origine geografica, il o i produttori, la data di produzione/confezionamento, la scadenza, oltre ad altre caratteristiche commerciali, quale il peso ed il prezzo. Applicazione della qualità e della sicurezza alimentare La qualità organolettica degli alimenti è da sempre individuata come la prima e la più importante prerogativa del prodotto, mentre quella mercantile (forma, colore aspetto) deve essere intesa come un corollario, seppure indispensabile, della prima e non viceversa. La qualità, sotto l’aspetto merceologico, deve sottostare all’osservanza della normativa relativa. La qualità organolettica costituisce la più difficile da definire. Ad esempio per la frutta, un prodotto che si presenta profumato, dall’aroma evidente, dall’armonica ed equilibrata presenza di zuccheri ed acidi, succoso e deliquescente è l’espressione delle più elevate prerogative organolettiche. È però indi- Questi Regolamenti tutelano da una parte il consumatore, riguardo alle specifiche qualitative del prodotto e la sua rispondenza ad un disciplinare di produzione e dall’altra i produttori, nei confronti di un uso non corretto della denominazione. La legislazione mondiale ed europea elaborata negli ultimi anni ha avuto come scopo quello di regolamentare la commercializzazione dei prodotti e dare quindi maggiore trasparenza al mercato nell’ottica di mettere il consumatore in grado di scegliere senza inganni. In quest’ottica sono state emanate le normative concernenti l’obbligo di etichet- 67 Qualità e controllo Tabella 1 Parametri principali Principali parametri di qualità per prodotti ortofrutticoli. Componenti Dimensioni (calibro, peso, volume) Forma Colore (intensità, uniformità) Apparenza Cerosità Difetti interni ed esterni (morfologici, fisicomeccanici, fisiologici, patologici, entomologici). Durezza Consistenza Succolenza, resa in succo Fibrosità Dolcezza Acidità Organolettici Astringenza Aroma Retrogusti Fibre Carboidrati Proteine Valore nutritivo Lipidi Vitamine Minerali Sostanze tossiche naturali Igienico-sanitari Contaminazione chimica (residui di fitofarmaci, inquinanti ambientali) Contaminazione microbiologica Micotossine spensabile definire oggettivamente tali parametri, perché questi non sono costanti neppure tra le varietà della medesima specie; inoltre, le preferenze sono strettamente individuali con tendenze a generalizzarsi in una determinata regio- ne. Nella tabella 1 sono elencati i principali parametri di qualità per prodotti ortofrutticoli. La salvaguardia delle caratteristiche qualitative e il mantenimento delle garanzie di sicurezza alimentare lungo tut- 68 G.P. Molinari ta la filiera produttiva è un’esigenza assoluta per tutti i prodotti alimentari. Qualità e sicurezza alimentare devono perciò essere mantenute dalla fase produttiva fino al momento del consumo del prodotto. Devono quindi essere realizzate delle attività legate all’identificazione delle condizioni igienico-sanitarie delle produzioni sia in fase produttiva, cioè in campo o in allevamento, che nelle fasi successive di post-raccolta quali il trasporto, la trasformazione, il condizionamento e la distribuzione fino al consumo finale. Le colture agricole possono essere danneggiate dall’azione nociva dei parassiti (gli insetti, molti tipi di funghi e muffe, le lumache, i topi e gli acari) e dei competitori quali le erbe infestanti. Mentre per il controllo delle erbe infestanti potrebbe essere adottata l’estirpatura a mano o con mezzi meccanici anziché l’uso dei diserbanti, per difendere le colture e le produzioni agricole da funghi, insetti ecc. si è costretti a ricorrere soprattutto all’impiego di sostanze chimiche con funzioni diverse: fungicidi, insetticidi, ecc.. Questi prodotti chimici, chiamati genericamente “prodotti fitosanitari” o “fitofarmaci”, o “antiparassitari”, sono senza dubbio efficaci ma possono restare come residui sulle coltivazioni e ritrovarsi poi negli alimenti. L’utilizzo, non sempre razionale, dei fitofarmaci ha portato a considerarne l’uso come una delle principali fonti di inquinamento sia ambientale che alimentare. Per la fortuna del consumatore, i dati scientifici non supportano questa impressione, anzi sono in direzione di una elevata sicurezza per il consumatore. La frequenza con cui si rischia di consumare alimenti contaminati da residui di prodotti fitosanitari è bassa Oggi l’opinione pubblica è molto sensibile a questo problema e la ricerca Protezione delle coltivazioni in campo e dopo la raccolta e qualità degli alimenti Il problema della contaminazione degli alimenti è uno degli aspetti a cui bisogna porre attenzione a tutela del consumatore. Le sorgenti di contaminazione possono essere diverse, sia di tipo chimico che biologico. Le contaminazioni chimiche possono essere dovute a sostanze quali residui di prodotti fitosanitari, metalli pesanti e micotossine. L’origine di queste contaminazioni è diversa. 69 Qualità e controllo scientifica rivolge sempre maggiore attenzione ai metodi biologici e di lotta antiparassitaria alternativi a quelli chimici. Da qualche tempo la lotta biologica richiama un notevole interesse che scaturisce dalla possibilità di sostituire con mezzi “naturali” l’attuale lotta chimica. L’agricoltura biologica esclude l’uso dei prodotti chimici che sono sostituiti da meccanismi o prodotti di difesa naturali, come zolfo, rame, macerati di piante, lancio di insetti utili predatori di parassiti, consociazione di piante diverse. La lotta biologica in senso generale, prevede la manipolazione dell’equilibrio microbiologico naturale, tramite l’impiego di diversi microrganismi (miceti, batteri, protozoi, lieviti, ecc.) definiti antagonisti. I meccanismi principali d’azione comprendono antibiosi, competizione, iperparassitismo o micoparassitismo; tali meccanismi non si eludono a vicenda, ma possono anche completarsi.. La qualità e la sicurezza igienica devono essere garantite nella fase post-raccolta dall’applicazione di tecniche razionali, nell’utilizzazione di idonee attrezzature di lavorazione, di conservazione, di trasporto e nella messa in atto di opportuni trattamenti che assicurano il mantenimento delle pregevoli prerogative originali dei prodotti. I prodotti orto- frutticoli dopo la raccolta evidenziano numerose modifiche delle caratteristiche strutturali e della composizione, in quanto l’attività metabolica è molto attiva e diversi livelli sono influenzati dalla temperatura, dalla composizione dell’aria (ossigeno, anidride carbonica, etilene), dall’umidità relativa e dalla luce. Come ben noto i prodotti ortofrutticoli, sono soggetti a processi metabolici tanto più intensi quanto più è alta la temperatura. I processi metabolici, che avvengono negli alimenti durante la conservazione, portano ad una precoce senescenza e ad un deterioramento del prodotto. Tali fenomeni possono essere notevolmente ritardati con l’impiego della refrigerazione che quindi permette di mantenere il più a lungo possibile il prodotto in una condizione accettabile per il consumatore, senza che si verifichino cambiamenti biochimici non desiderabili. Quindi, il più importante, ma non il solo, aspetto operativo da osservare è l’applicazione di una vera e costante catena del freddo. Il contenuto di metalli pesanti è rappresentato da una quota di origine naturale, che è caratteristica di ogni tipo di prodotto agro-alimentare e dal terreno in cui è stata fatta la coltivazione, e da una quota derivante dall’inquinamento dei 70 G.P. Molinari terreni e delle acque di coltivazione, dovuto all’attività dell’uomo in ambito agrario e non. Il tema della contaminazione coinvolge i diversi aspetti dell’uso del suolo e per questo un insieme di fonti riferibili a precise attività antropiche, che coinvolgono: attività di tipo agricolo o connesse con l’agricoltura, quali l’impiego in agricoltura di acque reflue, fanghi di depurazione, compost o altro materiale derivante dal ciclo dei rifiuti. La formazione delle micotossine è connessa con la crescita di funghi, sia durante la coltivazione che la conservazione delle produzioni agricole destinate al consumo diretto o all’alimentazione degli animali. rischio di contaminazione e concentrare successivamente l’attenzione verso quelle sostanze o quelle produzioni in cui sono stati evidenziati i rischi reali. Per giungere a questi risultati non è sufficiente esaminare i campioni che hanno presentato livelli di contaminanti al di sopra dei limiti di legge per cui la partita risulta essere irregolare e quindi non più utilizzabile a scopo alimentare, ma occorre stimare anche la contaminazione a bassi livelli, inferiori al valore massimo ammesso dalla legislazione. A tutela del consumatore è presente in ogni paese un sistema di controlli complessi ed articolati che vengono effettuati su alimenti e bevande. In Italia, i prodotti destinati all’alimentazione e le attività connesse con la loro produzione, somministrazione e distribuzione sono sottoposti al rispetto di norme legislative delle quali le più recenti derivano dal recepimento di direttive dell’Unione Europea. La funzione fondamentale della normativa è quella di tutelare la qualità degli alimenti, intesa come igiene del prodotto alimentare e sicurezza dell’uso da parte del consumatore. A tal fine la vigilanza ed il controllo sono messi in atto da organismi ufficiali quali il Ministero della Salute e il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali. A questi Il controllo della qualità e la garanzia della sicurezza Vista la numerosità dei possibili inquinanti e le differenze notevoli nelle loro caratteristiche, il controllo analitico della contaminazione risulta difficoltosa ed onerosa se non vengono messi in atto piani di controllo che permettano di raccogliere il massimo delle informazioni senza trascurare i fattori di rischio. Nei piani di controllo sarà necessario valutare almeno una volta tutti i fattori di 71 Qualità e controllo si affianca l’attività di controllo di altre organizzazioni quale l’Osservatorio Nazionale Residui (ONR) che, dall’anno 2001, è ubicato presso il Laboratorio di Tecnologia e Merceologia della Facoltà di Agraria di Piacenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ed è coordinato dal prof. Gian Pietro Molinari. “Rete di Monitoraggio” dei residui di prodotti fitosanitari nei prodotti ortofrutticoli e nelle derrate agro-alimentari, che ha avuto una concreta attuazione a partire dal 1992 operando per individuare e quindi correggere eventuali irregolarità. Occorre sottolineare che tale monitoraggio è fatto con obiettivi diversi da quelli del Ministero della Salute e di ONR: esso ha l’obiettivo primario di verificare che il rispetto dei tempi di carenza (tempo che deve intercorrere fra il trattamento con prodotto fitosanitario e la raccolta dei frutti, per permettere che il fitofarmaco scompaia sin sotto ai valori limiti massimi fissati per legge) e le dosi di applicazione assicurino un residuo delle sostanze attive entro i limiti massimi posti per i prodotti agricoli, oppure se sia necessario apportare delle correzioni a queste indicazioni di carattere agronomico. Ministero della Salute Per quanto attiene alla valutazione del rischio legato all’eventuale presenza di residui di prodotti fitosanitari negli alimenti, in Italia fin dal 1980 vengono condotti, in modo continuo, studi di monitoraggio. Tale attività è stata ufficializzata con il decreto del Ministero della Salute del 23 dicembre 1992. Esso pianifica i programmi di monitoraggio sui residui presenti nei prodotti agro-alimentari prelevati nei supermercati e presso i rivenditori al dettaglio. Il controllo, previsto per l’applicazione del decreto, è affidato alle Regioni e viene svolto dai Servizi di Igiene Pubblica situati nelle varie Regioni. Osservatorio Nazionale Residui (ONR) Per promuovere la diffusione delle conoscenze per realizzare un impiego corretto dei prodotti fitosanitari, nell’ambito della gestione agricola integrata, e per informare correttamente l’opinione pubblica sulla sicurezza dei prodotti agro-alimentari, senza preconcetti ideo- Ministero per le Politiche Agricole e Forestali Nell’ambito del Piano Nazionale per la Lotta Fitopatologia Integrata, approvato nel 1987, è stata costituita una 72 G.P. Molinari da riconoscimenti di Enti di controllo o Organismi ministeriali. logici, nell’interesse sia dei consumatori che degli agricoltori, è stato costituito l’Osservatorio Nazionale Residui che svolge varie attività (Figura 1): 2) inserimento e gestione dei dati in una banca dati e loro elaborazione attraverso le più moderne statistiche descrittive per: • valutare la probabilità di trovare residui a livelli prossimi o superiori ai limiti massimi ammessi per tutte le matrici e per ogni sostanza chimica; in questo modo, l’elaborazione mirata dei dati fornisce utili indicazioni relative alla presenza di sostanze che vengono ritrovate sistematicamente fuori norma e delle quali sarebbe necessario moderare l’impiego o verificare il rispetto delle 1) raccolta dei risultati di analisi fatte su campioni di prodotti agricoli, tal quali o trasformati, per la ricerca di residui di prodotti fitosanitari e di altri contaminanti quali micotossine, metalli pesanti, medicinali veterinari, PCB ecc. I dati sono quelli relativi ad analisi che privati (agricoltori, cooperative di agricoltori, industrie agroalimentari, grande distribuzione ecc.) fanno volontariamente eseguire a Laboratori accreditati o certificati, cioè qualificati Figura 1 Osservatorio Nazionale Residui Prodotti di origine vegetale Alimenti Trasformati/Lavorati Prodotti di origine animale Residui prodotti fitosanitari Metalli pesanti Residui farmaci Metalli pesanti Residui farmaci Metalli pesanti Micotossine Fattori antinutrizionali Micotossine Fattori antinutrizionali Micotossine Fattori antinutrizionali Residui prodotti fitosanitari Altri Residui prodotti fitosanitari Altri 73 Qualità e controllo buone pratiche agricole; • stimare l’assunzione giornaliera dei contaminanti da parte di una persona che ha un consumo medio di alimenti pari a quello della dieta nazionale; questo parametro, noto come NEDI (National Estimated Daily Intake, Assunzione giornaliera stimata), è stato calcolato secondo i criteri raccomandati dalla Commissione del Codex Alimentarius; • confrontare i dati raccolti negli anni per individuare gli andamenti negli anni della contaminazione e della loro eventuale gravità. Annualmente i risultati di queste elaborazioni vengono pubblicamente divulgati in forma riassuntiva per promuovere la diffusione di una informazione corretta ai consumatori. tro i limiti di sicurezza tossicologici, fissati dalla Comunità Scientifica (WHO, EPA1, ISS2 ecc.). Pertanto, fin dall’inizio della sua attività, il Codex ha raccomandato l’effettuazione degli studi sulle diete come migliore mezzo per valutare la qualità della nostra alimentazione. In questa linea di studi, ONR elabora i dati raccolti per valutare l’entità degli eventuali residui di prodotti fitosanitari ingeriti dal consumatore attraverso la dieta e per confrontarli con i relativi parametri tossicologici. Annualmente ONR elabora i risultati dell’analisi di oltre 20.000 campioni di circa 200 tipi diversi di prodotti agro-alimentari. Sui suddetti campioni è fatto un numero molto elevato di controlli analitici: 3.000.000 di analisi per la ricerca di oltre 100 tipi differenti di contaminanti per campione. Ogni anno, delle oltre 400 sostanze chimiche ricercate come residuo, circa 300 non sono mai state ritrovate. Prendendo in considerazione i risultati, nella globalità di tutti i dati, si mette in evidenza che: • i campioni regolari sono la quasi totalità, con piccole differenze fra le va- Valutazione del possibile rischio assunzione Il Codex Alimentarius, l’Organismo Mondiale creato dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) per fornire riferimenti internazionali sugli standard alimentari, si è sempre preoccupato che la presenza di eventuali residui di prodotti fitosanitari rimanga en- 1 EPA – Agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati Uniti d’America. 2 ISS – Istituto Superiore di Sanità 74 G.P. Molinari rie matrici vegetali: sono più frequenti nei cereali e derivati (99%) e nei prodotti trasformati (99%) che nel fresco, frutta (98%) e ortaggi (97%). Questi risultati conseguiti da ONR sono perfettamente confrontabili con quelli dei controlli ufficiali condotti dal Ministero della Salute, del rapporto annuale della Food and Drug Administration, relativo al programma di monitoraggio realizzato negli USA e dell’Unione Europea; • i campioni privi di residui di prodotti fitosanitari sono più frequenti nei cereali e derivati (91%) che nei prodotti trasformati (79%) e nel fresco: ortaggi (80%) e frutta (66%); • i campioni irregolari, con residui superiori ai limiti di legge, hanno frequenze pari a: 1% nei cereali e nei prodotti trasformati, 3% negli ortaggi e 2% nella frutta. Una parte significativa delle irregolarità è dovuta ad un uso improprio, cioè l’uso di un prodotto fitosanitario autorizzato su una coltivazione diversa da quella per cui è stato registrato (ad esempio è stato usato sulle pere un prodotto autorizzato all’uso sulle mele); • campioni irregolari si rilevano anche tra quelli provenienti dall’agricoltura biologica, per la presenza di residui di prodotti fitosanitari non ammessi; • negli anni: – la percentuale dei campioni privi di residuo è in continuo aumento; – la percentuale dei campioni con tracce di residui è in forte diminuzione; – i campioni irregolari sono ridotti ormai a un livello minimo pressoché costante. Figura 2 Campioni privi di residui Incidenza dei residui di prodotto fitosanitari negli alimenti (indagine ONR 2003 - Dati delle analisi effettuate nel 2002) Campioni con residui inferiori al limite di legge 22,1% Campioni irregolari 2,8% 75,1% 75 Qualità e controllo Figura 3 Andamento della contaminazione da residui di prodotti fitosanitari dal 1994 al 2002 100 80 60 40 20 0 1994-1996 1997 1998 % campioni privi di residuo 1999 2000 2001 2002 Anno % campioni con residui inferiori al limite di legge % campioni irregolari Figura 4 100 Confronto fra risultati del monitoraggio CEE 2001 ed elaborazione ONR 2003 su dati 2002 CEE ONR CEE ONR CEE ONR CEE ONR 80 60 40 20 0 Frutta e ortaggi Prodotti trasformati con residui superiore al RMA Cereali e derivati con residui nei limiti di legge 76 Totale privi di residuo G.P. Molinari • il 22% delle sostanze attive incide per quantità inferiori allo 0,01% dell’ADI, (inferiori a 1/10.000), cioè vi è un fattore di sicurezza pari a 10.000; • il 55% si pone nell’intervallo fra lo 0,01 e lo 0,1% dell’ADI (tra 1/10.000 e 1/1.000), cioè con un fattore di sicurezza fra 1000 e 10.000; • il 2% si pone fra lo 0,1 e l’1% dell’ADI (tra 1/1.000 e 1/100), cioè con un fattore di sicurezza fra 100 e 1.000; • soltanto lo 0,3% delle sostanze incide per quantità superiore all’1% dell’ADI, (tra 1/100 e 1/40), cioè con un fattore di sicurezza fra 100 e 40. Nella valutazione del rischio per il consumatore è stata stimata l’assunzione giornaliera a livello nazionale (NEDI) e quindi confrontata con i rispettivi valori di ADI, cioè con la quantità della sostanza che può essere ingerita ogni giorno per tutta la vita senza alcun rischio per la salute, stabilita dalla Comunità Scientifica (WHO, EPA, ISS ecc.). Il confronto tra i valori di NEDI e di ADI per ciascuna sostanza, ha portato ai seguenti risultati: • il 70% delle sostanze attive non avendo lasciato residui non ha assunzione; Figura 5 Andamento del rischio (NEDI/ADI%) dovuto ai residui ingeriti dai consumatori italiani da 1994 al 2002 100 80 60 40 20 0 1994-1996 1997 1998 Fino a 0,01% fattore di sicurezza = 10.000 1999 2000 2001 2002 Anno Da 0,1% a 1% fattore di sicurezza da 100 a 1.000 Da 0,01% a 0,1% fattore di sicurezza da 1.000 a 10.000 77 >1% fattore di sicurezza = 100 Qualità e controllo Dai dati illustrati precedentemente si delinea per l’Italia una situazione rassicurante. • Il numero di campioni controllati in Italia è molto elevato se confrontato con il numero di quelli contemplati dai controlli ufficiali condotti in diversi paesi europei e dalla FDA negli Stati Uniti. Tenendo conto che oltre al monitoraggio del Ministero della Salute, altri controlli vengono condotti per conto del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali e dai privati, si può affermare che in Italia le produzioni agro-alimentari sono altamente controllate. • La sicurezza alimentare è sempre più garantita. • I dati confermano una stabilità nella linea di tendenza alla riduzione dei residui sotto i limiti massimi legalmente ammessi. • I dati delle indagini svolte dal 1994 al 2002 confermano sostanzialmente che i residui dei prodotti fitosanitari riscontrati negli alimenti non incidono assolutamente sulla qualità della dieta del consumatore italiano. • Nelle diete degli italiani, la concentrazione dei residui di prodotti fitosanitari è talmente bassa rispetto alla quantità di alimenti ingeriti in ogni tipologia di dieta, da assicurare la sicurezza alimentare in ogni caso. Anche le alimentazioni particolari destinate ai bambini piccoli o agli anziani, non comportano rischi tossicologici, stando l’elevato fattore di sicurezza (da 100 a 10.000 esistente fra dose assunta (stimata) (NEDI) e dose giornaliera accettabile tossicologicamente (ADI o DGA). 78 S icurezza Microbiologica L. Morelli Istituto di Microbiologia, Facoltà di Agraria Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza la salute e la tutela del consumatore e l’Agenzia per la sicurezza degli alimenti European Food Safety Authority (E.F.S.A.), creata pochi anni fa a seguito della crisi dovuta al problema “mucca pazza”. In Italia, la vigilanza è affidata a livello centrale al Ministero della Salute e all’Istituto Superiore di Sanità (I.S.S.), il quale si occupa anche delle analisi di revisione e di una serie di compiti tecnico-scientifici. A livello territoriale, operano le Regioni e le Provincie Autonome di Trento e Bolzano, i Dipartimenti di Prevenzione delle Aziende Sanitarie Locali attraverso i Servizi di Igiene degli Alimenti e della Nutrizione (S.I.A.N.), ed i Servizi Veterinari (S.V.), nonché, per gli accertamenti analitici di laboratorio, i Presidi Multizonali di Prevenzione (P.M.P.), gli Istituti Zooprofilattici Sperimentali (I.Z.S.) e le Agenzie Regionali Protezione Ambiente (A.R.P.A.), con varie articolazioni sul territorio (Assessorati regionali alla sanità, ASL). Introduzione La storia del genere umano si intreccia con quella dei suoi sforzi per la conservazione nel tempo delle sostanze alimentari; l’eliminazione dei batteri patogeni e di quelli contaminanti ha sempre costituito uno dei cardini delle tecnologie alimentari. Si può quindi comprendere come il settore della sicurezza microbiologica degli alimenti sia vasto e comprenda aspetti molto diversi fra loro. Il presente capitolo, non potendo evidentemente affrontare tutti gli aspetti coinvolti, sarà focalizzato su alcuni particolari aspetti, che possono riguardare direttamente i consumatori. Il controllo della sicurezza microbiologica è coordinato a livello internazionale dalle agenzie dell’ONU come la FAO o l’OMS. Negli Stati Uniti i controlli sono affidati alla Food and Drug Administration (FDA) e al Dipartimento per l’Agricoltura. L’Unione Europea provvede con la Direzione Generale per 79 Sicurezza microbiologica È difficile ottenere stime accurate sull’incidenza delle patologie legate alla contaminazione microbica degli alimenti, in quanto, ad eccezione del colera (malattia causata da un Vibrio cholerae, un batterio patogeno capace di vivere nell’acqua marina ma anche nell’intestino), non vi è obbligo legale di un’allerta internazionale. Da notare però come in Italia esista, per le infezioni, tossinfezioni e infe- stazioni di origine alimentare, l’obbligo di notifica ai sensi del D.M. 15 Dicembre 1990. Per quanto riguarda le stime disponibili si calcola che, negli Stati Uniti, le tossinfezioni alimentari producano ogni anno 76 milioni di casi di malattia e 325.000 ricoveri ospedalieri, con un’incidenza di oltre 1 persona su 1.000 (Tabella 1). Uno studio olandese ha stimato un’incidenza annua di gastro-enteriti Tabella 1 Casi segnalati in USA, 1999* Casi segnalati per mezzo di sorveglianza Casi Bacillus cereus 27.360 Clostridium botulinum 58 Clostridium perfringens 64.577 248.520 73.480 Escherichia coli, ETEC 79.420 Listeria monocytogenes 2.518 Salmonella, non tifoidea Focolai Mortalità 720 72 0,0000 0,0769 111 2.453.926 Escherichia coli O157:H7 Salmonella typhi Passiva 29 Brucella spp 1.554 Campylobacter spp Attiva 3.674 1.259 824 0,0500 37.496 146 0,0010 6.540 654 0,0005 2.725 500 0,0083 2.090 209 0,0001 373 0,2000 412 0,0040 1.412.498 37.171 37.842 3.640 0,0078 Shigella spp 448.240 22.412 17.324 1.476 0,0016 Staphylococcus 185.060 4.870 487 54 27 0,0060 47 0,3900 112 0,0250 Vibrio cholerae Vibrio vulnificus Vibrio, altre specie Yersinia enterocolitica 94 7.880 393 96.368 2.536 * Rielaborazione dati FDA 80 0,0002 0,0005 L. Morelli Tabella 2 QUASI 1 MILIARDO I controlli dell’industria alimentare italiana. Fonte: Doxa Federalimentare, 2001 Gli autocontrolli all’anno in base al sistema HACCP/qualità 80 MILA Le analisi all’anno per ciascuno dei 12 mila stabilimenti OLTRE 85 MILA Le visite ispettive effettuate nel 2001 dai Nas e dalla Repressione Frodi 57 MILA Gli addetti (1/5 del totale) che concorrono in modo diretto alla sicurezza 1.400 MILIONI DI EURO La spesa per le analisi, controllo e ricerca applicata per la sicurezza e qualità (1,6% del fatturato totale dell’Industria alimentare) (ma senza uno specifico riferimento dalla catena alimentare) del 28%. Se questi ultimi dati venissero estrapolati alla totalità della popolazione mondiale, si otterrebbe il risultato di stimare a un terzo della popolazione (almeno nei paesi delle aree sviluppate) la percentuale di soggetti interessati in un anno da patologie probabilmente causate dalla contaminazione microbica degli alimenti. Benché siano dati a prima vista rilevanti, si deve però tenere conto dei grandi numeri che caratterizzano la catena alimentare: nel mondo occidentale centinaia di milioni di persone consumano tre pasti al giorno tutti i giorni. Gli alimenti che costituiscono le razioni di questi pasti sono generalmente prodotti in luoghi distanti da quelli in cui vengono consumati e sono stati trasportati e conservati per tempi considerevolmente lunghi. Si deve quindi considerare elevato, almeno nel mondo occidentale, il grado di sicurezza microbiologica degli alimen- ti, e ciò anche in conseguenza dei controlli rigorosi effettuati dai produttori e dalle autorità (Tabella 2). Ma ogni medaglia ha il suo rovescio; la sostanziale sconfitta dei batteri patogeni “classici”, quelli tradizionalmente legati alle tossinfezioni alimentari, ha aperto la porta allo sviluppo di nuovi batteri patogeni, i cosiddetti “emergenti”. Sono batteri, come illustrato più avanti, da sempre presenti nella catena alimentare, ma che non riuscivano a raggiungere la concentrazione necessaria a causare patologie per merito della pressione selettiva esercitata dagli altri batteri presenti nell’alimento. Pratiche di produzione più igieniche o tecnologie di produzione più avanzate per la conservazione del contenuto nutrizionale degli alimenti, hanno ridotto la carica batterica totale (il che è un dato sicuramente positivo) ma hanno aperto spazi di crescita numerica a questi batteri. 81 Sicurezza microbiologica Non è negli scopi di questo capitolo passare in rassegna tutte le tecnologie di sanitizzazione di tipo tradizionale o avanzato ma è probabilmente utile ricordarne alcune fra quelle di più vasta applicazione. temperatura di 60 °C per alcuni minuti si potessero evitare i fenomeni di rifermentazione da parte dei lieviti rimasti nel prodotto finito. La pastorizzazione distrugge la microflora dei liquidi organici anche oltre il 99%, ma poiché non raggiunge temperature sufficienti a devitalizzare alcuni microrganismi termo-resistenti, né tantomeno le spore batteriche, l’alimento pastorizzato deve comunque essere considerato come contenente una microflora residua e conservato in condizioni atte a limitare lo sviluppo di questi microrganismi. L’efficacia della pastorizzazione (ma in generale di tutti i trattamenti termici) dipende dalla temperatura raggiunta e dal tempo di trattamento. Esistono tecnologie di pastorizzazione diverse con rapporti tempo/temperatura diversi, ma una regola generale è non superare mai la temperatura di 100 °C. Trattamenti termici Si basano sui trattamenti ad alta temperatura degli alimenti e sono oggi i più diffusi sistemi di bonifica batterica degli alimenti, anche se nei decenni passati hanno stentato ad affermarsi per il timore che i trattamenti potessero incidere negativamente sulle caratteristiche organolettiche e nutrizionali dei prodotti. L’esperienza ha dimostrato come l’impiego di questi processi abbia sostanzialmente eliminato le epidemie di botulismo (causate dalle tossine di Clostridium botulinum) da conserve industriali e sostanzialmente azzerato le epidemie diffuse attraverso il latte. Sterilizzazione Con questo procedimento si elimina la quasi totalità dei microrganismi presenti nei liquidi e nei solidi. Il prodotto comunque non garantisce un prodotto finito del tutto asettico: per ottenere una sterilizzazione completa infatti oc- Pastorizzazione Questo trattamento deve il suo nome a Pasteur che, intorno al 1860, osservò che sottoponendo il vino alla 82 L. Morelli Microfiltrazione correrebbero, alle temperature impiegate, tempi molto lunghi con grosse perdite nutritive. La sterilizzazione viene utilizzata sia per i prodotti confezionati che sfusi, ma affinché l’azione del calore sia duratura, occorre che tutta la linea di confezionamento sia sterile. Si realizza a diversi livelli di temperatura per un lasso di tempo variabile in rapporto alla temperatura stessa e ai diversi alimenti; comunque è sempre realizzata a valori superiori a 100 °C, quindi in pressione di vapore. Oltre all’azione anti-batterica, la sterilizzazione può eliminare o ridurre l’attività di enzimi e tossine. Questo trattamento è valido per una grande varietà di prodotti come legumi, frutta, carne, pesce e alimenti cucinati, ed è efficace molto a lungo, tranne per gli alimenti molto acidi come i succhi di frutta e la salsa di pomodoro. Trattamenti superiori a 140 °C vengono applicati soprattutto al latte e indicati con la sigla UHT (Ultra High Temperature). I tempi in questo caso si riducono a pochi secondi. Dal punto di vista nutrizionale, la sterilizzazione è meno vantaggiosa della pastorizzazione, in quanto l’alta temperatura denatura le proteine e può inattivare le vitamine. Diversi alimenti liquidi, compreso il latte, possono essere sottoposti a filtrazione su particolari membrane capaci di trattenere la flora microbica in modo selettivo, così da ottenere un sensibile miglioramento delle caratteristiche igieniche senza danneggiare le proprietà nutrizionali. Nel caso di bevande limpide (birra, vino, succhi limpidi, soft drinks) è possibile ottenere ottimi risultati utilizzando membrane con un diametro dei pori di circa 0,1 µm. Per quanto riguarda il latte, vengono applicati processi di microfiltrazione su membrane con diametro dei pori leggermente più grande per permettere il passaggio delle caseine (1,4 µm). Per non intasare i filtri, il processo viene eseguito su latte scremato; la materia grassa viene sanitizzata con un trattamento termico e poi ricongiunta, nella quantità voluta, al latte microfiltrato. Alte pressioni Il processo di bonifica batterica mediante alta pressioni è di recente introduzione ma sembra poter avere grandi possibilità di applicazione. 83 Sicurezza microbiologica Il processo consiste nel sottoporre la sostanza da sterilizzare a pressioni dell’ordine dei 100-800 MPa. La temperatura può variare dal sotto zero a sopra i 100 °C. I tempi di trattamento variano da alcuni millisecondi a 20 minuti, anche se per trattamenti prolungati i costi di trattamento sono estremamente elevati. Se il trattamento ad alta pressione avviene a basse temperature non si hanno effetti sui legami covalenti, mentre si hanno ottimi risultati nella bonifica dai batteri. Il trattamento ad alta pressione agisce in modo istantaneo e uniforme, indipendentemente dalla massa, dalla forma e dalla composizione dell’alimento. La fase di compressione alza la temperatura di circa 3 °C per 100 MPa, ma la successiva decompressione la riporta al valore originario. Gli alimenti a cui è stata applicata questa tecnologia sono i succhi di frutta (il sistema non altera le vitamine) e le marmellate. La prima applicazione industriale di questa tecnica è del 1991, anno in cui una società giapponese la applicò per la conservazione di marmellate; i prodotti così trattati ritenevano il 95% del contenuto originario di vitamina C, mentre lieviti, muffe e batteri risultavano non più vitali. Da allora, altre applicazioni di que- sta tecnica sono state realizzate con successo, anche se, al momento, non vi è ancora una grande diffusione. In conclusione possiamo dire che oggi l’industria possiede potenti sistemi di conservazione degli alimenti, ma ciò non significa purtroppo che il rischio igienico sia azzerato. È infatti noto che i numerosi casi di inquinamento batterico delle confezioni alimentari che acquistiamo non derivano da problemi delle strutture industriali, ma piuttosto dall’insorgere di errori tecnici e/o gestionali. Le metodologie, recentemente sviluppate, di controllo dei punti critici (HACCP) sono essenziali per un programma di sicurezza e di prevenzione sanitaria. Benché non sia negli scopi di questo capitolo l’illustrazione dei sistemi HACCP, è bene ricordare come una definizione coniata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sintetizzi questo concetto di approccio globale alla sicurezza microbiologica degli alimenti con il seguente principio relativo alla sicurezza alimentare: “condivisione di responsabilità sulla sicurezza degli alimenti”. Se questo principio, attraverso le procedure di HACCP e le certificazioni di qualità, si sta radicando nell’industria ali- 84 L. Morelli mentare, non altrettanto è avvenuto nella pratica quotidiana del consumatore. L’allontanamento dell’uomo moderno dalle fonti primarie di cibo, ha determinato una minore consapevolezza del consumatore dell’origine e delle varie fasi della complessa catena di produzione alimentare. Vi deve essere infatti una cura scrupolosa da parte dei consumatori o degli addetti alla manipolazione degli alimenti negli esercizi commerciali. Fondamentale, in questo contesto, l’adozione, a seconda dei prodotti, di apposite procedure igieniche di preparazione e conservazione che ne garantiscano la sicurezza. Le strategie relative alla sicurezza alimentare seguite dalle Autorità Alimentari USA (FDA) ed Europea (EFSA) cercano di sottolineare questa globalità di approccio: “Dalla fattoria alla forchetta” oppure “Dalla fattoria alla tavola”, indicando che anche nell’ultimo passaggio, quello alle nostre tavole e relative forchette, vi deve essere conoscenza dei rischi e applicazione di opportune procedure. Cercheremo pertanto di fornire, nelle pagine seguenti, alcune informazioni utili anche ai non addetti ai lavori, proprio perché anche l’ultimo passaggio subito dagli alimenti (conservazione e manipolazione domestica) ha un’estrema rilevanza nella sicurezza microbiologica. Le contaminazioni batteriche più frequenti Qui di seguito una tabella riassuntiva relativa alle contaminazioni batteriche degli alimenti più frequentemente riscontrate (Tabella 3). A commento della tabella si può aggiungere come i batteri di maggiore incidenza risultino essere Escherichia coli, Salmonella, Campylobacter, Listeria, Yersinia enterocolitica. I primi due sono contaminanti “storici” delle derrate alimentari, gli altri tre sono invece considerati “patogeni emergenti” (si veda la definizione fornita all’inizio di questo capitolo). Gli allevamenti avicoli possono essere potenziali sorgenti di contaminazione di Salmonella; le salmonellosi sono quindi presenti in modo particolare nei prodotti della filiera avicola (uova e derivati; carni avicole). Escherichia coli, Salmonella sono inoltre classici contaminanti fecali, in quanto il loro habitat primario è l’intestino; se questo rende i prodotti di origine animale i più soggetti alla contaminazione da parte di questi due patogeni, anche i vegetali possono essere considerati a rischio. La superficie fogliare è infatti portatrice di una popolazione batte- 85 Sicurezza microbiologica rica che errate pratiche di irrigazione, ad esempio con acque contaminate, può configurare come flora batterica fecale e quindi a rischio di contaminazione. La flora fecale è anche un rischio per i cosiddetti frutti di mare, che possono raccogliere batteri patogeni dalle acque contaminate da liquami. La preTabella 3 I batteri che contaminano gli alimenti senza di coliformi nelle acque marine non mette solo a rischio la possibilità di balneazione, ma rende non adatti al consumo molti prodotti ittici. La cottura è sempre una misura di “buona pratica di cucina”, mentre il consumo di prodotti ittici crudi, in assenza di certezze sanitarie, costituisce una pratica a rischio. Batterio contaminante Alimenti più frequentemente contaminati Staphylococcus aureus Piatti cotti pronti e conservati non refrigerati Listeria monocytogenes (infezione diarroica) Formaggi, verdure, carni Vibrio Prodotti ittici (frutti di mare) consumati crudi o alimenti manipolati dopo cottura Escherichia coli: enteroemorragica o ETEC enteropatogenica o EPEC enteroinvasiva o EIEC Escherichia coli 0157: H7 Carni (in assenza di una sufficiente cottura), verdure, acqua Clostridium perfrigens Carni (roastbeef, arrosti, arrotolati di tacchino), verdure, preparazioni gastronomiche, cibi cotti e poi conservati senza refrigerazione Clostridium botulinum Conserve a basso grado d’acidità, sott’olio o sotto vuoto o inadeguatamente sterilizzate Aeromonas spp Acqua, vegetali conservati a lungo in frigorifero, insalate IV gamma pronte all’uso, carni, pesce, gelati, molluschi, torta di crema Shigella spp Alimenti crudi o poco cotti, mal refrigerati Vibrio cholerae Alimenti contaminati da acqua infetta, prodotti ittici crudi Yersinia enterocolitica Carni crude o poco cotte, latte, prodotti lattiero caseari, uova, vegetali, prodotti ittici Campylobacter jejuni Pollame poco cotto, carni in genere poco crude o poco cotte, latte non pastorizzato, ostriche Salmonella Molluschi, prodotti carnei, uova, latticini, vegetali, insalate 86 L. Morelli La flora intestinale di animali in allevamento, in buone condizioni di salute, contiene sempre una certa quantità di batteri potenzialmente patogeni per l’uomo. Pertanto, le uova, le carni di ogni tipo, i loro derivati (ad esempio i salumi) il latte e i suoi derivati, devono sempre essere considerati a rischio di contaminazione. È per questo motivo che la filiera dei prodotti alimentari di origine animale subisce controlli molto rigidi e viene monitorata lungo tutta la sua vita commerciale. I nuovi criteri di etichettatura delle carni, ad esempio, sebbene introdotti per far fronte alla crisi di sicurezza dovuta alla BSE, consentono anche di tracciare l’origine e il percorso di ogni singola porzione, cosa fondamentale anche per la sicurezza microbiologica. La pericolosità delle salmonelle è legata allo stato di salute del soggetto che le ha ingerite, essendo veramente pericolose solo nei bambini, negli anziani e nei soggetti immunocompromessi. Le salmonelle si trovano nell’intestino dei bovini, sulla pelle e nell’intestino dei suini, sulla pelle e nell’intestino del pollame, nelle feci e nelle urine di persone infette, nell’acqua inquinata. Hanno un’eccezionale resistenza alle condizioni ambientali: ad esempio, si mantengono vive a lungo nelle feci dei bovini e nelle acque stagnanti. Le salmonelle si sviluppano a temperatura superiore a 7 °C o inferiore a 45 °C e quindi sopravvivono molto bene negli alimenti conservati a temperatura ambiente. Ad esempio, sopravvivono negli insaccati fino a 90 -120 giorni, nel burro fino a 10 settimane, nei formaggi fino a 5 settimane, anche in prodotti congelati. Muoiono invece negli alimenti pastorizzati, in quanto vengono distrutte dopo un’ora a 55 °C e dopo 15 minuti a 60 °C. Le infezioni da salmonella in Italia provocano circa 12.000 casi all’anno e rappresentano un importante problema di sanità pubblica, sia per l’elevata morbilità sia per il peso economico che esse comportano. I batteri più frequentemente fonte di problemi di contaminazione Salmonella Le salmonelle sono batteri Gramnegativi, della famiglia delle Enterobacteriaceae, causa di diarrea e, nei casi gravi, di infezioni sistemiche. 87 Sicurezza microbiologica dura fino a 8 settimane dall’inizio dei sintomi. Esiste immunità, per cui le infezioni ripetute sono sempre causate da sierotipi diversi. Colpisce ogni classe d’età, anche se predilige le fasce più basse, mentre la stagione che registra la maggiore incidenza di casi infettivi risulta essere quella estiva. Campylobacter Microrganismi della famiglia Spirillaceae, Gram-negativi, mobili, non sporigeni. Due le specie di questo genere più frequentemente coinvolte: Campylobacter jejuni e Campylobacter coli, che rappresentano i batteri più frequentemente isolati da casi di diarrea dovuta a tossinfezione alimentare (circa il 20% dei soggetti affetti da diarrea dovuta a tossinfenzione alimentare, contro il 3,6% di Salmonella e lo 0,6% di Shigella). Le carni avicole poco cotte sono la sorgente più comune, anche se il latte non ben pastorizzato e acque non correttamente potabilizzate sono state anch’esse fonte di contaminazione. Serbatoio dell’infezione sono gli animali, per lo più volatili domestici, nonché i portatori sani, più numerosi nei paesi in via di sviluppo. Possono essere veicoli di infezione l’acqua (se non clorata), il latte (non pastorizzato) e gli ortaggi. Il contagio si verifica per ingestione di un alimento contaminato, ma anche il contagio interumano svolge un ruolo di primissimo piano. È possibile anche la trasmissione perinatale. La durata del periodo di incubazione varia tra 1 e 10 giorni, mentre l’eliminazione del microrganismo con le feci Escherichia coli e suoi biotipi Escherichia coli è il batterio-tipo della flora fecale Gram-negativa e aerobia, e rappresenta una delle numerose specie di batteri di cui è composta la normale flora intestinale di uomini e animali sani. Nell’ambito della specie sono però presenti ceppi dotati di fattori di virulenza e associati a ben definite patologie, sia intestinali che extraintestinali. Le cinque principali categorie causa di patologie enteriche sono: E. coli enterotossigena (ETEC), enteropatogena (EPEC), enteroinvasiva (EIEC), enteroaderente o enteroadesiva (EAEC) ed E. coli produttore di verocitotossina (VTEC), comprendente i ceppi enteroemorragici (EHEC). Negli ultimi anni, tra i batteri patogeni emergenti, hanno acquisito particolare importanza il gruppo di E. coli produttori di verocitotossine (VTEC), causa di colite emorragica e sindrome uremica-emoliti- 88 L. Morelli ca. Il primo VTEC ad essere associato a malattia enterica fu il sierotipo 0157:H7, nel 1982, anche se altri sierotipi, non 0157:H7 sono in grado di produrre un’analoga patologia nell’uomo. Le infezioni da E. coli VTEC sono un tipico esempio di malattie enteriche trasmesse dagli alimenti attraverso la via oro-fecale che, in questi ultimi anni, sono state segnalate in tutte le parti del mondo, costituendo un serio problema di salute pubblica. Il più importante fattore di rischio è rappresentato dal consumo di carne macinata di manzo cruda o poco cotta, ma ne è stata dimostrata la presenza anche in altri tipi di carni. Yersinia enterocolitica Microrganismo Gram-negativo asporigeno, flagellato, anaerobio facoltativo. Ne sono stati identificati diversi Figura 1 Cellule di E. coli 89 Sicurezza microbiologica sierotipi, dovuti a numerosi antigeni somatici e flagellati. Alcuni stipiti riescono a produrre un’enterotossina termostabile. La malattia è ubiquitaria, anche se predilige i paesi sviluppati, a clima rigido, laddove si trova addirittura al secondo posto nel determinare gastroenteriti acute. La stagione in cui si registra il maggior numero di casi è quella invernale, mentre i soggetti a rischio sono quelli in età pediatrica. L’incubazione è di circa una settimana; l’emissione di microrganismi con le feci persiste per 2-3 mesi. Italia e sono risultati legati al consumo di frutti di mare. Infatti tra la microflora autoctona dell’ambiente marino è facile riscontrare batteri con caratteristiche di patogenicità che, una volta accumulati nei molluschi, possono rivestire un importante ruolo nelle patologie umane e soprattutto nelle gastroenteriti di origine sconosciuta. Anche nei confronti dei processi di depurazione, a cui i molluschi devono essere sottoposti per legge, microrganismi appartenenti alla famiglia delle Vibrionacee, come ad esempio il V. parahaemolyticus, presentano un comportamento diverso da quello dei germi indici di contaminazione fecale. Infatti, in base a quanto riportato in bibliografia, sembra che siano capaci di aderire più tenacemente di altri batteri ai tessuti del mollusco, tanto da non essere facilmente rimossi. Per quanto riguarda le varie specie di questo genere coinvolte in episodi di tossinfezioni, ricordiamo anche: • V. parahemolyticus che è la specie più comunemente isolata da alimenti contaminati e causa diarrea acquosa e dolori addominali; • V. vulnificus, più pericoloso del precedente, con un tasso di mortalità del 50%. Vibrio Contrariamente alla contaminazione dei prodotti ittici da batteri coliformi, nel caso dei vibrioni ci si trova di fronte a batteri autoctoni dell’ambiente marino, adattati poi a proliferare anche nel sistema enterico umano. Alla famiglia delle Vibrionaceae appartengono specie batteriche patogene o potenzialmente patogene per l’uomo, che contribuiscono alla pericolosità degli alimenti ittici, quando questi siano consumati crudi. Tra questi microrganismi, il più noto è il Vibrio cholerae 01, agente eziologico del colera di cui alcuni episodi sono stati registrati anche in 90 L. Morelli Il problema reale della contaminazione da stafilococco è legato, più che al batterio, alle tossine termostabili che esso produce. Le temperature di cottura, infatti, pur impedendo agli stafilococchi di moltiplicarsi, non ne eliminano le tossine nocive. Questi microrganismi sono di forte interesse anche in ambito ospedaliero, in quanto frequentemente coinvolti nelle infezioni nosocomiali. Staphylococcus Sono germi Gram-positivi molto diffusi in natura, localizzati spesso sulla pelle e nelle prime vie respiratorie (bocca, naso) degli animali e dell’uomo (specie in presenza di raffreddori), su ferite infette e su foruncoli. Si sviluppano in presenza di acqua e a temperatura ambiente (fra 6,5 °C e 45 °C). La contaminazione con questi agenti infettivi riguarda soprattutto prosciutto cotto, piatti a base di carne, pollame, condimenti, salse, sughi di carne, latte, formaggi, piatti a base di uova, prodotti della pesca (specie crostacei e frutti di mare), insalate di patate, creme dolci e pasticceria alla crema. Veicolo di infezione sono le mani sporche, utensili contaminati, starnuti ecc. La contaminazione avviene di solito dopo la cottura, manipolando, affettando o assaggiando la pietanza e rimettendovi poi dentro la posata impiegata per l’assaggio. L’infezione da stafilococco non è mai grave e dura al più due giorni. Si manifesta da una a sette ore dopo il pasto (in media fra le 2 e le 4 ore) con un improvviso attacco di nausea, vomito, diarrea, crampi addominali, disidratazione, sudorazione, debolezza, stato generale di prostrazione. In genere, la febbre è assente. Clostridium Sono bacilli anaerobi, Gram-positivi e sporigeni, il che significa che risultano particolarmente difficili da eliminare con i trattamenti termici di bonifica. Le due specie a rischio per gli alimenti sono Clostridium botulinum e Clostridium perfringens. La tossinfezione da Clostridium botulinum è molto grave, con un tasso di mortalità variabile tra il 35 e il 65%. Di per sé il batterio non presenta pericoli, ma produce una famiglia di neurotossine che interferiscono con un neurotrasmettitore delle terminazioni nervose periferiche, l’acetilcolina. Di conseguenza la tossina provoca il blocco di alcune funzioni dell’organismo, come quella respiratoria. Se non viene curata 91 Sicurezza microbiologica Figura 2 Clostridium sporogenes con spora apicale in tempo con il siero antibotulinico, l’infezione può essere mortale o provocare una parziale paralisi respiratoria anche per mesi. Generalmente i primi sintomi dell’infezione si manifestano tra le 12 e le 36 ore dopo l’ingestione del cibo contaminato, ma in qualche caso possono presentarsi anche dopo sei giorni. È proprio la doppia vita batterio-tossina a richiedere precauzioni particolari nella preparazione e nella conservazione degli alimenti. Le spore del batterio sono presenti nel terreno, nel fango, nell’acqua e nell’intestino degli animali e sono resistenti al calore, mentre la tossina è termolabile. Per questo motivo, l’infezione botulinica riguarda prevalentemente alimenti crudi o comunque non cucinati dopo l’apertura della confezione. Infatti, anche alimenti cotti, come il tonno o il mais, possono conservare le spore oppure essere contaminati dopo la cottura, al momento di metterli in vasetto o in scatola; se l’alimento non subisce successivamente un’ulteriore cottura, può provocare l’infezione. Questi rischi sono presenti soprattutto negli alimenti fatti in casa, dove non è possibile raggiungere nella bollitura temperature superiori a 100 gradi (tranne che con la pentola a pressione); mentre generalmente i prodotti industriali, anche per questo motivo, vengono trattati termicamente a temperature superiori. La stessa precauzione va presa per il contenitore, che a sua volta deve essere sterilizzato prima dell’impiego. Anche il freddo è un nemico del batterio. Non lo uccide, ma a temperature inferiori ai 3,5 °C non vi è più pro- 92 L. Morelli duzione della tossina. Ecco perché è fondamentale per alcuni alimenti la conservazione a temperature basse. A causa della presenza delle spore nel terreno, le verdure e i vegetali in genere sono a rischio di contaminazione; nel caso della verdura fresca, è importante perciò eliminare subito la presenza di terra con ripetuti lavaggi. Si sono verificati casi di botulismo causato dalla permanenza di terra sotto le unghie di chi ha manipolato o consumato verdure: un altro buon motivo per lavarsi sempre accuratamente le mani prima e dopo aver preparato i pasti. Non è facile scoprire un alimento contaminato dal botulino. Il batterio o la tossina non determinano sostanziali modifiche dell’aspetto o del sapore dei cibi. Molto meno pericoloso è Clostridium perfringens, che causa forti crampi addominali e diarrea. La patologia è di solito auto-contenuta e si esaurisce in uno-due giorni; solo le categorie a rischio (bambini, anziani e soggetti immuno-compromessi) possono subire complicazioni da questo batterio. Bacillus cereus Il Bacillus cereus è un bacillo sporigeno, aerobio, Gram-positivo, patogeno Figura 3 Cellule e spore di Bacillus cereus 93 Sicurezza microbiologica perchè produce tossine responsabili di intossicazioni alimentari. È comunemente presente nel suolo e nella polvere. Esso contamina frequentemente alimenti a base di riso e, occasionalmente, pasta, carne e vegetali, prodotti lattiero-caseari, minestre, salse, dolciumi che non sono stati raffreddati rapidamente ed efficacemente dopo la cottura e/o adeguatamente conservati. In Europa si sono verificati casi di gastroenterite, diarrea e avvelenamento emetico gravi e talvolta fatali, causati dalle tossine più attive di B. cereus, anche se pochissimi sono i batteri in grado di causare la malattia. B. cereus è comune negli alimenti, dove forma spore resistenti alla maggior parte dei processi di risanamento, e dove è in grado di moltiplicarsi durante la conservazione. però rarissimo e confinato all’ambiente veterinario; erano infatti gli animali i portatori di questo germe e le persone a rischio contaminazione erano solamente i veterinari e gli operatori zootecnici. La riduzione dell’acidità nei prodotti lattiero-caseari (oggi il consumatore predilige prodotti poco acidi) e le pratiche di sanitizzazione che hanno eliminato la flora banale che competeva contro Listeria sono fra i principali fattori che hanno portato questo germe ad “emergere” come patogeno. Oggi alcuni studi suggeriscono come una percentuale fra l’1 e il 10% della popolazione possa essere considerata portatrice di L. monocytogenes; questa specie è stata trovata in 37 specie di mammiferi, domestici e selvatici, come pure in 17 specie di volatili. L. monocytogenes è abbastanza resistente al calore e alla refrigerazione, almeno in confronto con altri batteri non sporigeni. Le persone più a rischio sono le donne in gravidanza, gli anziani, i bambini molto piccoli e i malati il cui sistema immunitario si trova in condizioni precarie. Il sintomo iniziale dell’infezione, che può insorgere dopo 4 giorni-3 settimane dal momento del contatto col bacillo, è la febbre alta e Listeria Si tratta di un bacillo Gram-positivo, mobile ed è uno dei batteri patogeni emergenti a causa della variazione avvenuta nelle tecnologie di produzione di alcuni alimenti, principalmente i formaggi di fresco consumo e quelli erborinati. Conosciuto fin dalle origini della microbiologia come agente patogeno, era 94 L. Morelli improvvisa, accompagnata da nausea, vomito, fino a meningite o aborto delle donne in gravidanza. La listeriosi viene trasmessa in particolare da alimenti quali i formaggi a pasta molle (che da soli sono responsabili di oltre la metà dei casi), il latte non pastorizzato, la salsiccia cruda, alcuni vegetali e frutti non lavati. La Listeria monocytogenes sopravvive infatti bene alla temperatura di 4 °C, che si ha normalmente nei frigoriferi, ma viene uccisa con una permanenza di 5 minuti a 80 °C. Da qui la misura precauzionale più importante: non mangiare crudi i cibi che possono trasmetterla. Questi batteri sono poi presenti negli alimenti e arrivano al consumatore finale, contribuendo ad aumentare i rischi della diffusione di geni per l’antibiotico-resistenza anche in germi patogeni, con rischio per la salute del consumatore. La situazione ha raggiunto elevati livelli di gravità, tanto da interessare la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità. L’Unione Europea, a sua volta, ha messo al bando, a partire dal 1997, alcuni antibiotici utilizzati in zootecnia, ma la selezione di batteri antibiotico-resistenti a livello ambientale era già avvenuta. Alcuni paesi scandinavi hanno da anni avviato progetti di monitoraggio della presenza di antibiotico-resistenze nei batteri presenti nella filiera alimentare, collegati a politiche di messa al bando delle sostanze antibiotiche, più restrittive di quelle comunitarie. Uno studio recente ha evidenziato come i ceppi di Listeria isolati da alimenti abbiano una limitata presenza di geni per l’antibiotico-resistenza, ma tuttavia la percentuale è in crescita con il passare degli anni. Nei paesi industrializzati è stato dimostrato che gli alimenti di origine animale sono la fonte primaria di tossinfezioni da batteri antibiotico-resistenti. Antibiotico-Resistenza Alla contaminazione batterica vera e propria si è aggiunta, negli ultimi anni, la presenza di determinanti genetiche per l’antibiotico-resistenza nei batteri presenti negli alimenti. Questo problema è legato al vasto uso che è stato fatto nel passato di sostanze antibatteriche utilizzate come promotori della crescita di animali da reddito, uso che ha portato a selezionare batteri non patogeni ma antibiotico-resistenti. 95 Sicurezza microbiologica rie (minori, maggiori, critiche). Le violazioni considerate critiche erano quelle che, di per sé, si riteneva potessero causare malattie, mentre quelle “maggiori” risultavano pericolose solo in presenza di altre violazioni. Per ritenere “sicura” una cucina, l’esame delle procedure seguite nelle normali cucine domestiche non doveva totalizzare più di 4 violazioni fra quelle maggiori e nessuna violazione critica. Fra i 106 casi esaminati in 81 città distribuite in tutti gli Stati Uniti e il Canada, le contaminazioni crociate vennero rilevate nel 76% dei casi, le mancanze nel lavaggio delle mani nel 57% e la cattiva o mancata refrigerazione nel 29%: tutte queste sono considerate violazioni critiche. Almeno una violazione critica venne rilevata nel 96% dei casi, ma la media di violazioni critiche osservate per ogni cucina esaminata risultò di tre! Altre violazioni frequentemente osservate erano: • riporre i cibi in frigoriferi senza coprirli (si formano aerosol che distribuiscono i batteri da un alimento all’altro, creando i presupposti per uno sviluppo batterico potenzialmente anomalo); • scongelamento di cibi surgelati non seguito da un consumo in tempi brevi. La sicurezza microbiologica domestica Alcuni problemi di tipo microbiologico possono essere riscontrati nel periodo “post acquisto” dei prodotti. La stabilità microbiologica degli alimenti è infatti garantita quando le confezioni sono chiuse e, una volta aperte, conservate in maniera appropriata e per il periodo più breve possibile. Ancora più interessante un altro studio della FDA, svolto nel 1997, in cui si dimostra come le procedure di preparazione degli alimenti nelle cucine americane non rispettasse, nel 99% dei casi, gli standards di sicurezza fissati dalla stessa FDA per le industrie alimentari. In particolare risultavano mancanze del tipo: • le mani non venivano lavate prima della manipolazione dei cibi; • una contaminazione crociata di alimenti veniva regolarmente effettuata (ad esempio utilizzando lo stesso coltello per alimenti diversi); • la conservazione non seguiva norme corrette (temperatura, date di scadenza). I criteri adottati durante questa analisi suddividevano le violazioni alle norme di sicurezza alimentari in tre catego- 96 L. Morelli Questi dati dovrebbero far riflettere e indurre a un’azione di educazione alimentare volta anche al rispetto delle norme di igiene dal punto di vista microbiologico; curiosamente, sembra che per quanto riguarda la sicurezza alimentare i consumatori si aspettino più attenzione da parte degli altri soggetti coinvolti di quanto essi stessi non siano disposti a porvi. Sembra perciò interessante riportare alcuni consigli sul come organizzare la pratica domestica seguendo delle buone norme di manipolazione e conservazione degli alimenti: • non mangiare mai alimenti crudi di provenienza animale come pollame, carne di maiale e di vitello, ma cuocerli bene prima dell’assunzione; • lavare minuziosamente i vegetali crudi prima di mangiarli; • tenere separati i cibi cotti e pronti per essere consumati da quelli crudi; • evitare il consumo di latte appena munto e non pastorizzato; • lavare le mani, i coltelli e i tegami dopo aver maneggiato i cibi crudi; • osservare scrupolosamente la data di scadenza, che comunque si riferisce alla confezione conservata come da indicazioni e, soprattutto, non aperta! (ricordare che, una volta aperta la confezione, il contenuto deve essere consumato in tempi molto brevi); Figura 4 Dati di incidenza delle infezioni enteriche da alimenti in diverse fasce d’età. Rielaborazioni di dati USA forniti da CDC/USDA/FDA (1999). 60 50 E. coli 0157:H7 40 30 Salmonella Campylobacter 20 10 0 0-<1 1-<10 10-<20 Età (anni) 97 20-<30 30-<40 40-<50 Sicurezza microbiologica • le operazioni di macinatura e taglio delle carni e delle verdure aumentano le possibilità di sviluppo batterico (vengono messe a disposizione delle cellule batteriche presenti più superficie e più nutrienti). nati alle fasce più deboli della popolazione, come la prima infanzia, risultano particolarmente ben controllati e sicuri. Secondo dati del Ministero della Salute, il numero di campioni di alimenti per l’infanzia analizzati dalle strutture del Ministero stesso e trovati irregolari è fra i più bassi delle varie categorie merceologiche e rappresenta un indicatore di un buon livello di sicurezza alimentare. È bene ricordare come le industrie produttrici applichino controlli lungo tutta la filiera di produzione e non solo sul prodotto finale. Quanto sopra detto non deve però indurre a ritenere che, nonostante gli sforzi delle autorità competenti, nel controllo sull’intera filiera produttiva del settore agro-alimentare nonché sulla distribuzione, la contaminazione microbica delle derrate alimentari, non debba continuare a essere un argomento di quotidiana rilevanza. Una particolare attenzione deve essere posta nella manipolazione degli alimenti per i bambini, che risultano essere una categoria a rischio di infezione batterica. In figura 4 è riportato un grafico rielaborato da dati USA che illustra efficacemente la maggiore incidenza relativa delle tossinfezioni batteriche dovute ad alimenti contaminati in età pediatrica. Appare evidente come l’età da 1 a 10 anni sia particolarmente esposta alle infezioni da batterici enterici. Gli operatori del settore hanno perciò il compito di informare genitori e chi si prende di cura dei bambini di questa particolare sensibilità e agire di conseguenza. Riferimenti bibliografici La bibliografia è stata organizzata per fornire al lettore alcuni riferimenti essenziali e, in alcuni casi, di facile e libero accesso su Internet; ad esempio sono stati di preferenza citati articoli il cui testo completo è ad accesso gratuito. Di seguito segnaliamo alcuni siti web per saperne di più e ottenere un costante aggiornamento sulle patologie legate alla catena alimentare: Conclusione La situazione della contaminazione microbiologica degli alimenti è quindi oggi di livello molto buono nei paesi occidentali. In particolare gli alimenti desti- http://www.cfsan.fda.gov/~mow/foodborn.html È il sito della FDA; da leggere il BAD BUG BOOK, 98 L. Morelli Per quanto riguarda le referenze “cartacee” la bibliografia è stata suddivisa con lo stesso ordine del testo. testo on-line con le caratteristiche dei principali batteri patogeni. http://www.epicentro.iss.it/ Il sito del Laboratorio di Epidemiologia dell’Istituto Superiore di Sanità, nell’ambito del Progetto per un Osservatorio Epidemiologico Nazionale. Epicentro è uno strumento di lavoro per gli operatori di sanità pubblica, prodotto per migliorare l’accesso all’informazione epidemiologica, nell’ambito del servizio sanitario, tramite l’uso della rete Internet. INTRODUZIONE de Wit MA, Koopmans MP, Kortbeek LM, Wannet WJ, Vinje J, van Leusden F, Bartelds AI, van Duynhoven YT Sensor, a population-based cohort study on gastroenteritis in the Netherlands: incidence and etiology. Am J Epidemiol; 154(7): 666-674, 2001. http://www.ministerosalute.it/alimenti/sicurezza/sicurezza.jsp La sezione del sito web del Ministero della Salute dedicate alla sicurezza alimentare. 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J Food Prot.; 66(4): 700-9, 2003. 100 L e micotossine nella filiera agroalimentare: informazioni generali ed impatto sulla salute dell’uomo e degli animali M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera Istituto Superiore di Sanità, Centro Nazionale per la qualità degli Alimenti e per i Rischi Alimentari, Reparto Organismi Geneticamente Modificati e Xenobiotici di Origine Fungina preposte alla gestione del rischio. Tuttavia, anche se negli ultimi anni le associazioni dei consumatori hanno dimostrato crescente attenzione al problema, resta tuttora scarsa la conoscenza, quindi l’interesse del consumatore medio, circa il problema di sicurezza alimentare legato alla contaminazione da micotossine. A causa della elevata diffusione e tossicità di queste sostanze, del numero crescente di derrate alimentari riconosciuto passibile di contaminazione, dell’impatto sanitario, economico, commerciale ed etico di questi tossici, le autorità competenti di molti Paesi del mondo attualmente considerano il problema delle micotossine fra le priorità in tema di sicurezza alimentare. Inoltre nell’ultimo decennio organizzazioni internazionali quali il CODEX Alimentarious, la FAO (Food and Agriculture Organization) e il WHO (Organizzazione Mondiale della Sanità) hanno assunto la leadership nel difficile compito di in- Introduzione I composti chimici noti con il nome di micotossine sono sostanze ad azione tossica prodotte, in particolari condizioni ambientali, da numerose specie di funghi filamentosi microscopici. Il numero di muffe tossigene note è andato crescendo negli ultimi decenni e, accanto alle “micotossine principali”, sono disponibili informazioni circa una classe di micotossine meno studiate (“micotossine minori”) che potrebbero essere classificate fra i rischi emergenti. Nonostante lo studio sistematico delle micotossine sia iniziato da più di quarant’anni, solo recentemente il loro potenziale impatto sulla salute dell’uomo e degli animali ha ricevuto una crescente attenzione sia da parte della comunità scientifica e delle organizzazioni internazionali interessate ai problemi di sicurezza alimentare, sia da parte dei produttori e delle autorità 101 Le micotossine nella filiera agroalimentare dividuare e stabilire criteri per l’analisi del rischio e per l’armonizzazione delle procedure a questa connesse. l’acido penicillico, l’acido micofenolico, la rocfortina, la tossina PR e le tossine prodotte dal genere Stachybotrys, che sembrano particolarmente rilevanti per gli ambienti domestici. Le micotossine sono sostanze chimiche che residuano nelle derrate alimentari anche laddove la muffa abbia cessato il suo ciclo vitale o sia stata rimossa dalle operazioni tecnologiche di lavorazione dell’alimento o del mangime. Inoltre le principali micotossine sono resistenti alle normali operazioni di cottura degli alimenti. Le condizioni che influenzano la biosintesi delle micotossine sono peculiari per le singole specie e includono condizioni geografiche ed ambientali, pratiche di coltivazione, stoccaggio e tipo di substrato. Un’eccellente rassegna sui parametri che influenzano la crescita fungina per le più importanti specie fungine e la biosintesi delle principali micotossine è fornita dal Report del CAST (Council for Agricultural Science and Technology) pubblicato recentemente. Produzione di micotossine Le muffe tossigene producono micotossine secondo vie metaboliche secondarie a seguito di stress ambientali cui la pianta è stata sottoposta. Le muffe particolarmente ubiquitarie e diffuse appartengono al genere Aspergillus, Penicillium e Fusarium e le micotossine principali da questi prodotte sono le aflatossine (AFLs), l’ocratossina A (OTA), le fumonisine (FBs), i tricoteceni, lo zearalenone (ZEA), la patulina e le tossine dell’ergot. Oltre a queste micotossine particolarmente investigate, sono noti un numero considerevole di altri metaboliti fungini per i quali frequenza di contaminazione e studi di tossicità suggeriscono una maggiore attenzione da parte sia della comunità scientifica sia delle strutture preposte alla tutela della salute dell’uomo e degli animali. Questa lista di tossine include l’acido ciclopiazonico, la sterigmatocistina, la gliotossina, la citrinina, le tossine tremorgeniche, quali il penitrem, la fusarina C, l’acido fusarico, Presenza di micotossine in alimenti e mangimi Il numero delle matrici alimentari per le quali l’incidenza di micotossine ha 102 M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera suscitato motivi di preoccupazione è andato crescendo negli ultimi anni, includendo sia materie prime quali cereali, semi oleaginosi, semi di caffè e cacao, spezie, frutta secca ed essiccata, sia prodotti derivati e trasformati quali vino, birra, uvetta, cacao e cioccolata, caffè tostato e succhi di frutta. I processi tecnologici in grado di ridurre il livello delle tossine inizialmente presenti nelle materie prime sono pochi; in particolare i trattamenti alcalini, come ad esempio la raffinazione degli oli che degrada le aflatossine presenti nei semi oleaginosi, o la tostatura del caffè che riduce fino al 50% l’ocratossina A presente nei semi grezzi. Inoltre alcuni processi tecnologici comportano una variazione del livello di tossina nei prodotti derivati: il processo di molitura dei cereali implica una concentrazione di tossina nelle parti cruscali e una diminuzione nelle frazioni più raffinate, dipendente dal tipo di tossina e di cereale. Gli studi finora effettuati riguardano l’aflatossina B1, l’OTA e la fumonisina B1. Per quanto concerne l’aflatossina M1 (AFM1), nei formaggi è stato generalmente osservato un aumento di concentrazione dal latte al prodotto finito. Livelli preoccupanti di OTA sono stati di recente evidenziati nel latte materno. In particolare un monitoraggio eseguito su circa 500 campioni di latte prelevati nelle varie regioni italiane ha evidenziato una percentuale elevata (63%) di campioni contaminati a livelli compresi tra 0,017 e 2,350 ng/ml. Solo nel 34% dei campioni la contaminazione era inferiore al valore massimo di intake di 5 ng/kgpc/giorno raccomandato dal Scientific Committee for Food (UE) per la popolazione adulta. Studi ulteriori saranno necessari per verificare se altre micotossine possono essere trasferite nel latte materno, fonte preziosa di nutrimento per una fascia di popolazione particolarmente a rischio. La presenza di micotossine nei mangimi, oltre a rappresentare un problema di vastissime proporzioni per gli allevamenti, può costituire un’ulteriore fonte di rischio per l’uomo, attraverso il trasferimento di tossine nei prodotti d’origine animale quali il latte e i prodotti lattiero-caseari, la carne e le uova. Fra le micotossine più frequentemente riscontrate in questa tipologia di prodotti un ruolo primario è rivestito dall’aflatossina M1, prodotta negli animali da latte per idrossilazione dell’aflatossina B1 in ragione dell’16% rispetto alla tossina genitrice, e l’OTA nei prodotti derivati dai suini. Storicamente in Europa il latte rappresenta la prima matrice alimentare per 103 Le micotossine nella filiera agroalimentare Figura 1 Interrelazioni fra micotossine e uomo/animali Contaminazione fungina Mangime Micotossine Materie prime e prodotti alimentari finiti Inalazione la quale sono state adottate misure preventive per la presenza di AFM1, attraverso la definizione di limiti per l’AFB1 nei mangimi. Un problema di grande attualità è rappresentato dal livello di AFM1 nei formaggi; tale livello dipende, come sopra menzionato, da fattori di concentrazione della tossina durante il processo di caseificazione. Questi fattori non sono attualmente noti e costituiscono motivo di dibattito nell’ambito del controllo della tossina nei prodotti lattiero-caseari. Un’ulteriore fonte di assunzione di micotossine da parte di alcune fasce di popolazione è rappresentata dall’inalazione di polveri aereodisperse contaminate da micotossine. Questa circostanza può verificarsi sia in ambienti di lavoro in cui sono trattate derrate contaminate, sia in ambienti domestici in cui le cattive condizioni igienico-ambientali hanno portato all’ammuffimento delle pareti. In figura 1 sono rappresentate le interrelazioni attualmente documentate fra micotossine e uomo/animali. L’analisi del rischio da micotossine Le informazioni disponibili sulla gravità del significato globale delle micotossine e circa il loro impatto sulla salute dell’uomo e degli animali hanno spinto le organizzazioni nazionali e internazionali ad intraprendere l’analisi sistematica del rischio attribuibile a questi 104 M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera composti. I criteri seguiti sono conformi allo schema proposto da FAO/WHO (1995) secondo cui l’analisi del rischio è costituita dai tre elementi specifici di valutazione, comunicazione e gestione del rischio, ciascuno dei quali costituito da diverse componenti. Per alcune sostanze chimiche, quali i pesticidi, l’analisi del rischio è stata già effettuata in maniera organica, mentre per le micotossine molti aspetti sono ancora da sviluppare e da armonizzare. Alcuni aspetti dell’analisi del rischio da micotossine vengono di seguito presi in considerazione, con particolare riferimento alla valutazione e alla gestione del rischio. Queste due componenti non devono essere considerate totalmente disgiunte poiché alcuni loro elementi, quali l’incidenza di contaminazione e la disponibilità d’idonei metodi di campionamento e d’analisi, giocano un ruolo importante in entrambe le componenti. ropa, per le principali micotossine, anche se molti dei risultati ottenuti suggeriscono la necessità di ulteriori approfondimenti. La caratterizzazione del pericolo, cioè la valutazione qualitativa e quantitativa della natura dell’effetto tossico, è stata sufficientemente sviluppata per le principali micotossine quali aflatossine, OTA, fusariotossine e patulina, mentre per le micotossine “minori” sono necessarie ulteriori ricerche. A causa del cammino biosintetico differenziato, che porta alla formazione delle varie micotossine, la loro struttura chimica è molto diversificata, pertanto gli effetti tossici nell’uomo e negli animali sono molto diversi e in massima parte riconducibili alla formazione di addotti con vari recettori molecolari quali DNA, RNA, proteine funzionali, cofattori enzimatici e costituenti di membrana. Un moderno approccio per la classificazione della tossicità delle micotossine è basato sulla valutazione dell’effetto tossico sui vari organi o sistema bersaglio. Il fegato è l’organo bersaglio per le aflatossine, ma sono riportati effetti tossici da parte anche delle fumonisine e della sporidesmina; i tricoteceni esercitano un’azione tossica sul sistema gastrointestinale e su quello ematopoietico, mentre il sistema renale e urogenitale rappresenta Valutazione del rischio La valutazione del rischio, cui contribuisce sia l’identificazione e la caratterizzazione del pericolo riferibile alla sostanza tossica, sia la valutazione dell’esposizione, è stata sviluppata in maniera organica, specialmente in Eu- 105 Le micotossine nella filiera agroalimentare l’organo bersaglio soprattutto da parte dell’OTA, ma anche del 4-deossinivalenolo (DON). Effetti tossici sul sistema riproduttivo sono particolarmente evidenti per lo zearalenone e per gli alcaloidi dell’ergot, effetti neurotossici sono stati evidenziati per le tossine tremorigene (penitrem A) e per gli alcaloidi dell’ergot. Effetti sul sistema immunitario sono stati dimostrati per le aflatossine, i tricoteceni e l’OTA. Informazioni sul meccanismo d’azione dell’aflatossina B 1 , dell’OTA e della fumonisina sono fornite dalla rassegna di Fink-Gremmels del 1996, ma ulteriori indicazioni sull’OTA e sulle fusariotossine possono essere fornite dai risultati dei progetti europei sviluppati nell’ambito o collegati al Mycotoxin cluster (http://www.mycotoxinprevention.com). In tale contesto è stata studiata, con tecniche più avanzate, la tossicità di alcune micotossine fra cui l’OTA. In particolare, gli studi di Dekant sembrerebbero escludere l’ipotizzata genotossicità di questa tossina. Per quanto riguarda l’effetto cancerogeno, lo IARC (International Agency for Research on Cancer) ha classificato l’aflatossina B1 nel gruppo 1 (evidenza adeguata di cancerogenicità per l’uomo), mentre l’OTA è stata classificata nel gruppo 2B (potenzialmente cancerogeno per l’uomo). A livello europeo ot- time informazioni sulla tossicità di OTA, aflatossine, fusariotossine e patulina possono ottenersi dagli Opinion Papers dell’SCF (Scientific Commettee for Food). Inoltre, nel 2002 il JECFA (Joint Expert Committee on Food Additives) del WHO e della FAO ha pubblicato un rapporto concernente la caratterizzazione del pericolo da aflatossina M1, OTA, fumonisine B1, B2, e B3, DON, tossina T2 e HT-2. Rapporti precedenti hanno riguardato patulina (1995), aflatossine (1997) e zearalenone (1999). La valutazione del JECFA normalmente comprende per le sostanze non cancerogene la definizione del PMTWI (Provisional Maximum Tolerable Weekly Intake) o del PMTDI (Provisional Maximum Tolerable Daily Intake), in cui il termine “provisional” indica che i dati disponibili non sono sufficienti per stabilire esattamente l’impatto sulla salute ai valori suggeriti di assunzione massima. I valori d’assunzione massima sopraindicati sono stabiliti sulla base del NOEL (No Observable Effect Level) e l’applicazione di un fattore di sicurezza, che è fissato normalmente a 100, ma può essere aumentato nel caso d’insufficienti dati di tossicità. Per le sostanze genotossiche, quali l’aflatossina B1, il JECFA non assegna alcun valore di PMTWI o PMTDI perché si assume che tali sostanze anche in 106 M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera piccole dosi possano esercitare un effetto tossico e dovrebbero pertanto essere assenti. Tuttavia, nei casi in cui non sia possibile eliminare totalmente la presenza di una sostanza tossica dagli alimenti senza compromettere le riserve alimentari mondiali, il JECFA raccomanda un livello massimo di contaminazione definito come ALARA (As Low As Reasonably Achievable), come nel caso dell’aflatossina B1. In tabella 1 sono riportati i valori di PMTDI indicati dal JECFA per le micotossine prese in considerazione. mo, hanno fornito informazioni sull’esposizione della popolazione europea alle principali micotossine. Secondo quanto sopraindicato, alla valutazione dell’esposizione contribuiscono dati di incidenza di contaminazione e di consumi alimentari. Attualmente le metodologie di valutazione dell’esposizione per le sostanze chimiche adottate in Europa utilizzano un approccio deterministico (“point estimate”) che combina i database dei dati di consumi alimentari con quelli relativi all’incidenza di contaminazione. È in corso di svolgimento un progetto comunitario (SAFE FOODS) che intende effettuare la valutazione del rischio tramite un approccio probabilistico (Montecarlo). I risultati più rilevanti ottenuti per la valutazione dell’esposizione sono stati raggiunti dalle “Tasks” della UE, sviluppate nell’ambito della SCOOP (Scientific Cooperation on Question Related to Valutazione dell’esposizione Per la valutazione dell’esposizione sono state intraprese a livello europeo numerose iniziative che, attraverso l’elaborazione di dati relativi all’incidenza di contaminazione e dati di consuTabella 1 Valori di PMTDI* per le principali micotossine Micotossina PMTDI Ocratossina A 5 ng/kg pc/giorno Fumonisina B1 2 µg/kg pc/giorno Fumonisina B2 2 µg/kg pc/giorno Fumonisina B3 2 µg/kg pc/giorno Deossinivalenolo 1 µg/kg pc/giorno Tossina T-2 60 ng/kg pc/giorno Tossina HT-2 60 ng/kg pc/giorno *PMTD: Provisional Maximum Tolerable Daily Intake 107 Le micotossine nella filiera agroalimentare Food). Sulla base della Decisione della Commissione 94/652/EC è stato infatti supportato dall’UE lo sviluppo di alcune “Tasks” volte alla valutazione della esposizione a numerose sostanze chimiche fra cui le principali micotossine. Sono state finora sviluppate Tasks per la valutazione della esposizione alle aflatossine, all’OTA, alle fusariotossine e alla patulina. Tuttavia, essendo sempre crescente il numero delle matrici alimentari note come passibili di contaminazione, la valutazione dell’esposizione totale, data dalla somma dei contributi da parte delle singole matrici alimentari, è un dato destinato a variare all’aumentare delle conoscenze disponibili. programma GEMS FOOD. Inoltre una recente e valida rassegna dei dati di incidenza di contaminazione è disponibile nel Report del CAST che fornisce dati accorpati per genere/specie fungine riscontrati nelle diverse derrate, per matrici affette da contaminazione e per livelli di tossine negli alimenti processati. A livello europeo, dati di incidenza di contaminazione di alcune micotossine in talune derrate alimentari (OTA in cacao e caffè, aflatossine in spezie, arachidi, pistacchi e alimenti per l’infanzia) sono stati sviluppati nell’ambito del controllo ufficiale degli alimenti. Un aspetto cruciale della valutazione dell’incidenza di contaminazione e conseguentemente della valutazione del rischio è data dall’attendibilità dei metodi di analisi e campionamento impiegati nei monitoraggi. La rilevanza dell’assicurazione di qualità del dato analitico è stata riconosciuta solo negli ultimi anni, pertanto l’attendibilità di dati non recenti d’incidenza di contaminazione da micotossine è da ritenersi scarsa. A tale mancanza di attendibilità inoltre può contribuire in maniera determinante il mancato impiego di procedure di campionamento appropriate. Essendo, infatti, le micotossine distribuite in maniera disomogenea nella massa, il dato proveniente dalle analisi di laboratorio è rap- Incidenza di contaminazione Un’accurata conoscenza dell’incidenza di contaminazione, cioè delle frequenze e dei livelli di contaminazione da micotossine nelle diverse matrici alimentari, rappresenta la base non solo per la valutazione dell’esposizione, ma anche per la programmazione delle opportune misure di gestione del rischio. Una delle iniziative a livello internazionale per valutare frequenza e livelli di contaminazione da micotossine nelle derrate alimentari è rappresentata dal 108 M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera Tabella 2 Assunzione giornaliera di OTA con la dieta per ciascun alimento (µg/kg o µg/l) Cereali Caffè Birra Danimarca (P) 0,86 0,19 0,14 Finlandia (P) 1,03 3,94 0,12 Francia (P) 1,24 Francia (A) 1,14 Francia (B) Vino Cacao Frutta Carne Spezie Altro Assunzione secca totale 1,19 0,12 0,02 0,27 0,50 0,10 0,40 2,51 0,25 0,47 0,10 0,35 2,31 2,26 0,11 0,03 0,11 0,88 3,39 Germania(P>14) 0,65 0,14 0,08 0,07 0,06 1,05 Germania(P<14) 1,25 0,01 0,01 0,29 0,11 1,67 Germania (D) 2,10 0,03 0,66 0,20 2,99 0,05 5,23 Grecia (P) 0,10 0,05 0,15 Grecia (U) 0,10 0,03 0,13 Grecia (SU) 0,10 0,06 0,16 Grecia (R) 0,12 0,11 0,23 Italia (P) 0,06 0,06 0,01 0,20 0,12 0,02 0,47 Italia (C) 0,24 0,09 0,03 0,68 0,17 0,05 1,26 Norvegia (P) 0,74 2,29 0,07 3,10 Norvegia (U) 0,80 2,26 0,07 3,13 Norvegia (D) 0,66 2,29 0,06 3,01 Portogallo (P) 0,69 0,09 0,01 0,02 Spagna (P) 0,08 0,15 0,09 0,07 Svezia (A) 1,04 1,12 0,05 0,18 0,40 0,22 3,01 Svezia (B) 1,61 0,46 0,04 0,18 0,52 0,45 3,26 0,06 0,07 0,30 2,58 0,81 0,39 Svezia (P) 0,99 1,13 0,03 Olanda (P) 1,21 0,21 0,03 1,45 Olanda (C) 0,30 0,95 1,25 Inghilterra (P>16) 0,34 0,04 0,05 0,05 Inghilterra (P 1,5-4,5) 0,61 0,06 0,14 0,55 0,29 1,45 Inghilterra (C >16) 0,04 0,04 0,09 0,03 0,74 0,67 5,18 6,66 0,42 Inghilterra (C 1,5-4,5) 0,73 0,48 P = Tutta la popolazione; A = Adulti; B = Bambini; D = Donne; U = Uomini; SU = Popolazione della periferia; R = Popolazione rurale; C = Solo consumatori 109 Le micotossine nella filiera agroalimentare presentativo dell’intera massa solo se le operazioni di campionamento sono state eseguite in maniera idonea. L’errore insito nel campionamento è di gran lunga superiore a quello associato all’analisi. Purtroppo, nella pratica, le procedure di campionamento spesso non sono eseguite correttamente a causa sia della scarsa conoscenza del problema sia dell’onere economico e del dispendio di tempo insiti nell’esecuzione di un buon campionamento. Pertanto, errate procedure di campionamento inficiano totalmente l’affidabilità del dato analitico, portando ad una sottostima del livello di contaminazione e molti dei dati d’incidenza di contaminazione prodotti nel passato dovrebbero considerarsi non rappresentativi della la situazione reale. Relativamente all’OTA, in tabella 2 vengono riportati i recenti risultati ottenuti per la valutazione dell’esposizione della popolazione europea derivante dalle diverse matrici passibili di contaminazione, in figura 2 è illustrato tale contributo all’esposizione. Come si può rilevare nessun Paese europeo ha potuto fornire dati relativi a tutte le matrici alimentari fino a quel momento considerate suscettibili di contaminazione, portando pertanto a valori sottostimati dell’esposizione totale. Va inoltre considerato che attualmente le matrici potenzialmente contaminate da OTA sono in numero maggiore rispetto a quelle considerate nella “Task” includendo altre voci quali frutta secca, spezie e liquirizia. Figura 2 44% Contributo delle varie matrici alimenteri alla esposizione totale del consumatore europeo all’ocratossina A* 44 15 3 3 9 4 5 10 7 Cereali 9% Caffé 7% Birra 10% Vino 5% Cacao 4% Frutta secca 3% Carne 3% Spezie 15% Altro * Tratto da http://europa.eu.int/comm/food/fs/scoop/3.2.7_en.pdf 110 M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera prendendo pertanto l’intera filiera produttiva, dal campo al piatto. Inoltre, la conoscenza dell’ecologia fungina rappresenta la base per la prevenzione della formazione di muffe e di micotossine. Molte iniziative in tal senso sono state intraprese ed alcune hanno già mostrato i primi risultati. In particolare, sotto il coordinamento della FAO, sono stati condotti studi mirati alla conoscenza completa dell’ecologia fungina che porta alla presenza dell’OTA nel caffè e all’individuazione dei punti critici dell’intera filiera produttiva. Tali conoscenze hanno fornito la base per l’attuazione di programmi di educazione dei piccoli e medi produttori di questa materia prima, economicamente importantissima per alcuni Paesi in via di sviluppo. Rapporti sull’ecologia fungina e sui sistemi di prevenzione della contaminazione da muffe e da micotossine sono stati elaborati sotto l’egida del CODEX; in particolare sono reperibili informazioni per l’OTA, lo zearalenone, le fumonisine ed i tricoteceni nei cereali, per la patulina nei prodotti a base di mela, e per le aflatossine nei pistacchi (www.codex.com). Inoltre, nell’ambito del programma della Commissione Europea “Quality of life”, sono state di recente sviluppate ricerche volte allo sviluppo di sistemi preventivi per alcune micotossine Gestione del rischio In generale molti sono gli elementi che dovrebbero essere presi in considerazione nell’attuazione di una gestione del rischio efficace e prospettica. Alcuni di questi aspetti, quali la valutazione dell’incidenza di contaminazione e l’assicurazione di qualità sia del dato analitico che del campionamento, sono stati discussi in precedenza. Vengono di seguito trattate altre misure di gestione del rischio, con particolare riferimento alle azioni di prevenzione della contaminazione stessa e alla definizione di limiti di legge. Azioni preventive Le azioni volte a prevenire l’attacco delle muffe tossigene e la formazione di micotossine sono usualmente raggruppate in attività relative alle fasi di coltivazione/raccolto e in attività eseguite nella fase post-raccolto, incluso il trasporto, l’immagazzinamento e le attività di trasformazione. Per le micotossine, infatti, più che per altri contaminanti, è fondamentale che il sistema di HACCP (Hazard Analysis Critical Control Point) sia considerato in maniera integrata, com- 111 Le micotossine nella filiera agroalimentare (OTA e fusariotossine) in talune matrici (www.mycotoxin-prevention.com). Un progetto satellite del “Mycotoxin Cluster” ha sviluppato il problema dell’OTA nel vino, valutandone il rischio e studiando i problemi relativi alla gestione integrata per questa tossina nell’uva e nel vino (www.ochrawine.com). Un efficace sistema di prevenzione della contaminazione da muffe e micotossine può essere rappresentato dalla coltivazione di alcune tipologie di piante OGM. In particolare è stata evidenziata una rilevante riduzione di fusariotossine nel mais geneticamente modificato per la resistenza agli insetti. Il minore attacco da parte degli insetti riduce, infatti, il danno alle granaglie con conseguente minore possibilità di attacco da parte delle muffe. del problema da parte degli “stakeholders”. Per le micotossine la complessità dei fattori e delle conseguenze attribuibili alla loro presenza nelle derrate alimentari comporta che la fissazione di limiti massimi di legge sia influenzata da numerosi fattori, alcuni dei quali estranei alla tossicità della micotossina in esame; infatti, anche se le TDI (“Tolerable Daily Intake”) raccomandate rappresentano generalmente l’elemento guida per la definizione di tali limiti, altri fattori giocano un ruolo di rilievo, quali l’entità dell’incidenza di contaminazione nelle derrate in circolazione e la disponibilità di appropriati metodi validati di campionamento e di analisi. Inoltre, considerazioni di carattere commerciale ed etico e di disponibilità di risorse alimentari sono fattori che sono presi in considerazione in una visione internazionale della definizione di limiti massimi tollerabili. Ad esempio la regolamentazione stringente per l’aflatossina B1 attualmente in vigore in Europa crea ad alcuni Paesi in via di sviluppo problemi nell’esportazione delle materie prime impiegate nelle preparazioni mangimistiche. Negli ultimi anni l’UE ha tenuto sotto controllo, e in molti casi ha temporaneamente bloccato, le importazioni di pistacchi dall’Iran e dalla Turchia, di arachidi dall’Egitto e dalla Cina, di noci Limiti di legge Fra le componenti della gestione del rischio derivante dalla presenza di una sostanza indesiderabile negli alimenti e nei mangimi, la fissazione di limiti massimi ammissibili rappresenta uno dei momenti più incisivi al fine di salvaguardare la salute dell’uomo e degli animali e di armonizzare la gestione 112 M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera brasiliane dal Brasile, di fichi secchi e nocciole dalla Turchia. Per quanto concerne gli aspetti etici sono rilevanti le considerazioni legate alla disponibilità di risorse alimentari nei Paesi in via di sviluppo, dove la contaminazione da micotossine è particolarmente elevata a causa delle favorevoli condizioni geografiche ed ambientali e dello scarso impiego di buone pratiche agricole. Questi Paesi sono spesso economicamente dipendenti dall’esportazione di materie prime e limiti troppo restrittivi Tabella 3a nei Paesi importatori possono comportare l’utilizzo “in loco” di derrate non idonee all’esportazione. Inoltre in questi Paesi, in cui le risorse alimentari sono già limitate, l’esclusione dal consumo di derrate contaminate può portare alla mancanza di sufficienti risorse alimentari e ad un eccessivo aumento dei prezzi. La complessità dei fattori che influenzano la normativa rende molto lento e controverso, a livello internazionale, il processo di definizione di li- Limiti per le aflatossine in Europa* µg/kg µg/kg µg/kg B1 B1+B2+G1+G2 M1 Arachidi, frutta a guscio e frutta secca e relativi prodotti di lavorazione destinati al consumo umano diretto e all’utilizzazione quali ingredienti per la produzione di derrate alimentari 2,0 4,0 – Arachidi da sottoporre a trattamenti fisici prima del consumo umano o dell’impiego come ingrediente di derrate alimentari 8,0 15,0 – Frutta a guscio e frutta secca da sottoporre ad altri trattamenti fisici prima del consumo umano o dell’impiego quale ingrediente di derrate alimentari 5,0 10,0 – Cereali e relativi prodotti della lavorazione destinati al consumo umano diretto o all’impiego come ingrediente di derrate alimentari 2,0 4,0 – Cereali destinato alla cernita o altri trattamenti fisici prima del consumo umano o dell’impiego quale ingrediente di derrate alimentari 2,0 4,0 – Granoturco da essere sottoposto a trattamento fisico prima del consumo umano o dell’impiego quale ingrediente di derrate alimentari 5,0 10,0 – – – 0,05 5,0 10,0 – Matrice alimentare Arachidi, frutta a guscio e frutta secca Cereali Latte Spezie: peperoncini, pepe di caienna, paprika, pepe bianco, pepe nero, noce moscata, zenzero e curcuma *Reg. (CE) N. 2174/2003 del 12 dicembre 2003 113 Le micotossine nella filiera agroalimentare Tabella 3b Limiti per la patulina in Europa* µg/kg Matrice alimentare Succhi di frutta, in particolare succo di mela e ingredienti di succo di frutta presenti in altre bevande compreso il nettare di frutta 50,0 Bevande alcoliche, sidro e altre bevande fermentate derivate dalle mele o contenenti succo di mela 50,0 Prodotti contenenti mele allo stato solido, compresi la composta di mele e il passato di mele destinati al consumo 25,0 Succo di mela pronto al consumo e prodotti contenenti mele allo stato solido, compresa la composta e il passato di mele per lattanti e bambini nella prima infanzia etichettati e venduti come tali 10,0 * Reg. (CE) N. 1425/2003 dell’11 agosto 2003 Tabella 3c Limiti per l’ocratossina A in Europa* µg/kg Matrice alimentare Cereali e prodotti a base di cereali Cereali non lavorati 5,0 Tutti i prodotti derivati dai cereali 3,0 Frutti essiccati della vite 10,0 * Reg. (CE) N. 472/2002 dell’11 agosto 2002 miti massimi tollerabili; un ruolo di rilievo nell’armonizzazione dei limiti è attualmente rivestito dal CODEX Alimentarious. In Europa il processo di regolamentazione delle micotossine negli alimenti è iniziato nel 1998 con il Regolamento CE 1525/98; attualmente i limiti sono stabiliti dai Regolamenti CE 472/2002, 2174/2003 e 1425/2003. I limiti fissati da queste normative sono riassunti nelle tabelle 3a, 3b, e 3c. Attualmente sono in discussione a livello comunitario limiti per fumonisina, DON e zearalenone. In aggiunta ai limiti massimi ammissibili in vigore in Europa, la legislazione italiana prevede limiti massimi ammissibili per altre micotossine in talune matrici alimentari (Tabella 3d) (Circolare n. 10 del 9 giugno 1999). Principali micotossine Vengono di seguito riportate alcune informazioni sulle principali micotossine, rimandando alle letture consigliate per ulteriori approfondimenti. 114 M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera Tabella 3d Valori massimi ammissibili per le micotossine nella legislazione italiana* Matrice alimentare µg/kg B1 Alimenti per l’infanzia Spezie 10 µg/kg B1+B2+G1+G2 µg/kg M1 µg/kg ocratossina A 0,1 0,01 0,5 µg/kg patulina µg/kg zearalenone 20 20 Caffè crudo 8 Caffè tostato 4 Cacao** 2 Cioccolato** 0,5 Birra 0,2 Carne suina e prodotti derivati 1 Cereali e prodotti derivati Piante infusionali o loro parti 100 5 10 * Gazzetta Ufficiale N. 135 - Circolare 9 giugno 1999, N. 10 **(punto 2, lettere a,b,c,d del decreto legislativo n. 178/2003) ***(punto da 3 a 10 del decreto legislativo n. 178/2003) Aflatossine re superiori alla media e piovosità inferiori alla media. La presenza d’insetti spesso coincide con alti livelli di aflatossine specie nel caso della piralide del mais (Ostrinia nubilalis). Le aflatossine sono sostanze chimicamente riferibili alla difuranocumarina. Fra le 17 aflatossine finora isolate solo quattro sono considerate rilevanti, le aflatossine B1, B2, G1 e G2, sia per diffusione, che per tossicità. La serie G contiene un anello lattonico in D, mentre la serie B contiene un anello ciclopentenonico che è responsabile della maggiore tossicità della serie B. Sono Le aflatossine sono prodotte da specie di Aspergillus, principalmente A. flavus e A. parasiticus. Questi funghi sono ubiquitari, ma sono più abbondanti nei climi subtropicali e caldoumidi a latitudini da 26° a 35° a Nord e a Sud dell’equatore. I prodotti passibili di contaminazione in campo includono mais, arachidi, cotone, spezie, mandorle, pistacchi, nocciole e noci del Brasile. La produzione di aflatossine da parte dell’A. flavus risulta particolarmente abbondante in stagioni con temperatu- 115 Le micotossine nella filiera agroalimentare sostanze cristalline, solubili in solventi organici moderatamente polari, come cloroformio, metanolo, dimetilsolfossido, poco solubili in acqua (10-30 µg/ml) e insolubili nei solventi organici non polari. Le aflatossine allo stato puro sono stabili in assenza di luce e degradate dalle radiazioni UV, instabili in condizioni di pH <3 e >10 e in presenza di agenti ossidanti. Queste tossine sono dotate di fluorescenza nativa, che è utilizzata per l’analisi e per la cernita delle unità contaminate (ad esempio per fichi secchi e arachidi). Le formule chimiche delle aflatossine sono riportate in figura 3. L’aflatossina B1 è genotossica e cancerogena a carico del fegato, anche gli effetti tossici delle altre aflatossine sono riconducibili a epatotossicità, Figura 3 O O O B2 OCH3 O O L’ocratossina A è prodotta principalmente da funghi del genere Aspergillus (principalmente A. ochraceus) e Penicillium (principalmente P. verrucosum). Per la vite e i prodotti derivati, incluso il vino, la contaminazione da ocratossina A è riferibile predominantemente all’attacco dell’A. carbonarious. A 24 °C i valori di Aw (attività dell’acqua libera) ottimali per la produzione di tossina sono nell’intervallo 0,95–0,99 a seconda dell’organismo produttore. Per valori di Aw ottimali, gli intervalli di temperatura in O O O G1 Ocratossina A Struttura chimica delle aflatossine B1, B2, G1, G2, M1 O B1 iperplasia dei condotti biliari, emorragia del tratto gastrointestinale e dei reni. O O O O OCH3 O O O OCH3 G2 O O O O 116 O O O OCH3 M1 O O O O OCH3 M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera Figura 4 COOH Struttura chimica dell’ocratossina A O OH NH O O Cl cui si ha formazione di tossina sono 12-37 °C per l’A. ochraceus e 4-31 °C per il P. verrucosum. Nei cereali l’OTA è prodotta dai Penicillium più frequentemente che dagli Aspergillus, trattandosi in genere di una contaminazione da stoccaggio. Gli effetti tossici dell’OTA includono una marcata nefrotossicità con necrosi tubulare dei reni, danni al fegato, enteriti, teratogenicità e cancerogenicità a carico dei reni. Gli alimenti più suscettibili alla contaminazione da OTA includono cereali (frumento, mais, orzo e avena), caffè e cacao, formaggi e carne suina. La formula chimica dell’OTA è riportata in figura 4. Tricoteceni I tricoteceni sono un numeroso gruppo di sostanze prodotte da varie specie di Fusarium, Myrothecium, Stachybotrys, Trichoderma, Cephalo- 117 sporium, Trichothecium e Verticimonosporium. Sono attualmente noti circa 170 tricoteceni, tutti con un sistema ad anello tetraciclico sesquiterpenoide 12,13-epossitricotecen9-ene, in cui la tossicità è dovuta al gruppo epossidico. La contaminazione si ha principalmente in frumento, orzo, segale e mais. I tricoteceni del tipo A includono principalmente le tossine T-2, HT-2 e diacetossiscirpenolo (DAS), quelli del tipo B includono principalmente il DON, noto come vomitossina, il nivalenolo (NIV), il 3acetildeossinivalenolo (3-AcDON) e il 15-acetildeossinivalenolo (15-AcDON). La specie più tossica di questo gruppo è la tossina T-2, seguita dal DAS e dal NIV. Il DON è la tossina più diffusa e per questo più studiata, anche se negli studi di tossicità acuta ha dimostrato una bassa tossicità. Gli effetti tossici sull’uomo riferibili alle tossine di questo gruppo includono nausea, vomito, disordini ga- Le micotossine nella filiera agroalimentare Figura 5 Struttura chimica dei principali tricoteceni H H3C 1 10 2 11 9 H H O 8 6 12 5 7 O CH3 R4 R = OH o gruppi acil-ossi 4 H CH2 15 R2 14 R3 rum e F. sacchari). Lo zearalenone è stato frequentemente riscontrato insieme ai tricoteceni ed è considerato, dopo il DON, la micotossina più frequentemente presente nel mais. Informazioni dettagliate sulle proprietà chimico-fisiche dello zearalenone possono essere reperite dalle pubblicazioni dello IARC. La struttura chimica dello zearalenone è riportata in figura 6. strointestinali e mal di testa. Un’eccellente rassegna dei dati chimico-fisici relativi a questo gruppo di micotossine è stata pubblicata dall’WHO e dallo IARC. La struttura chimica dei principali tricoteceni è riportata in figura 5. Zearalenone Lo zearalenone (ZEA) è una tossina con effetti estrogenici a struttura non steroidea prodotta da funghi del genere Fusarium (F. graminearum, F. culmoFigura 6 R1 3 O 13 Fumonisine Le fumonisine sono prodotte da OH Struttura chimica dello zearalenone O CH3 H O HO O 118 M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera Figura 7 Struttura chimica delle fumonisine CH3 OR CH3 R' NHR'' H3C CH3 OR OH FB1 R=COCH2CH(CO2H)CH2CO2H; R'=OH; FB2 R=COCH2CH(CO2H)CH2CO2H; R'=R''=H OH R''=H Figura 8 O Struttura chimica della patulina O O OH funghi del genere Fusarium, soprattutto F. verticilloides e F. proliferatum. Il cereale più frequentemente contaminato da queste tossine è il mais, ma sono state ritrovate anche nel sorgo. Dal punto di vista della struttura le fumonisine sono correlate alle basi sfingoidi. Il consumo di mais contaminato da fumonisine è stato associato ad elevate incidenze di tumore esofageo. Studi di tossicità sugli animali evidenziano che il fegato è un organo bersaglio in tutte le specie studiate, il rene solo per alcune di queste. Nei cavalli il consumo di mais contaminato da fumonisina è collega- to alla leucoencefalomalacia. La struttura chimica delle fumonisine è riportata in figura 7. Patulina La patulina è una tossina prodotta da un numero elevato di funghi del genere Aspergillus e Penicillium. È stata ritrovata in frutta, ortaggi e cereali ammuffiti, ma la sua presenza è correlata soprattutto alla contaminazione da P. expansum sulle mele. Il grado di contaminazione è generalmente proporzionale a quello di am- 119 Le micotossine nella filiera agroalimentare muffimento, ma la tossina rimane confinata alle parti ammuffite. Essendo la patulina resistente ai processi industriali di lavorazione della frutta, i prodotti da questi derivanti rappresentano le principali fonti di assunzione. Da un punto di vista chimico la patulina è un lattone, solubile in acqua, etanolo ed acetone. Si tratta di un composto di citotossicità mediata da un aumento della permeabilità di membrana. Inibisce “in vitro” numerosi enzimi, inclusi la DNA polimerasi e l’RNA polimerasi. Gli studi di cancerogenicità e di mutagenicità finora condotti non sono sufficienti per fornire indicazioni circa questa tipologia di effetti. La struttura chimica della patulina è riportata in figura 8. bili alla presenza di queste tossine. Da un punto di vista conoscitivovalutativo, nonostante i progressi effettuati negli ultimi decenni, è necessario che vengano ancora acquisite molte informazioni per giungere ad un trattamento esaustivo della problematica. In particolare meriterebbero ulteriori approfondimenti argomenti quali la genomica delle specie tossigene, la valutazione del rischio per le tossine emergenti e vari aspetti della diagnostica, inclusa la valutazione statistica degli errori riferibili al campionamento, nonché lo sviluppo di metodi rapidi per il dosaggio delle micotossine. Riferimenti bibliografici FAO/WHO (1995), “Application of risk analysis to food standards issues. Report of the Joint FAO/WHO Expert Consultation”, Geneva, 13 - 17 March. Conclusioni Le micotossine rappresentano uno degli aspetti più attuali e rilevanti della contaminazione di alimenti e mangimi. L’argomento si presenta particolarmente complesso, in quanto le considerazioni relative all’impatto sulla salute dell’uomo e degli animali si interfacciano con quelle relative alle pesanti ricadute economiche e politiche riferi- IARC (2002), “Monograph on the evaluation of carcinogenic Risk to Human” Vol 82. http://www.iarc.uaf.edu/2002_conferences.html. IARC (1993), “Monograph on the evaluation of carcinogenic Risk to Human” Vol 56. http://www.iarc.uaf.edu/2002_conferences.html. WHO (1990), “Se1ected Mycotoxins: Ochratoxins, Trichothecenes, Ergot” (Environmental Health Criteria 105), Geneva. 120 M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera SCF (2000), Scientific Committee on Food, “Opinion of the Scientific Committee on Food on Fusarium Toxins. Part 2: Zearalenone (ZEA).” WHO (2002), WHO Technical Report Series 906, “Evaluation of certain mycotoxins in food”, Fiftysixth report of the joint FAO/WHO Expert Committee on Food Additives, Geneva. Task 3.2.8 (2002), “Assessment of Dietary Intake of Patulin by the Population of EU Member States”, http://europa.eu.int/comm/food/fs/scoop/3.2.8_en.pdf. SCF/CS/CNTM/MYC/22 Rev 3 Final, http://europa.eu.int/comm/food/fs/sc/scf/out65_en.pdf. SCF (2000), Scientific Committee on Food, “Opinion of the Scientific Committee on Food on Fusarium Toxins. Part 3: Fumonisin B1 (FB1)”, SCF/CS/CNTM/MYC/24 Final, http://europa.eu.int/comm/food/fs/sc/scf/out73 _en.pdf. Task 3.2.10 (2003), “Collection of Occurrence Data of Fusarium Toxins in Food and Assessment of Dietary Intake by the Population of EU Member States”, http://europa.eu.int/comm/food/fs/scoop/task3210.pdf. SCF (2000), Scientific Committee on Food, “Opinion of the Scientific Committee on Food on Fusarium Toxins. Part 4: Nivalenol”, SCF/CS/CNTM/MYC/26 Final http://europa.eu.int/comm/food/fs/sc/scf/out74_en.pdf. Circolare 9 giugno 1999, n.10. Direttive in materia di controllo ufficiale sui prodotti alimentari: valori massimi ammissibili di micotossine nelle derrate alimentari di origine nazionale, comunitaria e paesi terzi. Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, serie generale 11.6.1999. SCF (2001), Scientific Committee on Food, “Opinion of the Scientific Committee on Food on Fusarium Toxins. Part 5: T-2 Toxin and HT-2 Toxin”, SCF/CS/CNTM/MYC/25 Rev 6 Final, http://europa.eu.int/comm/food/fs/sc/scf/out88_en.pdf. Task 3.2.7 (2002), “Assessment of Dietary Intake of Ochratoxin A by the Population of EU Member States”, http://europa.eu.int/comm/food/fs/scoop/3.2.7_en.pdf. SCF (2002), Scientific Committee on Food, “Opinion of the Scientific Committee on Food on Fusarium Toxins. Part 6: Group evaluation of T-2 toxin, HT-2 toxin, nivalenol and deoxynivalenol”, SCF/CS/CNTM/MYC/27 Final, http://europa.eu.int/comm/food/fs/sc/scf/out12 3_en.pdf. FAO (1997), Worldwide regulations for mycotoxins - A compendium. FAO, Food and Nutrition Paper No 64 FAO, Rome, Italy. ISO (1999), ISO/IEC/EN 17025, Test and Calibration Lab Requirements Sanctioned Interpretation to ISO/TS 16949. http://www.fasor.com/iso25. Miraglia M., van Egmond H. P., Brera C., Gilbert J. (1998), Mycotoxins and Phycotoxins – Development in Chemistry, Toxicology and Food Safety, Alken, Inc. Fort Collins, Colorado. FAO (1990), “Training in Mycotoxins Analysis. Manual of food quality control”. WHO (1980), “Requirements for kits for immunoassay and other protein binding systems”. WHO/BS/80.1270/HRP/80.1, Geneva. CAST (Council for Agricoltural Science and Technology) (2003), “Mycotoxins: Risks in Plant, Animal and Human Systems”, Task Force Report, ISSN 0194; no. 139. AOAC International (2000), Official Methods of Analysis 17th ed. Vol. II. Cunniff P, Arlington, VA, AOAC Int., 49, 1-60. WHO (2002), “Evaluation of Certain Mycotoxins in Food”, Fifty-sixth report of the Joint FAO/WHO Expert Committee on Food Additives, World Health Organization, Geneva. SCF (1999), Scientific Committee on Food “Opinion on Fusarium Toxins. Part1: Deoxynivalenol (DON)” SCF/CS/CNTM/MYC/19 Final, http://europa.eu.int/comm/food/fs/sc/scf/out44_en.pdf. 121 122 S icurezza tecnologica in alimentazione I. De Noni Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari e Microbiologiche Facoltà di Agraria. Università degli Studi di Milano Fin dall’antichità l’uomo ha imparato a trattare gli alimenti di origine animale e vegetale per aumentarne la conservabilità e la palatabilità. Sino al XVIII secolo, tuttavia, questi obiettivi sono stati raggiunti sfruttando tecniche empiriche sostanzialmente invariate e solo con “l’appertizzazione”, agli inizi del 1800, si può parlare di tecnologia applicata alla trasformazione degli alimenti. L’appertizzazione prende il nome dal cuoco francese Nicholas Appert che vinse i 12.000 franchi del concorso istituito da Napoleone per lo sviluppo di un metodo per produrre alimenti di lunga conservabilità da destinare alle truppe. La soluzione proposta da Appert prevedeva il confezionamento di carne e verdure bollite in recipienti di vetro chiusi con tappi di sughero sigillati con pece e la successiva immersione degli stessi recipienti in acqua bollente. Il risultato fu la preparazione della prima conserva alimentare, anche se solo con gli studi di Pasteur, più di 50 anni dopo, si arrivò a porre le basi scientifiche e conoscitive sulle quali tale pratica si fondava, individuando nella contaminazione microbica la principale causa del decadimento della sicurezza d’uso e della qualità dell’alimento. Da allora, lo sviluppo della tecnologia alimentare è enormemente progredito e ha portato alla messa a punto, negli ultimi 50 anni, di processi sempre più perfezionati, in grado di garantire la sicurezza dei prodotti alimentari nel rispetto delle loro proprietà nutrizionali e sensoriali. Oggi l’industria alimentare trasforma più del 70% della produzione agricola nazionale ed è, quindi, un fattore chiave per la sicurezza alimentare che a sua volta rappresenta il più importante fattore di fidelizzazione del consumatore verso l’industria stessa. Peraltro, il tema della sicurezza rappresenta l’elemento portante della politica dell’Unione Europea nel settore degli alimenti. Il “Libro bianco sulla sicurezza alimentare” indica in questo senso le linee strategiche fondamentali, preve- 123 Sicurezza tecnologica in alimentazione dendo sia il rafforzamento e l’adeguamento della legislazione in vigore sia l’adozione di sistematiche misure di prevenzione e controllo a tutti i livelli della filiera. L’intenzione di condividere la responsabilità della sicurezza alimentare attraverso un approccio dal “campo alla tavola” è oggi una necessità. Non è, infatti, pensabile di demandare alle sole tecnologie alimentari questo importante ruolo che, in ogni caso, non potrebbe essere attuato in maniera efficace trasformando materie prime di scarsa qualità. Infatti, la qualità del prodotto alimentare finito viene in gran parte impostata a livello di produzione in campo o in azienda, attraverso una corretta gestione delle pratiche colturali e zootecniche. Da questo punto di vista l’introduzione di sistemi obbligatori di autocontrollo a livello di produzione primaria, peraltro cogenti per le aziende di trasformazione, può costituire un elemento determinante per la sicurezza del prodotto finito. La sicurezza alimentare è il presupposto della qualità dell’alimento e comporta l’assenza di qualsiasi pericolo per il consumatore che utilizzi l’alimento correttamente preparato, conservato e manipolato. La sicurezza d’uso non è tuttavia l’unico obiettivo dei processi di trasformazione la cui applicazione determina anche una maggiore conservabilità e, in taluni casi, un miglioramento delle proprietà funzionali e sensoriali del prodotto (Figura 1). Difficilmente questi obiettivi possono essere raggiunti nel rispetto integrale del valore biologico della materia prima. L’innovazione e lo sviluppo delle tecnologie alimentari sono stati quindi indirizzati al raggiungimento degli obiettivi citati attraverso la minimizzazione del danno all’alimento, che è prevalentemente di tipo meccanico e termico. Questo tipo di evoluzione è stato favorito anche dalla necessità di soddisfare la crescente esigenza del consumatore di avere prodotti sempre meno trattati e sempre più simili al prodotto non trattato, normalmente considerato come riferimento di genuinità e naturalità. In realtà, questa convinzione è vera solo in parte e il rischio di minime variazioni delle proprietà nutrizionali e sensoriali è spesso ampiamente compensato dalla sicurezza d’uso garantita solo da una corretta tecnologia di lavorazione; quest’ultima, in ogni caso, deve assicurare l’assenza di contaminazioni chimiche o microbiche. Durante la trasformazione, infatti, il prodotto può subire contaminazioni diverse in funzione del processo applicato ovvero del tipo di modificazioni (pH, umidità, superficie esposta ecc.) intervenute che possono favorire lo sviluppo e/o la selezione di partico- 124 I. De Noni Figura 1 Effetti dei principali processi tecnologici su alcune caratteristiche degli alimenti conservabilità modificazione delle proprietà sensoriali lari specie microbiche. Il processo di lavorazione deve quindi essere attuato attraverso rigorose pratiche mirate a garantire l’igienicità dell’intero processo. Per questo scopo l’industria di trasformazione ricorre oggi a sistemi di gestione della qualità che implicano l’adozione di buone pratiche di produzione (GMP, Good Ma- frittura irraggiamento fermentazione liofilizzazione essiccazione congelamento blanching sterilizzazione UHT sterilizzazione pastorizzazione max mantenimento delle proprietà nutrizionali nufacturing Practice) e a procedure di autocontrollo (HACCP, Hazard Analysis Critical Control Points) che garantiscono standard costanti di sicurezza igienica e di qualità. Senza approfondire l’argomento, è tuttavia utile ricordare i principi fissati dal metodo HACCP che impongono alle aziende alimentari: 125 Sicurezza tecnologica in alimentazione 1) l’analisi dei potenziali rischi per gli alimenti; produttore e di legislatore. I microrganismi sono presenti nella maggior parte degli alimenti e delle loro materie prime, tuttavia è evidente che solo una minima parte di essi sia a rischio. Al contrario (come più avanti discusso), certi alimenti devono la loro stabilità e sicurezza alla presenza di microrganismi o meglio all’attività metabolica di questi. Come ovvio, sono il livello e il tipo di contaminazione che determinano salubrità e conservabilità dell’alimento ma, anche il tipo di tecnologia applicabile per ottenere prodotti con tali caratteristiche. La distruzione totale o selettiva dei microrganismi e l’inibizione della loro crescita si può ottenere attraverso l’applicazione di processi di conservazione basati sull’utilizzo di: 1) trattamenti fisici principalmente attuati mediante apporto o sottrazione di calore o attraverso la riduzione del contenuto di acqua; 2) l’individuazione dei punti in cui possono verificarsi dei rischi per gli alimenti; 3) l’adozione di opportune procedure di controllo e di sorveglianza dei punti critici, cioè di quei passaggi della filiera di lavorazione che possono incidere sulla sicurezza dei prodotti finiti. Viene quindi introdotto un principio innovativo che prevede l’obbligo di un sistema di gestione e controllo sistematico e continuo dell’intero processo produttivo e delle problematiche di sicurezza alimentare legate alla sua attuazione. L’HACCP è quindi un sistema di controllo in tempo reale che permette di attuare immediati interventi correttivi. Da questo punto di vista, ciò rappresenta una vera e propria rivoluzione rispetto a quanto avveniva in precedenza, quando il controllo del prodotto finito era la sola garanzia dell’igienicità e sicurezza dell’intero processo. Come detto, la sicurezza d’uso è un prerequisito per qualsiasi alimento e l’obiettivo principale di tutte le tecnologie alimentari. La contaminazione microbica rappresenta sicuramente il primo e più sentito problema in termini di sicurezza alimentare a livello di consumatore, di 2) tecniche biologiche che sfruttano la crescita e l’attività metabolica di specifici microrganismi; 3) conservanti chimici ad attività battericida o batteriostatica (Figura 2). Le numerose tecnologie oggi disponibili non devono far pensare che il processo di risanamento possa in ogni caso compensare la scarsa igiene del prodotto da trattare. Come accennato, il più 126 I. De Noni efficace processo di risanamento è sempre quello effettuato all’origine della filiera. La tecnologia applicata deve ovviamente considerare la natura e il livello di rischio microbiologico legato sia al tipo di prodotto, e quindi alla sua suscettibilità verso particolari contaminazioni, sia alla fascia di consumatori cui è destinato. Attualmente le tecnologie di risanamento e conservazione sono prevalentemente orientate verso l’utilizzo dei metodi fisici, e in particolare di quelli più rispettosi delle proprietà sensoriali e nutrizionali di materie prime e prodotti finiti. In questa direzione, un ruolo importante viene svolto dall’accoppiamento di metodi fisici classici (refrigerazione e riscal- damento) con nuove tecnologie (filtrazione su membrana, alte pressioni) e con appropriate tecniche di condizionamento e packaging (sottovuoto, in atmosfere modificate o controllate). Non essendo possibile trattare le tecnologie di ogni singola filiera agroalimentare, verranno descritte per linee orizzontali le principali tecnologie di risanamento e discusse le problematiche relative alla sicurezza tecnologica dei prodotti ottenuti. Per lo scopo della trattazione verranno solo accennate le caratteristiche degli impianti utilizzati, mentre non verranno discusse le tecnologie di conservazione mediante approccio chimico, ossia attraverso l’aggiunta di additivi. Figura 2 Processi tecnologici in grado di garantire o migliorare la sicurezza d’uso degli alimenti chimici fisici riduzione a w salatura zuccheraggio riscaldamento raffreddamento biologici irraggiamento pastorizzazione sterilizzazione refrigerazione congelamento essiccazione liofilizzazione congelamento tecnologie di filtrazione a membrana fermentazioni microfiltrazione raggi γ e χ conservanti 127 alte pressioni atmosfere modificate Sicurezza tecnologica in alimentazione inattivare ma anche da altri numerosi fattori in grado di aumentare (presenza di grasso soprattutto) o diminuire (basso pH, preventivo congelamento, fase di crescita logaritmica dei microrganismi, alto valore di acqua libera o umidità) la termoresistenza dei batteri stessi. Indicativamente lieviti e muffe sono distrutti prima dei batteri. Tra questi, i Gram-negativi sono più sensibili all’innalzamento della temperatura mentre le forme sporulate di tutti i microrganismi sono molto più termoresistenti di quelle vegetative. La distruzione termica di qualsiasi microrganismo può essere descritta da una semplice relazione matematica, graficamente rappresentata in figura 3, dove N indica la carica microbica inizialmente presente nel prodotto e t il tempo di applicazione del trattamento. La relazione tra queste due variabili è definita, nel si- Trattamenti termici Tra le tecnologie di risanamento, i trattamenti termici (anche condotti a livello domestico) sono senza dubbio i più diffusi. Per una migliore comprensione degli effetti del trattamento termico sulla sicurezza del prodotto finito è opportuno descrivere brevemente i principi che regolano la distruzione termica dei microrganismi. L’evoluzione e l’efficacia dei trattamenti termici sono, infatti, strettamente legate allo studio della cinetica di distruzione termica dei microrganismi comparata allo studio della cinetica di degradazione dei principi nutritivi dell’alimento e alla possibile formazione di sostanze indesiderate. I parametri di processo, ossia i binomi tempo/temperatura utilizzati, dipendono dal tipo di microflora banale o patogena che si desidera Figura 3 Distruzione termica dei microrganismi log N N (ufc/kg) 107 7 6 106 5 105 4 104 3 103 microrganismo A microrganismo B D: tempo di riduzione decimale DA 10 128 20 DB 30 40 50 t (s) I. De Noni stema di assi cartesiani, da una retta detta “di sopravvivenza”. In termini pratici, questa relazione indica che, a una data temperatura letale, la velocità di distruzione di un microrganismo è proporzionale al numero di microrganismi viventi presenti nel prodotto all’istante considerato (la stessa legge può essere applicata anche a processi atermici come la filtrazione su membrana). La diversa termoresistenza dei microrganismi, a parità di temperatura di trattamento, è descritta dall’inclinazio- ne della retta ossia, in termini matematici, dal suo coefficiente angolare, definito come “tempo di riduzione decimale” o D. In pratica, D rappresenta il tempo necessario, a una determinata temperatura, per ridurre di un ciclo logaritmico (da 105 a 104ufc/kg ad esempio) il numero di microrganismi presenti nell’alimento. Maggiore è il suo valore, maggiore risulta la termoresistenza e quindi minore la velocità di distruzione del microrganismo considerato (Tabella 1). In genere, il valore di Tabella 1 Termoresistenza di alcuni microrganismi Mezzo T (°C) D* (min) z** (°C) tampone 60 3,2 7,5 Streptococcus pyogenes latte 66 0,2-2 5-7 Mycobacterium tubercolosis latte 66 0,16-0,33 4-6 Salmonella spp. latte 66 0,07-0.2 4,0-5,2 - 66 0,07-0,2 4,0-5,2 Staphylococcus aureus latte 66 0,2-1 5,0-5,2 Yersinia enterocolitica latte 62,8 0,01-0,3 - Escherichia coli latte 62.8 0,13 4,6 Pseudomonas fluorescens Brucella spp. Lactococcus lactis spp. lactis Listeria monocytogenes siero 62.8 0,32 7,3 tampone 71 0,01-0,04 4-6 6-10 latte 121 0,06-0,3 Bacillus cereus, forma vegetativa acqua 70 0,013-0,016 - Bacillus subtilis, spore acqua 121 0,3-0,4 6-10 Bacillus subtilis, forma vegetativa Bacillus cereus, spore acqua 55 1-5,6 - Bacillus stearothermophilus, spore latte 121 4-6 8-12 Clostridium botulinum, spore latte 121 0,05-0,25 6-10 Aspergillus spp. tampone 55 2 4 Saccharomyces cerevisiae tampone 60 1 5 *D: tempo di riduzione decimale alla temperatura indicata **z : incremento di temperatura necessario per ridurre a 1/10 il valore di D 129 Sicurezza tecnologica in alimentazione raddoppierebbe (2 x DA) e, contemporaneamente, aumenterebbe il danno termico a carico dei principali macrocomponenti del prodotto. È quindi evidente l’importanza della qualità microbiologica del prodotto da trattare e di tutte le misure a monte della filiera in grado di operare un risanamento preventivo. La seconda considerazione deriva dall’andamento esponenziale che caratterizza la distruzione termica dei microrganismi; ne risulta che nessun trattamento termico, per quanto intenso, può azzerare una data popolazione microbica che, invece, si riduce del 90% (106 , 105 .….10-6, 10-7, etc.) ogni D secondi, senza tuttavia diventare mai pari a zero. Questo concetto deve essere interpretato in termini statistici: ad esempio, la riduzione della carica microbica a valori di 10-7 ufc/kg deve essere interpretata come la possibilità di trovare un microrganismo o spora ogni 10.000 tonnellate (10-7 kg) di prodotto. È evidente che l’opportunità di abbassare tale probabilità dovrà essere valutata anche in rapporto alla necessità di ridurre quanto più possibile la degradazione delle proprietà sensoriali e nutrizionali dell’alimento. In pratica, per ogni processo di risanamento termico vengono fissati parametri minimi di riferimento di inattivazione microbica per la verifica dell’efficacia del D viene dato a 121 °C, temperatura cui viene comunemente condotta la sterilizzazione in autoclave con 1 atm di sovrapressione e può variare da secondi a minuti passando dalle forme vegetative a quelle sporulate. La semplicità della relazione così come esposta non rende conto dei numerosi fattori, oltre al tipo di microrganismo, che possono influenzarla (pH, umidità ecc.) e che, peraltro, vengono controllati e sfruttati nei vari processi della tecnologia alimentare. Un simile approccio, tuttavia, ha un indubbio significato applicativo nella valutazione della sicurezza tecnologia degli alimenti, permettendo di fare qualche importante considerazione. La prima è che l’abbassamento della carica microbica è di tipo esponenziale in funzione dell’andamento lineare del tempo. A ciò consegue che a parità di tempo di trattamento la carica residua sarà tanto più elevata quanto più elevata era la carica iniziale. Ovvero, la stessa carica microbica finale viene raggiunta con tempi di trattamento linearmente più lunghi all’aumentare della carica iniziale. Nella figura 3 e con riferimento al microrganismo A, la riduzione della carica da un valore iniziale di 105 a un valore finale di 104 comporta un tempo di trattamento pari a DA secondi. Se la carica iniziale fosse 106, il tempo di trattamento 130 I. De Noni trattamento stesso. Il trattamento di sterilizzazione, ad esempio, deve garantire almeno 12 riduzioni decimali del numero di spore di Clostridium botulinum. Ad esempio, con una carica iniziale pari a 105 per kg di prodotto, la sterilizzazione deve garantire una carica finale non superiore a 10-7 per kg di prodotto. Come accennato, ogni microrganismo ha una propria resistenza termica, tuttavia un aumento della temperatura di trattamento ha come effetto l’accelerazione della sua distruzione. Questo fenomeno viene tecnologicamente descritto dal valore di z che rappresenta l’incremento di temperatura necessario per ridurre a un decimo il valore di D, ossia per aumentare di 10 volte la velocità di distruzione del microrganismo (Tabella 1). Per temperature comprese tra 100 e 140 °C, esso è in genere pari a 5 °C per le forme vegetative e 10 °C per le spore termoresistenti. Conoscendo i valori di D e z è quindi possibile ottenere lo stesso effetto battericida utilizzando diversi e infiniti binomi tempo/temperatura. L’aumento di temperatura ha come effetto anche l’accelerazione di altre reazione di degradazione spesso indesiderate, per esempio quelle a carico dei nutrienti. La relazione che lega l’incremento della velocità di una reazione all’aumentare della temperatura è rappresentata dall’energia di attivazione (Ea) della reazione stessa e dal valore del suo “coefficiente di temperatura” (Q10) (Tabella 2). La distruzione dei microrganismi presenta i più elevati valori di Q10 tra le reazioni che possono avvenire in un prodotto alimentare. Ne consegue che, se lo scopo del trattamento è l’inattivazione totale o parziale dei microrganismi Tabella 2 Effetto della temperatura sulla velocità di alcune reazioni Molte reazioni chimiche Molte reazioni enzimatiche Energia di attivazione (kJ/mole) Q10* (a 100 °C) 80-125 2-3 40-60 1,4-1,7 Reazione di Maillard 100-180 2.4 Denaturazione proteine 200-600 6-175 450 50 Distruzione spore 400-600 8-10 Distruzione batteri 250-330 100 Inattivazione enzimi *Q10: incremento della velocità di reazione per un aumento della temperatura pari a 10°C. 131 Sicurezza tecnologica in alimentazione Figura 4 Condizioni tempo/temperatura adottate nei principali trattamenti di risanamento termico degli alimenti t (s) 6000 4000 sterilizzazione in contenitore chiuso 2000 pastorizzazione in contenitore chiuso 1000 600 400 200 100 sterilizzazione UHT in flusso continuo 60 40 20 pastorizzazione in flusso continuo 10 6 4 2 T (°C) 1 60 80 100 120 140 160 Pastorizzazione minimizzando gli effetti degradativi della qualità del prodotto, le condizioni di processo ottimali corrispondono a temperature sempre più alte applicate per tempi sempre più brevi. Su questi principi fondamentali sono basati i moderni processi di pastorizzazione e sterilizzazione applicati a prodotti allo stato sfuso o confezionati (conserve). I due processi termici si diversificano comunque per obiettivi, condizioni di processo (Figura 4), caratteristiche e durabilità dei prodotti ottenuti. La pastorizzazione è un trattamento termico relativamente blando condotto a temperature inferiori a 100 °C con un riscaldamento minimo del prodotto ad almeno 72 °C per 15 secondi. Tale trattamento provoca la distruzione dei microrganismi patogeni potenzialmente presenti nel prodotto e la riduzione (circa 2-4 cicli logaritmici) della microflora banale in modo da rendere l’alimento conservabile a tem- 132 I. De Noni Sterilizzazione perature di refrigerazione o mediante altri mezzi di condizionamento. Al trattamento resistono le spore e molti enzimi (lipasi e proteasi), mentre il valore nutrizionale e le caratteristiche sensoriali dell’alimento rimangono in gran parte inalterati. La pastorizzazione di prodotti sfusi avviene di norma in flusso continuo utilizzando scambiatori a piastre ossia un sistema di piastre metalliche riunite tra loro e tra le quali scorre in strato sottile (1-2 mm) il fluido di riscaldamento (acqua) e, in controcorrente, il prodotto fluido da riscaldare. Al termine del trattamento il prodotto viene rapidamente raffreddato per impedire lo sviluppo della microflora residua e infine confezionato. Alcuni prodotti vengono pastorizzati anche già confezionati, in genere per passaggio in tunnel dove la confezione viene immersa in acqua calda o aspersa sempre con acqua o vapore. La pastorizzazione di prodotti con pH inferiore a 4,5 (vino, succhi di frutta e birra ad esempio) ha come principale obiettivo la distruzione di microrganismi ed enzimi capaci di degradare il prodotto finito e viene condotta in condizioni tempo/temperatura che considerano anche l’effetto sinergico esercitato dall’acidità su crescita e resistenza dei microrganismi, come più avanti descritto. Il processo di sterilizzazione si propone di distruggere tutti i batteri in forma vegetativa e sporulata presenti nel prodotto che, una volta trattato, risulta stabile anche a temperatura ambiente. Come spiegato in precedenza, non è tuttavia possibile ottenere una sterilità assoluta ma solo una sterilità cosiddetta commerciale, ovvero quella ottenibile con un trattamento termico in grado di garantire almeno 12 riduzioni decimali del numero di spore di Clostridium botulinum. Considerando che il valore di D, a 121 °C, per Clostridium botulinum è pari a 15 secondi, il trattamento a questa temperatura dovrà essere effettuato per 180 secondi (12 riduzioni decimali, ognuna di 15 secondi). Se si considera il valore di z dello stesso fenomeno, pari a 10 (Tabella 1), il tempo di trattamento sarà invece di 18 secondi a 131 °C (180 s/10) ovvero di 1,8 secondi a 141 °C e così via. Come accennato per la pastorizzazione, l’acidità del prodotto è un fattore determinante per la scelta del binomio tempo/temperatura di trattamento. Al riguardo, prodotti con un valore di pH inferiore o superiore a 4,5 subiscono, a parità di effetto sanitizzante finale, trattamenti termici diversi e con apparecchia- 133 Sicurezza tecnologica in alimentazione ture dedicate. Questo valore di pH rappresenta il fattore maggiormente limitante per la crescita e la germinazione delle spore di Clostridium botulinum e, conseguentemente, per la produzione di tossina. Per i prodotti acidi, in genere di origine vegetale, sono quindi sufficienti trattamenti a temperature inferiori a 100 °C, applicate al prodotto già confezionato in bottiglia, in contenitori di banda stagnata o altro idoneo materiale. La sterilizzazione dei prodotti con pH>4,5 avviene invece a temperature superiori a 100 °C con apparecchiature più complesse, la cui evoluzione ed efficacia sono, come detto, strettamente legate allo studio cinetico degli effetti desiderati o meno che avvengono nell’alimento trattato a elevata temperatura. I sistemi utilizzati sono diversi per i prodotti confezionati o per quelli sfusi. Per i primi si passa dalla semplice autoclave ad apparecchiature più complesse nelle quali lo scambio termico viene favorito dalla continua agitazione del contenitore. Per i prodotti sfusi, il riscaldamento avviene a 135-150 °C per qualche secondo in scambiatori a piastre o per contatto diretto del vapore con il prodotto da riscaldare (il vapore condensato viene eliminato per successiva evaporazione in una camera di espansione sottovuoto, ad una temperatura di circa 70 °C). Sono questi, ad esempio, i due processi utilizzati per la preparazione del latte sterilizzato UHT. Nel caso dei prodotti sfusi alla sterilizzazione segue dapprima il rapido raffreddamento mirato a ridurre il danno termico del prodotto e, infine, il confezionamento asettico. I microrganismi possono ridurre la sicurezza d’uso di un alimento anche attraverso la produzione di particolari tossine e senza che vi sia un’evidente alterazione dell’alimento stesso. Il pericolo di tossinfezioni è tuttavia condizionato da numerosi fattori in grado di favorire lo sviluppo dei batteri responsabili della produzione della tossina ovvero di determinare i livelli di tossina presente. Molto importanti sono le condizioni tempo/temperatura di conservazione e le caratteristiche dell’alimento (umidità e pH in particolare) che possono favorire la produzione di tossina da parte del microrganismo patogeno. Con rare eccezioni, un “moderato” riscaldamento è in grado di inattivare la maggior parte delle tossine. Quella botulinica, ad esempio, viene neutralizzata con trattamenti di 30 minuti a 80 °C o di qualche minuto a 121 °C. Al contrario, l’enterotossina B di Staphylococcus aureus è degradata solo a 100 °C per 30-40 minuti, quando temperature di soli 5060 °C sono già letali per le cellule. Sebbene di minor frequenza rispetto 134 I. De Noni alle contaminazioni batteriche e fungine, le parassitosi possono rappresentare un ulteriore fattore in grado di ridurre la sicurezza degli alimenti. I più comuni parassiti della carne vengono distrutti dal calore e, quindi, la miglior profilassi consiste nella cottura del prodotto. Trichinella spiralis, ad esempio, è distrutta dalla cottura uniforme della carne di maiale a temperature superiori a 58 °C. Allo stesso risultato si giunge congelando la carne a – 24 °C per 20 giorni, anche se il congelamento non risulta ugualmente efficace su altri parassiti. L’effetto positivo dei trattamenti termici sulla sicurezza d’uso dell’alimento è legato anche alla distruzione dei virus eventualmente presenti. Questo argomento, al pari di quelli sopra accennati (tossinfezioni ecc.), è sviluppato in altri capitoli del presente volume ai quali si rimanda. secondo, salve poche eccezioni, sono sottoposti tutti gli ortaggi e alcuni tipi di frutta prima dell’inscatolamento. Il blanching consiste in un breve trattamento per immersione in acqua bollente, o per iniezione di vapore, con il quale si intende eliminare l’aria e inattivare enzimi responsabili della degradazione del colore, del sapore e della consistenza del prodotto finale. Con lo stesso trattamento, tuttavia, si ottiene anche una parziale sanitizzazione superficiale del prodotto. Refrigerazione e congelamento L’utilizzo sistematico del freddo nella conservazione degli alimenti è legato all’inizio della produzione industriale di ghiaccio nel 1800, fino alla comparsa dei primi frigoriferi domestici agli inizi del secolo scorso e all’immissione sul mercato negli anni ’30 dei primi alimenti surgelati. La refrigerazione è oggi una delle tecnologie più utilizzate sia per la conservazione delle materie prime che per la conservazione di prodotti finiti. Allo stato refrigerato, ossia a temperature comprese tra 0 e 5 °C, il metabolismo delle cellule dei tessuti vegetali o animali risulta rallentato così come l’evolversi di reazioni chimiche e di alcu- Altri trattamenti termici Infine, tra i trattamenti termici è opportuno ricordare anche quelli effettuati a livello domestico (in acqua, a vapore, al forno, microonde ecc.) e il “blanching”. I primi non sempre garantiscono il raggiungimento di temperature superiori ai 100 °C in tutte le parti del prodotto. Al 135 Sicurezza tecnologica in alimentazione ni fenomeni fisici. Come precedentemente descritto nel capitolo relativo ai trattamenti termici, è il valore di Q10 del fenomeno che determina l’entità di questo rallentamento. Il risultato dell’abbassamento della temperatura è il miglioramento della conservabilità degli alimenti ma non della loro qualità igienica. Infatti, una temperatura inferiore a 10 °C impeTabella 3 Temperature minime di crescita di alcuni batteri patogeni potenzialmente presenti negli alimenti (Fonte: Manuale tecnico Flair Flow Europe FFE 378A/00: “Gestione della catena del freddo per la qualità e la sicurezza degli alimenti”, 2001) Classe Mesofili Psicrotrofi disce la crescita della maggior parte della microflora banale e patogena (l’unica eccezione è rappresentata da Listeria monocytogenes che si sviluppa bene anche a 7 °C) (Tabella 3) ma non è in grado di distruggerla né di inattivare eventuali tossine presenti (Figura 5). Da questo punto di vista, la sicurezza d’uso dei prodotti refrigerati deve essere Specie batterica Temperatura minima di crescita (°C) Salmonella +5,1/+8,7 Staphylococcus aureus +9,5/+10,4 (per la crescita) Escherichia coli +14,3 (per la produzione della tossina) Listeria monocytogenes +7,1 Yersinia enterocolitica -0,1 /+1,2 Figura 5 Influenza della temperatura sulla crescita microbica Microrganismi patogeni Microrganismi psicrotrofi* 37 rapida moltiplicazione 10 rapida moltiplicazione lenta moltiplicazione 5 nessuna moltiplicazione 0 -10 nessuna moltiplicazione, lenta distribuzione raramente completa -18 * microrganismi in grado di svilupparsi a temperature di refrigerazione 136 I. De Noni in primo luogo assicurata dalla corretta gestione del processo (velocità ed efficienza del raffreddamento, adeguata circolazione d’aria, mantenimento rigoroso della temperatura di refrigerazione) ma anche delle fasi di filiera che precedono e seguono la refrigerazione stessa, con particolare riferimento al mantenimento di una rigorosa catena del freddo dalla produzione al consumatore finale. Non bisogna dimenticare che sbalzi di temperatura anche di 1 o 2 °C durante la conservazione possono dimezzare i tempi di duplicazione di alcuni batteri degradativi o patogeni (L. monocytogenes e Y. enterocolitica ad esempio) che ben si adattano alle basse temperature. È opportuno invece sottolineare come l’abbinamento con altri interventi tecnologici può notevolmente implementare la stabilità e la sicurezza degli alimenti refrigerati. Ci riferiamo al preventivo trattamento termico del prodotto da refrigerare (blanching e pastorizzazione) o al confezionamento (sottovuoto, in atmosfera modificata) del prodotto refrigerato. Al contrario della refrigerazione, il congelamento, ossia il raffreddamento a temperature ≤18 °C, arresta completamente la moltiplicazione e il metabolismo cellulare (Figura 5). Sebbene le temperature utilizzate siano diverse, è la quantità di acqua allo stato liquido all’interno dell’alimento a costituire la differenza fondamentale con la refrigerazione. Infatti, il congelamento associa l’effetto favorevole delle basse temperature con il passaggio di stato dell’acqua in ghiaccio. Tale trasformazione aumenta la concentrazione dei soluti abbassando il valore di acqua libera (aw) e, di conseguenza, la disponibilità della stessa acqua come solvente e reattivo per il metabolismo cellulare. In pratica, nessun microrganismo è in grado di svilupparsi a temperature inferiori a -10 °C e la formazione di cristalli di ghiaccio all’interno della cellula e negli spazi intercellulari determina una mortalità variabile in funzione del tipo di batteri (i Gram-positivi sono in genere più resistenti). Tale mortalità, tuttavia, non è mai totale ed è fortemente dipendente dalla durata della conservazione a temperature di congelazione e dalla dimensione dei cristalli di ghiaccio, fenomeno a sua volta influenzato dalla velocità del congelamento. I prodotti congelati presentano quindi una durabilità superiore a quelli refrigerati, ma anche per essi la qualità igienica è un presupposto e non il risultato del congelamento che, quindi, non rappresenta un metodo di sanitizzazione microbiologica dell’alimento né di inattiva- 137 Sicurezza tecnologica in alimentazione zione di spore o tossine eventualmente presenti. Per queste ragioni non ci soffermeremo nella descrizione delle tecnologie attualmente utilizzate per la refrigerazione o il congelamento dei prodotti alimentari. La surgelazione rappresenta una tecnica di congelazione ultrarapida (ad esempio con azoto liquido) che si effettua portando in pochi minuti la temperatura del prodotto a -30/-40° C. In queste condizioni all’interno del prodotto si formano microcristalli di ghiaccio che non ledono le pareti cellulari dei tessuti vegetali e animali, aspetto di grande importanza anche per la qualità igienica dell’alimento una volta scongelato. Il mantenimento dell’integrità della parete cellulare riduce infatti la quantità di liquidi separati dal prodotto durante la Figura 6 Valori di acqua libera (aw) in grado di inibire la crescita di alcuni microrganismi e caratteristici di alcuni alimenti fase di scongelamento. Quest’ultima avviene, per diverse ragioni, in tempi lunghi che abbinati alla presenza di essudati ricchi di sostanze nutritive, come nel caso dei prodotti carnei, possono conseguentemente favorire lo sviluppo dei microrganismi sopravvissuti al congelamento. Riduzione dell’acqua libera La stabilizzazione microbiologica degli alimenti può essere ottenuta anche attraverso la riduzione del loro contenuto di acqua o meglio mediante la riduzione del valore di acqua libera (aw). L’acqua libera rappresenta la porzione di acqua effettivamente disponibile per lo sviluppo e l’attività dei microrganismi e Pseudomonas, Y. enterocolitica, Bacillus cereus, Cl. perfringes L. monocytogenes, E. coli, Cl. botulinum, Salmonella spp. 1.0 prodotti freschi 0,9 maggior parte dei batteri lieviti alimenti contenenti il 55% di saccarosio o il 12% di NaCI alimenti contenenti il 65% di saccarosio o il 15% di NaCI, salumi, formaggi stagionati farina, riso Staphylococcus aureus, muffe 0.8 marmellata batteri alofili muffe xerofile 0.7 cioccolato batteri osmofili 0.4 massima resistenza termica delle spore 0.2 138 spezie, latte in polvere, pasta secca, biscotti, crakers I. De Noni per l’evolversi dei fenomeni di deterioramento chimico ed enzimatico. Più alto risulterà tale valore (in una scala da 0 a 1) minore saranno la conservabilità e la sicurezza del prodotto. Tutti gli alimenti freschi (frutta e verdura, carne e pesce) mostrano valori di aw tra 0,98 e 0,99 che consentono la crescita della maggior parte dei microrganismi (Figura 6). Al contrario, valori di acqua libera inferiori a 0,90 sono in grado di inibire la crescita e la produzione di tossine della maggior parte dei batteri. L’unico patogeno in grado di svilupparsi a valori più bassi è Staphylococcus aureus. Le muffe, pur potendosi sviluppare a valori di aw ben più bassi, non sono più in grado di produrre tossine a livelli inferiori a 0,85. L’abbassamento del valore di aw riduce quindi progressivamente lo sviluppo microbico fino all’arresto totale della crescita in valori di tale indice inferiori a 0,50-0,60. Anche se l’azione battericida è piuttosto modesta, la riduzione dell’acqua libera rappresenta comunque un efficiente sistema per rendere l’alimento più sicuro e conservabile. Come ovvio, la stessa riduzione non ha alcun effetto sulle tossine eventualmente presenti se non abbinata a un trattamento termico. Tecnologicamente il valore di aw può essere abbassato per disidratazione (mediante essiccazione o liofilizzazione), per congelamento, per salatura o zuccheraggio. In questi ultimi due trattamenti, l’aggiunta di un soluto (comunemente cloruro di sodio o saccarosio) determina un aumento della pressione osmotica e l’abbassamento del valore di aw. La riduzione del valore di aw al diminuire dell’umidità è caratteristica per ogni alimento: ciò comporta che a parità di umidità, due prodotti alimentari possono presentare una conservabilità significativamente diversa, ovvero, che per ottenere la stessa conservabilità i due prodotti dovranno subire, ad esempio una disidratazione più o meno spinta. Molti prodotti alimentari, come formaggi a lunga stagionatura, alcuni insaccati, prugne, fichi secchi e prodotti da forno, risultano facilmente conservabili soprattutto per i livelli di aw che li caratterizzano e che li rendono microbiologicamente stabili. Sullo sfruttamento dello stesso principio si basano le tecniche di preparazione dei cosiddetti “alimenti a umidità intermedia”, soprattutto prodotti dietetici e dolciari, nei quali la riduzione del livello di aw (circa 0,7) viene ottenuto combinando la disidratazione con l’aggiunta di umettanti. Poiché valori superiori a 0,60 non sono garanzia di assoluta conservabilità, vengono 139 Sicurezza tecnologica in alimentazione adottati altri accorgimenti tecnologici quali la riduzione del pH, la refrigerazione o la conservazione sottovuoto. Come descritto, la disidratazione e l’abbassamento dell’attività dell’acqua non sono metodi di risanamento dell’alimento. La sopravvivenza dei microrganismi in condizioni di aw inferiori a quelle minime di crescita è molto variabile e fortemente dipendente dalle condizioni ambientali come pH, composizione del mezzo e altro ancora. È necessario invece considerare che la termoresistenza dei batteri aumenta in ambienti progressivamente più secchi (per le spore ad esempio è massima con a w di 0,2). Questa è la ragione per cui l’eventuale trattamento termico dovrà precedere la disidratazione del prodotto. Peraltro, durante i processi di disidratazione a cui si è accennato, il prodotto non raggiunge temperature superiori ai 100 °C durante l’essiccazione con aria calda (sebbene la temperatura di questa possa arrivare anche a 180 °C) ovvero rimane addirittura congelato durante la liofilizzazione. Questi processi di disidratazione determinano quindi un ridotto o nullo risanamento termico del prodotto. Non solo, con l’eliminazione dell’acqua si ha una progressiva “concentrazione” di buona parte dei microrganismi della materia prima nel prodotto finito; una scor- retta conservazione può promuovere l’assorbimento di umidità e, di conseguenza, lo sviluppo dei batteri e la germinazione delle spore sopravvissuti. Risulta evidente la strettissima relazione tra la qualità igienica del prodotto da disidratare e quella del prodotto essiccato. Processi biologici La sicurezza d’uso non necessariamente deve essere raggiunta mediante la distruzione della microflora presente nell’alimento o nella materia prima. È questo il punto focale del dibattito attorno all’impatto che le attuali norme igieniche avrebbero sulle caratteristiche di molti “prodotti tradizionali”. Senza entrare in questa disputa, è tuttavia opportuno ricordare che alcune tecnologie di trasformazione di materie prime potenzialmente non sicure da un punto di vista igienico consentono di realizzare prodotti finiti di assoluta affidabilità sotto questo profilo. A titolo di esempio basti considerare molte tecnologie di caseificazione a partire da latte crudo per produrre formaggi a lunga stagionatura. Per questi prodotti non esiste relazione tra la qualità igienica del latte e quella del formaggio finito la cui sicurezza è legata a una corretta lavorazio- 140 I. De Noni ne del latte e a un’adeguata maturazione (>60 giorni) del formaggio. Al raggiungimento della sicurezza concorrono i parametri tempo/temperatura adottati in caseificazione e durante le prime fasi di conservazione della cagliata e, soprattutto, l’attività fermentativa dei batteri lattici dell’innesto a carico del lattosio con produzione di acido lattico. La corretta acidificazione del latte in caldaia e il conseguente rapido abbassamento del pH (5,1-5,2) nella cagliata (e formaggio) impediscono lo sviluppo della microflora patogena eventualmente presente nel latte crudo di partenza, che viene completamente inattivata in alcuni casi già in questa fase della lavorazione o comunque durante la stagionatura. Quest’ultima deve ovviamente avvenire in condizioni ambientali e di attrezzature idonee. Anche l’affioramento del latte crudo, ossia la sosta per 8-16 ore a 8-15 °C, necessario per la preparazione di alcuni formaggi, consente, se opportunamente condotto, di ridurre il numero di batteri e spore mediante la loro asportazione fisica per inglobamento nella crema che si separa dal latte. Più in generale, gli alimenti fermentati rappresentano uno degli esempi più antichi di sfruttamento empirico dell’attività di microrganismi (batteri e lieviti) per la trasformazione e la con- servazione di alcuni prodotti agricoli. Solo con gli studi di Pasteur l’utilizzo dell’attività metabolica microbica avvenne su precise basi conoscitive. Oggi lo sviluppo delle tecniche microbiologiche ha portato alla selezione e alla produzione di starter con caratteristiche (metaboliche e fisiologiche) specifiche per le diverse applicazioni cui sono destinati (prodotti da forno, bevande fermentate, prodotti lattiero-caseari). Al di là di questi aspetti, la presenza e l’attività di questi microrganismi consente, tra gli altri obiettivi, di migliorare o addirittura garantire la sicurezza igienica dell’alimento attraverso la produzione di metaboliti (acido acetico, acido lattico, etanolo) e la competizione per il substrato. Tali fenomeni sono in grado di inibire la crescita di batteri patogeni, diminuendo nello stesso tempo la necessità di adottare altri processi di conservazione, come il trattamento termico o la refrigerazione. Nuove tecnologie di risanamento Negli ultimi anni l’innovazione tecnologica ha portato alla sperimentazione e allo sviluppo di metodi di risanamento atermici in abbinamento o alternativi al 141 Sicurezza tecnologica in alimentazione trattamento termico. Lo sviluppo di questi metodi è strettamente collegato alla necessità di conciliare al meglio il prerequisito di sicurezza dell’alimento con il maggior rispetto possibile delle sue proprietà nutrizionali e sensoriali. Tra questi metodi, alcuni ancora in fase sperimentale, si possono annoverare l’impiego delle tecniche di filtrazione su membrana, delle alte pressioni idrostatiche, degli ultrasuoni, dei campi elettrici ad alta intensità e delle tecniche di irraggiamento. Spesso, tuttavia, la completa sicurezza del prodotto finale sottoposto a tali tecnologie può essere garantita solo con più ripetizioni del processo o con l’abbinamento a un trattamento termico, per quanto blando, o all’aggiunta di conservanti. Un cenno meritano i trattamenti ad alta pressione, le tecniche di filtrazione tangenziale su membrana e l’irraggiamento. Nei trattamenti ad alta pressione idrostatica l’alimento (generalmente un prodotto liquido) viene confezionato e posto in camere d’acciaio riempite di acqua e chiuse ermeticamente. La pressione esercitata sull’acqua si trasferisce uniformemente sul prodotto consentendo di ridurne la carica microbica senza un importante aumento della temperatura (circa 2-3 °C/100 bar). La pressione applicata comporta un signifi- cativo effetto battericida, soprattutto verso i batteri Gram-positivi e ancora di più verso lieviti e muffe, mentre non determina distruzione di spore che, al contrario, germinano sotto lo stimolo della pressione applicata. Per tale ragione è necessario un trattamento termico successivo o un ulteriore trattamento ad alta pressione. L’effetto battericida è proporzionale alla pressione utilizzata e al tempo di applicazione della stessa. La completa inattivazione dei batteri patogeni (Escherichia coli e Staphylococcus aureus ad esempio) richiede comunque ripetuti trattamenti a elevate pressioni (>400 bar). In funzione dei parametri applicati, l’alta pressione determina anche totale o parziale inattivazione degli enzimi, con evidenti vantaggi per la stabilità del prodotto finito. Le tecnologie di filtrazione tangenziale su membrana (ultra-, micro- e nanofiltrazione) si sono sviluppate soprattutto nel settore lattiero-caseario dove oggi sono applicate con successo, ad esempio con la microfiltrazione per la depurazione batterica del latte. Questa tecnologia prevede la filtrazione del latte crudo scremato su membrane con porosità di 1,4-2 µm e la successiva rimiscelazione con la crema pastorizzata prima del confezionamento. La ritenzione batterica della membrana è superiore al 142 I. De Noni 99.9% ed è totale per cellule e spore, garantendo nel prodotto una riduzione della carica microbica pari a 2-4 riduzioni decimali e una conservabilità superiore a 10 giorni a 4 °C. Al pari dei trattamenti termici, anche per il processo di microfiltrazione la riduzione decimale della popolazione batterica è indipendente dalla carica iniziale. Tuttavia, rispetto alla sanitizzazione termica, la microfiltrazione non è basata sulla diversa termoresistenza dei batteri e di conseguenza non risulta selettiva per la microflora patogena. Permette invece di rimuovere con i batteri e le cellule somatiche il relativo corredo enzimatico che può significativamente modificare le proprietà sensoriali del latte, o di altri alimenti, riducendone la durabilità. Inoltre, operando più microfiltrazioni in successione è possibile aumentare l’efficacia del processo senza indurre rilevanti modifiche alle caratteristiche nutrizionali, sensoriali e tecnologiche del latte. L’irraggiamento prevede l’uso di radiazioni ad alta energia (raggi γ e x) per la distruzione dei microrganismi. L’applicazione di tale tecnologia ha sollevato numerosi problemi di ordine tecnologico e, soprattutto, di accettabilità da parte del consumatore. In queste tecnologie l’energia della radiazione è tale da danneggiare il DNA e quindi impedire la crescita o la riproduzione dei microrganismi. I batteri Gram-negativi sono in genere i più sensibili e, tra questi, potenziali patogeni come Yersinia enterocolitica, Salmonella spp. e Campylobacter spp. Un importante svantaggio dell’irraggiamento è rappresentato dal fatto che le dosi necessarie per il risanamento microbiologico dell’alimento (0,20-0,70 kGray per una riduzione decimale a 4 °C) sono superiori a quelle normalmente utilizzate per la distruzione di insetti infestanti o per impedire il germogliamento, applicazione quest’ultima per cui viene comunemente utilizzato tale processo. Le stesse dosi non sono comunque sufficienti per distruggere tutte le spore presenti: occorrono infatti da 2 a 10 kGray per inattivare le spore di Cl. botulinum e Bacillus cereus. Tali livelli di irraggiamento possono quindi comportare una riduzione della qualità legata, ad esempio, all’irrancidimento del grasso, a fenomeni di imbrunimento e all’intenerimento dei tessuti vegetali. Questi fenomeni sono indipendenti dal tipo di radiazione utilizzata e la loro intensità è determinata unicamente dal livello energetico della radiazione stessa. Nonostante questi effetti, per alcuni prodotti come le carni fresche (intere o tritate), l’irraggiamento potrebbe rappresentare un idoneo mezzo per la riduzio- 143 Sicurezza tecnologica in alimentazione ne delle contaminazioni da E. coli, Salmonella, Campylobacter spp. e L. monocytogenes. La distruzione di tossine o enzimi degradativi comporta invece l’applicazione di dosaggi incompatibili con il mantenimento di accettabili caratteristiche qualitative dell’alimento. ciente ad arrecare gravi danni alla salute del consumatore. Molti di questi fattori possono essere inattivati con opportuni trattamenti di cottura, soprattutto “ a umido” (bollitura, a vapore). La cottura-estrusione della soia cruda, ad esempio, permette di inattivare gli inibitori della tripsina in essa presenti e in grado di inibire la completa utilizzazione delle proteine da parte dell’uomo e degli animali. La soia stessa e altre leguminose contengono ulteriori fattori antinutrizionali (lectine ad esempio) anch’essi inattivati da trattamenti ad alta umidità (“a umido”). Altri fattori possono essere eliminati con operazioni meccaniche. L’acido fitico, in grado di ridurre l’assimilazione di sali minerali, è contenuto nella cariosside di diversi cereali, perlopiù nei tegumenti (crusca) con i quali viene eliminato durante le normali operazioni di macinazione. Anche la sbramatura del riso Fattori antinutrizionali Il ruolo della tecnologia alimentare nel migliorare la sicurezza dell’alimento non è limitato al solo risanamento microbiologico ma include anche la distruzione o l’eliminazione di sostanze antinutrizionali naturali contenute in alcuni alimenti, soprattutto di origine vegetale, in grado di interferire in diversi processi metabolici e fisiologici dell’uomo (Tabella 4). Normalmente la quantità di questi composti negli alimenti è contenuta, e quasi sempre non è suffiTabella 4 Fattori antinutrizionali presenti in alcuni prodotti vegetali e processi in grado di inattivarli Trattamento termico Semi di soia ed altre leguminose Macinazione e decorticazione semi Trattamenti chimici ed enzimatici Inibitori proteasi, lectine Fava, sorgo, grano saraceno Tannini Cereali e sottoprodotti Fitati Colza Glucosinolati Lupino, pisello Alcaloidi 144 I. De Noni grezzo, con la quale si ottiene il riso brillato, consente di allontanare dalla cariosside la lolla, ossia gli strati esterni di natura legnosa, abrasiva e soprattutto di basso valore nutrizionale per l’elevato contenuto di sostanze minerali, silice in particolare. Il processo di decorticazione è un particolare sistema di eliminazione degli strati più esterni del seme dei cereali. Quando applicato a sorgo, miglio e grano saraceno consente di eliminare i tannini contenuti nel loro pericarpo, rendendo commestibili i prodotti derivati. Infatti, l’asportazione di questi composti, capaci di interagire con le proteine, migliora la digeribilità di quest’ultime, così come l’assorbimento di ferro che, se complessato dai tannini, risulta poco assimilabile a livello intestinale. Lo stesso processo di decorticazione determina un ulteriore miglioramento della sicurezza d’uso del cereale attraverso la riduzione del numero di microrganismi e dei residui di antiparassitari presenti sulla superficie della granella. Tra i fattori antinutrizionali dei prodotti animali è sufficiente ricordare l’ovomucoide (inibitore della tripsina) e l’avidina (rende indisponibile la biotina) presenti nell’uovo ed entrambi inattivati dalla cottura dello stesso. Per i limiti e gli obiettivi di questa esposizione non è possibile approfondire ulteriormente questi aspetti. Quindi, per la trattazione di altri fattori tossici naturali, e in particolare per quelli presenti nei prodotti ittici, si rimanda a testi specialistici. È opportuno invece sottolineare come il rapporto tra tecnologia e sicurezza degli alimenti non si esaurisca con il risanamento del prodotto e la distruzione degli eventuali fattori antinutrizionali in esso presenti. La tecnologia alimentare non deve infatti a sua volta favorire la formazione di artefatti nutrizionali o di molecole xenobiotiche potenzialmente tossiche capaci di ridurre la sicurezza d’uso e la salubrità dell’alimento. Al riguardo, le problematiche più studiate attengono gli effetti dei trattamenti termici, compresi quelli effettuati a livello domestico, su proteine, grassi e carboidrati. Ad esempio, gli idrocarburi policiclici aromatici, ai quali sono attribuiti possibili effetti cancerogeni, hanno suscitato un notevole interesse: essi possono formarsi negli alimenti proteici sottoposti a severi trattamenti di cottura (carne alla griglia in particolare) in concentrazioni dell’ordine di parti per miliardo. Ancora i trattamenti termici, specie se in presenza di alcali, possono originare fenomeni di crosslink inter- e intra-proteico con possibile formazione di molecole xenobiotiche; tra queste, una delle più studiate per i suoi possibili effetti nefrotossici è la 145 Sicurezza tecnologica in alimentazione lisinoalanina. La perossidazione, decomposizione e polimerizzazione dei lipidi durante la frittura è un altro fenomeno di un certo interesse che tuttavia assume un significato tossicologico solo per trattamenti prolungati o ripetuti, possibili solo nell’ambito di una scorretta pratica domestica. È opportuno infine ricordare il recente caso dell’acrilamide. Questo composto è stato ritrovato, in concentrazioni anche di qualche centinaia di ppm, soprattutto in prodotti amidacei (patate soprattutto) sottoposti a cottura ad alta temperatura e in particolare alla frittura e alla cottura al forno o alla griglia. Il meccanismo di formazione non è ancora conosciuto così come gli effetti sulla salute umana. Al momento, il rischio legato al consumo di tali prodotti sarebbe comunque limitato anche in considerazione del massiccio uso che l’uomo fa da tempo di questi prodotti. Gli esempi citati sono solo alcune delle problematiche coinvolte nella valutazione della tecnologia più adatta, così come nella definizione dei parametri ottimali di processo. Lo stesso discorso vale per l’introduzione di qualsiasi nuova tecnologia che viene studiata in termini di sicurezza ed efficacia anche rispetto a problematiche come quelle sopra accennate. Tutti questi aspetti assumono particolare rilevanza nella scelta dei processi da adottare per la preparazione di alimenti destinati alla prima infanzia o ad altre fasce vulnerabili della popolazione. Il ruolo del consumatore Come inizialmente affermato, il solo processo di trasformazione non può garantire l’assoluta sicurezza del prodotto alimentare. Le modalità di conservazione (tipo di confezione, condizioni ambientali di stoccaggio) e di utilizzo (preparazione, manipolazione e cottura), sia a livello domestico sia in strutture di ristorazione pubblica, possono fortemente incidere sulla sicurezza. In questo senso, il ruolo del consumatore nel garantire la sicurezza del prodotto alimentare è rilevante. Basti pensare che buona parte delle contaminazioni degli alimenti avviene in fase di utilizzo e manipolazione del prodotto. In ambito domestico il maggior rischio è proprio di carattere microbiologico a causa di riscaldamento o raffreddamento inadeguati, contaminazione crociata tra alimenti crudi e cotti e contaminazione da parte dello stesso consuma- 146 I. De Noni tore o operatore. Al riguardo, è opportuno considerare che i prodotti stabilizzati microbiologicamente sono i più sensibili verso una contaminazione post-processo. In mancanza di una microflora banale competitiva, quella patogena può diventare dominante in opportune condizioni ambientali. In genere il consumatore, seppur sensibile al problema della sicurezza dei prodotti, presta scarsa attenzione all’adozione a livello domestico di idonee misure per ridurre o meglio annullare tali rischi. Da questo punto di vista, una corretta e quanto mai auspicabile educazione alimentare (sia per gli aspetti igienici sia per quelli nutrizionali) a livello scolastico può giocare un ruolo fondamentale per la sicurezza alimentare. È opportuno inoltre ricordare la prima regola, banale ma troppe volte sottostimata, della corretta lettura dell’etichetta che viene spesso ritenuta unica- mente identificativa della tipologia merceologica senza porre grande attenzione alle informazioni relative alle modalità d’uso o alla qualità nutrizionali e di sicurezza in essa contenute. Non bisogna, infine, dimenticare l’importanza della confezione che svolge, oltre a finalità igieniche, un ruolo attivo per il mantenimento delle caratteristiche qualitative dell’alimento. Da questo punto di vista, la sua integrità rappresenta un primo ed efficace criterio che il consumatore può adottare per valutare sicurezza e qualità del prodotto. Da quanto fin qui descritto risulta chiaro che il binomio sicurezza alimentare e tecnologia rimane un passaggio chiave, ma non l’unico, per garantire prodotti sicuri. Questi ultimi, in funzione dei processi cui sono sottoposti, presentano garanzie di sicurezza limitatamente a uno o più dei fattori di rischio conside- Tabella 5 Effetto dei singoli processi tecnologici sulla sicurezza degli alimenti Distruzione microrganismi patogeni Distruzione tossine Distruzione enzimi Formazione di artefatti antinutrizionali si si/no si/no si/no Refrigerazione no no no no Congelamento si/no no no no Disidratazione si/no no no no Conservanti chimici si/no no no si/no Fermentazione si/no no no no Riscaldamento 147 Sicurezza tecnologica in alimentazione rati in questa trattazione (Tabella 5). Come già accennato, non è tuttavia possibile esasperare il ruolo della tecnologia alimentare alla quale è difficile pensare di demandare l’intera responsabilità della sicurezza alimentare. In questo senso, solo la corretta gestione di tutti i passaggi della filiera può consentire di ottenere piena sicurezza nel rispetto della qualità globale di materia prima e prodotto finito. Ciò comporta un atteggiamento più responsabile e attivo di tutti gli operatori della filiera stessa verso ciò che si produce, si trasforma o si consuma. Allo stesso modo non bisogna enfatizzare più del necessario il problema della “sanitizzazione” degli alimenti. I numerosi “prodotti tradizionali”, preparati in deroga alle principali normative in materia di igiene ma secondo tecnologie di lavorazione consolidate nel tempo, sono un’evidente e significativa prova di come l’adozione di opportuni accorgimenti nella lavorazione consenta di esaltare i peculiari tratti sensoriali e, parallelamente, di tenere sotto controllo lo sviluppo della microflora patogena eventualmente presente nelle materie prime e nel prodotto finito. Riferimenti bibliografici Manuale tecnico Flair Flow Europe FFE 378A/00 Gestione della catena del freddo per la qualità e la sicurezza degli alimenti”, 2001. (www.uniud.it/ffe/freddo.htm). Miller Jones J Food safety: Eagan Press, St. Paul (MN), 1993. Schimdt RH, Rodrick GE Food safety handbook: Wiley & Sons, New York, 2002. www.eufic.org/it/safe/food.htm European Food Information Council. www.europa.eu.int/comm/food/index_it.html Unione Europea. www.fao.org/es/esn/index_en.stm Food and Agriculture Organization. www.who.int/health_topics/food_safety/en/ World Health Organization. 148 O organismi geneticamente modificati A. Poli*, G. Poli** *Facoltà di Medicina e Chirurgia. Università degli Studi di Milano **Dipartimento di Patologia Animale, Sezione di Microbiologia e Immunologia. Comitato interfacoltà per il Corso di Laurea in Biotecnologie. Facoltà di Medicina Veterinaria. Università degli Studi di Milano menti, di malattie, di sollievo e di piacere, ha sempre dato origine a paure e a proibizioni sin dall’era neolitica. Introduzione La presenza sempre più frequente sulla nostra tavola di cibi che hanno avuto un qualche trattamento biotecnologico sollecita, nei consumatori più attenti, frequenti domande sull’affidabilità dei cibi, sull’eventuale influenza sulla salute e sui vantaggi che ne derivano. La risposta che si attendono è invariabilmente un sì o un no. In effetti, nessun consumatore accetta con consapevolezza rischi nel proprio piatto. Fatalmente, a tutt’oggi, il percorso decisionale che conduce alla risposta è legato più a fattori emotivi che non a scelte eseguite con razionalità, derivanti cioè dalla conoscenza dell’argomento trattato. In effetti, gli esseri umani hanno con il cibo una relazione mistica e allo stesso tempo carnale. Gli alimenti passano attraverso il corpo e misteriosamente lo trasformano. Il cibo, fonte di “estasi mistica” (l’Eucarestia), di tor- tecnologie per la produzione di piante produttive transgeniche L’ingegneria genetica, e in particolare la metodologia del DNA ricombinante, consentono di trasferire geni estranei di qualunque provenienza (microbica, vegetale, animale) o nel seme di un vegetale o nella cellula uovo fecondata di un animale, in modo da produrre piante o animali cosiddetti “transgenici”, caratterizzati cioè da caratteristiche “nuove”, che mai avrebbero potuto acquisire con tecniche naturali. Sono stati così messi a punto diversi protocolli sperimentali che consentono di inserire, in modo estrema- 149 Organismi geneticamente modificati mente mirato, un gene “nuovo” in una pianta in modo che rimanga, per il resto del genoma, perfettamente identica a quella iniziale. La procedura classica e più usata per produrre piante transgeniche prevede i seguenti passaggi: 1) isolamento del gene che si vuole trasferire, separandolo dal restante DNA mediante un enzima di restrizione (enzima di origine batterica ad attività endonucleasica, in grado cioè di riconoscere e tagliare il DNA in modo specifico e ripetibile a livello di brevi sequenze nucleotidiche diverse per ciascun enzima); cioè in grado di generare un intero organismo) e quindi dalle cellule trasformate possono svilupparsi piante complete, in grado di riprodursi normalmente. Per l’ingegneria genetica, la maggior parte dei metodi si basa oggi su cellule di espianti, ottenute cioè da piccoli frammenti della pianta; tali frammenti possono venire ingegnerizzati e successivamente dare origine a una pianta intera con le nuove caratteristiche codificate dal gene esogeno inserito. Per realizzare l’ultimo passaggio sopra riportato, al fine di trasferire il gene desiderato nella cellula vegetale, è stato utilizzato, quale primo vettore, il plasmide “Ti” di Agrobacterium tumefaciens; in effetti il plasmide di questo batterio possiede la peculiare caratteristica di integrarsi naturalmente e con alta efficienza entro i cromosomi della pianta che infetta, la quale accoglierà ed esprimerà così i geni nuovi preventivamente inseriti in tale plasmide. Un metodo alternativo, che aumenta il rendimento nel trasferimento dei nuovi geni in una cellula vegetale, è rappresentato dal “bombardamento” di cellule vegetali con il materiale genetico da trasferire. Più precisamente, microsferule di metallo (in genere oro o tungsteno) vengono rivestite con il 2) inserimento del gene isolato in un vettore molecolare (ad esempio un plasmide batterico); 3) replicazione del plasmide in un batterio in modo da avere l’amplificazione, in molte copie, del gene da trasferire; 4) trasferimento del plasmide, che veicola il gene “passeggero” in una specie vegetale, ottenendo così una nuova pianta dalle caratteristiche volute. Un vantaggio, per gli interventi di ingegneria genetica, è dato dal fatto che le cellule vegetali sono “totipotenti” (come cellule indifferenziate sono 150 A.POLI, G. Poli DNA che costituisce il transgene (gene esogeno da trasferire) e quindi vengono letteralmente “sparate”, con aria compressa, su cellule vegetali isolate o su espianti; le microparticelle penetrano attraverso la parete di cellule intatte veicolando così il nuovo materiale genetico che viene integrato nel DNA dei cromosomi della cellula vegetale. Infine, indipendentemente dalla tecnica usata per trasferire il transgene (Agrobacterium tumefaciens o “bombardamento”) vengono selezionate le cellule che esprimono correttamente il nuovo gene ed essendo, come detto, totipotenti, vengono indotte a differenziarsi per rigenerare piante intere, ora transgeniche. È anche possibile costruire particolari plasmidi “vettore” che hanno la caratteristica di integrarsi e quindi trasferire il gene “nuovo” anziché nel DNA dei cromosomi nucleari, nel DNA del cloroplasto (organello sub-cellulare simile in struttura ai mitocondri, esclusivo delle cellule vegetali e contenente clorofilla ed enzimi deputati alla fotosintesi). Questo nuovo approccio è importante per alcuni scopi applicativi in quanto il DNA del cloroplasto è ereditato, nella maggior parte delle piante coltivate, per via materna; quindi il gene esogeno non sarà presente nel pol- line e pertanto verranno evitati i rischi di diffusione del transgene nell’ambiente, con conseguente contaminazione di colture adiacenti o che si vogliono mantenere “OGM free” Le metodologie sono sufficientemente perfezionate da permettere la trasformazione genetica della maggior parte delle piante di interesse agronomico. I traguardi, in parte già raggiunti e in parte ancora allo studio, riguardano soprattutto la protezione delle piante e l’aumento della loro produttività. Gli esperimenti di ingegneria genetica sono cioè rivolti a conferire proprietà desiderabili ai prodotti agricoli, quali miglioramento in quantità e qualità nutrizionali del prodotto, resistenza agli stress ambientali e ai patogeni. Particolare successo hanno avuto gli esperimenti per l’inserimento nelle piante di geni di origine batterica, che conferiscono la resistenza ai parassiti o, con tecniche diverse, ad altri agenti patogeni, quali funghi e virus; interessante anche la resistenza indotta verso gli erbicidi. A tutt’oggi sono già state prodotte numerose piante transgeniche, tra cui: mais, soia, frumento, riso, pomodori, patate, lattuga, cotone, piselli, carote, verze, cocomeri, fragole, girasoli, bar- 151 Organismi geneticamente modificati babietole, papaie, kiwi, melanzane, pere, mele, uva, asparagi e altre. no così già state prodotte carpe, trote e salmoni transgenici che si sviluppano molto più rapidamente e con dimensioni molto maggiori degli animali controllo (non transgenici) in quanto sovraesprimono l’ormone della crescita. Pertanto, se supereranno le verifiche di biosicurezza, sia per l’ambiente sia per la salute dei consumatori, saranno proprio i pesci transgenici a essere la prima specie animale OGM eventualmente messa sul mercato. D’altra parte, gli animali transgenici da reddito sembrano particolarmente adatti alla produzione di “alimenti speciali” che non si trovano nella normale catena produttiva agro-zootecnica (ad esempio i cosiddetti alimenti funzionali o nutraceutici). L’esempio più caratteristico di questo approccio è rappresentato dal trasferimento nel bovino del transgene dell’enzima lattasi in modo da farlo esprimere solo a livello della ghiandola mammaria: ne consegue la produzione di un latte privo di lattosio, in quanto metabolizzato dal citato enzima. Un latte con tali caratteristiche sarebbe ideale per tutte quelle persone che sono intolleranti al lattosio. Anche in questo caso, ovviamente, sia la biosicurezza in generale, sia la sicurezza per il consumatore devono essere valutate molto attentamente e garantite. Gli ogm quali alimenti Alimenti di origine animale (carne, latte, uova) prodotti da animali transgenici (bovini, suini, ovini, polli, pesci) Nonostante le numerose ricerche finalizzate a produrre linee genetiche di animali da reddito che producono alimenti migliori e in maggiore quantità, i successi sono stati molto modesti sia per la complessità dei processi coinvolti, sia per gli effetti negativi rilevati soprattutto nei ruminanti (bovini, pecore, capre) resi transgenici per migliorarne le “performances” produttive. Non pare quindi esservi ulteriore interesse a investire in ricerche per ottenere un miglioramento nella crescita o nella qualità di carne, latte o uova, che già sono realizzabili con le tecniche di allevamento convenzionali. Unica eccezione sono i pesci, in quanto l’inserimento del transgene nell’uovo fecondato è facilitato dal fatto che sia la fertilizzazione sia lo sviluppo dell’uovo di pesce avvengono all’esterno. So- 152 A.POLI, G. Poli Alimenti di origine vegetale esaminate le caratteristiche di queste due sole varietà vegetali transgeniche. Come detto, a tutt’oggi sono già state prodotte e messe in commercio numerose piante modificate geneticamente al fine di renderle resistenti agli insetti, ai virus, agli erbicidi o agli stress ambientali (ad esempio gelo e siccità), oppure per migliorarne la conservabilità o le caratteristiche alimentari, ottenendo ad esempio un contenuto meglio bilanciato di carboidrati e aminoacidi, una riduzione dei grassi, un elevato contenuto di vitamine e di ferro, una maggiore digeribilità. Più precisamente, tra i cereali e legumi OGM si annoverano: mais, soia, riso, frumento, segale, fagioli, piselli; tra frutti e ortaggi OGM si annoverano: pomodori, patate, lattuga, carote, broccoli, cavoli, cetrioli, sedano, barbabietole, melanzane, asparagi, fragole, cocomeri, pere, mele, uva, noci, papaie, kiwi e altri. Di tutti questi prodotti OGM, che si consumano in vari paesi del mondo e in particolare in Stati Uniti, Canada, Argentina, Cina e India, solo due sono stati approvati nei paesi dell’Unione Europea per la sola commercializzazione (ne è vietata la semina in molti paesi): il mais Bt, reso resistente agli insetti, e la soia resa resistente agli erbicidi. Pertanto, qui di seguito, verranno Caratteristiche del mais e della soia geneticamente modificati: unici ogm consentiti nei paesi della u.e. quali alimenti per l’uomo e per gli animali da reddito Mais e soia sono presenti sotto forma di lecitina, farina, amido e olio in oltre il 50% degli alimenti confezionati: dai gelati ai biscotti, dal cioccolato alle marmellate, dalle bevande alle margarine. Poiché un quarto della soia mondiale è transgenica e anche il mais OGM è ampiamente coltivato dai Paesi produttori “leaders”, diviene importante conoscere le caratteristiche di questi due prodotti transgenici che, come detto, sono gli unici autorizzati per il mercato europeo. Mais Bt, resistente agli insetti Le tecniche del DNA ricombinante hanno consentito di produrre piante 153 Organismi geneticamente modificati transgeniche che resistono all’attacco degli insetti. Per la maggior parte sono state ottenute mediante l’inserimento di un gene, il gene “Bt” del batterio Bacillus thuringiensis, ampiamente diffuso nel terreno, che codifica per una “proteina insetticida” (denominata proteina “Bt”). Se le piante, così modificate, vengono aggredite dagli insetti nocivi, i danni causati alle foglie sono minimi, mentre le larve muoiono rapidamente. Infatti, quando l’insetto sensibile ingerisce frammenti di una pianta trasformata con gene Bt, ingerisce una proteina Bt che non è in effetti una tossina ma una pro-tossina. Questa diviene tossina solo se trova nell’intestino dell’insetto una specifica proteasi, cioè un enzima, esclusivo degli insetti, che, staccando una porzione della proteina ne libera la parte tossica. Per questo motivo la tossina non è nociva per l’uomo e per gli altri animali e ne è addirittura consentito l’uso da oltre 40 anni in agricoltura biologica appunto quale insetticida sotto forma di spray. Uno dei primi prodotti con queste caratteristiche, autorizzato per l’uso in diversi paesi del mondo, è rappresentato da un nuovo mais transgenico che, appunto grazie alla capacità di produrre nelle sue cellule la proteina Bt, risulta altamente resistente agli attacchi di un insetto devastatore chiamato piralide. La semina e il consumo di piante resistenti all’attacco degli insetti è desiderabile per più motivi: • una resistenza intrinseca elimina o riduce la necessità di impiegare insetticidi che, per lo più non biodegradabili, persistono causando inquinamento ed effetti nocivi sia per gli ecosistemi che per i consumatori; • il mais, infestato dalla piralide, diviene estremamente sensibile ad altre malattie causate da virus o da funghi che producono le temibili micotossine. In effetti il mais Bt è stato dimostrato essere più salutare per i consumatori in quanto presenta quantità trascurabili sia di micotossine che di insetticidi e fungicidi, rispetto a quelle presenti in mais “naturali” cioè non Bt. Al riguardo si rammenta che le principali micotossine presenti negli alimenti sono rappresentate dallo zearalenone, ad attività estrogenica, e da aflatossina B, fumosina, ocratossina A e patulina, tutte con dimostrata attività cancerogena oltreché genotossica, nefrotossica ed epatotossica. 154 A.POLI, G. Poli Soia resistente agli erbicidi Gli erbicidi trovano ampia applicazione nella distruzione delle erbe infestanti che, crescendo tra le piante agricole, possono ridurre l’entità del raccolto di oltre il 10%. D’altra parte, gli erbicidi non sono molto selettivi in quanto agiscono alterando processi fisiologici caratteristici delle piante, quali la fotosintesi e la biosintesi di aminoacidi e quindi, sebbene più attivi verso le erbe infestanti, danneggiano in parte anche le piante agricole. Esiste poi una classe di erbicidi, definiti erbicidi totali, che uccidono indiscriminatamente tutte le piante, e alcuni di questi (ad esempio glifosato e glifosinato) sono rapidamente biodegradabili e hanno bassissima tossicità per l’uomo e per gli animali. In alcuni batteri del suolo sono stati scoperti e poi isolati e clonati alcuni geni che codificano per enzimi capaci di inattivare, per acetilazione o idrolisi, gli erbicidi totali. Poiché tali enzimi sono del tutto innocui per l’uomo e per gli animali, si è subito progettato di sfruttarli per produrre piante transgeniche resistenti agli erbicidi totali biodegradabili. Sono state pertanto prodotte piante transgeniche resistenti a glifosato e glifosinato. La più importante e diffusa è la soia transgenica che può venire coltivata impiegando un singolo trattamento con l’erbicida glifosato quando la soia è appena germogliata, contemporaneamente alle erbe infestanti. Poiché, come detto, il glifosato viene rapidamente biodegradato, la coltivazione e il consumo di questa soia transgenica non rappresenta alcun rischio di eventuali residui di erbicidi né per l’ambiente né per il consumatore. I paventati rischi derivanti dal consumo di alimenti prodotti da piante transgeniche (ogm) Li hanno definiti “Frankestein food”: sono pomodori, insalata, mais, soia, barbabietole, frumento “transgenici”, cioè vegetali nel cui DNA è stato inserito un gene estraneo di origine batterica o talvolta di origine animale. Meno deperibili, e dunque più economici dei cereali e degli ortaggi tradizionali, questi vegetali crescono potenzialmente più sani, perchè non trattati con insetticidi e diserbanti. C’è chi assicura che saranno l’arma vincente nella lotta contro la fame nel mondo. Ma hanno su- 155 Organismi geneticamente modificati scitato nuove paure: di mutazioni genetiche incontrollate e di pericoli per la salute dell’uomo e dell’ambiente. Gli “organismi geneticamente modificati” (OGM) sono dunque nell’occhio del ciclone. L’Europa ne ha regolamentato il commercio, gli ecologisti li vogliono al bando. Gli scienziati si interrogano sulla loro sicurezza. Di fatto, sono già arrivati sulle nostre tavole. E allora che fare? Accettarli o rifiutarli? Qui di seguito si cercherà di fornire l’informazione scientifica più accurata possibile relativa ai paventati rischi da consumo di alimenti OGM che sempre più spesso vengono sollevati dagli oppositori delle biotecnologie. conferisce resistenza agli antibiotici: ad esempio ampicillina per il mais Bt. Questa procedura ha destato la preoccupazione che il gene di resistenza possa trasferirsi dalla pianta OGM ai batteri dell’intestino, o peggio al genoma umano, conferendo resistenza all’antibiotico (oggi comunque di scarso interesse clinico) e determinando quindi inefficacia dell’antibiotico in terapia medica. L’accusa manca di realismo scientifico: il fatto che un gene presente in un vegetale, e dotato, si badi, di un promotore vegetale inattivo nei batteri, possa essere trasferito ai batteri del nostro intestino, e da questi passare a batteri patogeni ha una rilevanza clinica virtualmente uguale a “zero”. Infatti i geni dell’antibiotico-resistenza sono ubiquitari e sono già presenti in natura nella stessa flora microbica intestinale di animali o uomini, e questo vale per ogni antibiotico passato, presente e futuro. Ma ancora più importante è il rilievo della rapidissima degradazione che subisce il DNA ingerito da parte degli enzimi digestivi (nucleasi) e dalla bassissima probabilità che un gene con un promotore vegetale possa essere acquisito, integrato e addirittura espresso da un batterio della flora microbica intestinale. Trasmissione dei geni dell’antibiotico-resistenza Una particolare preoccupazione che è sorta tra i consumatori è legata al fatto che la selezione del gene per il carattere desiderato, da inserire nella pianta transgenica, avviene inizialmente impiegando quei geni batterici che codificano per l’antibiotico-resistenza. Pertanto, le piante OGM oggi coltivate sono dotate, oltre che del gene di interesse, anche di un gene che 156 A.POLI, G. Poli Alimenti OGM e allergie L’efficacia dei controlli è dimostrata dal molto pubblicizzato caso di una soia OGM in cui era stato integrato un gene di noce brasiliana codificante l’albumina 2S, ricca in metionina, aminoacido invece carente nella soia. La soia OGM aveva acquisito migliorate capacità nutrizionali, ma anche le proprietà allergeniche dell’albumina. Tale effetto allergizzante è stato dimostrato nel 1996, da Nordlee e Collaboratori che hanno esaminato campioni di sangue di individui già noti per la loro ipersensibilità alla noce brasiliana, per verificarne la reattività nei confronti della soia OGM. Si è osservato che gli anticorpi di classe IgE presenti nei campioni di sangue reagiscono con la soia OGM ma non con la soia non modificata. A seguito di questi rilievi è stato quindi abbandonato il progetto e negato il permesso di coltivazione. Le analisi hanno comunque permesso di chiarire la natura dell’agente allergizzante della noce brasiliana stessa. Per quanto riguarda più in particolare il mais e la soia transgenici, è stata esclusa e dimostrata sperimentalmente l’assenza di ogni potenziale allergenicità delle nuove proteine espresse: la tossina Bt e l’enzima che degrada il glifosato. Le piante OGM sono accusate di scatenare allergie alimentari. Le allergie sono dovute a un’azione di rigetto del nostro organismo nei confronti di una specifica proteina contenuta nel cibo. Già oggi, in tutto il mondo, il 2-4% dei bambini e l’1-2% degli adulti soffre di allergie alimentari. Soia, latte vaccino, pomodoro, noci, arachidi, pesci, crostacei, cioccolata ne sono la causa principale. L’unica cura efficace è evitare il cibo cui si è allergici. Nel caso di piante OGM, il gene esogeno potrebbe effettivamente codificare per una proteina allergenica, ma le legislazioni dei diversi paesi prevedono che si analizzi preventivamente: a) la fonte del gene (è derivato da un organismo che dà allergie?); b) i parametri fisico-chimici della nuova proteina (similarità della sequenza aminoacidica con proteine allergeniche, sua stabilità alla digestione e alla cottura); c) gli effetti del gene esogeno sulla produzione degli allergeni endogeni della pianta ospite; d) risultati di saggi “in vitro” (RAST, ELISA) e “in vivo” (test cutanei, simulazione alimentare). 157 Organismi geneticamente modificati Altri rischi paventati funzione ancora sconosciuta; quando si mangia una mela si ingeriscono migliaia di milioni di geni e il numero già impressionante si può anche decuplicare quando mangiamo un vasetto di yogurt. Inoltre i geni presenti negli OGM non sono diversi da quelli presenti in natura; pertanto se fosse possibile un trasferimento di geni con gli alimenti, gli animali e gli uomini avrebbero già sviluppato caratteristiche proprie dei vegetali. Tossicità del prodotto del transgene, rischio di infezioni o addirittura di tumori, nonché il possibile trasferimento dei nuovi geni ai consumatori rappresentano altri rischi attribuiti agli OGM se utilizzati come alimenti. Tutti questi rischi paventati sono stati analizzati e valutati altamente improbabili se non del tutto fantascientifici. Si pensi ad esempio al paventato trasferimento del transgene ai microrganismi della flora intestinale, se non addirittura alle cellule di tessuti e organi dei consumatori stessi. Per dare una risposta a questo timore basti ricordare che ogni giorno noi mangiamo l’intero contenuto genetico (DNA) di piante, batteri e animali; ora ammettiamo pure che il DNA mantenga la sua integrità nell’intestino per alcuni minuti prima di essere digerito, ma se cerchiamo un gene di bovino, di mela o di insalata nel genoma dei batteri dell’intestino umano o nelle nostre stesse cellule non lo troviamo. In effetti non c’è trasferimento di DNA da una specie all’altra: gli insetti si cibano di vegetali, i ruminanti mangiano vegetali, i carnivori mangiano ruminanti, ma il DNA ingerito non conferisce nuove caratteristiche. Per esempio, la cellula di un frutto (ad esempio la mela), contiene da 20 mila a 80 mila geni e porzioni di DNA a Bambini e anziani rappresentano una popolazione a maggior rischio se alimentati con prodotti ogm? Tale domanda viene spontanea quando vengono enfatizzati strumentalmente dai media i paventati rischi degli OGM, oppure allorché in alcune regioni italiane nelle mense scolastiche e degli asili infantili vengono serviti esclusivamente alimenti da “agricoltura biologica” e ciò indipendentemente dalla necessaria libera scelta che dovrebbe essere lasciata ai genitori. Orbene, tali opinioni e decisioni sono praticamente demandate agli organi politici, i quali risentono pesantemente di condizionamenti non scientifici. 158 A.POLI, G. Poli Alla luce di quanto esposto in questo capitolo, e a parere di chi scrive, gli alimenti OGM attualmente autorizzati e quindi in commercio in Europa sono più salutari della controparte cosiddetta “naturale” o comunque non sono più rischiosi. In effetti, per la prima volta nella storia dell’uomo, ogni varietà vegetale prodotta con la biotecnologia viene sottoposta a una serie completa di analisi e valutazioni scientifiche. Cioè gli OGM sono sottoposti a tutte le possibili prove di rischio tra cui: tossicità (studi sugli animali); allergenicità (uova, pesce, pomodoro, cioccolato, latte, kiwi ecc, sono allergenici ma non sono OGM); assenza di pesticidi, erbicidi; valutazioni microbiologiche; proprietà nutrizionali; impatto ambientale; altre valutazioni (provenienza del transgene, sue caratteristiche, suo impatto/influenza sugli altri caratteri). Al contrario, sui prodotti cosiddetti “naturali” (come quelli biologici) i controlli effettuati sono minori se non sono talvolta del tutto assenti e così si mettono in commercio prodotti “naturali” potenzialmente pericolosi quali: mais infestato da piralide e quindi con infestioni fungine e presenza di aflatossine (epatotossiche, nefrotossiche, cancerogene). Al lettore quindi la risposta al que- sito posto in questo paragrafo e più in generale al quesito sulla sicurezza alimentare dei cibi OGM attualmente in commercio. 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I segni clinici, il periodo di incubazione, i dati epidemiologici devono guidare il medico alla diagnosi (Tabella 1), confermata poi da esami di laboratorio specifici. Tutte le categorie di alimenti possono essere fonte di infezione, dalla carne ai molluschi fino alla frutta e alla verdura. Verranno di seguito trattate le infezioni da alimenti più diffuse e alcune problematiche emergenti al riguardo, come la contaminazione dei latti in polvere. Introduzione Il miglioramento delle condizioni igieniche e delle modalità di preparazione del cibo per il commercio ha ridotto notevolmente la consistenza del problema delle così dette tossinfezioni da alimenti, quanto meno nei paesi industrializzati di cui l’Italia fa parte. Tuttavia la soglia di attenzione non deve abbassarsi, visto che le malattie trasmesse da alimenti restano una delle principali cause di morbilità e mortalità fra i bambini e gli adulti anche nei paesi ricchi. Il quadro è complicato notevolmente oltre che dalla gran varietà di germi implicati, anche dalla globalizzazione dei commerci degli alimenti con rapida distribuzione a livello internazionale e con importanti mutamenti nelle abitudini alimentari. Ogniqualvolta due o più individui che hanno condiviso un pasto presentano nausea, vomito, diarrea, ma anche segni extra-intestinali (ad esempio neu- Intossicazione stafilococcica Eziologia Si manifesta con una gastroenterite acuta causata dall’ingestione di alimenti inquinati dalle enterotossine preformate prodotte da alcuni ceppi di Staphylococcus aureus (gruppi fagici III e IV 161 Infezioni da alimenti Tabella 1 Guida alla diagnosi di infezione alimentare Periodo di incubazione tipico Malattia clinica Agente eziologo Epidemiologie e diagnosi di laboratorio Febbre Vomito 1-7 ore Rara Abbondante Enterossina dello Staphylococcus aures Riscontro della tossina nel cibo; isolamento di > 105 microrganismi nel vomito e nelle feci 8-14 ore Rara Occasionale Enterossina del Clostridium perfrigens Isolamento del microrganismo o della tossina nel cibo o nelle feci delle persone infette; incriminazione epidemiologia di un alimento 16-36 ore Frequente Occasionale Shigella Salmonella Vibrio parahemolyticus Escherichia coli invasiva Yersinia enterocolitica Isolamento dei microrganismi nel cibo o nelle feci delle persone infette 12-36 ore Sindrome clinica compatibile con botulinismo Clostridium botulinum Isolamento del microrganismo delle tossine dalle feci o della tossina da sieri o cibi 16-72 ore Occasionale Escherichia coli enterotossica V. parahaemoli enterotossico V. cholerae enterotossico Isolamento del microrganismo nel cibo o nelle feci delle persone infette; incriminazione epidemiologica di un alimento Escherichia coli 0157:H7 e altri simili a shigelle, E. coli che producono la tossina Isolamento del microrganismo nel cibo o nelle feci delle persone infette; incriminazione epidemiologica di un alimento Occasionale 3-5 giorni Non frequente Frequente 1-7 giorni Occasionale Occasionale Campylobacter jejuni 162 F. Salvini, S. Di Giacomo coagulasi-positivi) e raramente di Staphylococcus epidermidis. enterotossiche (A-E), termoresistenti (30 minuti a 100 °C), le quali, dopo essere passate nella circolazione sistemica, incrementano la peristalsi intestinale, agiscono a livello centrale scatenando il riflesso del vomito e inducono la produzione di IL-1. Epidemiologia L’uomo è il principale serbatoio e può ospitare l’agente in corrispondenza di lesioni cutanee o a livello nasale; è responsabile della contaminazione degli alimenti (latte, latticini, creme, gelati, insaccati…) durante la loro preparazione. Normalmente i caratteri organolettici dei cibi contaminati non cambiano. L’intossicazione è più frequente nei periodi estivi e insorge quando si verificano contemporaneamente alcune condizioni: l’alimento inquinato deve essere idoneo per lo sviluppo del microrganismo; deve essere lasciato a temperatura ambiente senza essere consumato per molte ore, il tempo necessario allo sviluppo del microrganismo e alla liberazione delle tossine termostabili; la quantità delle tossine presenti deve essere sufficiente per scatenare la sintomatologia. Frequentemente l’intossicazione acquista carattere epidemico. Sintomatologia L’incubazione è breve, la sintomatologia compare bruscamente circa 1-8 ore (normalmente 2-4 ore) dopo l’ingestione dell’alimento inquinato e si manifesta con nausea, vomito, dolori addominali crampiformi, diarrea, apiressia. Il decorso è favorevole in 810 ore e si assiste alla risoluzione completa in 2-3 giorni. Diagnosi Alcune caratteristiche cliniche indirizzano verso la diagnosi di intossicazione stafilococcica, come il periodo di incubazione molto breve, la comparsa della sintomatologia pressoché simultanea in tutti i soggetti che hanno ingerito l’alimento inquinato, l’assenza di febbre; elementi questi che permettono di differenziarla da altre forme di tossinfezione. La diagnosi viene confermata mediante la ricerca Patogenesi Lo Staphylococcus aureus produce almeno cinque tipi di esotossine 163 Infezioni da alimenti del microrganismo e delle enterotossine nelle feci e negli alimenti interessati. con passaggio di flagelli da un tipo di specificità a un altro. Attualmente sono conosciuti oltre 2000 tipi OH. L’antigene O è una endotossina e conferisce resistenza alla fagocitosi (i ceppi che ne sono privi non sono patogeni). Un altro antigene è il polisaccaride capsulare di virulenza (Vi) presente su Salmonella typhi e raramente riscontrato su alcuni ceppi paratyphi C. I microrganismi della salmonella resistono a molti agenti fisici, ma possono essere uccisi al calore a 130 °F (54,4 °C) per un’ora oppure a 140 °F (60 °C) per 15 minuti. Le salmonelle rimangono vitali per giorni a temperatura ambiente e possono resistere per settimane nelle acque di scolo, negli alimenti in polvere, nei composti farmaceutici e nelle feci. Lo schema di Kauffman-White, comunemente usato per classificare i sierotipi di salmonella, si basa sugli antigeni O e H. I sierotipi che causano la maggior parte delle infezioni nell’uomo sono i sierotipi A-E. I ceppi più frequentemente isolati sono stati S. tiphymurium (sierogruppo B), S. heidelberg (B), S. enteridis (D), S. newport (C2), S. infantis (C), S. agona (B), S. thompson (C1), S. montevideo (C1); la S. typhi è classificata nel sierogruppo D. La classificazione in sierotipi è importante dal punto di vista clinico per- Terapia Sintomatica. Solo nei casi più gravi è utile ricorrere alla somministrazione di liquidi ed elettroliti. Non è indicata la terapia antibiotica. Profilassi È raccomandata la conservazione degli alimenti a 4 °C, temperatura che inibisce la produzione delle tossine, e l’esclusione dalla “preparazione di cibi” del personale con affezioni stafilococciche in atto. Salmonellosi Eziologia Le salmonelle sono bacilli Gram negativi della famiglia delle Enterobacteriaceae. Le salmonelle come le Enterobacteriaceae possiedono antigeni della parete cellulare “O” (somatici) e antigeni flagellari o “H”. Attualmente sono stati riconosciuti oltre 50 tipi distinti di antigeni O e relativi sottotipi, e oltre 50 antigeni H e sottotipi. Inoltre il fenomeno di fase-variazione si presenta fra molti tipi di salmonelle, 164 F. Salvini, S. Di Giacomo ché alcuni sierotipi tendono a essere associati a sindromi cliniche specifiche. mori, AIDS e altre malattie immunosoppressive. I casi descritti sono per lo più sporadici; sono più comuni le epidemie nelle istituzioni, in particolare quelle di origine alimentare. I principali serbatoi per sierotipi non tifoidei di salmonella sono gli animali: pollame, bestiame, rettili e animali domestici. I principali veicoli di trasmissione sono i cibi di origine animale come polli, carni rosse, uova, latte non pastorizzato. Altri veicoli sono rappresentati da frutta, verdura, riso, germogli alfa-alfa. Si tratta di veicoli contaminati dal contatto con prodotti animali e persone infette. Altre modalità di trasmissione comprendono l’ingestione di acqua contaminata o con trasmissione diretta orale-fecale (rara), contatto con rettili infetti (tartarughe domestiche, iguane e altri rettili), contatto con medicazioni, tinture e strumenti medici contaminati. Unico serbatoio naturale della Salmonella typhi è l’uomo. Pertanto per sviluppare l’infezione è necessario il contatto diretto o indiretto con una persona infetta (portatore malato o cronico). L’ingestione di cibi o acqua contaminati con feci umane è il metodo più frequente di trasmissione. Nei paesi in via di sviluppo si osservano principalmente epidemie trasmesse Epidemiologia Ogni anno negli Stati Uniti vengono segnalati più di 1.500.000 casi di salmonellosi all’anno (98% salmonellosi non tifoidee), di cui 400 di febbre tifoide. In Italia, nel 1999 secondo il bollettino Epidemiologico del Ministero della Salute si sono verificati 14.122 casi di salmonellosi. Nel 2000 il numero totale degli isolamenti è stato di 10.864. La febbre tifoide non è frequente nei paesi industrializzati, ma è endemica in zone meno sviluppate del mondo. I casi riportati nei paesi industrializzati sono per lo più conseguenza di viaggi all’estero, in paesi nei quali mancano appropriate misure igieniche per l’acqua potabile e per il cibo, o del consumo di cibo contaminato da portatori cronici. La salmonella causa frequentemente infezione nei soggetti di età inferiore a 5 anni e di età superiore a 70 anni, con un picco nel primo anno di vita. Le infezioni invasive e la mortalità sono più frequenti nei lattanti, negli anziani e nei pazienti con malattie di base, soprattutto emoglobinopatie, tu- 165 Infezioni da alimenti tramite l’acqua, a causa di scadenti misure sanitarie o per diretto contatto oro-fecale per la scarsa igiene personale. Un’altra fonte di infezione diffusa è costituita da ostriche o altri mitili coltivati in acque contaminate da fognature. sto periodo può essere prolungato dalla terapia antibiotica. Circa il 15% dei pazienti continua a eliminare la salmonella per più di un anno. Batteriemia: una condizione di batteriemia transitoria si manifesta nell’1-5% dei casi di gastroenterite acuta. La batteriemia da salmonella si manifesta con febbre e brividi (Tabella 2). Manifestazioni cliniche Le infezioni da salmonella non tifoidea provocano diverse sindromi cliniche, a seconda dei fattori dell’ospite e dello specifico sierotipo coinvolto. Infezioni extraintestinali: dopo che le salmonelle sono penetrate nel circolo ematico, hanno la capacità unica di causare metastasi e provocare un’infezione purulenta, focale in quasi tutti gli organi. Solitamente sono coinvolti i siti con anomalie preesistenti. Le infezioni focali comunemente interessano lo scheletro, le meningi, i siti intravascolari. La salmonella è una causa frequente di osteomielite nei bambini con anemia falciforme. Spesso l’osteomielite si manifesta in sede di traumi precedenti o protesi. La meningite compare principalmente nei lattanti ed è caratterizzata da un elevato tasso di mortalità (50%) e sequele neurologiche nonostante una corretta terapia antibiotica. I sierotipi che causano la maggior parte delle infezioni focali extraintestinali sono la S. tiphymurium e la S. choleraesuis. Gastroenterite acuta: è la manifestazione clinica più frequente; dopo un periodo di incubazione di 6-72 ore compare una sintomatologia addominale caratterizzata da nausea, vomito e dolori addominali crampiformi, a cui seguono diarrea acquosa fino a un quadro di dissenteria con muco e sangue. Nel 70% dei pazienti si verifica febbre. Nei bambini sani i sintomi scompaiono entro 2-7 giorni. Il rischio di contagio esiste per tutta la durata dell’escrezione fecale del germe. Questo periodo è variabile. Dodici settimane dopo l’infezione il 45% dei bambini con età inferiore a 5 anni elimina ancora la salmonella, rispetto al 5% dei bambini più grandi o degli adulti. Que- 166 F. Salvini, S. Di Giacomo Tabella 2 Condizioni che aumentano il rischio di batteriemia da salmonella durante le gastroenteriti da salmonella non tifoidea Neonati e lattanti (< 3 mesi) AIDS, granulomatosi cronica e altre immunodeficienze Tumori maligni, in particolare leucemie e linfomi Terapia immunosoppressiva e corticosteroidea Anemia emolitica, anemia falciforme, malaria e bartonellosi Connettiviti Malattie infiammatorie croniche intestinali Acloridria e terapia antiacida Schistosomiasi Malnutrizione Febbre tifoide: è una sindrome clinica sistemica prodotta da alcuni microrganismi di salmonella. Essa comprende i termini tifo, causato da S. tyhi, e paratifo, causato da S. paratyphi A, S. paratyphi B, S. paratyphi C. La salmonella ingerita si moltiplica nell’intestino tenue e, dopo essere penetrata attraverso la mucosa, i linfatici e il dotto toracico, raggiunge il torrente sanguigno e la cistifellea (fase asintomatica); qui la salmonella si moltiplica e si diffonde nell’intestino con la bile per riprendere la via del circolo e causare batteriemia sintomatica. Il periodo di incubazione è solitamente di 7-14 giorni, ma può andare da 3 a 30 giorni. I settimana: l’insorgenza dei sintomi è molto insidiosa ed è caratterizzata da febbre, malessere, inappetenza, anoressia, mialgia, cefalea, dolori addominali. Si può verificare diarrea con una consistenza simile a una purea di piselli; in seguito la stipsi diventa il sintomo dominante. Nausea e vomito sono rari e indicano solitamente la presenza di una complicanza. Alcuni soggetti presentano una grave letargia. La febbre, che aumenta per gradi, diventa costante ed elevata nelle prime settimane, raggiungendo spesso i 40 °C. II settimana: la febbre alta è continua, con peggioramento dell’astenia e dei sintomi addominali. Il paziente, molto compromesso, può presentare delirio e stato soporoso. All’esame obiettivo si può evidenziare: bradicardia relativa che contrasta con la febbre alta, epatosplenomega- 167 Infezioni da alimenti lia, iperestesia addominale, esantema maculare (nel 50% dei pazienti). settimana (80%), ma già alla terza solo in una minoranza degli infetti. Il contrario accade per l’esame colturale delle feci, con massimo di positività alla terza-quarta settimana. III-IV settimana: risoluzione della sintomatologia; malessere e letargia possono persistere per alcuni mesi. La febbre tifoide causata da salmonella non tifoidea è più lieve, di minore durata e presenta meno frequentemente complicanze. La febbre intestinale può manifestarsi nei bambini più piccoli come una lieve malattia febbrile non descritta. Esami di laboratorio: tipica una leucopenia; un aumento dei leucociti può essere la spia di una complicanza (meningite, osteomielite, ecc.); può essere presente un transitorio innalzamento delle ALT (alanina-aminotransferasi). Trattamento Esami di laboratorio: anemia normocitica, leucopenia (ma anche leucocitosi in presenza di ascessi piogeni), piastrinopenia, alterata funzionalità epatica. Proteinuria, sangue e leucociti nelle feci. a) Salmonella non tifoidea. Nel trattamento di routine della gastroenterite da salmonella non sono indicati gli antibiotici. È consigliato il trattamento antibiotico in lattanti e bambini che corrono il rischio maggiore di contrarre una patologia disseminata e in quelli con decorso più grave e prolungato. Inoltre, il trattamento antibiotico (ampicillina, trimetoprim-sulfametossazolo, cloramfenicolo) viene utilizzato in caso di batteriemia o infezioni extraintestinali. La resistenza della salmonella agli antibiotici è sempre più diffusa; è quindi necessario eseguire test di sensibilità antibiotica. La durata della terapia antibiotica è di 10-14 giorni nei bambini con batte- Test diagnostici L’isolamento di salmonella da colture di feci, sangue, urine e dai focolai infettivi in base alla sindrome da salmonella sospettata è diagnostico. I test sierologici per agglutinine da salmonella (“agglutinine febbrili”, reazione di Widal) possono suggerire la diagnosi di S. tiphy. Tuttavia, a causa di risultati falsi positivi e negativi, questi test non sono attendibili. L’emocoltura è positiva nella maggior parte dei pazienti nella prima 168 F. Salvini, S. Di Giacomo MISURE PREVENTIVE riemia, 4-6 settimane per osteomielite acuta e 4 settimane per la meningite. b) Salmonella typhi. Per il trattamento della febbre tifoide è necessaria la terapia antibiotica, in particolare per il tifo. Tuttavia, a causa della crescente resistenza antibiotica, la scelta della terapia empirica adeguata è spesso controversa. Cloramfenicolo, trimetoprim-sulfametossazolo e ampicillina hanno dimostrato una buona efficacia clinica. La febbre recede in genere nel giro di 7 giorni, tuttavia il trattamento di casi non complicati dovrebbe essere proseguito per almeno 10-14 giorni o per 5-7 giorni dopo la defervescenza. È inoltre importante tentare di eliminare lo stato di portatore cronico (escrezione di salmonella nelle feci per più di un anno nel 2-3% dei casi di salmonella tifoidea); tuttavia l’eradicazione è difficile, nonostante la sensibilità “in vitro” all’antibiotico utilizzato. Un ciclo di 4-6 settimane di ampicillina ad alte dosi (o amoxicillina), associata a probenecid o trimetoprim-sulfametossazolo, comporta la guarigione dello stato di portatore nell’80% dei casi. In caso di patologie delle vie biliari si consiglia una colecistectomia entro 14 giorni dal trattamento antibiotico. Il farmaco di scelta per i portatori adulti cronici è la ciprofloxacina. I soggetti ammalati di febbre tifoidea devono essere ricoverati in reparto ospedaliero di isolamento fino a negatività di tre esami colturali delle feci per 3 settimane consecutive. Consumatori e produttori devono essere istruiti sulla preparazione e la cottura di uova e di altri alimenti ad alto rischio. La contaminazione trasversale degli alimenti deve essere evitata. Le uova, il pollame e le carni crudi dovrebbero essere mantenuti separati dagli altri cibi e dagli alimenti pronti da mangiare. Le mani, le lame ed altri utensili dovrebbero essere lavati accuratamente dopo l’utilizzo per qualsiasi alimento, in particolare per gli alimenti crudi. • Cuocere la carne tritata, il pollame e le uova prima del consumo. La carne e il pollame devono raggiungere 65,5 °C. • Evitare alimenti e bevande contenenti uova grezze (maionese, zabaione casalingo), insalata russa e pane tostato francese non abbastanza cotto. • Evitare assolutamente il latte crudo non pastorizzato. • Lavare le mani, le superfici di lavoro della cucina e gli utensili con acqua e sapone e subito dopo il contatto con alimenti di origine animale. 169 Infezioni da alimenti • Fare particolare attenzione agli alimenti per neonati, anziani e soggetti con sistema immune compromesso. Si valuta infatti che un adulto sano deve ingerire 106-108 cellule di salmonella per contrarre la malattia, mentre nei lattanti e nelle persone debilitate basta una carica batterica inferiore. • Lavarsi le mani con sapone dopo il contatto con rettili, anfibi o uccelli con escrementi d’animali domestici. I neonati/lattanti e i soggetti immunocompromessi non dovrebbero avere contatto diretto o indiretto con tali animali. l’efficacia (67-82%). Sono rari gli effetti collaterali importanti. I bambini (6 anni o più) e gli adulti devono ricevere una capsula gastroprotetta ogni 2 giorni per un totale di quattro capsule in otto giorni. Il vaccino orale non è consigliato sotto i 6 anni per l’esperienza limitata. Essendo un vaccino vivo attenuato è controindicato nei pazienti affetti da immunodeficienza. Una dose di richiamo ogni 5 anni è raccomandata solo nel caso di esposizione continua o ripetuta a Salmonella typhi. Nei bambini di 2 anni o più è invece consigliata la vaccinazione con vaccino capsulare CPS polisaccaridico da Vi CPS 0,5 ml (25 µg) intramuscolo. Anche gli effetti collaterali di Vi CPS sono minimi. È raccomandata una dose di richiamo ogni 2 anni dopo la dose primaria se l’esposizione è continua e ripetuta. Si consiglia un vaccino tifoide ai visitatori di aree endemiche, soprattutto America Latina, Sud Est Asiatico ed Africa. È importante ricordare che il vaccino non sostituisce l’igiene personale e una scelta attenta di cibi e bevande, in quanto nessun vaccino ha un’efficacia del 100%. Si consiglia la vaccinazione a persone a stretto contatto con un portatore noto, anche al fine di controllare le epidemie. Vaccinazioni Sono disponibili tre vaccini contro S. typhi (Tabella 3). Il vaccino termofenolo-inattivato offre una scarsa protezione (51-76% di efficacia) ed è associato a effetti collaterali come febbre, reazioni locali, cefalea, in almeno il 25% dei vaccinati. Questo vaccino è consigliato solo in bambini con meno di due anni di età ad alto rischio di esposizione. La vaccinazione primaria consiste in due dosi (0,25 ml ciascuna) sottocute con un intervallo di 4 settimane. Un secondo vaccino consiste in un preparato orale vivo-attenuato del ceppo Ty21a di S. typhi (Vivotif). Diversi studi ne hanno dimostrato 170 F. Salvini, S. Di Giacomo Tabella 3 I vaccini antitifo disponibili Vaccino Tipo Via di somministrazione Età minima del ricevente in anni N. dosi Frequenza dei richiami in anni Effetti Avversi (%) Inattivato da calore e fenolo Cellula intera uccisa Sottocutanea 0,5 2 3 < 35 Ty21a Vivo attenuato Orale 6 4 5 5 Vi CPS Polisaccarido Intramuscolare 2 1 2 <7 completa consente ai batteri di sopravvivere e di essere ingeriti, mentre una corretta cottura dell’alimento distrugge le tossine e i microrganismi presenti. Oltre alla carne poco cotta, altri veicoli del batterio sono il latte non pastorizzato e gli ortaggi irrorati da acqua contaminata proveniente da sistemi idrici non clorati. È possibile, inoltre, il passaggio diretto animale-uomo e uomo-uomo, per via orofecale. Le infezioni sono prevalentemente sporadiche e meno frequentemente epidemiche, particolarmente tra soggetti istituzionalizzati. Enterocolite da escherichia coli enteroemmoragica (echec) Eziologia Causata prevalentemente dal ceppo 0157: H7 di Escherichia coli, descritto la prima volta negli USA nel 1982, in circa 50 soggetti che avevano consumato hamburger contaminati. Epidemiologia Il principale serbatoio del batterio è il bestiame, la cui carne viene accidentalmente inquinata con il contenuto intestinale durante la macellazione o la preparazione degli alimenti (enterite da hamburger). Con la macinazione, il batterio dalla superficie della carne viene fatto penetrare all’interno, dove la cottura in- Patogenesi La virulenza si correla principalmente alla capacità dell’E. coli 0157 di produrre, a livello della mucosa intestinale, due tossine (VT1 e VT2), chiamate “verotossine”, perché hanno un effetto citopatico 171 Infezioni da alimenti sulle cellule VERO, o “Shigatossine”, in quanto simili a quelle prodotte da Shigella dysenteriae. VT1 e VT2 hanno una duplice azione: a livello locale riescono a inibire la sintesi proteica delle cellule cui aderiscono, legandosi alla subunità 60 S dei ribosomi, e a livello sistemico inducono un’importante liberazione dei fattori dell’infiammazione, responsabile di severe complicanze. Tuttavia non tutti i ceppi produttori di verotossine sono patogeni; sono in genere necessari altri fattori di virulenza, tra cui appunto la capacità del ceppo di aderire alle cellule epiteliali intestinali. presenti aree di infiltrazione neutrofila nella lamina propria, ascessi criptici e pseudomembrane. L’interessamento maggiore è a livello del tratto cecale. La sintomatologia compare dopo circa 3-4 giorni dal consumo del cibo inquinato e ha un decorso di circa 6-7 giorni. Un’importante complicanza di questa infezione è la sindrome emolitico-uremica (HUS), che compare in circa il 6% dei soggetti con diarrea emorragica e si caratterizza per una letalità del 3-5%. Si ritiene che la sindrome sia conseguente al passaggio in circolo della tossina. Tale sindrome si manifesta con anemia emolitica, piastrinopenia, microangiopatia, insufficienza renale, talora manifestazioni neurologiche (convulsioni, sopore, coma, vasculopatie cerebrali a focolaio) e segni di interessamento epatico e pancreatico. In altri casi la complicanza è rappresentata soltanto da una porpora trombotica piastrinopenica (TTP), con compromissione renale modesta. I fattori di rischio più importanti per lo sviluppo di HUS/TTP sono l’età inferiore a 15 anni e superiore a 65 anni, la presenza di ipocloridria, un elevato valore di PCR, la conta dei leucociti plasmatici superiore a 11,0x103/µl e la temperatura corporea superiore a 38 °C. Inoltre, una terapia antibiotica condotta prima dell’infezione può predisporre a queste complicanze. Sintomatologia Il quadro clinico è variabile. Si possono riscontrare forme asintomatiche o forme con diarrea non caratteristica, acquosa; più frequentemente si osserva una forma diarroica emorragica molto severa accompagnata da dolori addominali intensi e, talora, nausea e vomito. Le feci sono in genere striate di sangue, ma talvolta il soggetto può evacuare sangue franco e coaguli. La febbre è di norma assente o moderata e la conta dei leucociti è in genere superiore a 10x103/µl. All’endoscopia, la mucosa colica appare iperemica, edematosa, con aree necrotiche focali; possono essere 172 F. Salvini, S. Di Giacomo Diagnosi Profilassi Si ottiene mediante identificazione dei ceppi EHEC in coprocoltura con antisieri specifici, che deve essere appositamente richiesta se si sospetta l’infezione. È possibile, inoltre, effettuare una diagnosi sierologica, ricercando gli anticorpi diretti contro il lipopolisaccaride 0157. È fondamentale prevenire e controllare le epidemie, informando i soggetti circa il rischio di contrarre l’infezione con l’assunzione di carne poco cotta e segnalando immediatamente ai dipartimenti sanitari locali i casi riscontrati. Infezione da enterobacter sakazakii Terapia La terapia è essenzialmente sintomatica: il trattamento di supporto, mediante reidratazione e correzione dello squilibrio elettrolitico, e delle complicanze, quali l’insufficienza renale e l’anemia, sono fondamentali per garantire la sopravvivenza del soggetto. La maggior parte dei pazienti mostra in genere un recupero completo senza sequele. Anche per l’HUS il trattamento si basa sulla reidratazione e solo nei casi più gravi è necessario ricorrere alla dialisi. Altre misure includono la plasmaferesi, la trasfusione di plasma fresco congelato e la somministrazione endovenosa di immunoglobuline. Non esistono prove circa l’efficacia degli antibiotici, i quali sembrano addirittura peggiorare il decorso dell’infezione. Eziologia E. sakazakii è un bacillo mobile, Gram-negativo, appartenente alla famiglia delle Enterobacteriaceae. Tale germe, noto fino al 1980 come “yellow-pigmented Enterobacter Cloacae”, è stato di seguito rinominato Enterobacter sakazakii. È comunemente presente nell’ambiente e in condizioni normali non è patogeno; dati di letteratura degli ultimi anni lo indicano come patogeno emergente in grado di causare sepsi, meningite ed enterocolite necrotizzante in neonati, in particolare nei prematuri o nei bambini immunodepressi. È inoltre una causa rara di batteriemia e osteomielite negli adulti. 173 Infezioni da alimenti Epidemiologia Diagnosi L’habitat naturale del batterio è sconosciuto. Diverse indagini condotte negli ultimi anni e segnalazioni del CDC (Centers for Disease Control and Prevention) di Atlanta hanno rivelato che l’infezione può essere associata all’utilizzo di formule di latte in polvere contaminate da tale germe. Il rischio per l’infezione può dipendere da diversi fattori, tra cui la carica batterica presente nel prodotto, la manipolazione dopo la preparazione e le caratteristiche del paziente (immunosoppressione, prematurità o basso peso alla nascita). È possibile mediante coltura del batterio su terreni arricchiti, le cui colonie manifestano una caratteristica colorazione giallastra, o mediante PCR. Nella gestione dei pazienti con riscontro di E. sakazakii nel sangue o nel liquido cerebrospinale, è utile eseguire la TC dell’encefalo che, in quasi tutti i casi, documenta la presenza di alterazioni cistiche, ascessi, raccolte di fluidi, ventricoliti o infarcimenti cerebrali. Poiché il rischio di idrocefalo è elevato, tali pazienti vanno seguiti con un attento follow-up e con TC dell’encefalo ripetute nel tempo. Patogenesi Terapia Studi di laboratorio hanno dimostrato che l’azione patogena del batterio è legata alla produzione di un’enterotossina letale. Tradizionalmente la meningite da E. sakazakii viene trattata con ampicillina e gentamicina o ampicillina e cloranfenicolo. Tuttavia, per l’aumentata resistenza all’antibiotico, vengono oggi presi in considerazione i carbapenemi o le più recenti cefalosporine associate a un secondo agente antibatterico, come un aminoglicoside. Sintomatologia L’infezione si manifesta con meningite, frequentemente complicata dalla formazione di ascessi cerebrali, batteriemia o enterocolite necrotizzante. Il tasso di mortalità è circa del 50 % e, in quasi tutti i pazienti colpiti, il coinvolgimento del SNC, in caso di sopravvivenza residua, in ritardo mentale. Profilassi La profilassi è aspecifica e si identifica, per il lattante, nell’utilizzo 174 F. Salvini, S. Di Giacomo della formula liquida sterilizzata disponibile in commercio, poiché il latte in polvere non è sterile e può quindi rappresentare un buon mezzo di coltura per l’E. sakazakii; inoltre, periodi prolungati di stoccaggio e la somministrazione a temperatura ambiente possono amplificare la carica batterica presente. Un’alternativa all’utilizzo della formula liquida, è rappresentata dall’adozione di procedure asettiche durante la preparazione del latte in polvere, condotte esclusivamente da personale specializzato. A questo fine sono state avanzate delle linee-guida dall’American Dietetic Association (ADA) che indicano la corretta norma di preparazione e di conservazione del prodotto. Vibrio cholerae Eziologia Vibrio cholerae è un batterio Gram-negativo, mobile per mezzo di un singolo flagello polare, di cui si conoscono diversi sierogruppi. Non è invasivo e colpisce di solito l’intestino tenue. Produce un’enterotossina composta da subunità A e B. La subunità A è la parte attiva della tossina, che entra nella cellula ed è responsabile del cambiamento del metabolismo cellulare stesso. Questo condizionamento cellulare induce un aumento di secrezione di acqua e sali, determinando una diarrea secretiva. V. cholerae 01, di cui il biotipo El Tor è attualmente dominante, è responsabile della settima pandemia, attualmente in corso (Figura 1). Figura 1 Diffusione globale di colera durante la settima pandemia 1970 1963 1971 1965-68 1970 1965-66 1964 1970 1962 1963 1970 1971 1971 175 1961 Infezioni da alimenti Questa pandemia è iniziata nel 1961, quando il vibrione è comparso come causa del colera epidemico in Indonesia. Da allora, la malattia si è rapidamente estesa ad altri paesi dell’Asia (Bangladesh, India, Urss, Iran e Iraq); negli anni ’70 l’epidemia ha raggiunto l’Africa, che non aveva avvertito la presenza di epidemie di colera da più di 100 anni, diventando endemica nella maggior parte del continente. Nel 1991 El Tor ha raggiunto l’America Latina dove in un anno si è diffuso in 11 paesi. Disastri naturali e provocati dall’uomo possono aumentare considerevolmente il rischio di epidemie: ad esempio nel 1994 nei campi di rifugiati ruandesi si sono verificati almeno 48.000 casi di colera. Fino al 1992, soltanto il sierogruppo 01 di V. cholerae ha causato il colera epidemico, mentre altri sierogruppi sono stati responsabili di casi sporadici di diarrea. In quell’anno, India e Bangladesh hanno conosciuto un’epidemia provocata da un sierogruppo precedentemente sconosciuto, V. cholerae 0139, denominato Bengala. Attualmente solo i ceppi 01 e 0139 sono in grado di causare epidemie. Ciò non esclude però la possibilità di nuove pandemie. Ad esempio, El Tor fu originariamente isolato come ceppo non virulento nel 1905, ma in seguito ha acquisito sufficiente virulenza per causare la pandemia attuale. I casi ufficiali riportati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2002 sono 123.986 con 3.763 decessi. La grande maggioranza di essi si è verificata in Africa, soprattutto in Congo, Malawi, Mozambico e Sud Africa, dove si sono verificati oltre 90.000 casi pari al 72,6% del totale annuo. In Europa sono stati segnalati 5 casi e nessun decesso, tutti attribuibili a malattia da importazione. Tali numeri sono da considerarsi una sottostima dei casi reali, dato che in molti paesi del sud del mondo i sistemi di sorveglianza e di denuncia di malattia sono poco organizzati e capillari. Trasmissione L’uomo è l’unico ospite naturale certo; è possibile dimostrare la presenza di organismi vitali nelle acque dove la presenza del Vibrio cholerae è associata alla fioritura di alghe (plancton), influenzata dalla temperatura dell’acqua. Liberato nell’ambiente, il vibrione del colera non sopravvive più di 7 giorni. 176 F. Salvini, S. Di Giacomo La più comune via di contagio è rappresentata dall’ingestione di acqua contaminata, oppure da crostacei, molluschi crudi o poco cotti, grano umido conservato a temperatura ambiente e pesce crudo o parzialmente secco. La bollitura dell’acqua, il trattamento con iodio o cloro e l’adeguata cottura dei cibi uccidono il germe. I soggetti con bassa acidità gastrica sono a maggior rischio di infezione colerica. Non vi è prova di possibile trasmissione interumana. Nelle zone altamente endemiche, il colera è prevalentemente una malattia dei bambini in giovane età, mentre gli allattati al seno ne sono meno frequentemente colpiti. siemia e acidosi che possono condurre a shock ipovolemico, coma, convulsioni e ipoglicemia. Le feci sono caratteristiche e si presentano incolori con “fiocchi di muco”; vengono definite ad “acqua di riso”. La maggior parte delle persone infettate non contrae la malattia, anche se il batterio è presente nelle feci per 7-14 giorni. Nei casi di contagio, più del 90% degli episodi sono di severità lieve o moderata e sono difficili da distinguersi clinicamente da altri tipi di diarree acute. Meno del 10% dei casi sviluppa il colera nella sua forma più grave. Tale variabilità è data dalla carica batterica ingerita, dal numero di recettori intestinali per il colera e per le sue tossine. Inoltre un ruolo di primo piano nel manifestarsi della malattia è giocato dalla memoria immunitaria, come è dimostrato nei paesi fortemente endemici in cui l’incidenza di malattia è relativamente bassa tra gli adulti rispetto ai bambini. Manifestazioni cliniche Il periodo di incubazione è solitamente di 1-3 giorni, variando da alcune ore fino a 5 giorni, quando compare diarrea acquosa non accompagnata da dolore addominale o febbre. Il vomito è presente nella maggior parte dei casi. Nelle sue manifestazioni severe, è una delle malattie infettive che può più rapidamente portare a disidratazione e a morte se il trattamento non viene iniziato prontamente. Nel giro di 4-12 ore può causare disidratazione, ipopotas- Diagnosi La diagnosi avviene con esame delle feci al microscopio in contrasto di fase e deve essere confermata con esame colturale su terreni specifici. 177 Infezioni da alimenti Trattamento se), sono gli antibiotici di scelta; la resistenza alla tetraciclina sta aumentando e tale antibiotico non è raccomandato nei bambini sotto gli 8 anni, a causa dei danni ossei e allo smalto dentale, ma in caso di colera i benefici possono superare i rischi. Altri antibiotici efficaci sono eritromicina (40 mg/kg/die fino al massimo di 1 g), trimetoprim/sulfametossazolo (8 mg/kg/die TMP + 40 mg/kg/die SMX) ed il furazolidone (5,5 mg/kg/die fino a un massimo di 1400 mg). Quando il colera si presenta in una comunità che non possiede un adeguato sistema di sorveglianza o qualora manchino le condizioni per la diagnosi e il trattamento, i tassi di letalità possono arrivare al 50%. Di contro, in un paese organizzato dal punto di vista sanitario la percentuale di decessi causati dalla malattia può essere inferiore all’1%. La maggior parte dei casi di diarrea causati da V. cholerae possono essere trattati adeguatamente con una terapia reidratante per bocca (il sacchetto standard ORS-Oral rehidratation-salt di OMS/UNICEF è considerato uno dei presidi di salute pubblica a miglior costo/beneficio). Durante l’epidemia, l’80-90% dei pazienti con diarrea può essere curato tramite la reidratazione orale, ma i pazienti che sono severamente disidratati devono essere trattati con soluzioni reidratanti per via endovenosa. Nei casi severi, un antibiotico efficace può ridurre volume e durata della diarrea, oltre che il periodo di escrezione del vibrione. Tetraciclina (50 mg/kg/die fino a un massimo di 2 g/die, in 4 somministrazioni per 3 giorni) oppure doxiciclina (6 mg/kg/die fino a un massimo di 300 mg in singola do- Controllo epidemico e misure preventive Quando il colera compare in una comunità è essenziale: 1) l’eliminazione igienica delle feci umane; 2) un rifornimento sufficiente di acqua potabile; 3) la predisposizione di misure efficaci di igiene alimentare. Le misure efficaci di igiene alimentare includono la cottura completa dell’alimento e il suo consumo mentre è ancora caldo. Evitare la contaminazione degli alimenti cucinati, tramite il contatto con superfici contaminate o con mosche ed evitare frutta e ortaggi non sbucciati. Lavarsi le mani dopo defeca- 178 F. Salvini, S. Di Giacomo zione e prima del contatto con alimenti o acqua potabile. Il trattamento sistematico di una comunità con antibiotici, "la chemioprofilassi totale", non ha effetto sulla diffusione del colera. L’installazione di cordoni sanitari alle frontiere coinvolge risorse umane ed economiche che dovrebbero essere dedicate a misure di controllo efficaci e impedisce la collaborazione fra istituzioni e paesi che dovrebbero unire i loro sforzi per combattere il colera. Recentemente sono diventati disponibili in alcuni paesi stock limitati di due vaccini orali anti colera che assicurano la protezione ad alto livello per parecchi mesi contro il colera causato da V. cholerae 01. Entrambi sono consigliabili ai viaggiatori, anche se non sono stati ancora usati su vasta scala per scopi di sanità pubblica. L’uso del sistema vaccinale per evitare gli scoppi delle epidemie non è suggerito, perchè può dare un senso falso di sicurezza agli individui vaccinati e ai servizi sanitari, portandoli a trascurare le misure più efficaci. Nel 1973 la Organizzazione Mondiale della Sanità ha cancellato dalle regolazioni internazionali di salute il requisito della presentazione di un certificato di vaccinazione del colera. Oggi nessun paese richiede la prova della vaccinazio- ne del colera come condizione indispensabile per l’ingresso e il certificato di vaccinazione internazionale non possiede più uno spazio specifico per la registrazione di tali vaccinazioni. Vaccinazione Vibrio cholerae 01 L’osservazione che l’infezione naturale conferisce immunità di lunga durata ha spinto la ricerca a sviluppare vaccini. Il primo tentativo di vaccino è del 1960: somministrato per via parenterale conferiva protezione immunitaria del 90% ed efficacia per un anno. Le caratteristiche ideali del vaccino dovrebbero essere il mantenimento dei requisiti di patogenicità per la colonizzazione intestinale (motilità, fimbrie, neuroaminidasi), senza produrre tossine complete, ma solo la subunità B: quest’ultima determina la produzione di anticorpi che andrebbero a competere a livello recettoriale sul sito di legame tossina-cellula epiteliale. Il rischio di infezione per i viaggiatori che seguono norme precauzionali è molto basso anche in zone endemiche, tanto che la vaccinazione non è generalmente consigliata. Sono stati sviluppati due nuovi vaccini anticolera che hanno dimostrato di 179 Infezioni da alimenti possedere una buona efficacia e immunogenicità. Un vaccino (Cholerix, SBL Vaccin AB, Stoccolma) è costituito da vibrioni del sierotipo 01 uccisi associati o meno con la subunità B ricombinante della tossina colerica (WC/rBS). Sperimentazioni cliniche condotte in Bangladesh, Colombia, Perù e Svezia hanno evidenziato che due dosi conferiscono un alto grado di immunità (85%) e una breve protezione (per 4-6 mesi) nei confronti del biotipo El Tor. Il secondo è un vaccino orale vivo attenuato, costituito da vibrioni del ceppo Inaba 569 (CVD 103 HgR) resi deficitari del gene che codifica la subunità A della tossina (Orochol Berna Istituto Svizzero di Sieri e Vaccini, Berna). Si tratta di una preparazione liofilizzata (contenente 5x108 batteri) che viene disciolta con un tampone in acqua e assunta a stomaco vuoto. La protezione compare dopo una settimana e perdura per circa 6 mesi; non è attualmente raccomandata una dose di richiamo. Non vanno somministrati contemporaneamente farmaci antimalarici, chinoloni o altri antibiotici attivi nei confronti di V. cholerae; la vaccinazione antitifica orale va differita di almeno 3 settimane. Il vaccino è controindicato in caso di gastroenteriti e nei pazienti con immunodeficienza. Dopo una singola somministrazione sembra conferire un’ottima protezione nei confronti del colera sostenuto da biotipi classici o El Tor, mentre non induce una protezione nei confronti del ceppo di V. cholerae 0139. I vaccini possono essere indicati per viaggiatori ad alto rischio che passino periodi prolungati in aree rurali o in campi profughi in paesi in cui la malattia è endemica. Vibrio cholerae Bengala Esiste un vaccino acellulare attivo contro Vibrio cholerae Bengala, ma che non produce immunità residua da Vibrio cholerae 01. Denuncia In tutti i paesi del mondo il colera è una malattia da denunciare alle autorità sanitarie che devono essere informate prontamente di ogni caso di colera noto o presunto dovuto a V. cholerae 01 e 0139 Bengala. Commercio di prodotti alimentari che vengono dalle regioni infettate dal colera Il Vibrio Cholerae 01 può sopravvivere in una vasta varietà di derrate alimentari fino a cinque giorni a temperatura ambiente e fino a 10 giorni a 5-10 °C. 180 F. Salvini, S. Di Giacomo Il microrganismo può sopravvivere anche congelato. Le basse temperature, tuttavia, limitano la proliferazione del vibrione e possono impedire che il livello di contaminazione raggiunga una dose infettiva. Il vibrione è sensibile all’acidità e all’essiccamento e gli alimenti silicei (pH 4,5) o secchi sono quindi senza rischio. L’irradiazione e le temperature superiori a 70 °C distruggono il vibrione. Gli alimenti che causano la preoccupazione più grande ai paesi di importazione sono frutti di mare e verdure che possono essere consumati crudi. Tuttavia, soltanto in rari casi tossinfezioni da colera si sono presentate come conseguenza del consumo di un alimento. L’OMS a oggi non ha documentato un’epidemia significativa di colera causata da alimenti provenienti da paesi “a rischio”. Di conseguenza, l’OMS non ritiene giustificate limitazioni di importazione alimentari basate sul solo fatto che il colera sia epidemico o endemico in un paese. ceppi di C. perfrigens di tipo A sono in grado di elaborare una potente enterotossina termolabile, capace di provocare una profusa diarrea, mentre i ceppi di tipo C provocano una grave forma di enterite necrotizzante. Eziologia Appartenente alla famiglia dei Clostridium, è un bacillo Gram-positivo, anaerobio, capsulato, immobile. In forma vegetativa, poco resistente agli agenti chimici e fisici, elabora esotossina ad azione necrotizzante ed emolitica. È un batterio sporigeno e le spore prodotte sono molto resistenti al calore, al freddo all’essiccamento. Epidemiologia Il C. per frigens è ubiquitario nell’ambiente e spesso è presente su carne e pollami crudi. L’inquinamento può avvenire nei mattatoi o nelle cucine. L’agente eziologico può essere isolato da numerosi campioni di carne cruda, da feci di animali o umane (soggetti sani). Sporulando, il germe sopravvive all’iniziale cottura; le spore germinano e proliferano durante il raffreddamento, dando luogo a forme vegetative con produzione di tossine. Clostridium Perfrigens Il Clostridium perfrigens è responsabile di una importante tossinfezione alimentare; in particolare alcuni 181 Infezioni da alimenti Una volta ingerite, le spore continuano a germinare nel tubo digerente, elaborando nuova tossina, i cui effetti si sommano a quelli della tossina preformata eventualmente presente nell’alimento (tossinfezione). Dopo essere state ingerite, le spore e l’enterotossina provocano la sintomatologia caratteristica. Le fonti alimentari più comuni sono carne di manzo, pollame, sughi e cibi liofilizzati e precotti. Frequentemente l’infezione viene contratta in banchetti, scuole, campeggi, o da cibi prodotti in grande quantità e mantenuti riscaldati per lungo tempo. Questa forma di enterite non ha trasmissione interpersonale. Il periodo d’incubazione è di circa 6-24 ore. le capacità di riassorbimento del resto dell’intestino, si instaura diarrea acquosa. Buona parte della sintomatologia deriva invece dall’assunzione della tossina preformata. Da qui la definizione di tossinfezioni alimentari. Clinica L’intossicazione alimentare da C. perfrigens è caratterizzata dall’improvvisa insorgenza, a distanza all’incirca di 8 ore dall’ingestione dell’alimento inquinato, di diarrea acquosa, dolore epigastrico crampiforme (moderato o grave). Raramente si osserva vomito o febbre. In genere la sintomatologia si risolve nel giro di 24-48 ore. L’assenza di febbre permette di distinguere questa enterite dalla shigellosi e dalla salmonellosi, mentre la rarità del vomito e il più lungo periodo d’incubazione la differenziano dall’intossicazione alimentare da metalli pesanti, da Staphylococcus aureus e da pesci e molluschi. Spesso l’enterite da C. perfrigens è indistinguibile da quella da Bacillus cereus. L’enterite necrotizzante è diffusa in Papua e Nuova Guinea, dove è responsabile di grave malattia e di morte. Patogenesi Una volta ingerite le spore e prodotta la tossina, questa altera la via metabolica dell’adenilato-ciclasi, inibendo così il sistema di riassorbimento del sodio nelle cellule dei villi, e attiva il sistema di escrezione dei cloruri dalle cripte; si verifica così un progressivo aumento della quantità di cloruro di sodio contenuta nel lume intestinale, cui segue passivamente l’acqua. Quando il volume di tale liquido supera 182 F. Salvini, S. Di Giacomo Diagnosi Profilassi È possibile isolare l’agente responsabile dalle feci del paziente o dall’alimento inquinato. Considerato che il C. perfrigens è di frequente riscontro nelle feci di soggetti sani, per parlare di infezione è necessario isolare almeno 10 6 spore di C. perfrigens per grammo di feci raccolte entro 48 ore dall’esordio della sintomatologia. L’enterotossina in causa può essere messa in evidenza nelle feci anche con metodiche immunoenzimatiche (ELISA) o ricorrendo a specifici kit. Per considerare inquinato uno specifico alimento è necessario dimostrare una concentrazione di forme vegetative di almeno 10 5 per grammo. La diagnosi andrebbe fatta sulle feci piuttosto che su tamponi rettali, per poter in questo modo valutare il numero di spore. Si basa essenzialmente sulle opportune norme di manipolazione e di conservazione degli alimenti (cottura, refrigerazione). Clostridium Botulinum Il botulismo è una grave malattia neuroparalitica causata dalla potente neurotossina del Clostridium botulinum. Tale tossina produce la paralisi dei muscoli scheletrici tramite l’inibizione del rilascio presinaptico di acetilcolina. Si riconoscono quattro differenti entità cliniche, a seconda della via di contagio verificatasi. Il botulismo alimentare si osserva quando cibi inquinati dalle spore di C. botulinum siano stati conservati in condizioni inadeguate e in anaerobiosi, permettendone in questo modo la germinazione, la moltiplicazione e la produzione di tossine. La malattia consegue dunque all’ingestione di cibo non adeguatamente cotto contenente la neurotossina. Terapia È unicamente sintomatica. Nei casi di grave disidratazione è utile ricorrere a una terapia reidratante orale o endovenosa. Non è indicata alcuna terapia antibiotica. Il botulismo infantile insorge quando le spore di C. botulinum colonizza- 183 Infezioni da alimenti no l’intestino dove producono la tossina botulinica. mente all’ingestione di cibo conservato in scatola (soprattutto pesce e verdure), di insaccati o di mascarpone contaminati dalla tossina preformata. In particolare fattori favorenti la germinazione delle spore e la produzione di tossine sono un pH poco acido, una bassa tensione di ossigeno e un alto contenuto di ossigeno stesso. Nel 90% dei casi si tratta di alimenti conservati artigianalmente in ambiente domestico; i prodotti industriali infatti risultano meno pericolosi grazie alle procedure di controllo utilizzate dalle aziende produttrici. Generalmente l’intossicazione alimentare si presenta in piccoli episodi epidemici. Il botulismo alimentare è di rara osservazione nei bambini. Il botulismo alimentare può essere causato dalle tossine A, B, E; in particolare la neurotossina E si associa generalmente all’ingestione di pesce contaminato, il tipo A determina casi clinicamente severi, mentre il tipo B si associa a casi di modesta gravità. Ha un periodo d’incubazione di 1236 ore e non sviluppa immunità contro la tossina anche dopo una grave malattia. Il botulismo da ferita compare quando, in seguito alla penetrazione delle spore attraverso soluzioni di continuo della cute, si verifica la produzione della tossina nei tegumenti. Infine, una percentuale variabile di casi di botulismo è di natura indeterminata. Eziologia Il Clostridium botulinum è un bacillo anaerobio obbligato, Gram-positivo, che produce spore molto resistenti al calore (fino a 120 °C), presenti nel suolo e nelle acque marine, dove spesso contaminano prodotti agricoli e ittici. Dopo la germinazione delle spore avviene l’elaborazione della neurotossina, della quale ne sono stati identificati sette tipi. Il botulismo umano è provocato dalle tossine A, B, E, F, mentre quello che colpisce gli altri animali è causato dai tipi C e D. La quasi totalità dei casi di botulismo infantile e alimentare è provocato dai tipi A e B. Il botulismo da ferita rappresenta la forma più rara. Dovuto alla crescita del batterio e alla sua produzione di tossine all’interno di tessuti traumatizzati, Epidemiologia Il botulismo alimentare (mediana annua dei casi = 24) consegue abitual- 184 F. Salvini, S. Di Giacomo riconosce come eventi predisponenti le ferite traumatiche o chirurgiche di grande entità e, negli ultimi anni, l’uso di droghe per via iniettiva. Il periodo di incubazione è di 4-14 giorni tra il momento della lesione e l’esordio della sintomatologia. grassi volatili e di numerosi microrganismi intestinali (Bacteroides sp, Lactobacillus e altri clostridi), sono fattori in grado di inibire la crescita di C. botulinum. Alcuni studi effettuati su ratti hanno identificato come fattori di rischio per l’impianto di C. botulinum la presenza a livello intestinale di batteri coliformi e di enterococchi, preceduta da una colonizzazione anaerobia (condizione che si verifica al momento del divezzamento). I bambini allattati artificialmente hanno una flora di tipo putrefattivo, con crescita predominante di batteri anaerobi e Bacteroides sp. mentre i bambini allattati al seno hanno una flora di tipo fermentativo con predominanza di lattobacilli e bifidobatteri, un basso pH intestinale e alti livelli di lattoferrina, tutti fattori che sembrano sfavorire la crescita del C. botulinum. In questi bambini però, all’inizio del divezzamento l’introduzione di alimenti diversi dal latte materno determina una modificazione della flora intestinale, aumentando così il rischio di colonizzazione da parte del C. botulinum. Questo è dimostrato anche da uno studio condotto in Pennsylvania, nel quale sono stati valutati 43 casi di botulismo infantile verificatisi tra il 1976 ed il 1983: di questi, il 100% era allattato al Il botulismo infantile (mediana annua dei casi = 71) secondo i CDC rappresenta ormai la forma più frequente, superando ampiamente come incidenza quella della forma alimentare. Esso si sviluppa quasi esclusivamente in bambini di età inferiore a sei mesi e deriva dall’ingestione di spore di C. botulinum; una volta ingerite, le spore germinano, proliferano e producono la tossina nell’intestino. Il periodo d’incubazione è variabile da 3 a 30 giorni dall’ingestione del cibo contaminato da spore. Non è noto perché la malattia colpisca alcuni lattanti mentre in altri l’ingestione delle spore rimanga inoffensiva. Flora intestinale e botulismo infantile Sembra che lo sviluppo delle spore nell’intestino sia strettamente correlato al tipo di microflora che colonizza l’intestino. È stato dimostrato che basso pH, carenza di nutrienti, presenza di acidi 185 Infezioni da alimenti seno al momento dell’insorgenza dei sintomi e quasi tutti i bambini erano stati divezzati nelle quattro settimane precedenti l’esordio della malattia. Nella flora intestinale dei soggetti affetti è stata poi identificata la predominanza di Enterobacteriaceae e di altri anaerobi, facendo così ipotizzare che il maggior rischio per la colonizzazione da parte del C. botulinum si abbia in momenti diversi a seconda del tipo di allattamento. In particolare il bambino allattato con formula sembra essere a maggior rischio già dalle prime settimane di vita, durante le quali sono presenti elevati livelli di enterococchi e Bacteroides. L’allattato al seno, invece, sembra presentare un livello massimo di rischio più tardivamente, in relazione all’epoca di inizio del divezzamento, conseguente alle modificazioni della flora intestinale che si verifica in questo periodo. Sin dalla scoperta della malattia si è posto il problema di individuare la fonte delle spore del clostridio. Molteplici sono gli alimenti che possono essere contaminati da spore del C. botulinum; tra questi il maggiormente implicato è il miele. Analisi microbiologiche condotte su questo alimento hanno evidenziato la presenza di spore del botulino nel 25% dei prodotti. In letteratura sono stati riportati molti casi di botulismo infantile secondari al consumo di miele; in particolare indagini effettuate in occasione di casi accertati di botulismo infantile in Canada, USA, Italia, Giappone, Argentina e Norvegia, solo il miele è stato dimostrato veicolare le spore di C. botulinum. L’analisi di residui di miele utilizzato da questi bambini ha evidenziato la presenza di una discreta carica di spore e mai di tossina. Questo è dovuto al fatto che il processo di maturazione del miele favorisce la crescita delle spore al suo interno, soprattutto se le condizioni di microanaerobiosi sono state create dal metabolismo ossidativo del Bacillus alvei, un altro comune contaminante del miele. Purtroppo i trattamenti convenzionali per distruggere le spore non possono essere utilizzati per il miele, perché ne altererebbero profondamente le caratteristiche organolettiche. Per tale motivo le più importanti associazioni sanitarie in Usa e in Europa, compresa l’Italia, hanno raccomandato di evitare l’uso del miele nei bambini al di sotto del primo anno di vita. Clinica Tranne che nel botulismo infantile, la malattia può esordire acutamente in 186 F. Salvini, S. Di Giacomo poche ore, o più gradualmente in alcuni giorni. Nelle primissime fasi si osserva una paralisi flaccida della muscolatura bulbare cui segue una progressiva discesa simmetrica; solo in un secondo momento si ha un coinvolgimento della muscolatura somatica. A questo punto la paralisi simmetrica può evolvere rapidamente. Per questo motivo i bambini con forme rapidamente progressive, alla prima visita possono già avere segni di ipotonia e debolezza generalizzata. Nei bambini più grandi possono comparire diplopia, offuscamento della vista, secchezza della bocca, disfagia, disfonia e disartria. Nel botulismo infantile il primo sintomo è rappresentato da costipazione che, già nelle prime fasi della malattia, si accompagna a letargia, scarsa alimentazione, pianto flebile, diminuzione dei riflessi rotulei, lieve paralisi oculare. Nell’arco di tre giorni compaiono scarsa suzione, perdita del controllo del capo, ipotonia e debolezza generalizzate (floppy infant), riduzione dei movimenti spontanei. A questi segni e sintomi si associano tachicardia, ipotensione, vescica neurologica. La malattia può presentare uno spettro clinico ampio, potendo andare da un’iniziale manifestazione lieve che può passare inosservata, alla forma di botulismo fulminante, indistinguibile per storia e presentazione dalla morte improvvisa in culla (SIDS). Test diagnostici Un test di bioneutralizzazione della tossina del topo viene utilizzato per identificare la tossina botulinica in campioni di siero, feci o cibi sospetti, mentre terreni arricchiti e selettivi sono utilizzati per isolare il C. botulinum dalle feci e dai cibi. Nelle forme infantili o da ferita, la diagnosi viene posta dimostrando il microrganismo o la neurotossina nelle feci, nell’essudato delle ferite o in campioni tissutali. Andrebbero esaminati sia il siero sia le feci dei bambini con sospetto botulismo. Se i campioni di siero sono stati raccolti a più di tre giorni di distanza dall’ingestione delle spore non sono da considerarsi attendibili e bisogna ricorrere all’esame di coprocolture e a colture di aspirati gastrici. Anche l’elettromiografia può fornire elementi utili per la diagnosi. Si può infatti osservare con stimolazione nervosa ad alta frequenza (più di 20 cicli per secondo) una risposta aumentata dei potenziali muscolari evocati e, più frequentemente, si può osservare un 187 Infezioni da alimenti Tabella 4 Diagnosi differenziali del botulinismo Botulinismo Segni e sintomi a livello dei muscoli oculobulbari Sindrome di Guillan-Barr Debolezza progressiva, segni di neuropatia, elevati livelli di proteine nel liquor Miastenia grave Anticorpi anti-recettori acetilcolinergici, “edrophonium test” Neuropatia da difterite Essudato tonsillare, neuropatia periferica tardiva Variante di Miller-Fischer Riflessi tendinei profondi assenti, atassia Poliomelite Attacco acuto di debolezza simmetrica, elevati livelli di proteine e cellule nel liquor aspetto caratteristico con potenziali motori brevi, piccoli e frequenti (BSAP). infezioni secondarie, perché la lisi cellulare può aumentare il rilascio di neurotossina da parte del C. botulinum. Da evitare l’uso di aminoglicosidi. Terapia Il principale supporto terapeutico è rappresentato da un’attenta terapia di supporto, soprattutto da un punto di vista nutrizionale e respiratorio. Sembra essere efficace il ricorso al trattamento con antitossina ottenuta dall’uomo: il suo utilizzo sembra essere associato a una riduzione significativa dei giorni di ospedalizzazione, della durata della ventilazione meccanica e della nutrizione parenterale. Il trattamento con antitossina va iniziato al più presto, senza attendere la conferma laboratoristica della diagnosi. Il ricorso alla terapia antibiotica nella forma infantile va riservato alla cura di Prevenzione Nei soggetti asintomatici che hanno ingerito cibi contenenti la tossina botulinica non è raccomandata una profilassi passiva e il ricorso ad antitossina umana va attentamente ponderato. L’eliminazione della tossina può essere facilitata inducendo il vomito o ricorrendo alla lavanda gastrica. Queste misure non vanno però adottate nel botulismo infantile. Cardine della prevenzione resta però un’adeguata informazione circa il metodo di inscatolamento artigianale degli alimenti. 188 F. Salvini, S. Di Giacomo Le fonti d’infezione dei casi denunciati ai CDC sono: • rapporto stretto con una persona infetta in famiglia o nell’ambito di piccole comunità; • viaggi internazionali; • epidemie associate a cibo (cozze, molluschi, verdure crude) o acqua (acqua da fonti non controllate, bevande con ghiaccio preparato con acqua infetta, bagni vicino a fognature) infetti; • attività omosessuale maschile; • uso di droghe per via endovenosa; • rara è la trasmissione madre-bambino. La trasmissione oro-fecale fra persone asintomatiche, particolarmente bambini piccoli, probabilmente rende conto della maggior parte dei casi con causa non riconoscibile. Va sottolineato a questo proposito che non esiste lo stato di portatore cronico del virus HAV e che il serbatoio d’infezione è pertanto rappresentato solo dai soggetti con infezione acuta. Anche in assenza di qualsiasi sintomatologia essi, infatti, eliminano il virus con le feci per un breve periodo di tempo. L’eliminazione fecale è massima nell’ultimo periodo della fase d’incubazione (1-2 settimane prima dell’insorgenza dei sintomi) e si riduce rapidamente dopo la comparsa dell’ittero (1 settimana). Tuttavia, particolarmente EPATITE A L’epatite A è un’infiammazione acuta del fegato che non cronicizza mai. Eziologia Il virus dell’epatite A (HAV) è un virus a RNA, di diametro di 27-28 nm, privo di involucro, classificato come enterovirus 72 appartenente alla famiglia Picornaviridae. L’HAV è stabile in ambiente acido e alla temperatura di 60 °C per un’ora; e viene inattivato dalla bollitura in acqua, dalla formalina per tempi prolungati e dai raggi ultravioletti. L’HAV è presente nel fegato, nella bile, nelle feci e, per un breve periodo, nel sangue durante l’ultima fase del periodo d’incubazione. Modalità di trasmissione ed epidemiologia La più frequente via di trasmissione è da persona a persona per contaminazione fecale e ingestione orale (via orofecale). Va comunque ricordato che sono stati descritti, seppur eccezionalmente, casi di epatite A contratti a seguito di emotrasfusioni. 189 Infezioni da alimenti nel neonato e nel bambino piccolo, il virus si può ritrovare per periodi più lunghi. L’epatite A è diffusa in tutto il mondo sia in forma sporadica sia in forma epidemica. Nei paesi in via di sviluppo, caratterizzati da scarse condizioni igienico-sanitarie, l’infezione si trasmette rapidamente tra i bambini, nei quali la malattia è spesso asintomatica, e molti adulti risultano, pertanto, già immuni all’infezione. Nei paesi economicamente più avanzati, le migliori condizioni igienicosanitarie hanno, invece, determinato una riduzione della diffusione dell’infezione tra i bambini e una conseguente maggior diffusione tra gli adulti, a causa di una più alta proporzione di soggetti suscettibili che hanno un maggior rischio di contrarre forme cliniche evidenti e severe. Nei paesi industrializzati, la trasmissione è frequente in ambito familiare e si verifica sporadicamente negli asili nido, dove sono presenti bambini che fanno uso dei pannolini. L’infezione è altrettanto frequente fra i soggetti che fanno viaggi in paesi in cui la malattia è endemica (Africa, Sud-Est Asiatico, Messico, Sud America). In Italia, l’infezione è, ancora oggi, assai diffusa. Tuttavia il sensibile miglioramento delle condizioni igienicosanitarie ha modificato il quadro epidemiologico: sensibile riduzione del tasso d’incidenza (passato da 5 a 2/100.000 abitanti nel corso degli anni 1985-1995) e progressiva riduzione della prevalenza di soggetti con evidenza sierologica d’infezione pregressa (positività per anticorpi anti HAV di classe IgG) fra i giovani. Tabella 5 Casi notificati di epatite A con fattore di rischio identificato. SEIEVA 2002 Fattori di rischio Fasce di età 0-14 (%) 15-24 (%) >25 (%) TOTALE (%) Consumo di frutti di mare 63 (44) 116 (71) 255 (70) 434 (65) Contatto con itterico nelle 6 settimane 17 (14) 12 (8) 18 (6) 47 (8) Notte fuori città 62 (43) 47 (29) 161 (44) 270 (40) 142 175 434 751 Totale 190 F. Salvini, S. Di Giacomo Patogenesi te dall’HAV. L’effetto citopatico è quindi virus-specifico e funzionalmente collegato al complesso maggiore di istocompatibilità. La patogenesi dell’epatite A non è stata ancora chiarita. Il virus viene diffuso nell’ambiente attraverso le feci dove giunge con la bile, dopo essere stato liberato dagli epatociti infettati. È ignoto come il virus, una volta ingerito con cibo o acqua contaminati, attraversi la mucosa intestinale e si localizzi nel parenchima epatico. Oltrettutto, il passaggio attraverso il canale intestinale non sembra costituire una tappa fondamentale ai fini della localizzazione epatica; basti pensare ai rari casi di trasmissione dell’infezione attraverso emotrasfusioni. Ancora da chiarire sono i meccanismi responsabili della necrosi cellulare. Numerose osservazioni suggeriscono che la necrosi epatocitaria non sia conseguenza dell’attività citopatica del virus, ma della risposta immunitaria dell’ospite all’infezione: l’assenza di attività citopatica “in vitro”, la presenza di replicazione virale nelle settimane precedenti l’esordio clinico della malattia, l’esistenza di un infiltrato infiammatorio (linfomonociti) nel parenchima epatico nel corso della fase acuta. Secondo recenti indagini, inoltre, la gran parte di tali cellule è costituita da linfociti T citotossici (CD8+) che riconoscono in modo specifico cellule infetta- Diagnosi La diagnosi di infezione da HAV si basa sulla ricerca degli anticorpi specifici. Test sierologici per gli anticorpi IgG e IgM anti-HAV sono disponibili in commercio. Anticorpi IgM anti-HAV sono presenti all’inizio della malattia e generalmente scompaiono entro 4 mesi, tuttavia possono essere presenti per 6 mesi o più. La presenza di IgM indica infezione recente o in atto, anche se vi sono dei falsi positivi. Le IgG anti-HAV si sviluppano poco dopo le IgM; esse, in assenza di IgM, indicano una passata infezione e protezione verso l’infezione. Altri dati di laboratorio importanti ai fini della diagnosi sono: • iperbilirubinemia di tipo misto (con prevalenza della bilirubina diretta) e di intensità molto variabile; • aumento spiccato degli indici di necrosi epatocitaria (AST, ALT); • aumento del tempo di protrombina (in modo proporzionale alla gravità dell’episodio epatitico); • modesto aumento delle gammaglobuline. 191 Infezioni da alimenti Manifestazioni cliniche miche e l’esame obiettivo mette in evidenza epatomegalia e talora splenomegalia; Un episodio di epatite acuta può essere distinto in 4 fasi diverse: 4) periodo della convalescenza. 1) periodo d’incubazione: 15-50 giorni con una media di 25-30; Clinicamente si possono distinguere 3 forme cliniche di epatite A. 2) periodo preitterico: caratterizzato da una sintomatologia aspecifica (anoressia, nausea, vomito, talora febbre e alterazione dell’alvo, astenia intensa e malessere) della durata variabile tra alcuni giorni (3-4) e qualche settimana (2-3); Epatite acuta asintomatica: forma frequente nei bambini di età inferiore ai 6 anni. La malattia non causa disturbi o solo alcuni, aspecifici e per brevi periodi di tempo (astenia, dispepsia, febbricola). 3) periodo itterico: caratterizzato da un aumento della bilirubinemia di variabile entità e durata, i sintomi prodromici si risolvono spontaneamente; in questa fase, le feci appaiono ipocoliche, le urine ipercroFigura 3 Epatite acuta sintomatica: tipica delle persone adulte e dei bambini più grandi; i disturbi sono più evidenti, si protraggono a lungo (non oltre 6 mes i ) e c o mp r e n d o n o l a c o mp a r s a dell’itttero. Epatite DA HAV Sintomi IgG anti-HAV Livelli ALT IgM anti-HAV Virus nelle feci 0 2 4 6 8 10 Settimane dopo l’esposizione all’HAV 192 12 F. Salvini, S. Di Giacomo Epatite fulminante: è rara, ma più frequente in persone con un’epatopatia di base. Non esistono forme croniche di epatite A. di lavoro, i bambini e gli adulti con infezione da HAV devono essere allontanati per una settimana dopo l’inizio dei sintomi. Un’altra possibile misura di prevenzione è l’uso delle immunoglobuline (IgG, 0,02 ml/Kg) che contengono anticorpi contro il virus HAV: sono utili per un breve periodo di tempo e debbono essere somministrate entro 2 settimane dal momento in cui il soggetto è venuto a contatto con il virus. Esiste anche il vaccino contro l’epatite A. In Italia, sono disponibili due diversi vaccini che forniscono una protezione dall’infezione già dopo 14-21 giorni dalla somministrazione. I vaccini sono costituiti da antigeni virali purificati da colture di fibroblasti umani diploidi infettati dall’HAV inattivati alla formalina e adsorbiti su alluminio idrossido (Havrix e Vaqta). Tutti i vaccini sono per uso intramuscolare. In studi randomizzati in doppio cieco l’efficacia protrettiva del vaccino contro l’epatite A è stata del 94-100%. La necessità di richiami non è stabilita in quanto i vaccini anti-HAV sono in studio da troppo poco tempo, tuttavia si è osservato che il vaccino determina, dopo la seconda dose, un’immunità della durata di almeno 10 anni. Terapia Il trattamento dell’epatite A è di supporto, in quanto non esiste una terapia specifica. Il paziente deve essere isolato per un periodo di 7 giorni dalla comparsa dell’ittero. La terapia si basa su riposo e dieta che deve essere molto limitata: liquidi zuccherati nei primi giorni di malattia, quando viene riferita anoressia spiccata, nausea e vomito, poi con la scomparsa di tale sintomatologia, viene consigliata una dieta ricca di glucidi e protidi, senza tuttavia una esclusione dei lipidi troppo rigida. Prevenzione La principale misura di prevenzione per le infezioni da HAV è rappresentata dal miglioramento delle strutture igieniche (fornitura di acqua e preparazione del cibo) e dell’igiene personale (es. pulizia delle mani dopo il cambio di pannolini negli asili). Nelle scuole, negli asili e sul posto 193 Infezioni da alimenti Tabella 6 Dosi e schedule raccomandate per il vaccino inattivato anti epatite A. Età (anni) Vaccino Dose di antigene Volume per dose (ml) N. dosi Schedula 2-18 Havrix 750 ELU 0,5 2 inizio e dopo 6/12 mesi 2-17 Vaqta 25 U 0,5 2 inizio e dopo 6/18 mesi > 19 Havrix 1440 ELU 1 2 inizio e dopo 6/18 mesi > 18 Vaqta 50 U 1 2 inizio e dopo 6 mesi lassi passiva o attiva dipende dal tempo che manca alla partenza, dal costo e dalla disponibilità di IgG e vaccino, dalla durata dell’esposizione e dalla probabilità di ulteriori esposizioni. Le immunoglobuline sono protettive contro l’HAV subito dopo la somministrazione, mentre il tempo preciso che serve per l’insorgenza di un titolo protettivo in seguito a una dose di vaccino è di 2-4 settimane. I bambini di età inferiore a 2 anni dovrebbero ricevere solo le IgG, in quanto l’uso del vaccino per questa età non è ancora stato approvato. Gli effetti collaterali sono moderati e includono dolore locale e, meno spesso, indurimento della sede di vaccinazione. Non sono mai stati segnalati effetti collaterali gravi attribuibili con sicurezza al vaccino. Nel bambino, prima dell’immunizzazione, non è richiesta la ricerca degli anticorpi anti-HAV. Il test potrebbe avere un buon rapporto costo-efficacia, in individui con un’alta probabilità di essere immuni per una precedente infezione, come quelli che hanno passato la loro infanzia in zone ad alta endemia, quelli con storia di ittero e soggetti di età superiore ai 40 anni. 2) Bambini appartenenti a comunità con alta endemia o epidemie periodiche di epatite A. Chi deve essere vaccinato? 1) Soggetti suscettibili che si recano o lavorano in paesi con incidenza intermedia o alta di infezione da HAV. La scelta dell’immunoprofi- 3) Pazienti con malattia epatica cronica, i quali hanno un maggior rischio di contrarre gravi epatiti 194 F. Salvini, S. Di Giacomo fulminanti durante l’infezione da HAV. 4) Omosessuali maschi. tra i bambini di un centro dove tutti i bambini hanno il controllo degli sfinteri e sanno usare il WC, le IgG sono raccomandate per il personale suscettibile a contatto con il caso indice e per i bambini suscettibili della stessa classe. Quando un caso d’infezione da HAV è identificato tra il personale o i bambini o tra i contatti familiari di due o più bambini che frequentano un asilo nido dove non tutti i bambini usano il WC, la somministrazione di IgG è raccomandata per tutto il personale e per tutti i bambini. 5) Tossicodipendenti per via endovenosa. 6) Pazienti con disordini dei fattori della coagulazione La profilassi post-esposizione con IgG, invece, è raccomandata in alcuni casi ben definiti. 1) Familiari e persone con contatti sessuali suscettibili devono ricevere immunoglobuline (IgG) entro 2 settimane dall’esposizione; l’uso di IgG oltre 2 settimane dopo l’esposizione non è indicato; 4) Scuole: l’esposizione scolastica generalmente non comporta un rischio significativo di infezione e le IgG non sono indicate. 2) Neonati nati da madri infette da HAV; la trasmissione materno-fetale del virus è rara; alcuni esperti hanno consigliato la somministrazione di IgG al bambino (0,02 ml/Kg) nel caso in cui i sintomi della madre siano insorti da 2 settimane prima a 1 settimana dopo il parto, tuttavia, l’efficacia del trattamento non è stata ancora stabilita; 5) Istituzioni e ospedali: negli istituti di custodia, quando si verifica un’epidemia, gli ospiti e gli operatori in stretto contatto personale con il paziente devono ricevere le IgG. La somministrazione di IgG al personale ospedaliero che segue un paziente con infezione da HAV non è invece di norma indicata. 6) Esposizione a fonti comuni: la fonte è generalmente individuata troppo tardi perché le IgG siano efficaci. 3) Personale dei centri diurni per bambini, bambini e loro contatti familiari. Quando un caso di epatite A è identificato tra il personale o 195 Infezioni da alimenti no una sieroprevalenza delle donne in età fertile del 25%; il rischio di infezione primaria in una gravida sieronegativa è del 0,7%. La percentuale di infetti però è nettamente più elevata nel caso di pazienti già affetti da immunodeficienza, come ad esempio i malati di AIDS, che raggiungono percentuali del 50%. Uno studio europeo effettuato in sei grandi città (tra cui anche Milano e Napoli), pubblicato sul British Medical Journal nel 2000, dà una stima di 1-10 casi di toxoplasmosi congenita ogni 10 mila bambini nel nostro continente, di cui 1-2 % muoiono o sviluppano forme di ritardo mentale, mentre il 4-27% presentano corioretinite che porta a una condizione di cecità unilaterale permanente. Risulta chiaro che i fattori di rischio principali sono legati all’alimentazione (dal 30 al 63% dei casi dovuti all’assunzione di carne di maiale e agnello poco cotta), contatti con suolo contaminato (6-17% dei casi) e viaggi in paesi dove le condizioni igieniche sono meno controllate. Nessuno dei casi sembra dovuto a contatto diretto con gatti. TOXOPLASMOSI La toxoplasmosi è una zoonosi sostenuta dal Toxoplasma gondii, un protozoo intracellulare obbligato. Il Toxoplasma è presente in natura in tre forme diverse: l’oocita, escreto con le feci dai gatti infetti, la forma proliferativa (trofozoita o tachizoita) e quella cistica (cistozoite) che si trova invece nei tessuti degli animali infetti. L’ospite principale della malattia più vicino all’uomo è il gatto, ma la trasmissione non avviene solitamente per diretto contatto con l’animale, bensì con le sue feci. Il Toxoplasma in natura può avere moltissimi altri ospiti tra gli animali, dai mammiferi agli uccelli fino ai rettili, e può trasmettersi da un animale all’altro attraverso l’alimentazione con carne infetta. L’uomo, ospite intermedio, presenta solo la fase di sviluppo asessuato extraintestinale. Epidemiologia Secondo i dati presentati da Health Canada, nel mondo l’incidenza della toxoplasmosi è estremamente variabile: dal 3 al 70% degli adulti risulta sieropositivo per la malattia. La sieroprevalenza aumenta con l’età; studi italiani riporta- Clinica La malattia è spesso asintomatica; nel 10-20% dei casi può presentarsi con 196 F. Salvini, S. Di Giacomo Figura 4 ) 1 i Oocisti ) fecali Sia le oocisti sia le cisti tissutali si trasformano rapidamente in tachizoiti dopo l’ingestione. I tachizoiti si localizzano nei tessuti nervoso e muscolare e si trasformano in cisti tissutali (bradizoiti). Se una donna gravida si infetta, i tachizoiti possono infettare il feto per via ematica. 3 i = stadio infettivo d = stadio diagnostico d Siero, liquido cerebrospinale d d Stadio diagnostico 1) diagnosi sierologia 2) identificazione diretta del parassita da sangue periferico, liquido amniotico o sezioni di tessuto 197 i Cisti tissutali 2 Infezioni da alimenti sintomi simil-influenzali quali linfoadenopatia, rinite e dolore muscolare e linfocitosi. Nel soggetto immunocompetente, la parassitemia viene facilmente contrastata, ma le cisti di Toxoplasma, possono sopravvivere nei tessuti e riattivarsi in seguito a compromissione del sistema immunitario. Nei soggetti immunocompromessi, bambini, malati di HIV, trapiantati o in corso di chemioterapia, la malattia può presentarsi in forma severa con danni cerebrali e oculari. La toxoplasmosi è ad alto rischio nel caso in cui venga contratta in gravidanza, diventando così un importante elemento di cui tenere conto nel campo della salute materno-infantile; se trasmessa al feto può causare malformazioni gravi e rischio di aborto. In gravidanza, per le gestanti sieronegative, la ricerca degli anticorpi è da eseguire ogni 40 giorni fino al momento del parto. Qualora fosse accertata un’infezione materna, si deve considerare l’eventualità che il protozoo passi la placenta ed infetti il feto. La probabilità di trasmissione al feto solitamente aumenta con l’avanzare della gravidanza e non è correlata con i sintomi materni, andando da un 15% del primo trimestre ad oltre il 60% nel terzo. Tuttavia, la gravità del danno fetale è direttamente proporzionale all’età gestazionale al momento dell’infezione, con una gravità maggiore tanto più precoce è l’infezione. Di norma, la malattia può causare nel bambino infettato in epoca pre-natale tre condizioni cliniche: corioretinite, idrocefalo e calcificazioni intracraniche. Questi sintomi sono presenti solo nel 10-30% dei casi, mentre più del 75% dei neonati è asintomatico alla nascita e può presentare sintomi più tardivamente. Altre possibili manifestazioni di infezione fetale sono ritardo di accrescimento endouterino e prematurità con ittero e anemia spiccati. L’infezione congenita può presentare segni neurologici gravi, e i più frequenti sono le convulsioni, il nistagmo, la microcefalia, l’idrocefalia, l’epilessia e il ritardo psicomotorio. Trattamento Nel caso in cui venga contratta in gravidanza o anche solo sospettata, la toxoplasmosi va trattata con spiramicina fino all’esclusione dell’infezione o fino al parto se l’infezione è confermata. Il trattamento della malattia, secondo alcuni studi, riesce a ridurre fino al 60% la trasmissione fetale, ma non sembra avere efficacia nel migliorare la prognosi nel soggetto infetto. 198 F. Salvini, S. Di Giacomo Essa sembrerebbe migliorare con l’associazione sulfadiazina/pirimetamina, anche se una revisione dei lavori scientifici pubblicati (BMJ) evidenzia la difficoltà di produrre una stima dell’efficacia del trattamento per la scarsità di studi randomizzati confrontabili. Il neonato subclinico con anticorpi negativi è indistinguibile dal neonato sano; il trattamento iniziato alla nascita può proteggere dalle gravi sequele a distanza della malattia; non esiste uniformità di giudizio sul tipo di protocollo da adottare nel neonato infetto né in quello dubbio. Il protocollo più largamente utilizzato comprende un’associazione di pirimetamina, sulfadiazina e acido folinico alternato a cicli di spiramicina. In caso di corioretinite va aggiunta la terapia con prednisone. I pazienti sottoposti a terapia devono eseguire emocromi seriati ed esami periodici delle urine per controllare gli effetti collaterali della terapia, quali anemia, leucopenia, piastrinopenia, aciduria ed albuminuria. Il trattamento nel primo anno di vita non previene del tutto il rischio di “outcome” neurologico né la riattivazione di un focolaio di corioretinite. Esistono programmi di follow-up per i soggetti infetti, fino a tutto il secondo anno di vita. Prevenzione Il toxoplasma può essere prevenuto con una serie di norme igieniche e alimentari. Per inattivare le sue cisti, è necessario esporle ad alte temperature Tabella 5 Schema di trattamento della Toxoplasmosi Gravità clinica d’esordio Farmaci di scelta Durata terapia totale 12 mesi Pirimetamina + sulfadiazina+ac. folico 6 settimane 2a fase Spiramicina 6 settimane 3a fase Pirimetamina + sulfadiazina+ac. folico 4 settimane Pirimetamina + sulfadiazina+ac. folico 6 mesi Spiramicina 4 settimane Pirimetamina + sulfadiazina+ac. folico 4 settimane FORMA SUBCLINICA 1a fase FORMA CLINICA 1a fase 2a fase 199 Infezioni da alimenti Aureliani P, Franciosa G, Pourshaban M Foodborne botulism in Italy. The Lancet 7 (348): 1594, 1996. (>70 °C) o congelarle per 48 ore a temperature inferiori ai 20 °C. È quindi consigliabile, in particolare per i soggetti a rischio, evitare carne cruda (soprattutto quella di maiale e quindi la maggior parte dei salumi), latte non pastorizzato, uova crude, né toccare la mucosa di occhi e bocca quando si maneggiano questi alimenti. Inoltre, è necessario lavare accuratamente frutta e verdura che possa essere venuta a contatto con feci di animali e usare i guanti nelle attività di giardinaggio. Infine, per chi ospitasse gatti in casa, è importante evitare di venire a contatto con la lettiera e lavarsi frequentemente le mani dopo ogni contatto diretto con l’animale. Conviene alimentare il proprio animale con cibi essiccati o in scatola. Baumler A J, Hargis, B M, Tsolis RM Tracing the origins of Salmonella outbreaks. Science 287, 50-52, 2002. Centers for Disease Control and Prevention Enterobacter sakazakii infections associated with the use of powdered infant formula æ Tennessee, 2001. MMWR Morb Mortal Wkly Rep 51 (14): 298-300, 2002. 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