I
I
T
TEMI
E M S
DELLA
NUTRIZIONE
Sicurezza
in alimentazione
Dal campo alla tavola
A cura di
Ermanno Lanzola
Già Ordinario di Scienza dell’Alimentazione e Direttore del Centro Ricerche
sulla Nutrizione Umana e la Dietetica. Università degli Studi di Pavia
Gianfranco Piva
Ordinario di Nutrizione ed Alimentazione Animale. Direttore Istituto Scienze
degli Alimenti e della Nutrizione. Università Cattolica S. Cuore di Piacenza
Con la collaborazione di
Carlo Brera, Giorgio Calabrese, Enzo Chiesara, Ivano De Noni,
Francesca Debegnach, Stefania Di Giacomo, Marina Miraglia,
Gian Pietro Molinari, Lorenzo Morelli, Alberto Poli, Giorgio Poli,
Carla Roggi, Sonia Radice, Filippo Salvini, Chiara Gallo Stampino
ISTITUTO DANONE
ISTITUTO DANONE
P ER
LA
R ICERCA
E LA
C ULTURA
M O T I VA Z I O N I
DELLA
E
N UTRIZIONE
OBIETTIVI
anone è una società multinazionale operante nel settore alimentare. La sua “mission”
istituzionale è quella di migliorare l’alimentazione umana, sia con prodotti di alta qualità
ed elevato valore nutrizionale, sia con iniziative di ricerca e di divulgazione scientifica. In quest’ottica ha deciso di destinare importanti risorse alla ricerca e alla cultura della nutrizione,
dando vita all’Istituto Danone.
D
L’Istituto Danone si prefigge di:
Incoraggiare la ricerca scientifica sul rapporto tra alimentazione e salute
Promuovere una corretta educazione alimentare
Diffondere i risultati della ricerca nutrizionale presso gli operatori della salute e dell’educazione alimentare
Costituire un anello di giunzione tra il mondo scientifico e gli operatori della salute e
dell’educazione alimentare
Gli obiettivi dell’Istituto Danone sono quindi due:
Conoscere – attraverso la promozione di ricerche, proprie o di terzi, nel settore nutrizionale
Far conoscere – attraverso attività editoriali e congressuali mirate a diffondere la cultura
della nutrizione
Comitato Scientifico Istituto Danone
Marcello Giovannini (Presidente), Ermanno Lanzola, Carlo Vergani (Vicepresidenti), JeanMichel Antoine, Bruno Berra, Gabriele Bianchi Porro, Vittorio Bottazzi, Michele O. Carruba,
Salvatore Castiglione, Alberto Galli, Lorenzo Morelli, Alberto Notarbartolo, Gianfranco Piva,
Pierpaolo Resmini, Enrica Riva.
Segreteria Scientifica
Carlo Agostoni, Arturo Della Torre
Sede Istituto Danone: Via Alserio, 10 – 20159 Milano
Supplemento a “Lettera dell’Istituto Danone - ITEMS NEWS”
Direttore Scientifico: Marcello Giovannini
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Direttore Responsabile: Marcello Giovannini
Comitato di redazione:
Jean-Michel Antoine, Bruno Berra, Gabriele Bianchi Porro, Vittorio Bottazzi, Michele
O. Carruba, Salvatore Castiglione, Alberto Galli, Ermanno Lanzola, Lorenzo Morelli,
Alberto Notarbartolo, Gianfranco Piva, Pierpaolo Resmini, Enrica Riva, Carlo Vergani.
Editore e Redazione: Èlite Communication Srl - Viale Teodorico, 3 - 20149 Milano
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Tutti i diritti riservati
Nessuna parte può essere riprodotta senza l’autorizzazione scritta dell’Editore
Finito di stampare nel mese di Ottobre 2004
Stamperia Artistica Nazionale - Torino
I
I
T
TEMI
E M S
DELLA
NUTRIZIONE
Sicurezza in alimentazione
Dal campo alla tavola
A cura di
Ermanno Lanzola
Già Ordinario di Scienza dell’Alimentazione e Direttore del Centro Ricerche sulla Nutrizione
Umana e la Dietetica. Facoltà di Medicina e Chirurgia. Università degli Studi di Pavia
Gianfranco Piva
Ordinario di Nutrizione ed Alimentazione Animale. Direttore Istituto Scienze degli Alimenti
e della Nutrizione. Facoltà di Agraria. Università Cattolica S. Cuore di Piacenza
Con la collaborazione di
Carlo Brera, Francesca Debegnach, Marina Miraglia
Istituto Superiore di Sanità, Centro Nazionale per la Qualità degli Alimenti e per i Rischi
Alimentari, Reparto Organismi Geneticamente Modificati e Xenobiotici di Origine Fungina
Giorgio Calabrese
Authority Europea Sicurezza Alimentare (E.F.S.A.)
Istituto Nazionale Ricerca degli Alimenti e della Nutrizione (I.N.R.A.N.)
Enzo Chiesara, Sonia Radice
Dipartimento di Farmacologia, Chemioterapia e Tossicologia
Facoltà di Medicina e Chirurgia. Università degli Studi di Milano
Ivano De Noni
Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari e Microbiologiche
Facoltà di Agraria. Università degli Studi di Milano
Stefania Di Giacomo, Filippo Salvini
Clinica Pediatrica Ospedale San Paolo. Facoltà di Medicina e Chirurgia
Università degli Studi di Milano
Gian Pietro Molinari
Laboratori di Tecnologia e Merceologia
Facoltà di Agraria. Università Cattolica S. Cuore di Piacenza
Lorenzo Morelli
Istituto di Microbiologia. Facoltà di Agraria. Università Cattolica S. Cuore di Piacenza
Alberto Poli
Facoltà di Medicina e Chirurgia. Università degli Studi di Milano
Giorgio Poli
Dipartimento di Patologia Animale, Sezione di Microbiologia e Immunologia
Comitato Interfacoltà per il Corso di Laurea in Biotecnologie
Facoltà di Medicina Veterinaria. Università degli Studi di Milano
Carla Roggi, Chiara Gallo Stampino
Dipartimento di Scienze Sanitarie Applicate e Psicocomportamentali
Sezione di Scienza dell’Alimentazione. Facoltà di Medicina e Chirurgia
Università degli Studi di Pavia
I
ndice
Prefazione
5
E. Lanzola, G. Piva
Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo
7
E. Lanzola, G. Piva
Concetto di sicurezza alimentare ed elementi di legislazione
29
G. Calabrese
Concetto di rischio in alimentazione
37
C. Roggi, C. Gallo Stampino
Elementi di tossicologia alimentare
53
E. Chiesara, S. Radice
Qualità e controllo
63
G.P. Molinari
Sicurezza microbiologica
79
L. Morelli
Le micotossine nella filiera agroalimentare
101
M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera
Sicurezza tecnologica in alimentazione
123
I. De Noni
Organismi geneticamete modificati
149
A. Poli, G. Poli
Infezioni da alimenti
161
F. Salvini, S. Di Giacomo
5
P
refazione
Per una fortuita coincidenza questo
volume della collana ITEMS vede la luce a breve distanza di tempo dalla delibera dell’Unione Europea che stabilisce
in Italia la sede dell'Authority per la sicurezza degli alimenti.
L’istituzione dell'Authority, come
viene specificato nel capitolo di questo
volume redatto da G. Calabrese, è il risultato di una riforma della politica alimentare europea basata sul riconoscimento del principio dell'analisi del rischio. La nuova strategia comunitaria
per la sicurezza della catena alimentare
era già stata anticipata nel “Libro verde”
del 1997 (Principi generali della legislazione alimentare nell’Unione Europea) e
nel ”Libro bianco sulla sicurezza alimentare” del 1999 e aveva trovato le sue
basi negli importanti insegnamenti tratti
dalle vicende della crisi determinata dalla BSE. Lo sviluppo di questa politica
ha portato alla riorganizzazione della
normativa alimentare con il regolamento
178/2002, che fornisce il quadro delle
definizioni e dei principi giuridici della
futura legislazione alimentare europea.
Il nuovo approccio alla sicurezza degli alimenti ha portato anche all’istituzione di un organismo innovativo che è
appunto l’Authority europea per la sicurezza degli alimenti, che dal mese di dicembre 2003 ha sede a Parma ed i cui
compiti sono specificati nel capitolo sopra ricordato di G. Calabrese.
La missione globale dell’Authority,
centrata sulla valutazione dei rischi, è
infatti diretta a fornire soprattutto pareri
scientifici, totalmente indipendenti, che
costituiscano le basi delle normative
comunitarie sulla sicurezza degli alimenti.
L’Istituto Danone e gli Autori di
questo volume sono dunque lieti di approfittare della sua uscita, praticamente
in concomitanza con l'insediamento in
Italia dell’Authority, per esprimere alla
medesima i più fervidi auguri di grande
successo nell'espletamento della sua
missione.
Ermanno Lanzola
Gianfranco Piva
7
E
voluzione della sicurezza
alimentare nella storia
dell’uomo
E. Lanzola*, G. piva**
*Centro Ricerche sulla Nutrizione Umana e la Dietetica. Facoltà di Medicina e Chirurgia
Università degli Studi di Pavia
**Istituto Scienze degli Alimenti e della Nutrizione. Facoltà di Agraria
Università Cattolica S. Cuore di Piacenza
“L’analisi storica dei dati demografici evidenzia come una vita particolarmente lunga e un buono stato di salute
siano un recente dono del cielo” (M.K.
Matossian, 1989). Secondo lo stesso
autore, fino al 1750 l’aspettativa di vita
di un membro della nobiltà britannica
era di soli 36,7 anni. Si tratta di un valore non dissimile da quello tipico della
società romana al tempo del massimo
splendore dell’impero. Sono dati molto
lontani da quelli raggiunti da pochi anni
nei paesi più sviluppati come in Italia,
ove l’aspettativa di vita ha ormai superato gli ottant’anni.
Solo alcuni decenni fa, anche in zone oggi celebrate per le particolari prerogative di salubrità dei cibi che vi vengono
prodotti e per l’ottima qualità della vita, la
situazione era drammaticamente differente. Un’interessante analisi della situazione in Toscana viene fatta nel volume
curato dall’Accademia dei Georgofili dal
titolo “In cucina ... ai Georgofili - Alimenti,
pietanze e ricette fra ’700 e ’800” (Fi-
renze 2001). Si rappresenta uno spaccato delle disponibilità alimentari e delle
abitudini culinarie in quel periodo.
Come fa rilevare Mariani Costantini
in un recente, interessante articolo,
che si richiama anche a pubblicazioni
precedenti di Emilio Sereni e Giancarlo
Biasin, è possibile ricavare da scritti di
vario genere letterario elementi per ricostruire l’evoluzione storica dell’alimentazione popolare. In particolare, per
quanto riguarda l’Ottocento italiano,
risulta evidente, prendendo come riferimento alcuni fra i testi più rappresentativi che, se per il ceto medio la mensa era
frugale, per il ceto più basso era decisamente povera. Valgano come esempi la
realtà rappresentata dal quadro descritto
nel sonetto “La bona famija”, datato 28
novembre 1831, di Giuseppe Gioacchino Belli e quella del sonetto “Li polli de li
vitturali” dello stesso Autore, datata 28
ottobre 1833. Ancora Mariani Costantini
richiama alla memoria come la situazione alimentare dell’epoca in Italia trovi ri-
9
Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo
flessi anche nei romanzi di Alessandro
Manzoni e di Giovanni Verga e per l’Europa, in particolare per l’Inghilterra, nel
polemico romanzo “Le Avventure di Oliver Twist“ di C. Dickens.
History” (1989), esamina, nel periodo intercorrente fra il quattordicesimo e il diciottesimo secolo, la possibile relazione
esistente fra la comparsa di grandi epidemie ed il consumo di alimenti, soprattutto certi cereali, sospettati di contenere
sostanze tossiche. Si trattò di eventi che
determinarono una drammatica mortalità
e furono responsabili di una grave depressione demografica in Europa.
Alcuni dei molteplici esempi citati
ed attentamente documentati danno
un’informazione di come la qualità degli alimenti possa avere condizionato la
storia, l’assetto socio-politico e religioso in molte aree.
Fra la fine del Medio Evo e l’inizio
del Rinascimento, più precisamente nel
1400, la popolazione vivente in Italia
era molto ridotta (Tabella 1). Vaste zone
ed interi villaggi erano praticamente disa-
Le grandi epidemie tra
xiv e xviii secolo
L’insufficienza di cibo era drammatica e cronica. Alcune manifestazioni carenziali, tra le quali la pellagra e lo scorbuto, erano endemiche e colpivano tutte
le classi sociali. La qualità dei cibi aveva
chiaramente grandi responsabilità sullo
stato sanitario, sulla qualità e aspettativa
di vita delle popolazioni. Si tratta di
aspetti ben documentati da Matossian,
su base europea, che nel volume “Poisons of the Past Molds, Epidemics, and
Tabella 1
POPOLAZIONE RESIDENTE ED INCIDENZA DI EPIDEMIE IN ITALIA ED
EUROPA NORD OCCIDENTALE (*) DAL 1351 AL 1499 (McEvedy et al., 1978;
Biraben, 1976; cit. da Matossian M.K. (1989) modificata
Periodo
storico
(Anni)
Popolazione
stimata in Italia
(Milioni)
Popolazione stimata
in Europa Nord
Occidentale* (Milioni)
Numero
Epidemie
in Italia
Numero Epidemie
in Europa
Nord Occidentale*
1351-1430
7
26,75
235
625
1431-1499
10
23,40
220
710
* Isole britanniche, Francia, Paesi Bassi, Germania, Austria, Boemia, Svizzera
10
E. Lanzola, G. Piva
manifestava un comportamento definibile
“bizzarro”.
Matossian, nell’intento di comprenderne le ragioni, ha analizzato il succedersi delle epidemie a partire
dall’Alto Medio Evo in relazione con
l’alternarsi delle situazioni climatiche,
traendo la convinzione di una possibile
relazione più con la qualità dei cibi che
con la quantità; tanto è vero che in
situazioni di abbondanza di cereali si
riscontrava, a volte, un’incidenza più
frequente della peste, specie della
peste bubbonica. Il dato viene fatto
risalire alla proliferazione di topi nei
granai, quando i cereali venivano
conservati più a lungo del solito e
spesso venivano alterati da attacchi di
insetti e di muffe.
Nel Medio Evo le popolazioni erano
fortemente dipendenti dai cereali. La
segale era il cereale più utilizzato per
fare il pane, soprattutto a nord delle
Alpi, seguita dall’orzo, dal frumento,
dall’avena, dal riso e da molti altri
cereali minori oggi quasi scomparsi.
Nei due anni precedenti la
comparsa della grande pandemia che
colpì l’Europa fra il 1348 ed il 1350, il
clima era stato estremamente piovoso,
freddo, umido, i raccolti scarsi e di
cattiva qualità. Inoltre, a causa delle
poche giornate di sole, non sempre
bitati, sul territorio vivevano circa 7 milioni
di persone (oggi ne vivono oltre 55 milioni). La popolazione era concentrata nei
borghi e nelle poche città.
L’Europa Nord Occidentale non presentava certo una situazione migliore; nello stesso periodo la popolazione era stimata in 26,7 milioni di abitanti (Tabella 1).
Alla fine del Medio Evo la popolazione
complessiva dell’Europa Nord Occidentale e dell’Italia si attestava su un valore di
poco superiore ai 33 milioni di abitanti.
Le “epidemie” erano un fatto ricorrente; fra il 1400 e il 1500 le cronache
ne riportano ben 1790, accompagnate
spesso da gravi carestie, anche se non
sempre è chiaro il rapporto causa-effetto
fra carestia e il manifestarsi di una
“epidemia”.
Le epidemie falcidiavano le popolazioni delle città e dei borghi e le popolazioni rurali, togliendo forza lavoro alla coltivazione dei campi, con effetti drammatici sulle fragilissime economie e sulla disponibilità di alimenti.
L’influenza del clima
sulla diffusione delle
epidemie
L’andamento di varie epidemie, ad
un’analisi epidemiologica attenta,
11
Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo
avevano potuto essere essiccati
adeguatamente. La pandemia colpì non
solo l’uomo ma anche, e in modo
evidente, i topi e si ebbe anche
un’elevata mortalità fra cavalli, bovini,
pecore, capre e altri animali domestici.
Il grafico riportato di seguito (Figura 1)
evidenzia in modo drammatico lo stato
della popolazione in Normandia, fra il
1250 e il 1550.
A partire dal 1350 si ebbe un
progressivo decremento demografico
che vide la popolazione ridotta a circa il
45% attorno al 1380, per scendere a
poco più del 30% attorno al 1460.
Occorreranno quasi 100 anni per avviarsi a ritornare alla normalità.
Condizioni climatiche caratterizzate
da elevata piovosità, alta umidità e
temperature relativamente basse erano
risultate estremamente favorevoli allo
sviluppo sui cereali, in campo e in
magazzino, di muffe responsabili della
produzione di varie micotossine. Nello
stesso periodo, i paesi a clima più
secco e freddo (Islanda, il nord della
Norvegia e della Svezia, la Finlandia,
larghe aree della Russia o dei
Balcani), furono colpiti dalla pandemia
in ritardo, solo quando si verificarono
condizioni di elevata piovosità.
Nei territori a clima secco, la
pandemia non si diffuse e non causò
elevata mortalità, nonostante i
commerci e gli spostamenti degli
abitanti rendessero il contagio possibile.
Matossian osserva che, oltre al
contagio, “altri fattori aggravanti o altre
malattie erano probabilmente necessari
per causare un’elevata mortalità” e
conclude che “se queste premesse
sono corrette, appare giustificato
orientare l’attenzione dall’agente
patogeno causale della peste al sistema
immunitario di difesa degli uomini e dei
topi”.
Figura 1
100
80
Indice
Andamento dell’indice
della popolazione nella
Normandia orientale fra
il 1250 ed il 1550
(Bois, 1984 – citato da
Matossian, 1989)
60
40
1314 = 100
20
1250
1300
1350
12
1400
Anni
1450
1450
1500
E. Lanzola, G. Piva
Significativo è il fatto che la situazione
migliorò drasticamente all’aumentare della
percentuale di frumento nella dieta a
scapito di altri cereali e soprattutto della
segale. La quota del frumento utilizzato
nell’alimentazione è passata in certe zone
dal 30% circa nel periodo 1300-1350 a
quasi l’80% nel periodo 1450-1500
(Tabella 2).
I processi per stregoneria, fra la fine del 1550 e la prima metà del 1600,
furono particolarmente concentrati nelle zone dove era prevalente il consumo
di segale. La segale, in condizioni climatiche sfavorevoli, può essere facilmente contaminata dalla Claviceps
purpurea, i cui sclerozi contengo vari
alcaloidi, alcuni dei quali a effetto allucinogeno. Sono le aree a nord delle Alpi, caratterizzate in quel periodo da clima freddo e particolarmente umido,
ove questi episodi raggiunsero una
particolare intensità (Figura 2). L’Irlanda con un’alimentazione a base di latticini e orzo è stata praticamente indenne, oltre che da situazioni epidemiche,
anche dai processi per stregoneria. In
Inghilterra, nello stesso periodo storico
si era verificata una situazione di bassa
fertilità ad andamento variabile, condizionata dal modificarsi del rapporto fra
il prezzo della segale e quello del frumento. La fertilità diminuiva quando il
prezzo del frumento era elevato e aumentava il consumo di segale. La se-
Disturbi legati
al consumo di segale
I Medici inglesi avevano evidenziato,
a metà del diciassettesimo secolo, una
relazione fra la dieta a base di segale e
una serie di disturbi nervosi anche gravi, con manifestazioni caratterizzate da
convulsioni e allucinazioni che facevano
considerare le persone colpite indemoniate. A volte gli ammalati erano sottoposti a pratiche esorcistiche. In alcune
situazioni queste manifestazioni nervose
portarono anche a processi con l’accusa di stregoneria.
Tabella 2
Variazioni delle
percentuali di frumento
nella dieta nella zona
di Lione (Lorcin, 1974,
citata da Matossian,
1989)
Anni
Percentuale di frumento
1300-1350
30,8
1350-1400
51,5
1400-1450
66,0
1450-1500
78,8
13
Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo
Figura 2
Distribuzione dei
processi per stregoneria
nell’Europa Occidentale
fra il 1580 ed il 1650
(Monter, 1980 – citato da
Matossian, 1989)
gale era il cereale base per la preparazione del pane che anche le madri allattanti consumavano. Gli alcaloidi della
segale cornuta, eliminati con il latte,
determinavano un’elevata mortalità dei
neonati.
Alcuni medici francesi avevano già
preso coscienza di questa situazione
tanto che, all’inizio del 1600, consiglia-
vano alle madri lattanti di consumare
pane bianco per evitare che i loro bambini avessero “spasmi”.
Un famoso quadro del pittore
fiammingo Peter Brugel il Vecchio (ca
1525-1569), “I mendicanti”, documenta i drammatici effetti dell’ergotismo su alcune vittime in Olanda
(Figura 3).
14
E. Lanzola, G. Piva
Figura 3
“I mendicanti”
Peter Brugel
Il fuoco di S. Antonio
gione di Limoges in Francia, migliaia di
persone vennero colpite da una strana
malattia caratterizzata da convulsioni,
dolori lancinanti alle estremità e vaste
lesioni cutanee, accompagnate da febbre alta e senso di bruciore insopportabile; in pochi giorni si poteva manifestare la gangrena e la morte. In casi meno
gravi il decorso si svolgeva in modo subacuto ma con sofferenze ed esiti più o
meno analoghi attribuibili all’azione vasocostrittrice dell’ergotamina, il più importante principio attivo della segale
cornuta. Proprio a causa del senso di
bruciore insopportabile, la malattia venne chiamata in Francia “mal des
Anche la particolare situazione di
panico che percorse la Francia nel
1789 e che si associò a manifestazioni
di particolare ferocia in occasione della
Rivoluzione Francese, sembra possa
essere associabile al consumo di segale di cattiva qualità per le avverse condizioni climatiche di quel periodo.
Già quasi un millennio prima della
Rivoluzione Francese, si hanno notizie
storiche che fanno risalire gravi episodi
di malattia che hanno coinvolto intere
popolazioni, agli alcaloidi della segale
cornuta. Nell’autunno del 943, nella re-
15
Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo
ardents” e “Fuoco di S. Antonio”* o
“Ignis Sacer” in Italia.
L’ergotismo epidemico assurse a tale importanza nel Medio Evo e in alcuni
secoli successivi da essere compreso
fra le pestilenze, sospettato di essere
una malattia infettiva trasmissibile e diffusiva. Peraltro l’infezione e la diffusibilità
esistevano, anche se non avvenivano direttamente attraverso l’uomo bensì
attraverso la contaminazione dei cereali;
l’uomo ne subiva la conseguenza tossica
per via alimentare, consumando pane e
prodotti cerealicoli contaminati dal fungo.
Per soccorrere l’ingente numero
dei colpiti sorse l’Ordine degli Antoniani
del Delfinato.
S. Antonio fu considerato il Patrono protettore: da ciò la denominazione
“Fuoco di S. Antonio”. L’Ordine degli
Antoniani si diffuse ben presto in molte nazioni dove furono fondati ospedali
dedicati al Santo protettore: fra le
mansioni di questo Ordine vi era quella di praticare le amputazioni degli arti
cancrenosi. Le porte degli ospedali e
dei chiostri dell’Ordine erano tinte di
rosso, simbolo del fuoco, o recavano
Figura 4
Ex voto di scampati alla morte
dipinte le fiamme. Gli arti amputati
delle persone scampate alla morte venivano talora essiccati e conservati
quasi come ex voto di chi riusciva a
sopravvivere (Figura 4).
Micotossine negli alimenti
La scomparsa dell’ergotismo, come è stato già accennato, è dovuta
* La denominazione “Fuoco di S. Antonio” è anche attribuita all’herpes zoster. La denominazione colloquiale
comune alle due malattie deriva senza dubbio da una similitudine della sintomatologia principale, l’intenso bruciore della zona del corpo interessata. Peraltro le differenze tra le due affezioni morbose restano sostanziali e
consistono soprattutto nel fatto che l’herpes zoster è malattia sporadica, non epidemica per riattivazione del
virus latente varicella-zoster nelle radici dorsali dei gangli nervosi e si presenta con maggiore frequenza tra i
60 e i 70 anni.
16
E. Lanzola, G. Piva
alla scoperta della relazione intercorrente fra cereali parassitati dal fungo
e insorgenza della malattia.
Ancora all’inizio dell’era moderna,
Inghilterra, paesi dell’Europa Centrale
e Orientale erano stati pesantemente
condizionati, nello sviluppo demografico, dalle micotossine negli alimenti.
La situazione ha cominciato a migliorare via via che il frumento ha preso il posto della segale nell’alimentazione delle popolazioni anche nelle
aree del C e n tro N o rd e d e l l’E st
dell’Europa.
La riduzione della segale per ottenere farina destinata alla panificazione, l’evoluzione dei sistemi di molitura, attenti a eliminare le granelle alterate e le impurezze, il controllo sempre più attento della qualità dei grani,
ha posto sotto controllo il rischio
dell’ergotismo.
Altre micotossine, come i tricoteceni e le aflatossine (attualmente sono note oltre trecento molecole che
appartengono a questa classe di sostanze) contaminavano i cereali e altri
prodotti alimentari vegetali ed animali.
La presenza nel latte di aflatossine M1, dovuta all’ingestione di granelle di mais ad elevata presenza di
aflatossine B1 ingerite dalle vacche, è
problema di questi mesi.
L’evoluzione storica
della sicurezza
alimentare
La strada dell’uomo verso la conquista della “sicurezza alimentare” è
stata molto lunga e costellata di episodi forse meno drammaticamente generalizzati di quelli ricordati per le micotossine, ma che hanno lasciato una
scia di sofferenze e di morti.
Note storiche sulla sicurezza alimentare risalgono peraltro a 1215.000 anni or sono, quando l’uomo di
Cro Magnon morì vittima di un’intossicazione alimentare. Le sue ossa fossilizzate hanno conservato traccia di
questo avvenimento provocato da una
malattia delle graminacee. Si ignora,
ovviamente, se egli abbia ingerito un
po’ di erba erroneamente scelta ovvero
sia stato vittima della maldestra preparazione di un pasto.
È difficile ipotizzare quanto tempo ci
sia voluto perché i suoi contemporanei
riuscissero a individuare e quindi a eliminare dai loro pasti l’erba incriminata o
quante vittime ci siano state prima che
l’uomo preistorico potesse discriminare
i funghi commestibili da quelli velenosi.
Per soddisfare la propria fame, l’uomo ha dovuto correre continuamente rischi spesso anche mortali.
17
Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo
Curioso e significativo al tempo
stesso è l’episodio occorso ai soldati
greci che facevano parte della spedizione di Ciro il Giovane contro il fratello
Artaserse, re di Persia, nel 401 a.C.
Conclusasi tragicamente la spedizione
con la morte di Ciro, i Greci dovettero
intraprendere una lunga e penosa
marcia, dalla Babilonia al Ponto, descritta magistralmente da Senofonte
nell’Anabasi.
Nell’ultima e più avventurosa fase
della marcia arrivarono una sera, stanchi ed affamati a Trebisonda, sulla riva
del mar Nero, ai piedi delle boscose
montagne del Ponto, dove trovarono
una grande quantità di miele su cui si
gettarono con avidità.
Purtroppo, soprattutto coloro che
ne avevano mangiato di più, andarono
incontro a una forma di avvelenamento
con sintomi a carico dell’apparato gastro-enterico, ma anche con vertigini,
offuscamento della vista e fenomeni di
incoscienza. Oggi sappiamo che tale
avvelenamento era legato al nettare
fornito alle api da alcune specie di azalee, di rododendri, di oleandri e forse di
allori montani che contengono un veleno, l’andromedotossina, responsabile
dell’episodio.
Altro episodio legato al miele viene
ricordato durante la guerra di secessio-
ne americana, quando un gruppo di
soldati di una guarnigione lamentò manifestazioni molto gravi a carico del sistema nervoso a seguito dell’ingestione
di miele prodotto da api che avevano
bottinato su fiori di Datura. Nel miele si
erano verosimilmente accumulati gli alcaloidi della Datura (scopolamina, atropina e iosciamina).
Il caso Franklin
L’evoluzione della conoscenza ha
influito in modo rilevante sul controllo
della sicurezza e delle disponibilità alimentari, ma non sempre tutto è andato nel migliore dei modi.
In senso lato si può applicare anche alla sicurezza in alimentazione
l’aforisma di Henri Poincaré: “plus la
science accroit le cercle de ses connaissances et plus grandit autour le
cercle d’ombre”. Vale la pena ricordare, a questo proposito, un tragico avvenimento accaduto alla metà dell’Ottocento: il destino della spedizione
Franklin, che è rimasto uno dei più
grandi misteri delle esplorazioni geografiche. Nell’autunno del 1984, comparvero su alcune riviste internazionali
le fotografie di un giovane marinaio
dell’epoca vittoriana, John Torrington,
18
E. Lanzola, G. Piva
trovato pressoché intatto nella sua
tomba nei ghiacci dell’isola Beechey,
tra Groenlandia e Canada. Era un marinaio appartenente all’equipaggio di una
delle due navi inglesi, Erebus e Terror,
che sotto il comando di Sir John
Franklin erano salpate nel maggio del
1845 alla ricerca del passaggio di
Nord-Ovest. Si trattava di due navi a
vela ma fornite di macchina a vapore
ausiliaria, provviste di ogni più moderno ritrovato tecnologico disponibile
all’epoca. Particolare attenzione era
stata riservata agli approvvigionamenti
alimentari che avrebbero dovuto coprire un arco di tre anni, tempo massimo
previsto per la spedizione. Facevano
parte delle provviste alimentari
61.987 kg di farina, 16.749 litri di
bevande alcoliche, 909 litri di “vino
per ammalati”, 4.287 kg di cioccolata,
1.069 kg di the e inoltre carne in scatola, confezionata in circa 8.000 latte
e lattine da 1,2,4,6 e 8 libbre secondo il metodo Appert, all’epoca ormai
acquisito. Della spedizione e dei 129
uomini che ne facevano parte non si
seppe più nulla, tranne vaghe informazioni fornite da eschimesi nei decenni che seguirono.
È grazie al ritrovamento, da parte
di ricercatori dell’Università di Alberta,
in Canada, del corpo del marinaio Tor-
rington e al successivo esame delle
ossa dello stesso e di altri membri
dell’equipaggio, in seguito rintracciati,
che il mistero poté essere chiarito.
L’elevato tasso di piombo riscontrato
nelle ossa (da 10 a 30 volte più elevato rispetto alla media di soggetti normali non esposti) ha portato, infatti, a
ritenere che si sia trattato di un avvelenamento collettivo da piombo dovuto
a un’imperfetta saldatura delle scatole
di carne. In base a ricerche successivamente condotte su resti ritrovati,
non è difficile supporre che gli equipaggi del Terror e dell’Erebus, bloccati
dai ghiacci in uno degli stretti che stavano attraversando, siano andati incontro a eccessivi apporti di piombo.
L’avvelenamento da piombo determinò
non soltanto la perdita di forza fisica
ma anche la riduzione delle capacità
mentali, quanto mai necessarie per
l’assunzione di corrette decisioni, soprattutto da parte degli Ufficiali, nelle
circostanze critiche in cui si erano venuti a trovare.
La spiegazione, del tutto recente,
dei motivi della tragica conclusione
della spedizione Franklin, considerata
al momento della partenza una delle
più attrezzate tra tutte quelle che avevano affrontato i mari artici, non può
non fare riflettere sull’importanza e
19
Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo
sulla complessità dei problemi connessi alla sicurezza alimentare, nonché sull’evoluzione che il concetto di
questa ha subito nel corso dei secoli
fino ai giorni nostri. La tragedia del
Terror e dell’Erebus rappresenta, infatti, l’altro aspetto, quello dei rischi,
connesso al progresso della Scienza.
Senza dubbio è stata una grande invenzione quella del commerciante di
generi alimentari de la rue des Lombards a Parigi, Nicolas Appert, resa
nota nel 1810 con la sua pubblicazione “L’art de conserver pendant plusieurs années toutes le substances
animales et vegetales”. Si può dire
che essa abbia dato l’avvio a una continua evoluzione tecnologica, sviluppatasi durante tutto il XX secolo.
pomodoro. Diffusione non facile e
guardata con sospetto da molti.
Non solo la malnutrizione legata ai
cibi contaminati da muffe (illustrate da
Matossian) o da altri contaminanti più o
meno accidentali, ma anche situazioni
carenziali gravi, come ricorda Scaramuzzi (In cucina… ai georgofili. Alimenti, pietanze, ricette tra ’700 e ’800, Firenze 2001) erano endemiche. In Toscana, fra il ’700 e l’800, scorbuto e
pellagra erano un grosso problema e
colpivano tutti i ceti sociali. L’allora neonata Accademia dei Georgofili, fondata
nel 1753, si pose proprio il compito di
migliorare lo stato alimentare di quelle
popolazioni. Il presidente Scaramuzzi dice
testualmente: “I Georgofili, nei primi cento anni di attività, fra ’700 e ’800 [...] dovettero necessariamente preoccuparsi
soprattutto del fondamentale bisogno di
soddisfare le esigenze alimentari indispensabili. Cercarono quindi di valorizzare tutti gli alimenti disponibili e illustrarono le possibilità di utilizzarli nel migliore dei modi. Si adoperarono per fare
apprezzare anche alcune piante che
erano state introdotte dal nuovo mondo
già da due secoli, ma che stentavano a
diffondersi, incontrando le umane diffidenze verso ciò che è nuovo”.
Un particolare sforzo fu fatto dall’Accademia per favorire la diffusione della
L’accademia
dei georgofili
Nello stesso secolo si è potuto
usufruire, almeno in Europa, della radicale variazione nella disponibilità di alimenti che si ebbe con gli effetti della
prima globalizzazione geo-mercantile
(Quadro Curzio, 1999) conseguente
alla scoperta dell’America, con la diffusione in Europa della coltivazione
della patata, del mais e più tardi del
20
E. Lanzola, G. Piva
coltivazione e dell’utilizzo della patata, a
integrazione dei cereali, per fare il pane.
Ampia la varietà dei cereali utilizzati allora
con diverse modalità per la panificazione,
quali il frumento, l’orzo, l’avena, la segale, il farro, il sorgo e il granoturco, ma la
loro disponibilità era insufficiente e la
qualità spesso lasciava a desiderare.
bro Bianco (2000) che asserisce che
gli abitanti dell’Unione “non hanno mai
goduto di un livello di sicurezza alimentare così elevato come l’attuale”. Questa espressione ha significato globale e
comprende sia gli aspetti quantitativi sia
gli aspetti qualitativi, quindi la “food safety” e la “food security”.
È questo il frutto della “rivoluzione
verde” che, a partire dagli anni cinquanta ha consentito, prima nei paesi
occidentali e poi in gran parte del
mondo, di aumentare in senso quantitativo le produzioni agricole.
I vantaggi derivanti da questa
maggiore disponibilità di nuovi alimenti
non sono stati analoghi per tutte le popolazioni.
Da poco più di un decennio (Landi,
2003) i nutrizionisti hanno iniziato a segnalare la “sindrome della fame nascosta”. Sindrome dipendente da carenze
di alcune vitamine e oligoelementi. Le
nuove varietà di cereali ad alta efficienza produttiva hanno contribuito a ridurre
il problema della fame in molte aree,
ma a causa della loro scarsa dotazione
di vitamine e minerali, hanno determinato nelle popolazioni situazioni di squilibri alimentari.
Un recente rapporto dell’ONU
(UNEP/Grid, 2003) ricorda che “1,5 miliardi di bambini e metà delle donne in
Food safety e
Food security
L’Accademia aveva come uno dei
propri obiettivi primari quello di migliorare lo stato alimentare delle popolazioni.
Si cominciano a delineare gli elementi
che sono alla base della sicurezza alimentare come la intendiamo oggi, e
che racchiudono due concetti base correttamente espressi dall’inglese, che distingue la “food safety“ e la “food security”. Con la prima espressione (food
safety) si intende la salubrità o la garanzia di non tossicità degli alimenti,
mentre con la seconda (food security)
si dovrebbe intendere la disponibilità
adeguata di alimenti (Cannella, 2003).
Il problema alimentare, almeno in
Europa, ha subito una drastica evoluzione, soprattutto negli ultimi cinquant’anni
e la situazione attuale nella UE è ben
rappresentata da un’espressione del Li-
21
Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo
gravidanza nel mondo sono anemici per
carenza di ferro“ e che la “situazione è
particolarmente grave nel Sud e nel Sud
Est dell’Asia, dove la rivoluzione verde ha
avuto molto successo”.
Oltre alla carenza di ferro, di rilievo
sono le carenze di zinco e di vitamina A.
Landi (2003) segnala che “secondo la
FAO, nel mondo è in atto una pandemia
di anemia che colpisce nei paesi poveri.
[…] Il 40% dei decessi legati al parto
(circa 500.000 all’anno) sono dovuti a
forme acute di anemia”. Ci troviamo di
fronte, in vaste aree del mondo, a una tipica emergenza nutrizionale.
L’Europa è indenne da queste situazioni ma, nonostante tutto, il consumatore è ansioso. Il miracolo, realizzato in
pochi decenni, di avere reso disponibile
cibo abbondante e di ottima qualità, è
stato dimenticato. Si guarda con sospetto al progresso scientifico e alle innovazioni tecnologiche. Si è alla ricerca
di una nuova forma di “sicurezza”, di
quella sicurezza identificabile come
“food safety”, avendo superato la preoccupazione della “food security”, che fino
a pochi decenni fa assillava ogni padre
di famiglia.
La “sicurezza alimentare” ha come
base il monitoraggio della filiera alimentare, cioè di quell’insieme di processi che portano dalla produzione al
consumo. Si tratta di un’insieme di
controlli che riguardano gli aspetti chimici, biologici, microbiologici e tossicologici secondo un approccio integrato
che parte dall’identificazione dei punti
critici (HACCP) e si concretizza in un
sistema che identifica gli alimenti in
tutte le fasi del processo produttivo
(rintracciabilità).
È un approccio relativamente nuovo. L’istinto ha guidato l’uomo, fin dalla preistoria, nella ricerca, nella valutazione della qualità e nella scelta del cibo. L’istinto, progressivamente, nelle
fasi di sviluppo delle civiltà, è stato integrato dall’esperienza e dalla tradizione orale, in modo da evitare il consumo di cibi dannosi. Sono così state
orientate le abitudini alimentari delle
popolazioni nelle diverse aree geografiche, e religioni o filosofie le hanno
spesso codificate. Quando l’esperienza è stata trasformata in conoscenza
ha avuto inizio l’approccio scientifico al
problema della nutrizione, quale oggi
lo conosciamo.
Frodi alimentari
Nel contesto della sicurezza alimentare si inserisce, non ultimo, il
problema delle frodi alimentari la cui
22
E. Lanzola, G. Piva
evoluzione storica meriterebbe una
trattazione a parte. La frode alimentare, infatti, è vecchia quanto il mondo:
le prime valutazioni analitiche degli alimenti furono di tipo sensoriale e deputate, al tempo degli Egiziani, agli assaggiatori che avevano il compito di
tutelare il sovrano da avvelenamenti, di
dare un giudizio sulla qualità dei prodotti e di svelare le frodi. Risale al
1780 a.C. una legge del re Hammurapi che vieta la vendita di birra annacquata (Anklam, Battaglia, 2001). È
questo probabilmente il primo documento storico che detta leggi di interesse alimentare. L’adulterazione degli
alimenti era un fatto piuttosto comune
e in India, 2000 anni fa, vi erano norme per prevenire le frodi nei cereali e
nei grassi alimentari. L’adulterazione
del vino era diffusa nell’impero romano. Plinio lamentava che a Roma non
fosse possibile bere vino genuino;
l’adulterazione è accennata nelle iscrizioni pompeiane: ne sono una prova
indiretta i prefetti dell’Annona che nella Roma antica dovevano vigilare sugli
alimenti; Diocleziano, con l’Editto del
301, tentò di disciplinare i prezzi del
mercato. Anche nel Medio Evo questa
bevanda era sofisticata con acetato di
piombo per renderla più dolce. Sempre nel Medio Evo gli alchimisti misero
a punto un metodo basato sull’impiego
di carta o stoffa impregnata di solfito
che, in presenza di acetato di piombo,
dava origine a una macchia nerastra di
solfuro di piombo.
In tutte le epoche e sotto tutti i regimi sono state emanate norme sulla
produzione e il commercio delle sostanze alimentari.
Frodi alimentari e progresso
scientifico
In epoca moderna, tuttavia, le frodi
alimentari hanno potuto giovarsi, paradossalmente, dello stesso progresso
scientifico; in effetti la scienza è, in
questo caso, un’arma a doppio taglio:
da un lato permette, grazie alle nuove
possibilità di analisi, di scoprire più facilmente le frodi; allo stesso tempo,
tuttavia, per le stesse ragioni ne favorisce la realizzazione.
In qualche caso, e in certi periodi,
si è avuta la sensazione che il progresso scientifico sia servito più a favorire
le frodi che a prevenirle.
Vale la pena ricordare, sotto il profilo storico, quanto ha scritto J.C.
Drummond nel suo libro “The Englishman’s food” (1991). Sembra che il periodo in cui le frodi alimentari hanno
23
Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo
raggiunto una frequenza molto elevata
sia stato tra il 1800 e il 1850, periodo
caratterizzato, come è noto, da notevoli scoperte scientifiche nei settori
della chimica, della fisica e della medicina, nonché da importanti innovazioni
tecnologiche. In quel periodo spicca il
nome di un chimico di origine tedesca,
F. Accum, professore di chimica in un
Istituto di Londra, che dedicò gran
parte della sua vita all’analisi chimica
degli alimenti. Nel 1820 pubblicò un libro sulle adulterazioni alimentari e la
presenza di veleni nel cibo che ebbe
grande successo. Molte delle adulterazioni descritte da Accum, quali l’impiego di allume nella panificazione, l’aggiunta di solfato di ferro alla birra, di
capsico alla mostarda, erano praticate
già da molto tempo, ma la denuncia di
Accum ebbe grande risonanza in
quanto era suffragata dai risultati delle
analisi chimiche.
Egli, inoltre, mise in evidenza
molti aspetti dei trucchi praticati durante la produzione e la manipolazione di alimenti e bevande, quali ad
esempio la falsificazione del vino partendo dal sidro e svelando che persino il “deposito” caratteristico del “porto” invecchiato veniva imitato facendo
depositare sulla superficie interna
delle bottiglie un leggero strato di su-
pertartrato di potassio. La vicenda è
molto interessante anche per i risvolti
che ne seguirono. Accum, infatti,
venne perseguitato in tutti i modi dai
produttori e dai commercianti danneggiati dalle sue denunzie; a sua
volta, però, prestò il fianco ad alcune
accuse quali la pessima abitudine che
aveva di asportare pagine dai libri che
consultava in biblioteca. La stampa,
comunque, cominciò ad interessarsi
al problema delle frodi alimentari e la
rivista medica Lancet si fece promotrice, nel 1851, di un nucleo di polizia
scientifica (Scientific Detective Police) il cui compito era quello di investigare e scoprire frodi e adulterazioni
alimentari.
Oggi la frode sembra essersi spostata soprattutto nel settore della pubblicità, dando luogo alla cosiddetta
“pubblicità ingannevole”. Il fenomeno è
dovuto in parte alla grande diffusione
dei mass media e, anche in questo caso paradossalmente, alle accresciute
cognizioni del pubblico sui temi dell’alimentazione e della nutrizione.
Atteggiamento dei consumatori
Ci si può chiedere, a questo punto,
quale sia l’atteggiamento del consuma-
24
E. Lanzola, G. Piva
tore di fronte al problema della sicurezza alimentare. Senza dubbio, rispetto al
passato, è più informato e anche più
esigente; ha imparato a leggere le etichette, scrive o telefona alle varie associazioni dei consumatori quando si
trova ad affrontare qualche problema.
Desidera che il prodotto alimentare sia
pratico, che abbia una durata di utilizzazione ragionevolmente lunga, così da
poterlo conservare senza fare la spesa
ogni giorno; nello stesso tempo, però,
pretende che mantenga tutte le caratteristiche del prodotto naturale, a cominciare dal gusto. Per rispondere a
queste aspettative l’industria fa del suo
meglio (cottura sotto vuoto, mild technologies ecc.) ma deve fronteggiare
anche un altro caratteristico atteggiamento del consumatore: la diffidenza
verso i prodotti nuovi, la cosiddetta
“neofobia alimentare”.
È sufficiente riflettere sul tempo
che c’è voluto perché gli alimenti surgelati entrassero, alcuni decenni or sono, nella consuetudine delle preparazioni culinarie e sull’odierno atteggiamento nei riguardi dei cibi geneticamente modificati (OGM). In questo caso poi si assiste all’assurdo che l’ingegneria genetica non è soltanto accettata ma auspicata quando si tratta di
interventi e trattamenti terapeutici,
mentre viene rifiutata senza appello
quando è riferita agli alimenti, anche
se per apportare miglioramenti qualiquantitativi agli stessi (cibo di Frankestein!). È il medesimo atteggiamento
che nel ’600 ostacolò l’accettazione
della patata nell’alimentazione umana
perché la si riteneva causa della lebbra
e della scrofolosi.
Sicurezza alimentare
e qualità della vita
Negli ultimi decenni sono stati
molteplici gli scandali che hanno compromesso la fiducia del consumatore,
a partire dal vino addizionato di metanolo, al problema dei residui di antibiotici e di farmaci, alla contaminazione da PCB e diossine, alla presenza
di micotossine, di metalli pesanti ed
alla questione degli OGM.
La sicurezza alimentare, intesa in
senso globale, è perciò alla base della
sicurezza nutrizionale. La nutrizione
dovrebbe avere come obiettivo il soddisfacimento del benessere psico-fisico,
non solo dal punto di vista sensoriale,
ma come ottimizzazione dello stato di
salute con attenzione alla prevenzione
delle malattie metaboliche (obesità,
diabete ecc.), di quelle cardio-dege-
25
Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo
nerative (ipertensione, cardiovasculopatie), alle sindromi di origine carenziale ecc.
L’evoluzione storica della nutrizione si è caratterizzata, in modo più o
meno conscio, per varie fasi evolutive
(Tabella 3).
Un campo di indagine nuovo è offerto dalla disponibilità di nuove tecnologie derivanti dalla rivoluzione geno-
mica che dovrebbe consentirci di conoscere meglio le relazioni intercorrenti fra particolari nutrienti e trascrizione
dei geni (Averna et al, 2002), anche se
“Ad oggi, nessun intervento farmacologico, genetico o ambientale si è dimostrato efficace nel prolungare la vita
media degli animali; tuttavia la semplice restrizione calorica aumenta la vita
media del 30-40% in un certo numero
Tabella 3
Evoluzione storica della nutrizione
Fase naturalistica: guidata dall’istinto e governata da norme religiose/filosofiche che soddisfano, ad un tempo, esigenze
economiche ed igieniche.
Fase dell’energia chimica: rappresenta il primo tentativo di approccio scientifico, basato sull’identificazione degli alimenti
come fonte di energia chimica.
Fase dei minerali: è forse una delle prime prese di coscienza di situazioni carenziali in certe aree.
Fase vitaminica o biologica: è la scoperta del fabbisogno di composti essenziali con l’attribuzione di un ruolo
determinante nei processi biologici.
Fase degli standard alimentari: è una razionalizzazione dei suggerimenti per ridurre i problemi dovuti a squilibri alimentari
e per migliorare la qualità della vita.
Fase degli aminoacidi: è la presa di coscienza dell’essenzialità della qualità delle proteine.
Fase degli additivi (probiotici, prebiotici, conservanti, antiossidanti ecc.): la diffusione del loro utilizzo coincide con la presa
di coscienza della funzione profilattico-salutistica del cibo; così in molti casi il farmaco è diventato alimento.
Fase degli alimenti funzionali (nutraceutici): implica il ritorno in veste scientifica all’uso degli alimenti, oltre che per il loro
apporto plastico, energetico, dietetico e di mezzo di informazione biologica, anche per le loro azioni benefiche su una o più
funzioni dell’organismo (EUFOSE – Diplok et al. 1999).*
Fase delle biotecnologie: offre prospettive affascinanti per le possibili evoluzioni cognitive, relative alla qualità e alla
sicurezza alimentare, ma che, secondo alcuni, pone interrogativi inquietanti.
* “Un alimento può essere considerato funzionale se viene soddisfacentemente dimostrato che può implicare
un senso benefico e mirato su una o più funzioni dell’organismo, al di là di adeguati effetti nutritivi, in modo
tale che risultino evidenti un miglioramento dello stato di salute e di benessere e/o una riduzione del rischio di
malattia. Un alimento funzionale deve restare alimento e deve mostrare i suoi effetti nelle quantità che ci si
può aspettare vengano normalmente consumate con la dieta. Non è quindi né una pillola, né una capsula, ma
parte del normale regime alimentare“.
26
E. Lanzola, G. Piva
di organismi, compresi lieviti, Drosophila, Caenorhabditis elegans, roditori e scimmie” (Averna et al. 2002).
Si aggiunga che l’OMS, nel suo
rapporto del giugno 2002 “National
Cancer Control Programme: policies
and managerial guidelines”, evidenzia
come fattori alimentari si possano associare al 30% dei casi di tumore nei
paesi avanzati e al 20% nei paesi in
via di sviluppo.
Molto quindi dobbiamo ancora conoscere sui rapporti fra nutrizione e
stato di salute.
Oggi il concetto di sicurezza alimentare viene recepito nei programmi
di Sanità Pubblica degli Organismi nazionali e internazionali preposti alla materia; un importante passo avanti è
stato compiuto considerando in senso
complessivo la sicurezza alimentare nel
suo duplice aspetto nutrizionale e igienico. In Italia il D.M. 16 Ottobre 1998
ha istituito, nell’ambito del Dipartimento di Prevenzione delle Aziende Sanitarie Locali, il Servizio di Igiene degli
Alimenti e della Nutrizione (SIAN) che,
come lascia intendere la denominazione, unisce nella stessa ottica l’area
funzionale di Igiene degli alimenti e
delle bevande e l’area funzionale di
Igiene della nutrizione.
A livello europeo il “Libro bianco
della sicurezza alimentare”, pubblicato
nel Gennaio 2000, stabilisce che questa deve basarsi su un approccio completo e integrato e deve considerare
l’intero sistema alimentare in modo
coerente, efficace e dinamico.
A sua volta il “Rapporto sul lavoro
della Commissione europea nel settore
della nutrizione in Europa”, pubblicato
nell’ottobre 2002, ribadisce che la
preoccupazione per la sicurezza in alimentazione e quella per la nutrizione
non possono essere disgiunte. Quando, infatti, gli apporti alimentari sono
minacciati da contaminazioni a rischio,
quali ad esempio la BSE, legata al
consumo di prodotti carnei, ovvero da
tossinfezioni per la presenza di salmonella nei prodotti a base di uova, i consumatori possono rispondere modificando i loro modelli alimentari con il risultato di cambiamenti nei profili nutrizionali delle loro diete.
Si tratta, come è facilmente intuibile, di un nuovo approccio al problema della sicurezza in alimentazione,
basato su cognizioni attuali e logiche,
che impegnano tutti i protagonisti
coinvolti nel sistema, e cioè i Governi,
l’industria, il commercio e i consumatori secondo uno schema che già nel
1990 l’Organizzazione Mondiale della
Sanità aveva presentato ricorrendo
27
Evoluzione della sicurezza alimentare nella storia dell’uomo
Figura 5
Approccio
al problema
della Sicurezza
Alimentare
secondo
l’Organizzazione
Mondiale
della Sanità WMO 90212
(1990)
ALIMENTI
PIU’ SICURI PER TUTTI
RIPARTIZIONE DELLE RESPONSABILITA'
Normative sui
prodotti
alimentari
Raccolta di
dati ricerca
Consigli per
l’industria
il commercio
il pubblico
Buona pratica
dei produttori
e dei distributori
Consumatori
informati e
avvisati
Assicurazione
della qualità e
controllo degli
alimenti trattati
Sicurezza
delle pratiche
alimentari
domestiche
Processi e
tecnologie
appropriati
Partecipazione
comunitaria
Messa in atto
dei servizi di
igiene e sanità
correlati
Amministratori
e manipolatori
degli alimenti
qualificati
GOVERNO
INDUSTRIA
E COMMERCIO
Gruppi attivi di
consumatori
CONSUMATORE
IMPEGNO NAZIONALE PER LA SICUREZZA DEI PRODOTTI ALIMENTARI
RUOLO DIRIGENTE DELL’OMS PER UN CONSENSUS INTERNAZIONALE
SUI PROBLEMI, LE POLITICHE E LE AZIONI
IN MATERIA DI SICUREZZA DEI PRODOTTI ALIMENTARI
all’immagine caratteristica del frontone
di un tempio (Figura 5).
In conclusione si può dire che le
numerose ricerche scientifiche effettuate negli ultimi decenni nel settore della
sicurezza in alimentazione ed in aree vicine (scienze agrarie, biologiche, ambientali, chimiche, tossicologiche ecc.)
abbiano permesso di ricavare una considerevole mole di informazioni che evidenziano sempre più la necessità di
considerare la dieta come un tutto unitario per quanto riguarda i suoi componenti. Inoltre si cominciano a intravedere nuovi parametri utili per definire meglio il concetto di “dieta salubre”.
Per “dieta salubre” si può intendere
una dieta nella quale le sostanze potenzialmente tossiche sono assenti o a livelli
tollerabili e nella quale tutte le sostanze
nutritive si trovino in rapporti equilibrati e
in quantità idonea ad assicurare i fabbisogni nutrizionali, tenuto conto delle interazioni tra le varie sostanze all’interno
della dieta e dell’organismo umano.
Si tratta di un concetto che ha la
sua base nelle analisi delle “diete totali”
che consente di trarre indicazioni difficilmente ottenibili attraverso altre vie.
Con questo sistema di indagine (da
molti anni operativo negli USA) è possibile misurare con soddisfacente ap-
28
E. Lanzola, G. Piva
prossimazione le ingestioni con la dieta
di determinate sostanze da parte di
gruppi selezionati di popolazione, allo
scopo di individuare i gruppi a rischio e
di seguire i trends temporali.
La sicurezza alimentare come ciascuno di noi la vorrebbe, quale fattore di benessere, di qualità e di lunga vita non è
ancora completamente raggiunta. L’approccio sistemico che viene oggi sviluppato rappresenta una via molto promettente.
La sicurezza alimentare è oggi una
disciplina interspecialistica che si ricollega
alla microbiologia, alla virologia, all’immunologia, all’allergologia, alla chimica tossicologica, alla farmacologia, ma non può
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Istituto Nazionale Ricerca degli Alimenti e della Nutrizione (I.N.R.A.N.)
disposizioni adottate in questa materia.
In questo contesto, devono essere
inclusi requisiti relativi ai mangimi, fra
cui quelli legati strettamente alla loro
produzione e al loro utilizzo, quando
questi siano riservati agli animali destinati alla produzione alimentare.
A questo proposito, l’U.E. ha scelto di perseguire un elevato livello di tutela della salute nell’elaborazione della
legislazione alimentare, che essa applica in modo non discriminatorio, a
prescindere dal fatto che gli alimenti o
i mangimi siano in commercio sul mercato interno o su quello internazionale.
Esamineremo tutta la legislazione
innovativa propria dell’Unione Europea
per salvaguardare la salute dei cittadini
europei e ne trarremo le conseguenze
operative, valutando dettagliatamente i
vari punti critici.
Quando la legislazione alimentare
tende a ridurre, eliminare o evitare un
rischio per la salute, le tre componenti
interconnesse dell’analisi del rischio,
Libera circolazione
degli alimenti
La libera circolazione degli alimenti, in tutta Europa e nel mondo, presuppone che questi siano sicuri e sani,
perché contribuiscono in modo significativo sia alla salute che al benessere
dei cittadini e, di conseguenza, ai loro
interessi sociali ed economici.
Nell’Unione Europea, oggi composta da 25 paesi, la libera circolazione degli alimenti e dei mangimi può
essere realizzata soltanto se i requisiti
di sicurezza non presentano differenze
significative da uno Stato membro
all’altro.
Oggi, purtroppo, esistono notevoli
difformità in relazione ai concetti, ai
principi e alle procedure tra legislazioni
degli Stati membri, in materia di sicurezza degli alimenti. Occorre, pertanto,
procedere al ravvicinamento di tali
concetti, principi e procedure, in modo
da costituire una base comune per le
31
Concetto di sicurezza alimentare ed elementi di legislazione
cioè la valutazione, la gestione e la
comunicazione del rischio, forniscono
una metodologia sistematica per definire provvedimenti oppure altri interventi a tutela della salute, che siano
efficaci, proporzionali e mirati.
accrescendo, così, il senso di fiducia
reciproca.
Visto che alcuni prodotti autorizzati
dalla legislazione alimentare, quali i pesticidi o gli additivi per i mangimi, possono comportare rischi per l’ambiente o
per la sicurezza dei lavoratori, l’E.F.S.A.
deve valutare anche alcuni aspetti legati
all’ambiente e alla protezione dei lavoratori, in conformità alla legislazione
pertinente.
Per garantire ai cittadini l’assoluta
certezza della neutralità dei membri
dell’E.F.S.A., è stato necessario nominare esperti indipendenti, scelti tra una
vasta gamma di categorie professionali
e non, suddivisi per nazionalità.
L’Authority europea
della sicurezza
alimentare
(european food safety
authority o e.f.s.a.)
L’istituzione di un’Authority Europea
per la Sicurezza Alimentare (European
Food Safety Authority o E.F.S.A.) è avvenuta il 28 gennaio 2002, grazie alla
pubblicazione del regolamento CE n.
178/2002 del parlamento europeo e
del consiglio europeo. La sua funzione
è quella di rafforzare l’attuale sistema di
assistenza tecnico-scientifica, che non
è più in grado di soddisfare le crescenti
esigenze di sicurezza.
L’E.F.S.A. funge da punto di riferimento scientifico indipendente nella valutazione del rischio e contribuisce a
garantire, in tal modo, il regolare funzionamento del mercato interno.
Questa Authority è assolutamente
autonoma, proprio per garantire e informare sia i consumatori sia i produttori,
Definizione di “alimento”
Si intende per alimento o prodotto
alimentare, qualsiasi sostanza o prodotto trasformato, destinato a essere ingerito o di cui si prevede, ragionevolmente,
che possa essere ingerito da esseri
umani.
Sono comprese le bevande, le
gomme da masticare e qualsiasi sostanza, compresa l’acqua, intenzionalmente incorporata negli alimenti, nel
corso della loro produzione, preparazione o trattamento.
32
G. Calabrese
Non sono compresi:
a) i mangimi;
La valutazione del rischio si basa
sugli elementi scientifici a disposizione
ed è svolta in modo indipendente,
obiettivo e trasparente.
La gestione del rischio tiene conto
dei risultati della valutazione del rischio
e, in particolare, dei pareri delle autorità preposte, nonché di altri aspetti
come il principio di precauzione, laddove sussistano le condizioni ideali per
raggiungere gli obiettivi generali in materia di legislazione alimentare.
Per quanto riguarda il principio di
precauzione, è bene ricordare che, a
seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, in circostanze specifiche venga individuata la possibilità
di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione di incertezza sul
piano scientifico, possono essere
adottate le misure provvisorie di gestione del rischio, necessarie per garantire il livello elevato di tutela della
salute che la comunità europea persegue, in attesa di ulteriori informazioni
scientifiche per una valutazione più
esauriente del rischio.
La legislazione alimentare si prefigge di tutelare gli interessi dei consumatori e di costituire una base per consentire loro di compiere scelte consapevoli
in relazione agli alimenti di cui usufruiscono.
b) gli animali vivi, a meno che siano
preparati per l’immissione sul mercato, ai fini del consumo umano;
c) i vegetali prima della raccolta;
d) i medicinali ai sensi delle direttive
del consiglio 65/65/CEE e
92/73/CEE;
e) i cosmetici ai sensi della direttiva
76/768/CEE del consiglio;
f)
il tabacco e i prodotti del tabacco,
ai sensi della direttiva 89/622/CEE
del consiglio;
g) le sostanze stupefacenti o psicotrope, ai sensi della convenzione
unica delle Nazioni Unite sugli stupefacenti del 1961 e della convenzione delle Nazioni Unite sulle
sostanze psicotrope del 1971;
h) i residui e i contaminanti.
Analisi del rischio
Ai fini del conseguimento di un elevato livello di tutela della vita e della salute umana, la legislazione alimentare si
basa sull’analisi del rischio, tranne quando ciò non sia confacente alle circostanze o alla natura del provvedimento.
33
Concetto di sicurezza alimentare ed elementi di legislazione
Essa tende a prevenire:
a) le pratiche fraudolente o ingannevoli;
di evitare specifici effetti nocivi per
la salute provocati da un alimento o
categoria di alimenti.
b) l’adulterazione degli alimenti;
4) Per determinare se un alimento sia
dannoso per la salute, occorre prendere in considerazione quanto segue:
a) non soltanto i probabili effetti immediati, a breve termine, a lungo
termine dell’alimento sulla salute di
una persona, ma anche su quella
dei suoi discendenti;
b) i probabili effetti tossici di un alimento;
c) la particolare sensibilità, sotto il
profilo della salute, di una specifica
categoria di consumatori, nel caso in
cui l’alimento sia destinato ad essa.
c) ogni altra situazione in grado di indurre in errore il consumatore.
Requisiti di sicurezza
degli alimenti
In riferimento ai principi della tutela,
sono stati definiti precisi requisiti di sicurezza degli alimenti.
1) Gli alimenti a rischio non possono
essere immessi sul mercato.
2) Gli alimenti sono considerati a rischio nei seguenti casi:
a) se sono dannosi per la salute;
b) se non sono adatti al consumo
umano.
5) Per determinare se un alimento sia
inadatto al consumo umano, occorre prendere in considerazione se
l’alimento sia inaccettabile, secondo l’uso previsto, a causa di contaminazione dovuta a materiale estraneo o ad altri motivi, o in seguito a
putrefazione, deterioramento o decomposizione.
3) Per determinare se un alimento sia
a rischio, occorre prendere in considerazione quanto segue:
a) le normali condizioni d’uso dell’alimento da parte del consumatore in
ciascuna fase della produzione, della
trasformazione e della distribuzione;
b) le informazioni messe a disposizione del consumatore, comprese
le informazioni riportate sull’etichetta o altre informazioni generalmente
accessibili al consumatore sul modo
6) Se un alimento a rischio fa parte di
una partita o lotto, si presume che tutti gli alimenti contenuti in quella partita
o lotto siano a rischio a meno che, a
seguito di valutazione approfondita, risulti infondato ritenere che il resto del-
34
G. Calabrese
la partita o lotto sia a rischio.
tiche l’E.F.S.A. ha costituito un “panel”
di grandi esperti mondiali per conoscere non solo la tecnologia usata per modificare geneticamente l’organismo vegetale, ma anche gli effetti da essa
causati.
Si ipotizzano alcune variazioni di ordine nutritivo che riguardano:
a) l’alterazione di nutrienti “maggiori”;
7) Se un alimento a rischio fa parte di
una partita, lotto o consegna di alimenti della stessa classe o descrizione, si presume che tutti gli alimenti contenuti, siano a rischio, a
meno che, a seguito di una valutazione approfondita, risulti infondato
ritenere che il resto della partita,
lotto o consegna, sia a rischio.
b) le alterazioni della biodisponibilità;
8) Gli alimenti conformi a specifiche
disposizioni comunitarie riguardanti
la sicurezza alimentare sono considerati sicuri in relazione agli aspetti
disciplinati dalle stesse disposizioni.
c) le modifiche quantitative a carico
dei nutrienti.
Ma le maggiori preoccupazioni riguardano la possibile assimilazione di
materiale genetico manipolato tecnologicamente.
Ci sono molte paure che scientificamente sembrano assolutamente non verificate, in quanto, prive di fondamento.
È bene, quindi, fare un raffronto fra
le due posizioni.
9) Se l’alimento è a rischio o se ci sono sospetti, anche se è conforme
alle specifiche disposizioni della legislazione alimentare, deve essere
sottoposto alle autorità competenti
per imporre delle restrizioni sul mercato oppure per disporne il ritiro.
A) Chi ha paura degli O.G.M:
• teme che ci possa essere una
possibile dispersione nell’ambiente
dei microrganismi utilizzati nelle biotecnologie;
• teme la possibile diffusione
nell’ambiente dei nuovi “caratteri
transgenici” ad altri organismi, con
possibile ricaduta sugli equilibri ambientali;
Rintracciabilità
degli alimenti
Sono tante le critiche nei confronti
dei prodotti di origine biotecnologica, sia
per quanto riguarda l’aspetto nutrizionale sia per quello di natura tossicologica.
Per approfondire queste problema-
35
Concetto di sicurezza alimentare ed elementi di legislazione
nell’intestino, una volta ingeriti;
• si ricorre a “ geni suicidi” che rendono i microrganismi dipendenti dal
“medium” di coltura: se dispersi
nell’ambiente non potrebbero sopravvivere;
• ci si avvale di mezzi diagnostici che
controllano la diffusione dei microrganismi nell’ambiente e sono in grado di
arrestare subito l’eventuale “fuga”.
• sostiene che gli alimenti ottenuti
da piante o animali transgenici potrebbero costituire un rischio per il
consumatore;
• ribadisce la temuta trasmissione
di geni della resistenza ad alcuni tipi
di categorie di antibiotici.
B) Chi non ha paura degli O.G.M. dichiara che la fuga di microrganismi
ingegnerizzati non può avvenire a
causa di diverse strategie:
• si usano sistemi di controllo che
assicurano la gestione della “manipolazione;
• vengono utilizzati ceppi batterici
deboli, incapaci di sopravvivere
Il dibattito rimane aperto, ma la
scienza va avanti e sicuramente si troverà un punto di mediazione che metta
d’accordo le due parti, con la validazione scientifica fornita dai dati di una
profonda e seria ricerca.
Riferimenti bibliografici
Capuano A, Dugo G, Restani P: Tossicologia degli
alimenti. Ed. Utet, 1999.
Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee del
28\01\2002.
Regolamento (CE) n.178\2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio.
36
C
oncetto di rischio in
alimentazione
C. Roggi
C. Gallo Stampino
Dipartimento di Scienze Sanitarie Applicate e Psicocomportamentali
Sezione di Scienza dell’Alimentazione. Facoltà di Medicina e Chirurgia
Università degli Studi di Pavia
nante, dei livelli critici di accettabilità entro i quali lo stato di salute del consumatore non venga compromesso.
Fondamentale per garantire la sicurezza alimentare è perciò l’analisi del rischio, consistente nell’esame sistematico di tutta la filiera produttiva di un alimento, dalle materie prime ai processi
di lavorazione, conservazione e distribuzione, per determinarne i rischi e definirne le necessarie misure preventive.
Una corretta analisi del rischio richiede:
1) l’identificazione di un pericolo per la
salute umana (natura della contaminazione o del difetto riscontrato);
Introduzione
Per rischio si intende la probabilità
che un pericolo si realizzi e/o si manifesti e porti all’insorgenza dell’evento indesiderato (malattia).
Nessuna attività umana, compresi
mangiare e bere, è priva di rischi; di
conseguenza, anche nel campo della sicurezza alimentare, sarebbe illusorio mirare al raggiungimento di una condizione
totalmente scevra da rischio: il concetto
di “rischio zero” va pertanto abbandonato, mentre va introdotto quello di “rischio accettabile”. Questo significa che
è necessario stabilire, per ogni contami-
Figura 1
Analisi
del rischio
Componenti dell’analisi
del rischio
Valutazione
del rischio
Gestione
del rischio
37
Comunicazione
del rischio
Concetto di rischio in alimentazione
2) la valutazione della gravità delle conseguenze del pericolo identificato;
4) la gestione del pericolo identificato
attraverso opportuni interventi preventivi e correttivi;
3) la valutazione della probabilità di
comparsa del pericolo (rischio);
5) la comunicazione del pericolo.
Tabella 1
Classificazione dei pericoli (Pearson AM e Dutson TR 1996)
Biologici
Chimici
Fisici
Microrganismi e loro tossine
Veleni
Sostanze estranee
Batteri: forme vegetative
e sporigine
Muffe
Lieviti
Virus
Parassiti
Veleni vegetali
Additivi volontari
Sostanze chimiche originate
nei processi
Concimi
Pesticidi
Residui di antibiotici
Additivi non intenzionali
Sofisticazioni
Cessioni dagli imballaggi
Confezioni non integre
Contaminanti industriali
Metalli pesanti
Isotopi radioattivi
Vetro
Legno
Sassi, terriccio
Metallo
Materiale di confezionamento
Ossa, lische
Materiale di costruzione
Insetti
Residui di animali
Effetti personali
Animali marini come fonte
di composti tossici
Pesci
Molluschi
Sostanze in grado di
provocare reazioni
Allergizzanti
Intolleranze alimentari
Disordini metabolici
Reazioni farmacologiche
Idiosincrasie
Reazioni anafilattiche
Nutrizione
Eccessivo addizionamento di nutrienti
Carenze nutrizionali o errata
formulazione del prodotto
Fattori antinutrizionali
Distruzione o perdita di nutrienti
durante il processo e lo stoccaggio
Etichettatura nutrizionale non
accurata
38
C. Roggi, C. Gallo Stampino
Per pericolo si intende qualsiasi
“proprietà” dell’alimento che lo renda
insicuro per il consumo umano costituendo un rischio inaccettabile per la
salute del consumatore.
In campo alimentare esistono tre
classi di pericoli: biologici, chimici e fisici
(Tabella1).
Tra questi, contrariamente a quanto percepito dall’opinione pubblica,
molto impressionata e allarmata da
eventuali inquinamenti chimici, sono i
pericoli biologici a costituire il maggior
problema per la salute del consumatore,
costituendo negli USA il 93% delle
cause di malattie derivate da alimenti,
contro il 4% di casi dovuti a pericoli
chimici.
scita delle cosiddette tossinfezioni alimentari, con incidenze, solo ad esempio per quanto riguarda la situazione
americana, che variano da 12,6 a 81
milioni di casi l’anno e costi stimati tra
1,9 e 8,4 miliardi di dollari.
L’OMS stima che nelle aree a più alto tenore economico almeno il 10% della
popolazione sia annualmente interessata
da patologie connesse al consumo di alimenti: in Italia sono stati rilevati 300.000
casi l’anno, ma si tratta sicuramente di
dati sottostimati, non essendo l’attuale
rete di sorveglianza epidemiologica capace di assicurare la notifica di tutti gli
eventi. A questi elevati numeri inoltre corrispondono alti costi, non soltanto in termini economici per l’azienda responsabile
e per tutta la società, sottoforma di perdita di giornate lavorative, di mercato, di
spese mediche legali e assicurative, ma
anche, in modo non quantificabile, in
quanto a sofferenza umana.
Tutto questo rende ulteriormente
necessario attuare misure preventive
efficaci nel garantire l’igienicità di ciò
che viene posto sul mercato.
Le malattie infettive di origine microbiologica trasmesse con gli alimenti
sono classificate come infezioni, tossinfezioni e intossicazioni.
Le infezioni sono determinate dall’ingestione e dalla successiva replicazione
Pericoli biologici
I pericoli di natura biologica comprendono batteri, virus e protozoi.
Mentre i pericoli macrobiologici
(mosche e insetti) per quanto sgradevoli non rappresentano, in genere, un
rischio per la sicurezza alimentare (se
non quello indiretto di agire da vettori), i
pericoli microbiologici, principalmente i
microrganismi patogeni, sono spesso
causa di malattie derivate da alimenti,
come dimostra il trend in evidente cre-
39
Concetto di rischio in alimentazione
nell’organismo ospite del microrganismo
patogeno stesso, generalmente con
bassi valori di dose infettante, periodi di
incubazione relativamente lunghi e con
interessamento di tipo gastrointestinale
e/o sistemico; qualora alla proliferazione
del patogeno nell’organismo faccia anche seguito la liberazione di tossine si
parla di tossinfezione. Le intossicazioni,
invece, sono provocate dall’ingestione di
tossine prodotte da microrganismi in fase attiva di proliferazione negli alimenti.
Essendo l’agente causale preformato, le
malattie conseguenti hanno come caratteristica periodi di incubazione brevi e soTabella 2
Classificazione
dei principali pericoli
biologici
(Pearson AM e Dutson
TR 1996)
no solitamente associate dal punto di vista epidemiologico a determinati tipi di
prodotti alimentari. Possono essere termostabili e quindi resistenti ai normali
processi di riscaldamento come nel caso
della tossina da Staphylococcus aureus o termolabili, quindi inattivabili con il
calore, come nel caso della tossina da
Clostridium botulinum.
Nella tabella 2 i pericoli biologici
vengono classificati in funzione della
severità del rischio.
I patogeni riportati nel primo gruppo
rappresentano un serio pericolo per la
salute del consumatore; quelli del se-
1. Gravi
Clostridium botulinum tipo A, B, E e F
Shigella dysenteriae
Salmonella typhi, paratyphi A, B
Virus Epatite A e E
Brucella abortis, suis
Vibrio cholerae 01
Vibrio vulnificus
Taenia solium
Trichinella spiralis
2. Moderati:
potenziali gravi complicanze
3. Lievi:
complicanze limitate
Listeria monocytogenes
Salmonella spp
Shigella spp
Escherichia coli enterovirulento
Streptococcus pyogenes
Rotavirus
Norwalk virus
Entamoeba histoliytica
Diphyllobothrium latum
Ascaris lumbricoides
Cryptosporidium parvum
Bacillus cereus
Campylobacter jejuni
Clostridium perfringens
Staphylococcus aureus
Vibrio cholerae, non-01
Vibrio parahaemolyticus
Yersinia enterocolitica
Giardia lamblia
Taenia saginata
40
C. Roggi, C. Gallo Stampino
condo gruppo sono considerati rischi
moderati, sebbene in alcune circostanze, nei gruppi di popolazione più suscettibili, possano comportare complicanze
anche molto gravi. Infine i patogeni del
terzo gruppo sono quelli responsabili dei
comuni casi di malattia di origine alimentare, che in genere non comportano
frequenti e preoccupanti conseguenze.
Esistono concrete possibilità di una
immissione sul mercato di materie prime, specialmente se di origine animale,
con un certo grado di contaminazione
biologica. Diversi sono, infatti, i patogeni che possono colonizzare l’intestino
degli animali da allevamento e contaminare, in fase di macellazione, non solo
le carcasse, ma anche il terreno, le acque superficiali e conseguentemente i
vegetali coltivati e/o irrigati.
L’insorgenza delle malattie infettive
di origine alimentare va quindi riferita
principalmente a due fattori: la contaminazione e la colonizzazione.
Tabella 3
Principali meccanismi
in gioco nella diffusione
delle malattie infettive
di origine alimentare
(dati ottenuti da indagini
epidemiologiche)
(Bryan 1988)
Il prodotto può essere contaminato all’origine oppure può subire una
contaminazione secondaria durante le
fasi di processo. Se a questo subentra
una cattiva conservazione si creano le
condizioni ottimali per la proliferazione
(Tabella 3).
Il mancato controllo di questi fattori
porta così, anche nei paesi a più alto
tenore economico, a un alto tasso di incidenza di patologie di tipo gastro-intestinale.
Per il controllo dei pericoli biologici
è perciò necessario:
1) eliminare o ridurre i pericoli, per
esempio tramite trattamenti termici,
irradiazione, o liofilizzazione;
2) prevenire la ricontaminazione;
3) inibire la crescita e/o la produzione
di tossine, ad esempio controllando
le caratteristiche intrinseche dei prodotti alimentari, le modalità di conservazione e di confezionamento.
Fattore 1°: contaminazione
% casi
- prodotto contaminato all’origine e inadeguatamente trattato con il calore
47
- ricontaminazione da sorgente umana
32
- ricontaminazione ambientale
15
Fattore 2°: colonizzazione
% casi
- raffreddamento lento dopo trattamento termico
48
- conservazione prolungata
34
- refrigerazione inadeguata
19
41
Concetto di rischio in alimentazione
Nella tabella 4 sono riportati, per le
principali categorie di prodotti alimentari,
i più importanti patogeni distinti nelle
forme infettive (cellule vegetative controllabili con i comuni processi di stabilizzazione, quali la pastorizzazione) e nelle
forme produttrici di tossine e/o spore
che, non completamente eliminabili,
possono solo essere ridotte a un livello
non pericoloso.
Pericoli chimici
La contaminazione chimica dei prodotti alimentari può verificarsi in qualsiasi
Tabella 4
Potenziali patogeni negli alimenti (Snyder 1992)
Alimenti
Patogeni
Forme vegetative
Tossine e/o spore
Carni, pollame e uova
Salmonella spp
Campylobacter jejuni
E. coli
Y. enterocolitica
L. monocytogenes
Virus Epatite A
Trichinella spiralis
S. aureus (tossina)
C. perfringens
C. botulinum
B. cereus
Pesci
Salmonella spp
Vibrio spp
Y. enterocolitica
Virus Epatite A
S. aureus (tossina)
C. botulinum
Metaboliti tossici
Molluschi
Salmonella spp
Vibrio spp
Y. enterocolitica
Shigella
Virus Epatite A
Norwalk virus
S. aureus (tossina)
C. botulinum
Metaboliti tossici
Vegetali
Salmonella spp
L. monocytogenes
Shigella spp
Virus Epatite A
Norwalk virus
Giardia lamblia
S. aureus (tossina)
C. botulinum
B. cereus
Virus Epatite A
Norwalk virus
S. aureus (tossina)
C. botulinum
B. cereus
Cereali, legumi e frutta secca Salmonella spp
Aflatossine (muffe)
Spezie
Salmonella spp
Latte e derivati
Salmonella spp
Y. enterocolitica
L. monocytogenes
E. coli
S. aureus (tossina)
C. botulinum
C. perfringens
B. cereus
Campylobacter jejuni
Shigella spp
Virus Epatite A
Norwalk virus
42
S. aureus (tossina)
C. perfringens
B. cereus
C. Roggi, C. Gallo Stampino
Tabella 5
I principali pericoli
chimici
(Rhodehamel EJ 1992)
Naturalmente presenti
Derivati dal processo produttivo
Micotossine
Sgombrotossina (istamina)
Ciguatossina
Tossine dei funghi
Tossine dei pesci
PSP, DSP, NSP, ASP
Pyrrolizidine alcaloidi
Fitoemagglutinina
Policlorinati bifenili (PCBs)
Prodotti chimici usati in produzione primaria:
pesticidi, fungicidi, fertilizzanti, insetticidi,
antibiotici e ormoni della crescita
Elementi tossici e loro composti:
piombo, zinco, arsenico, mercurio e cianuro
Additivi alimentari:
conservanti, aromatizzanti, coloranti, integratori
Prodotti derivati dallo stabilimento alimentare
Lubrificanti, detergenti/disinfettanti,
cessioni da imballaggi
Tabella 6
Misure preventive
per il controllo
dei pericoli chimici
(Rhodehamel EJ 1992)
I.
Controllo al ricevimento
Specifiche per le materie prime
Certificati di garanzia dei fornitori
Controlli casuali
II. Controllo prima dell’uso
Verificare la reale necessità dell’uso di un prodotto chimico
Assicurarsi della corretta purezza, formulazione ed etichettatura
Controllare le quantità aggiunte
III. Controllo durante lo stoccaggio e l’utilizzo
Prevenire le condizioni che favoriscano la produzione delle sostanze tossiche naturali
IV. Inventario di tutti i prodotti chimici usati in stabilimento
Verifica dell’uso
Documentazione dell’uso
fase del processo produttivo, dalla produzione delle materie prime fino al momento del consumo del prodotto finito.
Gli effetti sulla salute umana possono essere a lungo termine (cronici), come per i composti cancerogeni e alcuni
metalli (per esempio piombo, cadmio e
mercurio) che si depositano e si accumulano per anni nei tessuti corporei,
oppure a breve termine (acuti), per in-
gestione di dosi elevate. I pericoli
chimici connessi alla filiera alimentare
vengono distinti in due classi principali
(Tabella 5):
1) naturalmente presenti;
2) derivati dal processo produttivo.
Per il controllo dei pericoli chimici si
possono adottare misure preventive illustrate nella tabella 6.
43
Concetto di rischio in alimentazione
Bisogna tenere presente che la
contaminazione fisica di un prodotto
alimentare può verificarsi in qualsiasi
momento del processo produttivo, anche dopo i trattamenti tesi al controllo
dei pericoli microbiologici. Quindi la caduta accidentale di un corpo estraneo
può avere una duplice ripercussione in
termini di rischi fisici e biologici. Per tali
ragioni è importante che le buone pratiche di produzione assicurino il controllo dei pericoli fisici e siano previsti strumenti, tipo “metal detector” e raggi x,
in grado di rilevare materiali estranei
quali metalli ferrosi e non, frammenti di
ossa.
Pericoli fisici
Per pericolo fisico si intende la presenza nel prodotto alimentare di corpi
estranei che possono causare danni o
malattia; sono inclusi in questa classe
anche capelli, sporco, polvere, grasso,
carta (Tabella 7).
La presenza di corpi estranei rappresenta un pericolo per due motivi:
• possono essere causa di lesioni all’apparato digerente e di soffocamenti (questo soprattutto nel caso di prodotti destinati all’infanzia);
• possono essere veicoli di microrganismi
patogeni.
Tabella 7
Principali materiali di interesse per il rischio fisico e loro sorgenti (Rhodehamel EJ 1992)
Materiali
Danni potenziali
Fonte
Vetro
Ferite, emorragie, interventi chirurgici
per la rimozione
Bottiglie, vasi, lampade, utensili,
strumenti di misura
Legno
Ferite, infezioni, soffocamenti,
interventi chirurgici per la rimozione
Campi, pagliericci, scatole, edifici
Pietre
Soffocamenti, danni ai denti
Campi, edifici
Metalli
Tagli, infezioni, interventi chirurgici
per la rimozione
Macchinari, campi, fili degli impianti
elettrici, dipendenti
Insetti o loro parti
Malattie, traumi, soffocamenti
Campi, contaminazioni post-processo
Ossa
Soffocamenti, traumi
Campi, errori di produzione
Plastica
Soffocamenti, ferite, infezioni,
interventi chirurgici per la rimozione
Campi, impianto di confezionamento,
pagliericci, dipendenti
Effetti personali
Soffocamenti, ferite, danni ai denti,
interventi chirurgici per la rimozione
Dipendenti
44
C. Roggi, C. Gallo Stampino
to, consentendone la tipizzazione e la
quantificazione, permette di predisporre
interventi, linee guida, raccomandazioni
che lo riducano ai livelli più bassi possibili
o comunque che lo contengano entro
valori di accettabilità. In questo consiste
appunto la seconda componente
dell’analisi del rischio, un processo volto
a stabilire le regole per ridurre un rischio
valutato, a selezionare e porre in atto le
strategie necessarie per il suo controllo
(nella tabella 8 sono riportati esempi generali e molto pratici di misure preventive
per il controllo dei rischi biologici). Fondamentalmente l’obiettivo è di rendere
minima, attraverso il processo di sicurezza, la probabilità di esposizione al rischio.
Infine, la “comunicazione del rischio” consiste nel processo interattivo
Analisi del rischio
L’analisi del rischio, tema fondamentale della nuova filosofia della sicurezza alimentare, è costituita, come abbiamo illustrato precedentemente, da
tre componenti:
1) valutazione del rischio;
2) gestione del rischio;
3) comunicazione del rischio.
La “valutazione del rischio” ne costituisce la prima tappa e consiste in una
stima scientifica degli effetti di danno o
potenzialmente di danno per la salute derivante dall’esposizione umana a pericoli
di origine alimentare.
Costituisce l’elemento chiave per arrivare alla “gestione del rischio” in quanTabella 8
Esempi pratici del controllo del rischio biologico
Rischio
Misure di prevenzione
Tossine preformate stabili al calore
Es. tossina Staphylococcus aures
tossina emetica Bacillus cereus
Materie prime
• Caratteristiche dell’agente etiologico e/o della tossina
• Dimostrazione del controllo durante la fornitura
• Certificato d’analisi
Personale
• Lavaggio mani
• Copertura di eventuali tagli/ferite
• Uso mascherine copribocca/coprinaso
• Libretto sanitario
Comportamenti durante la lavorazione
• Controllo dei parametri tempo e temperatura per inibire la crescita
del microrganismo
Segue a pagina successiva
45
Concetto di rischio in alimentazione
Tabella 8
Segue da pagina precedente
Rischio
Misure di prevenzione
Patogeni in forma vegetativa
Es. Salmonella
Listeria monocytogenes
Vibrio parahaemolyticus
Yersinia enterocolitica…
Materie prime
• Trattamento con calore
• Verifica della possibilità di sopravvivenza/crescita dei microrganismi
patogeni
• Prova di controllo durante il processo di fornitura
• Certificato di analisi
• Controllo della temperatura
• Controllo dei fattori intrinseci come pH, sale, zucchero, acidi organici…
• Procedimenti come irradiazione, sterilizzazione…
Contaminazione crociata
• Imballaggio intatto
• Flusso logico del procedimento, comprendente:
- Separazione del personale, delle attrezzature, delle aree
- Percorsi “sporchi” e sistemazione delle aree
Forme sporigene
Es. Clostridium perfringens
Bacillus subtilis
Bacillus licheniformis
Bacillus cereus
Materie prime
• Caratteristiche delle derrate
• Dimostrazione del controllo durante la fornitura
• Certificato di analisi
• Trattamento con calore
• Trattamento con calore associato ad acidità e concentrazione
di zucchero
• Integrità dell’imballaggio, clorazione dell’acqua raffreddante
e controllo del recipiente raffreddante
• Fattori intrinseci come pH, sale, zucchero, acidi organici…
• Altri processi letali, (es. irradiazione)
Contaminazione crociata
• Imballaggio intatto
• Controllo degli infestanti
• Flusso logico del procedimento
Virus
Es. Epatite A
•
•
•
•
Parassiti
Protozoi
Es. Cryptosporidium parvum
Giardia intestinalis
Micotossine
Es. Patulina
Aflatossina
•
•
•
•
•
•
Rigoroso controllo dell’irrigazione e del lavaggio di insalata e vegetali
Trattamenti letali (es. irradiazione, con calore)
Rigorose procedure di igiene personale per chi manipola gli alimenti
Ispezione veterinaria per controllo di parassiti come Toxoplasma
condii, Tenia in manzo e maiale e Trichinella in maiale
Congelamento (-18°C), riscaldamento (>76°C), essiccamento, salatura
Uso di acqua depurata
Pastorizzazione latte
Trattamento con calore dell’acqua usata come ingrediente
Buone pratiche di immagazzinamento
Riduzione acqua libera a valori < 0.7
46
C. Roggi, C. Gallo Stampino
di scambio di informazioni e di opinioni
sui rischi tra esperti (di valutazione, di
gestione…) e altre parti interessate (individui, gruppi, istituzioni). Secondo una
recente definizione dell’U.S. National
Research Council Committee, deve riguardare non solo argomenti strettamente inerenti la natura del rischio, ma
anche dubbi, reazioni a messaggi sul rischio o a provvedimenti legali e istituzionali intrapresi per la sua gestione.
Dal momento che la comunicazione
del rischio prevede la comunicazione
della decisione raggiunta in seguito ai
processi di valutazione e gestione, permette così il coinvolgimento del pubblico nel cosiddetto “ciclo della gestione
del rischio”, un modello secondo il
quale le preoccupazioni del pubblico e
di tutte le parti interessate vanno considerate attivamente a ogni stadio del
processo di gestione del rischio, inclusa
la valutazione (Figura 2).
Questo modello rappresenta così
una sintesi dei processi alla base
dell’analisi del rischio, essendo costituito da sei tappe fondamentali:
1) definire il problema e collocarlo nel
contesto;
2) analizzare i rischi associati al problema collocato nel contesto;
3) esaminare le opzioni per gestire i rischi;
Figura 2
Ciclo della gestione del
rischio (Risk management
cycle - U.S. Presidential/
Congressional
Commission on Risk
Assessment and
Management 1997)
Problemi/
contesto
Rischi
Valutazioni
Coinvolgere
Opzioni
Azioni
Decisioni
47
Concetto di rischio in alimentazione
4) prendere decisioni sulle opzioni che
possono essere adottate;
senta per le relazioni e le abitudini familiari e sociali.
In altri termini ciò significa che, più
che il rischio stesso, sono le caratteristiche dei destinatari a determinarne la
percezione: le caratteristiche sociali,
culturali e individuali amplificano ed
esagerano un rischio piuttosto che un
altro, come dimostrato nella tabella 9.
Consumatori e scienziati valutano il
rischio in modo molto diverso perché diversi sono i rispettivi punti di partenza e i
linguaggi utilizzati: quello scientifico e
statistico degli esperti e quello intuitivo
del pubblico. L’ambito di lavoro della comunicazione del rischio è proprio questo
gap che separa la descrizione scientifica
dei rischi, in costante evoluzione, dalla
percezione pubblica degli stessi.
A tutt’oggi, da parte degli operatori del settore alimentare manca un sistematico sforzo nella corretta comunicazione dei rischi alimentari, mentre
spesso le informazioni scientifiche so-
5) intraprendere azioni per implementare le decisioni;
6) verificare i risultati dell’azione intrapresa.
Tutti questi sei punti, rappresentanti
le prime due componenti dell’analisi del
rischio, valutazione e gestione, prevedono la collaborazione e l’interazione di
tutte le parti che compongono la filiera
alimentare, compreso il consumatore finale, presupposto indispensabile perché
le decisioni e le conclusioni raggiunte
con l’analisi del rischio non siano contestate e sfidate.
La percezione del rischio
L’esperienza ha dimostrato che il
rischio, più che sulla base di numeri
oggettivi ma impersonali, è “vissuto”
alla luce della minaccia che rappre-
Tabella 9
Percezione del rischio
(in ordine decrescente)
Rischio reale
Rischio percepito
Errori di alimentazione
Pesticidi
Microrganismi e tossine di origine batterica OGM
Micotossine
Additivi
Pesticidi
Errori di alimentazione
Additivi
Microrganismi e tossine di origine batterica
OGM
Micotossine
48
C. Roggi, C. Gallo Stampino
no parziali, sporadiche, interpretate in
modo contraddittorio e mescolate con
la paura della gente.
Tutto ciò ha contribuito ad aumentare enormemente il distacco tra mondo scientifico-produttivo e pubblico.
Sicuramente l’industria alimentare
deve assumersi la primaria responsabilità di questa attività, ma nel contempo
si rendono necessari altri interventi
coordinati che coinvolgano, oltre a chi
produce e trasforma, anche:
• chi elabora i programmi politici e di sorveglianza alimentare, attraverso l’istituzione di agenzie che rappresentino punti di
riferimento scientifici indipendenti;
• chi si occupa di informazione, attraverso la creazione di scuole per giornalismo scientifico;
• il pubblico in generale, attraverso interventi di comunicazione interattiva
organizzati dalle strutture di educazione sanitaria e dei servizi sanitari che,
per la loro storica funzione e collocazione, possono raggiungere ampie fasce di popolazione.
le decisioni politiche e le discussioni
pubbliche si basino sulle migliori informazioni disponibili.
Sicuramente però, una comunicazione del rischio efficace, aumentando il
grado di comprensione di particolari problemi e interventi e assicurando alle persone coinvolte un’adeguata informazione nei limiti delle conoscenze disponibili,
aiuterà a ripristinare il livello di fiducia
nelle politiche di sicurezza alimentare, in
questi ultimi anni fortemente minata da
gravi scandali alimentari (basti ricordare
la BSE o il pollo “alla diossina”).
CONCLUSIONI
Quando si parla di rischio in alimentazione, si fa riferimento al concetto di rischio accettabile ed è fondamentale al riguardo fornire alla popolazione messaggi
chiari e comprensibili, finalizzati a fornire
all’individuo, di ogni età e livello sociale,
opportuni elementi di giudizio e a creare
una ben precisa coscienza alimentare per
il consolidamento di un corretto, igienicamente salutare e adeguato modo di alimentarsi.
In buona parte della popolazione non
esiste una cultura relativa all’igiene degli
alimenti, mentre, per contro, esistono tradizioni e abitudini alimentari che prescin-
Tali interventi non sempre si dimostreranno capaci di ridurre i conflitti e
facilitare la gestione del rischio. Del
resto, la comunicazione del rischio non
è un processo volto a manipolare l’opinione pubblica, ma a permettere che
49
Concetto di rischio in alimentazione
dono dall’applicazione delle più elementari norme igieniche. Ad esempio, l’attuale
tendenza al ritorno al “naturale”, in opposizione alle recenti innovazioni tecnologiche e la ricerca di prodotti “freschi e genuini”, non sottoposti a trattamenti di risanamento considerati depauperanti del
valore nutritivo, addirittura potenzialmente nocivi, costituisce un serio rischio per la Salute Pubblica.
Alla luce di tali considerazioni è importante che, chi si occupa di alimen-
tazione a qualsiasi livello, non ignori le
convinzioni dell’opinione pubblica, ma
anzi prenda atto dei meccanismi sociali
che ne stanno alla base per rispondere
in modo positivo e razionale alle esigenze emerse.
Queste risposte devono basarsi non
solo su evidenze scientifiche prodotte
dai più avanzati studi (epidemiologici,
tossicologici eccetera), ma anche considerare i diversi fattori che condizionano la percezione del rischio (Tabella10).
Tabella 10
Alcuni fattori che influenzano la percezione del rischio (Covello e Merkhofer 1994)
Volontarietà dell’esposizione
I rischi volontari sono meglio accettati di quelli ritenuti imposti
Controllabilità
I rischi ritenuti sotto il proprio controllo (es. tossinfezione alimentare domestica)
sono meglio accettati di quelli percepiti come sotto il controllo di altri
(es. residui pesticidi)
Chiarezza dei benefici
I rischi portatori di indubbi benefici sono meglio accettati
di quelli privi di (o con pochi) vantaggi
Distribuzione dell’esposizione
I rischi distribuiti imparzialmente sono meglio accettati di quelli distribuiti
in modo non omogeneo
Fonte e origine del rischio
I rischi naturali sono meglio accettati di quelli tecnologici e/o indotti dall’uomo
Potenziale catastrofico
I rischi statistici sono meglio accettati di quelli catastrofici
Familiarità
I rischi familiari sono meglio accettati di quelli esotici
Impatto sui bambini
I rischi che riguardano i bambini destano più preoccupazione
di quelli che riguardano principalmente gli adulti
Incertezza scientifica
I rischi ritenuti sconosciuti o incerti (DNA ricombinante) sono meno accetti
di quelli ritenuti scientificamente “tradizionali”
Comprensione
I rischi di difficile comprensione sono meno accetti di quelli di semplice spiegazione
Spaventosità delle conseguenze
I rischi con conseguenze spaventose non sono accettati
(es. il morbo di Creutzfeldt-Jakob è considerato un modo terribile di morire)
Fiducia
Nelle istituzioni e nel sistema agroalimentare
Attenzione dei media
Sensazionalismo per aumentare le vendite o gli ascolti che tende a privilegiare
quello che “fa notizia” e che non necessariamente coincide con quello che rassicura
50
C. Roggi, C. Gallo Stampino
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52
E
lementi di tossicologia
alimentare
E. Chiesara, S. Radice
Dipartimento di Farmacologia, Chemioterapia e Tossicologia
Facoltà di Medicina e Chirurgia. Università degli Studi di Milano
dente dalla volontà dell’uomo, anche se
spesso utilizzati dall’uomo stesso al momento della produzione sia animale,
che vegetale;
• additivi: sostanze per lo più di sintesi
aggiunte intenzionalmente dall’uomo
per produrre effetti desiderati nel cibo
sia dal punto di vista organolettico che
morfologico (es: coloranti, conservanti,
antimicrobici, edulcoranti, tensioattivi
ecc.), finalizzate a evitare il deterioramento del cibo e a migliorare le
sue caratteristiche organolettiche.
Introduzione
L’assunzione degli alimenti rappresenta un evento indispensabile al
mantenimento della salute ed alla conservazione della specie umana. Anche
questi però, come tutto ciò che si trova in natura, non sfuggono alla legge
di Paracelso (“Dose sola facit ut venenum sit”) e possono infatti essere direttamente o indirettamente tossici in
quanto sono in grado di causare effetti
negativi sull’organismo a causa della
presenza di:
• componenti naturali: sostanze di origine vegetale o animale presenti naturalmente negli alimenti che, se assunti
a dosi eccessive, risultano tossiche
(es: inibitori enzimatici, composti cianogenici, goitrogeni, psicoattivi, vasoattivi
e tossine di origine animale ecc.);
• contaminanti: sostanze di origine naturale o sintetica presenti negli alimenti
(es: tossine batteriche e fungine, pesticidi e farmaci ecc.) in maniera indipen-
In questo contesto è importante sottolineare come la maggior parte della popolazione sia estremamente preoccupata
dalla presenza di additivi e contaminanti
negli alimenti. Questo fenomeno di massa è per lo più attribuibile sia all’allarmismo creato dai media nell’opinione pubblica, sia a una notevole disinformazione
generale.
La demonizzazione dell’utilizzo degli
additivi alimentari ha raggiunto una tal
53
elementi di tossicologia alimentare
portata che la maggior parte della popolazione ignora l’esistenza di una disciplina finalizzata allo studio della sicurezza
d’uso di tali composti, quale la tossicologia alimentare. Quest’ultima è infatti
dedicata allo studio degli effetti indesiderabili derivanti da sostanze presenti o
non presenti naturalmente negli alimenti, siano esse di origine sintetica, animale o vegetale (additivi e contaminanti).
A supporto di quanto appena detto risulta evidente come, per il consumatore medio, il rischio (inteso come
probabilità statistica che vi sia un pericolo e/o compaia un danno) più elevato sia attribuibile alla presenza di pesticidi e additivi alimentari, quando in
realtà questi rappresentano la minor
causa di effetti tossici dovuti all’alimentazione (vedi tabella 9 capitolo
“Concetto di rischio in alimentazione”).
Gli additivi alimentari erano infatti in
uso già al tempo dei romani, i quali utilizzavano sia il sale sia l’affumicatura, modalità quest’ultima che è ancora molto
utilizzata. Anche nel medioevo vi era
l’abitudine di utilizzare diverse spezie provenienti dall’oriente, non solo per migliorare la palatabilità del cibo, ma anche per
conservare meglio alcuni alimenti.
Nella seconda metà del 1800, in
seguito alla Rivoluzione Industriale, l’impiego degli additivi subì una grossa impennata, favorendo quindi anche l’insorgere di fenomeni di lucro e di adulterazione. Nel primo caso basti pensare
alle ghiande nel caffè e alla polvere di
mattoni nel cacao, mentre nel secondo
al piombo e al rame utilizzati per colorare dolci, prodotti vegetali e formaggi.
Ovviamente, negli anni successivi,
l’adulterazione divenne un problema di
ampia portata, tant’è che già nel
1820 Frederick Accum, pubblicò un
libro dal titolo “A treasure on adulteration of food and culinary poisons”, nel
quale l’autore presentava un metodo
scientifico per scoprire le adulterazioni
alimentari ponendo così le basi per
una delle prime leggi sulla sicurezza
degli alimenti che venne promulgata in
Gran Bretagna nel 1860 e costituì la
base del “US Food and Drug Act” del
1906.
Cenni storici
L’approvvigionamento e la conservazione del cibo sono due problemi da
sempre presenti nella storia dell’uomo.
Viene da sé quindi che per garantire
una scorta alimentare sufficiente per diversi periodi è stato necessario introdurre dei metodi che permettessero di
conservare i prodotti nell’arco dell’anno.
54
E. Chiesara, S. Radice
Committee on Food Additives” (JECFA), la “Food and Agriculture Organization of the United Nation” (FAO) e la
“World Health Organization” (WHO).
Fu proprio il JECFA che, sulla base
di quanto detto in precedenza da
Leheman e Fitzhugh, sviluppò il concetto di ADI (Acceptable Daily Intake;
Quantità Giornaliera Accettabile) definendola come “una quantità definita di
additivo alimentare, espressa sulla base del peso corporeo, che può essere
ingerita ogni giorno per tutta la vita
senza alcun effetto sulla salute umana”. Da questo momento il concetto di
ADI venne accettato anche dal Joint
FAO/WHO Meeting on Pesticides Residues (JMPR) e dalla Environmental
Protection Agency (EPA), che lo utilizzò anche per i contaminanti, sebbene il termine ADI venga sostituito con
il termine Dose di Riferimento (RfD).
Le basi scientifiche
della moderna
tossicologia alimentare
Nel ventesimo secolo c’è stato un
notevole incremento dei processi coinvolti nella produzione e nella conservazione dei cibi che richiedevano l’aggiunta di sostanze naturali o di sintesi (additivi), il cui utilizzo era finalizzato sia a migliorare la sicurezza dal punto di vista
microbiologico, che a preservare le
qualità dei cibi nel tempo.
La portata di questo incremento è
stata tale che il mondo scientifico, e in
particolar modo i tossicologi, si è impegnato per garantire una sicurezza d’uso
degli additivi per ovviare a qualsiasi effetto tossico sulla salute umana.
Fu così che nel 1950 la “US Food
and Drug Administration” (FDA) e la
“Food Protection Committee of the National Research Council”, sottolinearono
l’importanza della valutazione della sicurezza in campo alimentare, proponendo
attraverso due massimi esperti (Leheman e Fitzhugh della FDA) l’importanza
del “fattore di sicurezza” (vedi paragrafo
successivo).
La spinta in tal senso è stata tale
che nel 1955 vennero costituite altre
organizzazioni scientifiche e comitati di
esperti nel campo, quali la “Joint Expert
La valutazione del
rischio tossicologico
(Risk Assesment)
Criteri per la determinazione
dell’ADI: le basi teoriche
Come precedentemente detto, gli additivi, come tutti i composti chimici, possono
55
elementi di tossicologia alimentare
produrre effetti dannosi su una popolazione quando assunti in quantità eccessiva. Gli esperti si riferiscono al “potenziale effetto dannoso” come al pericolo
(“hazard”) associato a quella sostanza,
dove per sostanza si intende “un agente
biologico, chimico o fisico” che potenzialmente può causare un effetto avverso
sulla salute. È importante sottolineare
che il rischio che tale pericolo si verifichi
dipende essenzialmente dall’esposizione
alla sostanza. È vero infatti che il pericolo
è una caratteristica intrinseca della sostanza, ma senza una esposizione non ci
sarebbe la possibilità che tale pericolo si
esprima. La determinazione dell’ADI è
una forma specifica di valutazione del rischio perché definisce i limiti di esposizione al di sotto dei quali non compaiono
effetti indesiderabili per la salute umana.
Questo concetto comporta l’esistenza di
un livello soglia per parecchi tipi di effetti
Tabella 1
Tipi di tossicità
tossici, dove per livello soglia si intende
un livello di assunzione al di sotto del
quale non si manifestano tali effetti, sia
perché la sostanza non ha effetto, sia
perché i meccanismi omeostatici sono
stati in grado di annullare i cambiamenti
apportati. Nella tabella 1 sono riassunti
alcuni esempi di effetti avversi associati
alla tossicità del composto. Come verrà
riportato successivamente, il calcolo per
la determinazione dell’ADI presuppone la
conoscenza del NOEL (No Observed
Effect Level) o del NOAEL (No Observed Adverse Effect Level). In quest’ultimo caso però è importante discriminare
se gli effetti osservati durante gli studi di
tossicità sono ascrivibili a una risposta
adattativa, senza implicazioni per lo stato
di salute dell’animale, oppure se sono
realmente un’evidenza dell’effetto tossico della sostanza allo studio. In questo
caso non si può parlare di NOAEL, ma
Effetti avversi
Variazioni funzionali
Riduzione del peso corporeo
Variazioni morfologiche
Anormalità patologiche
Mutagenesi
Variazioni ereditabili a livello del DNA, che potrebbero
potenzialmente essere causa di cancro e anormalità fetali
Cancerogenesi
Cancro
Neurotossicità
Cambiamenti comportamentali, sordità
Immunotossicità
Depressione del sistema immunitario,
fenomeni di ipersensibilità e allergia
Tossicità riproduttiva
Sterilità, teratogenesi, embriotossicità
56
E. Chiesara, S. Radice
di LOAEL (Lowest Observed Adverse
Effect Level).
Decidere se un effetto è realmente
indesiderabile dipende da specifiche
circostanze ed è un concetto caratterizzante gli studi di valutazione del rischio.
Ad esempio, il diminuito accrescimento
del peso corporeo accompagnato da
una diminuita assunzione di cibo, potrebbe essere attribuibile al fatto che
elevate dosi di sostanza nel cibo diminuiscono la sua palatabilità, piuttosto
che a un effetto indesiderabile della sostanza stessa. È importante comunque
sottolineare che NOAEL e NOEL non
sono due proprietà della sostanza, ma
sono delle osservazioni sperimentali.
Considerando che non è etico somministrare una sostanza potenzialmente
tossica a volontari umani e che oggigiorno si tende a minimizzare l’utilizzo degli
animali da laboratorio, ne consegue che
i metodi alternativi (test “in vitro” e modellistica) sono sempre in continuo aumento. Questi modelli sono molto utili in
quanto forniscono informazioni dei meccanismi d’azione, ma sicuramente non
sono sufficienti per fornire un completo
quadro tossico di una sostanza.
Di seguito sono schematizzati i
principali test utilizzati in un completo
studio di tossicità finalizzato a fornire i
parametri necessari per la determinazione dell’ADI.
• Tossicità acuta orale: singola somministrazione orale. Definisce il grado di
tossicità.
• Tossicità a breve termine: somministrazioni giornaliere ripetute per 14-28
giorni. Definisce il potenziale tossico.
• Tossicità subcronica: somministrazioni giornaliere ripetute per 90 giorni. Definisce i target di tossicità e indica le dosi utilizzabili per gli studi di
tossicità cronica. Si utilizzano due
specie diverse.
• Tossicità cronica e cancerogenesi:
somministrazioni giornaliere ripetute per
2 anni. Fornisce i parametri (NOEL,
NOAEL) utilizzati per la determinazione
Criteri per la
determinazione dell’ADI:
i test utilizzati
Le strategie finalizzate a ottenere dati utilizzabili per una valutazione del rischio
e che quindi forniscano certezze per determinare la sicurezza d’uso di un determinato additivo alimentare comprendono:
• la valutazione della struttura chimica
e dell’attività biologica della sostanza;
• modelli per lo studio “in vitro” (es:
colture cellulari);
• animali da laboratorio;
• volontari umani.
57
elementi di tossicologia alimentare
dell’ADI. Si utilizzano roditori ed almeno
una specie di non roditori.
• Genotossicità: test a breve termine
per valutare l’interazione con il DNA (mutazioni e alterazioni cromosomiche). Si
utilizzano diversi test sia “in vivo” che “in
vitro” su batteri e cellule di mammifero.
• Tossicità riproduttiva e dello sviluppo: somministrazioni giornaliere ripetute
prima, durante e dopo la gestazione.
Forniscono informazioni degli effetti sulla fertilità maschile e femminile, sullo
sviluppo fetale e neonatale, oltre che su
possibili effetti ereditari. Si utilizzano roditori per gli studi multigenerazionali e
due specie diverse in quelli di sviluppo.
• Immunotossicità: test a breve termine e subcronici. Studia le variazioni della struttura e delle funzioni dei tessuti,
delle cellule e dei mediatori coinvolti
nella risposta immunitaria.
• Neurotossicità: test a breve termine
e subcronici. Studia le variazioni della
struttura, delle funzioni e dei mediatori
del SNC, oltre che del comportamento
della specie utilizzata.
zione che composti chimici, quali gli additivi e i contaminanti, vengono assunti
per periodi molto lunghi (a volte per tutta la vita), ma a concentrazioni molto
basse.
La valutazione del rischio, di un singolo additivo o contaminante, deve determinare l’ADI, che, come detto prima,
rappresenta la quantità giornaliera assumibile.
L’ADI si ottiene applicando la seguente formula:
ADI = NOEL (NOAEL)/SF
dove il NOEL rappresenta la dose
senza effetto, espressa in mg/kg peso
corporeo, ottenuta dagli studi sperimentali a lungo termine (tossicità cronica) condotti su più specie animali.
Per porsi in una condizione di massima
sicurezza, normalmente deve venir utilizzato il NOEL relativo alla specie animale rivelatasi più sensibile, ovvero
quella specie in cui l’effetto tossico
della sostanza si è manifestato alla dose più bassa.
A volte al posto del NOEL viene
utilizzato il NOAEL, anch’esso espresso
in mg/kg peso corporeo, quella concentrazione cioè alla quale non sono
stati osservati effetti indesiderabili.
Il fattore di sicurezza (SF), o fattore
di incertezza, è un valore compreso per
Criteri per la
determinazione dell’ADI:
come si calcola
La valutazione del rischio tossicologico viene fatta tenendo in considera-
58
E. Chiesara, S. Radice
lo più fra 10 e 1000 e provvede a dare
un adeguato margine di sicurezza al
consumatore nell’estrapolazione dei dati
dall’animale all’uomo.
Il SF più utilizzato è 100 (10x10)
dove:
• 10 è un fattore per le differenze interspecie; ad esempio una maggior sensibilità umana alla sostanza se paragonata a quella del modello animale utilizzato (minor eliminazione dal corpo,
maggior equilibrio fra attivazione e detossificazione);
• 10 è un fattore per le differenze intra-specie; ad esempio esiste la possibilità che parte della popolazione umana possa essere più a rischio a causa
di differenze individuali anche su base
genetica.
Un SF pari a 10 viene utilizzato
solo quando sono conosciuti sia gli effetti avversi della sostanza che la sua
relazione dose-risposta nell’uomo. In
realtà molto spesso vengono utilizzati
fattori di sicurezza più elevati (200 o
1000), soprattutto in quelle situazioni
in cui si hanno a disposizione scarsi
dati di tossicità cronica e quindi di un
NOEL/NOAEL scarsamente rappresentativo, oppure quando la sostanza
ha provocato effetti di dubbia interpretazione e necessita quindi di una rigida
valutazione rischio/beneficio.
Criteri per la
determinazione dell’ADI:
fattori di variazione
e di incertezza
Gli studi di tossicologia oggigiorno
sono condotti utilizzando animali da laboratorio, la maggior parte dei quali roditori, che sono stati allevati in modo
specifico per questo fine. Infatti, questi
animali sono ceppi selezionati e vengono cresciuti in modo molto controllato
per quanto riguarda la dieta, la purezza
dell’acqua, la temperatura ambientale, i
cicli luce/buio, l’igiene e le condizioni
atmosferiche. Questi controlli, sia ambientali che genetici, fanno sí che gli
animali utilizzati siano molto simili l’un
l’altro e che quindi rispondano in modo
relativamente omogeneo a un insulto
tossico.
Tutto ciò ovviamente porta a una diminuzione delle variabili e a un aumento
della sensibilità dello studio nell’identificazione degli effetti a basse dosi.
In contrasto, è evidente il fatto che
vi è un’enorme variabilità all’interno della popolazione umana se paragonata a
quella degli animali da laboratorio. Infatti, la sensibilità nei confronti di una sostanza può essere influenzata da svariati fattori individuali e ambientali quali ad
esempio le variazioni genetiche, lo stato
59
elementi di tossicologia alimentare
ormonale, l’età, lo stato di salute e
l’ambiente in cui l’individuo stesso vive
(Tabella 2).
Ne consegue che è fondamentale
considerare, quando si utilizzano le
informazioni derivanti da studi di tossicità sperimentale:
• le differenze esistenti fra gli animali
da esperimento e l’uomo (variabilità inter-specie);
• le differenze di sensibilità verso un insulto tossico esistenti nella popolazione
umana (variabilità intra-specie).
presupporre un riparo o una rigenerazione. Tutte queste fonti di variabilità ed
incertezza sono molto importanti nella
valutazione dell’ADI (Tabella 3).
Applicabilità dell’ADI a
diversi sottogruppi
Neonati e bambini
Nonostante l’ADI rappresenti la dose
alla quale un composto può venir ingerito per tutta la vita senza alcuna compromissione dello stato di salute, rimane sempre vivo il problema dell’esistenza di sottogruppi all’interno della
popolazione umana che potrebbero
non essere abbastanza protetti dall’ADI
stessa.
In tal senso, è da sempre stata
fatta molta attenzione nei confronti dei
neonati (dalla nascita ai 12 mesi) e
dei bambini (dall’anno ai 12 anni) i
All’interno di queste due categorie è
opportuno considerare le due maggiori
cause di variabilità:
• la tossicocinetica - il destino a cui va
incontro il composto una volta assorbito
dall’organismo, come venga cioè distribuito, biotrasformato ed eliminato;
• la tossicodinamica - gli effetti del
composto sull’organismo portano ad
una risposta tossica che può anche
Tabella 2
Esempi di fattori esterni
che possono influenzare
la suscettibilità ad un
insulto tossico
Dieta
Fattori ambientali
Alcool
Metalli pesanti
Carboidrati
Pesticidi
Grassi
Inquinanti industriali
Proteine
Derivati dal petrolio
Prodotto di pirolisi
(durante la cottura)
Pesticidi
(come inquinanti)
Vitamine
Fumo
60
E. Chiesara, S. Radice
Tabella 3
Estrapolazione animale uomo
Fonti di
incertezza
nella
determinazione
dell’ADI
• Correlazione fra NOEL/NOAEL e dose soglia
• Predisposizione di effetti a basse dosi basati su studi
condotti ad alte dosi
• Differenza tra le diverse specie animali
Variazioni interindividuali
nella popolazione umana
• Interne: genetiche, sesso e stato di salute
• Esterne: nutrizione, fumo, inquinanti ambientali,
alcol, ecc
quali differiscono, rispetto ad un adulto sano nelle:
• caratteristiche tossicocinetiche - minori livelli di enzimi deputati alla biotrasformazione ed alla detossificazione, soprattutto nei prematuri;
• caratteristiche tossicodinamiche
(possono essere più sensibili all’insulto
tossico).
to che le differenze in alcune funzioni fisiologiche e nella capacità metabolizzante/detossificante non comportano
variazioni nel destino della sostanza
all’interno dell’organismo. Alla luce di
ciò gli addetti ai lavori suggeriscono che
i bambini possono utilizzare l’ADI, anche perché nella determinazione di questo valore sono fondamentali gli studi di
tossicità riproduttiva e di sviluppo, nei
quali vengono determinati i possibili effetti tossici di un composto durante le fasi di sviluppo di un organismo.
Considerando quanto detto, i neonati costituiscono un sottogruppo a sé,
ovvero un gruppo a cui non è possibile
applicare l’ADI, anche alla luce del fatto
che non esistono studi di routine che
simulino l’esposizione ad additivi attraverso il latte materno.
Per tutti questi motivi gli additivi alimentari non sono permessi nelle formulazioni destinate alla prima infanzia.
Per quanto riguarda i bambini, non
sembrano esserci dati che facciano ipotizzare una maggior possibilità di rischio
di questo sottogruppo nei confronti degli additivi alimentari. Infatti, è ormai no-
Altri gruppi suscettibili
Esistono dei polimorfismi genetici e
particolari situazioni cliniche che predispongono gli individui a certe forme di
tossicità. Ad esempio le persone affette
da fenilchetonuria non devono consumare cibi contenenti l’aspartame in
quanto la fenilalanina è uno dei suoi
principali componenti.
61
elementi di tossicologia alimentare
Un altro gruppo a rischio è composto
dagli individui affetti da allergie alimentari.
Se un individuo è sensibile ad una
particolare sostanza non esiste una dose sicura, ma sono sufficienti solo tracce della sostanza, per provocare effetti
potenzialmente pericolosi anche per la
vita stessa. Bisogna comunque ricordare che alla base delle allergie alimentari
molto spesso vi sono composti presenti
naturalmente nei cibi (proteine dell’uovo, del latte di mucca ecc), piuttosto
che gli additivi alimentari. Anche se, pur
essendo pochi gli studi in tal senso,
quelli esistenti evidenziano che gli additivi tendono a peggiorare una situazione
patologica già esistente, piuttosto che a
crearne una nuova.
Gli individui affetti da allergie alimentari non sono validamente tutelati
dall’ADI, ma devono provvedere a gestire il rischio eliminando gli alimenti in
cui sono contenute le sostanze a cui
sono allergici.
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62
Q
ualità e controllo
Gian Pietro Molinari
Laboratori di Tecnologia e Merceologia, Facoltà di Agraria
Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza
matore e, pertanto, rientrano tra le priorità di rilancio del settore agroalimentare:
la qualità per accrescere gli sbocchi di
mercato e aumentare il valore aggiunto
delle produzioni, la sicurezza per offrire risposte chiare e restituire fiducia ai consumatori.
La qualità va perciò intesa in senso
totale: qualità del prodotto e qualità dei
sistemi produttivi. La qualità deve, quindi,
coinvolgere tutto il processo precedente
e successivo: ossia la progettazione, la
scelta dei materiali, la rete dei fornitori,
l’impiego delle tecnologie, l’organizzazione del lavoro, sino ad arrivare allo stoccaggio, al trasporto, alla distribuzione del
prodotto. Nel caso specifico dell’alimentare, si suole definire questo con uno slogan: “la qualità dalla terra alla tavola”.
Si parla, in altre parole, di “Qualità
Totale” che non è altro che la somma
delle qualità realizzate da tutte le imprese nelle varie fasi che precedono, realizzano e seguono la produzione. Queste imprese rappresentano la filiera pro-
La qualità e
la sicurezza alimentare
Il termine “Qualità” è stato coniato
negli Stati Uniti come la “capacità di soddisfare le esigenze del cliente che usufruisce di un prodotto o servizio”. Fino a
alla fine del XX secolo il termine è rimasto molto povero di significati concreti e
solo a partire dal 1980 questo approccio
ha iniziato a diffondersi nelle aziende industriali degli Stati Uniti e d’Europa. I
giapponesi, al contrario, ne hanno fatto
uno dei pilastri della loro rinascita industriale, e quindi uno dei fattori principali
del grande sviluppo economico di questo
Paese nella seconda metà del XX secolo.
Nell’attuale fase storica, caratterizzata da una sempre più marcata internazionalizzazione, la qualità è decisiva
per la competitività delle imprese e dei
sistemi economici, per la sicurezza ed a
garanzia dell’utente.
Qualità e sicurezza alimentare sono
due obiettivi fondamentali per il consu-
63
Qualità e controllo
duttiva del prodotto. Esse devono essere strettamente legate fra di loro in modo da costituire una catena (catena o
cerchio della qualità) lungo i cui anelli
circolano le informazioni sulle esigenze
e la soddisfazione del cliente-utente.
La qualità è un’opzione strategica
che serve ad accrescere la capacità
competitiva delle imprese, migliorando
al tempo stesso il livello di soddisfacimento del consumatore. Ossia, il miglioramento qualitativo del prodotto
che, se riesce ad esaltare caratteristiche innovative e se ancorato a precisi
standard riconoscibili, può aumentare la
penetrazione di mercato e permettere la
differenziazione dei prodotti.
La sicurezza alimentare, nell’accezione primitiva del termine, era riferita, in
senso stretto, alla disponibilità materiale
di approvvigionamenti alimentari. Col
tempo il concetto si è notevolmente
esteso, investendo problematiche generali concernenti lo sviluppo agricolo, la
produzione alimentare, gli aiuti alimentari, il commercio internazionale e, segnatamente, l’igiene dei prodotti alimentari,
cosicché attualmente qualità e salubrità
degli alimenti sono considerate elementi
fondamentali di sicurezza alimentare.
Anche se limitata ai soli aspetti della qualità e della salubrità, l’area della
sicurezza alimentare abbraccia numero-
se altre aree di interesse generale,
quali l’inquinamento ambientale, la produzione agricola, la tecnologia industriale ecc., fino a coprire l’area di carattere sanitario, che costituisce la finalità ultima della sicurezza igienica degli
alimenti e cioè l’area della protezione
della salute dei consumatori.
La sicurezza deve tradursi in un sistema obbligatorio che rende rintracciabile la presenza di requisiti definiti dalla
legislazione alimentare lungo l’intera filiera produttiva. È evidente che la sicurezza
si estende dalla fase della produzione
agricola alla trasformazione, distribuzione
e commercializzazione dei prodotti.
Pertanto la qualità e la sicurezza
viaggiano affiancate e possono rappresentare un elemento di gestione comune. La strategia di qualità interviene al
di sopra del livello di sicurezza, che è la
soglia obbligatoria per immettere un alimento al consumo.
Oggi c’è una disponibilità mercantile contemporanea (ed anche extrastagionale per l’ortofrutta) che integra le
produzioni locali. Sono stati in tal modo
sovvertiti i tradizionali assortimenti che
spesso in passato hanno consentito
uno standard alimentare più equilibrato,
anche sotto il profilo nutrizionale.
Ciò è stato possibile in seguito al
progresso, non solo tecnologico, che si
64
G.P. Molinari
è verificato nel settore della produzione
agricola, ma anche, e soprattutto, per
lo sviluppo delle tecnologie di trasformazione, produzione e conservazione
degli alimenti che assicurano un tal aumento della serbevolezza che rende
possibile una dilatazione dei tempi della
sua disponibilità.
Per questi motivi si sta affermando
la convinzione che l’attuale offerta mercantile di massa debba perfezionarsi,
privilegiando in particolare la qualità.
Una qualità che è sempre più intesa in
senso polivalente: cioè la combinazione
di caratteri apparenti (forma, colore,
pezzatura, freschezza ecc.), organolettici
(sapore, aroma, consistenza ecc.), nutrizionali (vitamine, sali minerali, acidi organici, fibre, pectine ecc.) e igienico-sanitari.
È, insomma, un concetto di qualità
globale quello che sta prevalendo, nel
quale la salubrità occupa un posto preminente.
sicurezza delle produzioni alimentari non
godeva di una disciplina comunitaria, se
non per alcune sporadiche eccezioni, in
quanto allora la normativa era riservata
ai singoli Paesi membri.
Per superare le differenze fra le
normative tecniche nazionali, la legislazione comunitaria nei primi anni di attività, ha pianificato uno sforzo legislativo
per definire un prodotto i cui aspetti
tecnici, produttivi e qualitativi, fossero
interamente disciplinati da norme comunitarie e che avrebbe potuto liberamente circolare in tutti i paesi membri,
senza doversi uniformare alle singole
discipline nazionali. Per questo, nel
1979, la Corte di Giustizia ha introdotto
il principio del “mutuo riconoscimento”,
in base al quale un prodotto può liberamente essere commercializzato in tutti i
Paesi comunitari.
Questa normativa, ancora insoddisfacente per quanto riguarda l’aspetto
igienico delle produzioni alimentari,
trovò molte difficoltà legate a tre sostanziali motivi:
Politiche nazionali
e comunitarie
della qualità e della
sicurezza alimentare
1) l’eterogeneità delle legislazioni nazionali dei paesi membri;
2) il diverso modo di concepire la qualità a livello nazionale; per i paesi
nordici e anglosassoni la qualità è
legata alla sicurezza del prodotto,
Nel XX secolo, fino alla metà degli
anni ’80, l’aspetto legato alla qualità e
65
Qualità e controllo
alle caratteristiche nutrizionali e alla
conformità a determinati standard
produttivi, mentre, per i paesi mediterranei, la qualità è legata soprattutto alla vocazionalità del territorio,
dunque al legame con il territorio,
alla tradizionalità del processo produttivo e al talento dell’uomo;
requisiti essenziali di qualità che i prodotti devono soddisfare per poter essere ammessi sul mercato.
La legislazione comunitaria degli
anni successivi, dedicata specificatamente all’igiene delle produzioni alimentari ed alla salubrità degli alimenti,
impone agli operatori del sistema una
responsabilità diretta attraverso l’attuazione di due distinti fattori di prevenzione:
• l’adozione di un sistema scientifico di
analisi dei rischi e monitoraggio dei
punti critici del processo;
• l’applicazione dell’autocontrollo aziendale a garanzia della salubrità del processo, con l’introduzione di controlli e di
sistemi di sicurezza nella fase di produzione.
3) l’esistenza di norme tecniche in
ogni paese membro; queste norme
sono regole, emanate da enti di
normazione riconosciuti giuridicamente, alle quali il produttore decide di aderire volontariamente. In tal
caso otterrà una certificazione da
parte dell’ente ed il diritto d’uso di
un marchio; la certificazione è dunque una forma di garanzia esterna
della qualità, che regola i rapporti
contrattuali tra committenti e fornitori, tra produttori e clienti.
Il sistema così delineato e recepito
nei paesi membri, non fa altro che trasferire alla sicurezza igienica alcuni dei
concetti base di qualità di un sistema
produttivo: responsabilità, analisi del
processo, prevenzione delle non
conformità, controllo.
La qualità, attualmente a livello comunitario, è garantita e legata all’impiego di pratiche agricole ecocompatibili,
all’origine geografica dei prodotti e alla
tradizione della lavorazione attraverso
quattro regolamenti che costituiscono i
Queste difficoltà hanno portato la
Comunità europea a definire, con la risoluzione 85/C136/01 del 7 maggio
1985, il “nuovo approccio della politica
di armonizzazione”. Con questo nuovo
approccio da una parte vi è l’armonizzazione della normativa con la garanzia da
parte del produttore della certificazione
documentata (certificazione UNI EN
ISO) e dall’altra vi è la decisione di armonizzare progressivamente soltanto i
66
G.P. Molinari
pilastri della politica comunitaria per la
qualità:
• Reg CEE 2092/91 relativo al metodo
di produzione biologico dei prodotti agricoli e alla indicazione di tale metodo sui
prodotti agricoli e sulle derrate alimentari;
• Reg. CEE 2078/92 relativo ai metodi
di produzione integrata;
• Reg CEE 2081/92 relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e
delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli e alimentari, DOP e IGP;
• Reg CEE 2082/92 relativo alle attestazioni di specificità dei prodotti agricoli
e alimentari.
tatura delle carni e degli ortofrutticoli.
Con l’inizio del 2005 buona parte delle
produzioni alimentari saranno contrassegnate da etichette che ne indicano:
l’origine geografica, il o i produttori, la
data di produzione/confezionamento, la
scadenza, oltre ad altre caratteristiche
commerciali, quale il peso ed il prezzo.
Applicazione
della qualità e della
sicurezza alimentare
La qualità organolettica degli alimenti è da sempre individuata come la
prima e la più importante prerogativa
del prodotto, mentre quella mercantile
(forma, colore aspetto) deve essere
intesa come un corollario, seppure indispensabile, della prima e non viceversa.
La qualità, sotto l’aspetto merceologico, deve sottostare all’osservanza
della normativa relativa.
La qualità organolettica costituisce
la più difficile da definire. Ad esempio
per la frutta, un prodotto che si presenta profumato, dall’aroma evidente,
dall’armonica ed equilibrata presenza di
zuccheri ed acidi, succoso e deliquescente è l’espressione delle più elevate
prerogative organolettiche. È però indi-
Questi Regolamenti tutelano da una
parte il consumatore, riguardo alle specifiche qualitative del prodotto e la sua
rispondenza ad un disciplinare di produzione e dall’altra i produttori, nei confronti di un uso non corretto della denominazione.
La legislazione mondiale ed europea elaborata negli ultimi anni ha avuto
come scopo quello di regolamentare la
commercializzazione dei prodotti e dare
quindi maggiore trasparenza al mercato
nell’ottica di mettere il consumatore in
grado di scegliere senza inganni. In
quest’ottica sono state emanate le normative concernenti l’obbligo di etichet-
67
Qualità e controllo
Tabella 1
Parametri principali
Principali parametri di
qualità per prodotti
ortofrutticoli.
Componenti
Dimensioni (calibro, peso, volume)
Forma
Colore (intensità, uniformità)
Apparenza
Cerosità
Difetti interni ed esterni
(morfologici, fisicomeccanici, fisiologici,
patologici, entomologici).
Durezza
Consistenza
Succolenza, resa in succo
Fibrosità
Dolcezza
Acidità
Organolettici
Astringenza
Aroma
Retrogusti
Fibre
Carboidrati
Proteine
Valore nutritivo
Lipidi
Vitamine
Minerali
Sostanze tossiche naturali
Igienico-sanitari
Contaminazione chimica (residui di fitofarmaci,
inquinanti ambientali)
Contaminazione microbiologica
Micotossine
spensabile definire oggettivamente tali
parametri, perché questi non sono costanti neppure tra le varietà della medesima specie; inoltre, le preferenze sono
strettamente individuali con tendenze a
generalizzarsi in una determinata regio-
ne. Nella tabella 1 sono elencati i principali parametri di qualità per prodotti
ortofrutticoli.
La salvaguardia delle caratteristiche
qualitative e il mantenimento delle garanzie di sicurezza alimentare lungo tut-
68
G.P. Molinari
ta la filiera produttiva è un’esigenza assoluta per tutti i prodotti alimentari.
Qualità e sicurezza alimentare devono perciò essere mantenute dalla fase produttiva fino al momento del consumo del prodotto. Devono quindi essere realizzate delle attività legate
all’identificazione delle condizioni igienico-sanitarie delle produzioni sia in fase
produttiva, cioè in campo o in allevamento, che nelle fasi successive di post-raccolta quali il trasporto, la trasformazione, il condizionamento e la distribuzione fino al consumo finale.
Le colture agricole possono essere
danneggiate dall’azione nociva dei parassiti (gli insetti, molti tipi di funghi e
muffe, le lumache, i topi e gli acari) e
dei competitori quali le erbe infestanti.
Mentre per il controllo delle erbe infestanti potrebbe essere adottata
l’estirpatura a mano o con mezzi meccanici anziché l’uso dei diserbanti, per
difendere le colture e le produzioni agricole da funghi, insetti ecc. si è costretti
a ricorrere soprattutto all’impiego di sostanze chimiche con funzioni diverse:
fungicidi, insetticidi, ecc.. Questi prodotti chimici, chiamati genericamente
“prodotti fitosanitari” o “fitofarmaci”, o
“antiparassitari”, sono senza dubbio efficaci ma possono restare come residui
sulle coltivazioni e ritrovarsi poi negli alimenti.
L’utilizzo, non sempre razionale, dei
fitofarmaci ha portato a considerarne
l’uso come una delle principali fonti di
inquinamento sia ambientale che alimentare. Per la fortuna del consumatore, i dati scientifici non supportano questa impressione, anzi sono in direzione
di una elevata sicurezza per il consumatore. La frequenza con cui si rischia di
consumare alimenti contaminati da residui di prodotti fitosanitari è bassa
Oggi l’opinione pubblica è molto
sensibile a questo problema e la ricerca
Protezione
delle coltivazioni
in campo e dopo la
raccolta e qualità
degli alimenti
Il problema della contaminazione
degli alimenti è uno degli aspetti a cui
bisogna porre attenzione a tutela del
consumatore. Le sorgenti di contaminazione possono essere diverse, sia di
tipo chimico che biologico.
Le contaminazioni chimiche possono essere dovute a sostanze quali residui di prodotti fitosanitari, metalli pesanti e micotossine. L’origine di queste
contaminazioni è diversa.
69
Qualità e controllo
scientifica rivolge sempre maggiore attenzione ai metodi biologici e di lotta antiparassitaria alternativi a quelli chimici.
Da qualche tempo la lotta biologica
richiama un notevole interesse che scaturisce dalla possibilità di sostituire con
mezzi “naturali” l’attuale lotta chimica.
L’agricoltura biologica esclude l’uso
dei prodotti chimici che sono sostituiti
da meccanismi o prodotti di difesa naturali, come zolfo, rame, macerati di piante, lancio di insetti utili predatori di parassiti, consociazione di piante diverse.
La lotta biologica in senso generale, prevede la manipolazione dell’equilibrio microbiologico naturale, tramite
l’impiego di diversi microrganismi (miceti, batteri, protozoi, lieviti, ecc.) definiti antagonisti. I meccanismi principali
d’azione comprendono antibiosi, competizione, iperparassitismo o micoparassitismo; tali meccanismi non si eludono a vicenda, ma possono anche
completarsi..
La qualità e la sicurezza igienica
devono essere garantite nella fase post-raccolta dall’applicazione di tecniche
razionali, nell’utilizzazione di idonee attrezzature di lavorazione, di conservazione, di trasporto e nella messa in atto di
opportuni trattamenti che assicurano il
mantenimento delle pregevoli prerogative originali dei prodotti. I prodotti orto-
frutticoli dopo la raccolta evidenziano
numerose modifiche delle caratteristiche strutturali e della composizione, in
quanto l’attività metabolica è molto attiva e diversi livelli sono influenzati dalla
temperatura, dalla composizione
dell’aria (ossigeno, anidride carbonica,
etilene), dall’umidità relativa e dalla luce. Come ben noto i prodotti ortofrutticoli, sono soggetti a processi metabolici
tanto più intensi quanto più è alta la
temperatura. I processi metabolici, che
avvengono negli alimenti durante la
conservazione, portano ad una precoce
senescenza e ad un deterioramento del
prodotto. Tali fenomeni possono essere
notevolmente ritardati con l’impiego
della refrigerazione che quindi permette
di mantenere il più a lungo possibile il
prodotto in una condizione accettabile
per il consumatore, senza che si verifichino cambiamenti biochimici non desiderabili.
Quindi, il più importante, ma non il
solo, aspetto operativo da osservare è
l’applicazione di una vera e costante
catena del freddo.
Il contenuto di metalli pesanti è rappresentato da una quota di origine naturale, che è caratteristica di ogni tipo di
prodotto agro-alimentare e dal terreno in
cui è stata fatta la coltivazione, e da una
quota derivante dall’inquinamento dei
70
G.P. Molinari
terreni e delle acque di coltivazione, dovuto all’attività dell’uomo in ambito agrario e non. Il tema della contaminazione
coinvolge i diversi aspetti dell’uso del
suolo e per questo un insieme di fonti riferibili a precise attività antropiche, che
coinvolgono: attività di tipo agricolo o
connesse con l’agricoltura, quali l’impiego in agricoltura di acque reflue, fanghi
di depurazione, compost o altro materiale derivante dal ciclo dei rifiuti.
La formazione delle micotossine è
connessa con la crescita di funghi, sia
durante la coltivazione che la conservazione delle produzioni agricole destinate
al consumo diretto o all’alimentazione
degli animali.
rischio di contaminazione e concentrare
successivamente l’attenzione verso
quelle sostanze o quelle produzioni in
cui sono stati evidenziati i rischi reali.
Per giungere a questi risultati non è
sufficiente esaminare i campioni che
hanno presentato livelli di contaminanti
al di sopra dei limiti di legge per cui la
partita risulta essere irregolare e quindi
non più utilizzabile a scopo alimentare,
ma occorre stimare anche la contaminazione a bassi livelli, inferiori al valore
massimo ammesso dalla legislazione.
A tutela del consumatore è presente in ogni paese un sistema di controlli
complessi ed articolati che vengono effettuati su alimenti e bevande. In Italia,
i prodotti destinati all’alimentazione e le
attività connesse con la loro produzione, somministrazione e distribuzione
sono sottoposti al rispetto di norme legislative delle quali le più recenti derivano dal recepimento di direttive
dell’Unione Europea.
La funzione fondamentale della
normativa è quella di tutelare la qualità
degli alimenti, intesa come igiene del
prodotto alimentare e sicurezza dell’uso
da parte del consumatore. A tal fine la
vigilanza ed il controllo sono messi in
atto da organismi ufficiali quali il Ministero della Salute e il Ministero delle
Politiche Agricole e Forestali. A questi
Il controllo della
qualità e la garanzia
della sicurezza
Vista la numerosità dei possibili inquinanti e le differenze notevoli nelle loro caratteristiche, il controllo analitico
della contaminazione risulta difficoltosa
ed onerosa se non vengono messi in
atto piani di controllo che permettano di
raccogliere il massimo delle informazioni senza trascurare i fattori di rischio.
Nei piani di controllo sarà necessario
valutare almeno una volta tutti i fattori di
71
Qualità e controllo
si affianca l’attività di controllo di altre
organizzazioni quale l’Osservatorio Nazionale Residui (ONR) che, dall’anno
2001, è ubicato presso il Laboratorio di
Tecnologia e Merceologia della Facoltà
di Agraria di Piacenza dell’Università
Cattolica del Sacro Cuore, ed è coordinato dal prof. Gian Pietro Molinari.
“Rete di Monitoraggio” dei residui di prodotti fitosanitari nei prodotti ortofrutticoli
e nelle derrate agro-alimentari, che ha
avuto una concreta attuazione a partire
dal 1992 operando per individuare e
quindi correggere eventuali irregolarità.
Occorre sottolineare che tale monitoraggio è fatto con obiettivi diversi da
quelli del Ministero della Salute e di ONR:
esso ha l’obiettivo primario di verificare
che il rispetto dei tempi di carenza (tempo che deve intercorrere fra il trattamento
con prodotto fitosanitario e la raccolta dei
frutti, per permettere che il fitofarmaco
scompaia sin sotto ai valori limiti massimi
fissati per legge) e le dosi di applicazione
assicurino un residuo delle sostanze attive entro i limiti massimi posti per i prodotti agricoli, oppure se sia necessario apportare delle correzioni a queste indicazioni di carattere agronomico.
Ministero della Salute
Per quanto attiene alla valutazione
del rischio legato all’eventuale presenza
di residui di prodotti fitosanitari negli alimenti, in Italia fin dal 1980 vengono condotti, in modo continuo, studi di monitoraggio. Tale attività è stata ufficializzata
con il decreto del Ministero della Salute
del 23 dicembre 1992. Esso pianifica i
programmi di monitoraggio sui residui
presenti nei prodotti agro-alimentari prelevati nei supermercati e presso i rivenditori al dettaglio. Il controllo, previsto per
l’applicazione del decreto, è affidato alle
Regioni e viene svolto dai Servizi di Igiene
Pubblica situati nelle varie Regioni.
Osservatorio Nazionale
Residui (ONR)
Per promuovere la diffusione delle
conoscenze per realizzare un impiego
corretto dei prodotti fitosanitari, nell’ambito della gestione agricola integrata, e
per informare correttamente l’opinione
pubblica sulla sicurezza dei prodotti
agro-alimentari, senza preconcetti ideo-
Ministero per le Politiche
Agricole e Forestali
Nell’ambito del Piano Nazionale per
la Lotta Fitopatologia Integrata, approvato nel 1987, è stata costituita una
72
G.P. Molinari
da riconoscimenti di Enti di controllo
o Organismi ministeriali.
logici, nell’interesse sia dei consumatori
che degli agricoltori, è stato costituito
l’Osservatorio Nazionale Residui che
svolge varie attività (Figura 1):
2) inserimento e gestione dei dati in
una banca dati e loro elaborazione
attraverso le più moderne statistiche descrittive per:
• valutare la probabilità di trovare residui a livelli prossimi o superiori ai limiti
massimi ammessi per tutte le matrici e
per ogni sostanza chimica; in questo
modo, l’elaborazione mirata dei dati fornisce utili indicazioni relative alla presenza di sostanze che vengono ritrovate
sistematicamente fuori norma e delle
quali sarebbe necessario moderare
l’impiego o verificare il rispetto delle
1) raccolta dei risultati di analisi fatte su
campioni di prodotti agricoli, tal quali
o trasformati, per la ricerca di residui
di prodotti fitosanitari e di altri contaminanti quali micotossine, metalli pesanti, medicinali veterinari, PCB ecc.
I dati sono quelli relativi ad analisi che
privati (agricoltori, cooperative di agricoltori, industrie agroalimentari, grande distribuzione ecc.) fanno volontariamente eseguire a Laboratori accreditati o certificati, cioè qualificati
Figura 1
Osservatorio Nazionale Residui
Prodotti di
origine vegetale
Alimenti
Trasformati/Lavorati
Prodotti di
origine animale
Residui
prodotti
fitosanitari
Metalli
pesanti
Residui
farmaci
Metalli
pesanti
Residui
farmaci
Metalli
pesanti
Micotossine
Fattori
antinutrizionali
Micotossine
Fattori
antinutrizionali
Micotossine
Fattori
antinutrizionali
Residui
prodotti
fitosanitari
Altri
Residui
prodotti
fitosanitari
Altri
73
Qualità e controllo
buone pratiche agricole;
• stimare l’assunzione giornaliera dei
contaminanti da parte di una persona
che ha un consumo medio di alimenti
pari a quello della dieta nazionale; questo parametro, noto come NEDI (National Estimated Daily Intake, Assunzione
giornaliera stimata), è stato calcolato
secondo i criteri raccomandati dalla
Commissione del Codex Alimentarius;
• confrontare i dati raccolti negli anni
per individuare gli andamenti negli anni
della contaminazione e della loro eventuale gravità.
Annualmente i risultati di queste elaborazioni vengono pubblicamente divulgati in forma riassuntiva per promuovere
la diffusione di una informazione corretta
ai consumatori.
tro i limiti di sicurezza tossicologici, fissati
dalla Comunità Scientifica (WHO, EPA1,
ISS2 ecc.). Pertanto, fin dall’inizio della
sua attività, il Codex ha raccomandato
l’effettuazione degli studi sulle diete come migliore mezzo per valutare la qualità
della nostra alimentazione.
In questa linea di studi, ONR elabora i dati raccolti per valutare l’entità degli eventuali residui di prodotti fitosanitari ingeriti dal consumatore attraverso
la dieta e per confrontarli con i relativi
parametri tossicologici.
Annualmente ONR elabora i risultati
dell’analisi di oltre 20.000 campioni di
circa 200 tipi diversi di prodotti agro-alimentari. Sui suddetti campioni è fatto
un numero molto elevato di controlli
analitici: 3.000.000 di analisi per la ricerca di oltre 100 tipi differenti di contaminanti per campione. Ogni anno, delle
oltre 400 sostanze chimiche ricercate
come residuo, circa 300 non sono mai
state ritrovate.
Prendendo in considerazione i risultati, nella globalità di tutti i dati, si mette
in evidenza che:
• i campioni regolari sono la quasi totalità, con piccole differenze fra le va-
Valutazione
del possibile rischio
assunzione
Il Codex Alimentarius, l’Organismo
Mondiale creato dall’Organizzazione per
l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) e
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità
(WHO) per fornire riferimenti internazionali sugli standard alimentari, si è sempre
preoccupato che la presenza di eventuali
residui di prodotti fitosanitari rimanga en-
1
EPA – Agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati Uniti d’America.
2 ISS – Istituto Superiore di Sanità
74
G.P. Molinari
rie matrici vegetali: sono più frequenti
nei cereali e derivati (99%) e nei prodotti trasformati (99%) che nel fresco, frutta (98%) e ortaggi (97%).
Questi risultati conseguiti da ONR sono perfettamente confrontabili con
quelli dei controlli ufficiali condotti dal
Ministero della Salute, del rapporto
annuale della Food and Drug Administration, relativo al programma di monitoraggio realizzato negli USA e
dell’Unione Europea;
• i campioni privi di residui di prodotti fitosanitari sono più frequenti nei cereali
e derivati (91%) che nei prodotti trasformati (79%) e nel fresco: ortaggi
(80%) e frutta (66%);
• i campioni irregolari, con residui superiori ai limiti di legge, hanno frequenze pari a: 1% nei cereali e nei prodotti
trasformati, 3% negli ortaggi e 2%
nella frutta. Una parte significativa delle irregolarità è dovuta ad un uso improprio, cioè l’uso di un prodotto fitosanitario autorizzato su una coltivazione
diversa da quella per cui è stato registrato (ad esempio è stato usato sulle
pere un prodotto autorizzato all’uso
sulle mele);
• campioni irregolari si rilevano anche
tra quelli provenienti dall’agricoltura biologica, per la presenza di residui di prodotti fitosanitari non ammessi;
• negli anni:
– la percentuale dei campioni privi
di residuo è in continuo aumento;
– la percentuale dei campioni con
tracce di residui è in forte diminuzione;
– i campioni irregolari sono ridotti
ormai a un livello minimo pressoché
costante.
Figura 2
Campioni privi di residui
Incidenza dei residui di
prodotto fitosanitari
negli alimenti (indagine
ONR 2003 - Dati delle
analisi effettuate nel
2002)
Campioni con residui inferiori
al limite di legge
22,1%
Campioni irregolari
2,8%
75,1%
75
Qualità e controllo
Figura 3
Andamento della contaminazione da residui di prodotti fitosanitari dal 1994
al 2002
100
80
60
40
20
0
1994-1996
1997
1998
% campioni privi di residuo
1999
2000
2001
2002
Anno
% campioni con residui inferiori al limite di legge
% campioni irregolari
Figura 4
100
Confronto fra risultati del monitoraggio CEE 2001 ed elaborazione ONR 2003
su dati 2002
CEE
ONR
CEE
ONR
CEE
ONR
CEE
ONR
80
60
40
20
0
Frutta e ortaggi
Prodotti trasformati
con residui superiore al RMA
Cereali e derivati
con residui nei limiti di legge
76
Totale
privi di residuo
G.P. Molinari
• il 22% delle sostanze attive incide per
quantità inferiori allo 0,01% dell’ADI,
(inferiori a 1/10.000), cioè vi è un fattore di sicurezza pari a 10.000;
• il 55% si pone nell’intervallo fra lo
0,01 e lo 0,1% dell’ADI (tra 1/10.000
e 1/1.000), cioè con un fattore di sicurezza fra 1000 e 10.000;
• il 2% si pone fra lo 0,1 e l’1%
dell’ADI (tra 1/1.000 e 1/100), cioè
con un fattore di sicurezza fra 100 e
1.000;
• soltanto lo 0,3% delle sostanze incide
per quantità superiore all’1% dell’ADI,
(tra 1/100 e 1/40), cioè con un fattore
di sicurezza fra 100 e 40.
Nella valutazione del rischio per il
consumatore è stata stimata l’assunzione giornaliera a livello nazionale
(NEDI) e quindi confrontata con i rispettivi valori di ADI, cioè con la quantità della sostanza che può essere ingerita ogni giorno per tutta la vita senza
alcun rischio per la salute, stabilita dalla Comunità Scientifica (WHO, EPA,
ISS ecc.).
Il confronto tra i valori di NEDI e di
ADI per ciascuna sostanza, ha portato
ai seguenti risultati:
• il 70% delle sostanze attive non
avendo lasciato residui non ha assunzione;
Figura 5
Andamento del rischio (NEDI/ADI%) dovuto ai residui ingeriti dai consumatori
italiani da 1994 al 2002
100
80
60
40
20
0
1994-1996
1997
1998
Fino a 0,01% fattore di sicurezza = 10.000
1999
2000
2001
2002
Anno
Da 0,1% a 1% fattore di sicurezza da 100 a 1.000
Da 0,01% a 0,1% fattore di sicurezza da 1.000 a 10.000
77
>1% fattore di sicurezza = 100
Qualità e controllo
Dai dati illustrati precedentemente
si delinea per l’Italia una situazione rassicurante.
• Il numero di campioni controllati in Italia è molto elevato se confrontato con il
numero di quelli contemplati dai controlli ufficiali condotti in diversi paesi europei e dalla FDA negli Stati Uniti. Tenendo conto che oltre al monitoraggio
del Ministero della Salute, altri controlli
vengono condotti per conto del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali e
dai privati, si può affermare che in Italia
le produzioni agro-alimentari sono altamente controllate.
• La sicurezza alimentare è sempre più
garantita.
• I dati confermano una stabilità nella linea di tendenza alla riduzione dei residui sotto i limiti massimi legalmente
ammessi.
• I dati delle indagini svolte dal 1994 al
2002 confermano sostanzialmente che
i residui dei prodotti fitosanitari riscontrati negli alimenti non incidono assolutamente sulla qualità della dieta del
consumatore italiano.
• Nelle diete degli italiani, la concentrazione dei residui di prodotti fitosanitari è
talmente bassa rispetto alla quantità di
alimenti ingeriti in ogni tipologia di dieta,
da assicurare la sicurezza alimentare in
ogni caso.
Anche le alimentazioni particolari destinate ai bambini piccoli o agli anziani,
non comportano rischi tossicologici,
stando l’elevato fattore di sicurezza (da
100 a 10.000 esistente fra dose assunta (stimata) (NEDI) e dose giornaliera accettabile tossicologicamente (ADI
o DGA).
78
S
icurezza Microbiologica
L. Morelli
Istituto di Microbiologia, Facoltà di Agraria
Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza
la salute e la tutela del consumatore e
l’Agenzia per la sicurezza degli alimenti
European Food Safety Authority
(E.F.S.A.), creata pochi anni fa a seguito della crisi dovuta al problema “mucca
pazza”. In Italia, la vigilanza è affidata a
livello centrale al Ministero della Salute
e all’Istituto Superiore di Sanità (I.S.S.),
il quale si occupa anche delle analisi di
revisione e di una serie di compiti tecnico-scientifici.
A livello territoriale, operano le Regioni e le Provincie Autonome di Trento
e Bolzano, i Dipartimenti di Prevenzione
delle Aziende Sanitarie Locali attraverso
i Servizi di Igiene degli Alimenti e della
Nutrizione (S.I.A.N.), ed i Servizi Veterinari (S.V.), nonché, per gli accertamenti
analitici di laboratorio, i Presidi Multizonali di Prevenzione (P.M.P.), gli Istituti
Zooprofilattici Sperimentali (I.Z.S.) e le
Agenzie Regionali Protezione Ambiente
(A.R.P.A.), con varie articolazioni sul
territorio (Assessorati regionali alla sanità, ASL).
Introduzione
La storia del genere umano si intreccia con quella dei suoi sforzi per la
conservazione nel tempo delle sostanze
alimentari; l’eliminazione dei batteri patogeni e di quelli contaminanti ha sempre costituito uno dei cardini delle tecnologie alimentari. Si può quindi comprendere come il settore della sicurezza
microbiologica degli alimenti sia vasto e
comprenda aspetti molto diversi fra loro.
Il presente capitolo, non potendo
evidentemente affrontare tutti gli aspetti
coinvolti, sarà focalizzato su alcuni particolari aspetti, che possono riguardare
direttamente i consumatori.
Il controllo della sicurezza microbiologica è coordinato a livello internazionale dalle agenzie dell’ONU come la
FAO o l’OMS. Negli Stati Uniti i controlli sono affidati alla Food and Drug
Administration (FDA) e al Dipartimento
per l’Agricoltura. L’Unione Europea
provvede con la Direzione Generale per
79
Sicurezza microbiologica
È difficile ottenere stime accurate
sull’incidenza delle patologie legate alla
contaminazione microbica degli alimenti,
in quanto, ad eccezione del colera (malattia causata da un Vibrio cholerae, un
batterio patogeno capace di vivere
nell’acqua marina ma anche nell’intestino), non vi è obbligo legale di un’allerta
internazionale.
Da notare però come in Italia esista, per le infezioni, tossinfezioni e infe-
stazioni di origine alimentare, l’obbligo
di notifica ai sensi del D.M. 15 Dicembre 1990.
Per quanto riguarda le stime disponibili si calcola che, negli Stati Uniti, le tossinfezioni alimentari producano ogni anno
76 milioni di casi di malattia e 325.000
ricoveri ospedalieri, con un’incidenza di
oltre 1 persona su 1.000 (Tabella 1).
Uno studio olandese ha stimato
un’incidenza annua di gastro-enteriti
Tabella 1
Casi segnalati in USA, 1999*
Casi segnalati per mezzo di sorveglianza
Casi
Bacillus cereus
27.360
Clostridium botulinum 58
Clostridium perfringens
64.577
248.520
73.480
Escherichia coli, ETEC
79.420
Listeria monocytogenes
2.518
Salmonella, non tifoidea
Focolai
Mortalità
720
72
0,0000
0,0769
111
2.453.926
Escherichia coli O157:H7
Salmonella typhi
Passiva
29
Brucella spp 1.554
Campylobacter spp
Attiva
3.674
1.259
824
0,0500
37.496
146
0,0010
6.540
654
0,0005
2.725
500
0,0083
2.090
209
0,0001
373
0,2000
412
0,0040
1.412.498
37.171
37.842
3.640
0,0078
Shigella spp
448.240
22.412
17.324
1.476
0,0016
Staphylococcus
185.060
4.870
487
54
27
0,0060
47
0,3900
112
0,0250
Vibrio cholerae
Vibrio vulnificus
Vibrio, altre specie
Yersinia enterocolitica
94
7.880
393
96.368
2.536
* Rielaborazione dati FDA
80
0,0002
0,0005
L. Morelli
Tabella 2
QUASI 1 MILIARDO
I controlli dell’industria
alimentare italiana.
Fonte: Doxa
Federalimentare, 2001
Gli autocontrolli all’anno in base al sistema HACCP/qualità
80 MILA
Le analisi all’anno per ciascuno dei 12 mila stabilimenti
OLTRE 85 MILA
Le visite ispettive effettuate nel 2001 dai Nas
e dalla Repressione Frodi
57 MILA
Gli addetti (1/5 del totale) che concorrono in modo diretto
alla sicurezza
1.400 MILIONI DI EURO La spesa per le analisi, controllo e ricerca applicata
per la sicurezza e qualità
(1,6% del fatturato totale dell’Industria alimentare)
(ma senza uno specifico riferimento dalla catena alimentare) del 28%. Se questi ultimi dati venissero estrapolati alla
totalità della popolazione mondiale, si
otterrebbe il risultato di stimare a un terzo della popolazione (almeno nei paesi
delle aree sviluppate) la percentuale di
soggetti interessati in un anno da patologie probabilmente causate dalla contaminazione microbica degli alimenti.
Benché siano dati a prima vista rilevanti, si deve però tenere conto dei grandi numeri che caratterizzano la catena alimentare: nel mondo occidentale centinaia di milioni di persone consumano tre
pasti al giorno tutti i giorni. Gli alimenti
che costituiscono le razioni di questi pasti
sono generalmente prodotti in luoghi distanti da quelli in cui vengono consumati
e sono stati trasportati e conservati per
tempi considerevolmente lunghi.
Si deve quindi considerare elevato,
almeno nel mondo occidentale, il grado
di sicurezza microbiologica degli alimen-
ti, e ciò anche in conseguenza dei controlli rigorosi effettuati dai produttori e
dalle autorità (Tabella 2).
Ma ogni medaglia ha il suo rovescio; la sostanziale sconfitta dei batteri
patogeni “classici”, quelli tradizionalmente legati alle tossinfezioni alimentari, ha aperto la porta allo sviluppo di
nuovi batteri patogeni, i cosiddetti
“emergenti”.
Sono batteri, come illustrato più
avanti, da sempre presenti nella catena
alimentare, ma che non riuscivano a
raggiungere la concentrazione necessaria a causare patologie per merito della
pressione selettiva esercitata dagli altri
batteri presenti nell’alimento.
Pratiche di produzione più igieniche o
tecnologie di produzione più avanzate per
la conservazione del contenuto nutrizionale degli alimenti, hanno ridotto la carica
batterica totale (il che è un dato sicuramente positivo) ma hanno aperto spazi di
crescita numerica a questi batteri.
81
Sicurezza microbiologica
Non è negli scopi di questo capitolo
passare in rassegna tutte le tecnologie
di sanitizzazione di tipo tradizionale o
avanzato ma è probabilmente utile ricordarne alcune fra quelle di più vasta
applicazione.
temperatura di 60 °C per alcuni minuti
si potessero evitare i fenomeni di rifermentazione da parte dei lieviti rimasti nel prodotto finito. La pastorizzazione distrugge la microflora dei liquidi
organici anche oltre il 99%, ma poiché non raggiunge temperature sufficienti a devitalizzare alcuni microrganismi termo-resistenti, né tantomeno le
spore batteriche, l’alimento pastorizzato deve comunque essere considerato come contenente una microflora
residua e conservato in condizioni atte
a limitare lo sviluppo di questi microrganismi. L’efficacia della pastorizzazione (ma in generale di tutti i trattamenti termici) dipende dalla temperatura raggiunta e dal tempo di trattamento. Esistono tecnologie di pastorizzazione diverse con rapporti tempo/temperatura diversi, ma una regola
generale è non superare mai la temperatura di 100 °C.
Trattamenti termici
Si basano sui trattamenti ad alta
temperatura degli alimenti e sono oggi
i più diffusi sistemi di bonifica batterica
degli alimenti, anche se nei decenni
passati hanno stentato ad affermarsi
per il timore che i trattamenti potessero incidere negativamente sulle caratteristiche organolettiche e nutrizionali
dei prodotti. L’esperienza ha dimostrato come l’impiego di questi processi
abbia sostanzialmente eliminato le epidemie di botulismo (causate dalle tossine di Clostridium botulinum) da
conserve industriali e sostanzialmente
azzerato le epidemie diffuse attraverso
il latte.
Sterilizzazione
Con questo procedimento si elimina
la quasi totalità dei microrganismi presenti nei liquidi e nei solidi. Il prodotto
comunque non garantisce un prodotto
finito del tutto asettico: per ottenere
una sterilizzazione completa infatti oc-
Pastorizzazione
Questo trattamento deve il suo
nome a Pasteur che, intorno al 1860,
osservò che sottoponendo il vino alla
82
L. Morelli
Microfiltrazione
correrebbero, alle temperature impiegate, tempi molto lunghi con grosse perdite nutritive.
La sterilizzazione viene utilizzata sia
per i prodotti confezionati che sfusi, ma
affinché l’azione del calore sia duratura,
occorre che tutta la linea di confezionamento sia sterile.
Si realizza a diversi livelli di temperatura per un lasso di tempo variabile in
rapporto alla temperatura stessa e ai diversi alimenti; comunque è sempre realizzata a valori superiori a 100 °C, quindi in pressione di vapore.
Oltre all’azione anti-batterica, la
sterilizzazione può eliminare o ridurre
l’attività di enzimi e tossine. Questo
trattamento è valido per una grande varietà di prodotti come legumi, frutta,
carne, pesce e alimenti cucinati, ed è
efficace molto a lungo, tranne per gli
alimenti molto acidi come i succhi di
frutta e la salsa di pomodoro.
Trattamenti superiori a 140 °C vengono applicati soprattutto al latte e indicati con la sigla UHT (Ultra High Temperature). I tempi in questo caso si riducono a pochi secondi.
Dal punto di vista nutrizionale, la
sterilizzazione è meno vantaggiosa della
pastorizzazione, in quanto l’alta temperatura denatura le proteine e può inattivare le vitamine.
Diversi alimenti liquidi, compreso il
latte, possono essere sottoposti a filtrazione su particolari membrane capaci di
trattenere la flora microbica in modo
selettivo, così da ottenere un sensibile
miglioramento delle caratteristiche igieniche senza danneggiare le proprietà
nutrizionali.
Nel caso di bevande limpide (birra,
vino, succhi limpidi, soft drinks) è possibile ottenere ottimi risultati utilizzando
membrane con un diametro dei pori di
circa 0,1 µm.
Per quanto riguarda il latte, vengono applicati processi di microfiltrazione
su membrane con diametro dei pori
leggermente più grande per permettere
il passaggio delle caseine (1,4 µm). Per
non intasare i filtri, il processo viene
eseguito su latte scremato; la materia
grassa viene sanitizzata con un trattamento termico e poi ricongiunta, nella
quantità voluta, al latte microfiltrato.
Alte pressioni
Il processo di bonifica batterica mediante alta pressioni è di recente introduzione ma sembra poter avere grandi
possibilità di applicazione.
83
Sicurezza microbiologica
Il processo consiste nel sottoporre
la sostanza da sterilizzare a pressioni
dell’ordine dei 100-800 MPa. La temperatura può variare dal sotto zero a sopra i 100 °C. I tempi di trattamento variano da alcuni millisecondi a 20 minuti,
anche se per trattamenti prolungati i
costi di trattamento sono estremamente
elevati. Se il trattamento ad alta pressione avviene a basse temperature non
si hanno effetti sui legami covalenti,
mentre si hanno ottimi risultati nella bonifica dai batteri.
Il trattamento ad alta pressione
agisce in modo istantaneo e uniforme,
indipendentemente dalla massa, dalla
forma e dalla composizione dell’alimento.
La fase di compressione alza la
temperatura di circa 3 °C per 100 MPa,
ma la successiva decompressione la riporta al valore originario. Gli alimenti a
cui è stata applicata questa tecnologia
sono i succhi di frutta (il sistema non altera le vitamine) e le marmellate.
La prima applicazione industriale di
questa tecnica è del 1991, anno in cui
una società giapponese la applicò per la
conservazione di marmellate; i prodotti
così trattati ritenevano il 95% del contenuto originario di vitamina C, mentre lieviti, muffe e batteri risultavano non più
vitali. Da allora, altre applicazioni di que-
sta tecnica sono state realizzate con
successo, anche se, al momento, non vi
è ancora una grande diffusione.
In conclusione possiamo dire che
oggi l’industria possiede potenti sistemi
di conservazione degli alimenti, ma ciò
non significa purtroppo che il rischio
igienico sia azzerato.
È infatti noto che i numerosi casi di
inquinamento batterico delle confezioni
alimentari che acquistiamo non derivano da problemi delle strutture industriali,
ma piuttosto dall’insorgere di errori tecnici e/o gestionali.
Le metodologie, recentemente sviluppate, di controllo dei punti critici
(HACCP) sono essenziali per un programma di sicurezza e di prevenzione
sanitaria.
Benché non sia negli scopi di questo capitolo l’illustrazione dei sistemi
HACCP, è bene ricordare come una
definizione coniata dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità sintetizzi questo
concetto di approccio globale alla sicurezza microbiologica degli alimenti con il
seguente principio relativo alla sicurezza
alimentare: “condivisione di responsabilità sulla sicurezza degli alimenti”.
Se questo principio, attraverso le
procedure di HACCP e le certificazioni di
qualità, si sta radicando nell’industria ali-
84
L. Morelli
mentare, non altrettanto è avvenuto nella
pratica quotidiana del consumatore.
L’allontanamento dell’uomo moderno dalle fonti primarie di cibo, ha determinato una minore consapevolezza del
consumatore dell’origine e delle varie
fasi della complessa catena di produzione alimentare. Vi deve essere infatti
una cura scrupolosa da parte dei consumatori o degli addetti alla manipolazione degli alimenti negli esercizi commerciali. Fondamentale, in questo contesto, l’adozione, a seconda dei prodotti, di apposite procedure igieniche di
preparazione e conservazione che ne
garantiscano la sicurezza. Le strategie
relative alla sicurezza alimentare seguite
dalle Autorità Alimentari USA (FDA) ed
Europea (EFSA) cercano di sottolineare
questa globalità di approccio: “Dalla fattoria alla forchetta” oppure “Dalla fattoria alla tavola”, indicando che anche
nell’ultimo passaggio, quello alle nostre
tavole e relative forchette, vi deve essere conoscenza dei rischi e applicazione
di opportune procedure.
Cercheremo pertanto di fornire, nelle
pagine seguenti, alcune informazioni utili
anche ai non addetti ai lavori, proprio
perché anche l’ultimo passaggio subito
dagli alimenti (conservazione e manipolazione domestica) ha un’estrema rilevanza nella sicurezza microbiologica.
Le contaminazioni
batteriche più
frequenti
Qui di seguito una tabella riassuntiva relativa alle contaminazioni batteriche
degli alimenti più frequentemente riscontrate (Tabella 3).
A commento della tabella si può
aggiungere come i batteri di maggiore
incidenza risultino essere Escherichia
coli, Salmonella, Campylobacter, Listeria, Yersinia enterocolitica.
I primi due sono contaminanti “storici” delle derrate alimentari, gli altri tre sono invece considerati “patogeni emergenti” (si veda la definizione fornita
all’inizio di questo capitolo). Gli allevamenti avicoli possono essere potenziali
sorgenti di contaminazione di
Salmonella; le salmonellosi sono quindi
presenti in modo particolare nei prodotti
della filiera avicola (uova e derivati; carni
avicole).
Escherichia coli, Salmonella sono
inoltre classici contaminanti fecali, in
quanto il loro habitat primario è l’intestino; se questo rende i prodotti di origine
animale i più soggetti alla contaminazione da parte di questi due patogeni, anche i vegetali possono essere considerati a rischio. La superficie fogliare è infatti portatrice di una popolazione batte-
85
Sicurezza microbiologica
rica che errate pratiche di irrigazione, ad
esempio con acque contaminate, può
configurare come flora batterica fecale
e quindi a rischio di contaminazione.
La flora fecale è anche un rischio
per i cosiddetti frutti di mare, che possono raccogliere batteri patogeni dalle
acque contaminate da liquami. La preTabella 3
I batteri che
contaminano gli alimenti
senza di coliformi nelle acque marine
non mette solo a rischio la possibilità di
balneazione, ma rende non adatti al
consumo molti prodotti ittici. La cottura
è sempre una misura di “buona pratica
di cucina”, mentre il consumo di prodotti ittici crudi, in assenza di certezze sanitarie, costituisce una pratica a rischio.
Batterio contaminante
Alimenti più frequentemente
contaminati
Staphylococcus aureus
Piatti cotti pronti e conservati non refrigerati
Listeria monocytogenes
(infezione diarroica)
Formaggi, verdure, carni
Vibrio
Prodotti ittici (frutti di mare) consumati crudi o
alimenti manipolati dopo cottura
Escherichia coli:
enteroemorragica o ETEC
enteropatogenica o EPEC
enteroinvasiva o EIEC
Escherichia coli 0157: H7
Carni (in assenza di una sufficiente cottura),
verdure, acqua
Clostridium perfrigens
Carni (roastbeef, arrosti, arrotolati di tacchino),
verdure, preparazioni gastronomiche, cibi cotti e
poi conservati senza refrigerazione
Clostridium botulinum
Conserve a basso grado d’acidità, sott’olio
o sotto vuoto o inadeguatamente sterilizzate
Aeromonas spp
Acqua, vegetali conservati a lungo in frigorifero,
insalate IV gamma pronte all’uso, carni, pesce,
gelati, molluschi, torta di crema
Shigella spp
Alimenti crudi o poco cotti, mal refrigerati
Vibrio cholerae
Alimenti contaminati da acqua infetta,
prodotti ittici crudi
Yersinia enterocolitica
Carni crude o poco cotte, latte, prodotti lattiero
caseari, uova, vegetali, prodotti ittici
Campylobacter jejuni
Pollame poco cotto, carni in genere poco crude
o poco cotte, latte non pastorizzato, ostriche
Salmonella
Molluschi, prodotti carnei, uova, latticini, vegetali,
insalate
86
L. Morelli
La flora intestinale di animali in allevamento, in buone condizioni di salute,
contiene sempre una certa quantità di
batteri potenzialmente patogeni per
l’uomo. Pertanto, le uova, le carni di
ogni tipo, i loro derivati (ad esempio i
salumi) il latte e i suoi derivati, devono
sempre essere considerati a rischio di
contaminazione. È per questo motivo
che la filiera dei prodotti alimentari di
origine animale subisce controlli molto
rigidi e viene monitorata lungo tutta la
sua vita commerciale. I nuovi criteri di
etichettatura delle carni, ad esempio,
sebbene introdotti per far fronte alla crisi di sicurezza dovuta alla BSE, consentono anche di tracciare l’origine e il percorso di ogni singola porzione, cosa
fondamentale anche per la sicurezza
microbiologica.
La pericolosità delle salmonelle è
legata allo stato di salute del soggetto che le ha ingerite, essendo veramente pericolose solo nei bambini,
negli anziani e nei soggetti immunocompromessi.
Le salmonelle si trovano nell’intestino dei bovini, sulla pelle e nell’intestino
dei suini, sulla pelle e nell’intestino del
pollame, nelle feci e nelle urine di persone infette, nell’acqua inquinata. Hanno un’eccezionale resistenza alle condizioni ambientali: ad esempio, si mantengono vive a lungo nelle feci dei bovini e
nelle acque stagnanti.
Le salmonelle si sviluppano a temperatura superiore a 7 °C o inferiore a
45 °C e quindi sopravvivono molto bene
negli alimenti conservati a temperatura
ambiente. Ad esempio, sopravvivono
negli insaccati fino a 90 -120 giorni, nel
burro fino a 10 settimane, nei formaggi
fino a 5 settimane, anche in prodotti
congelati. Muoiono invece negli alimenti
pastorizzati, in quanto vengono distrutte
dopo un’ora a 55 °C e dopo 15 minuti
a 60 °C.
Le infezioni da salmonella in Italia
provocano circa 12.000 casi all’anno e
rappresentano un importante problema
di sanità pubblica, sia per l’elevata morbilità sia per il peso economico che esse
comportano.
I batteri più
frequentemente
fonte di problemi
di contaminazione
Salmonella
Le salmonelle sono batteri Gramnegativi, della famiglia delle Enterobacteriaceae, causa di diarrea e, nei casi
gravi, di infezioni sistemiche.
87
Sicurezza microbiologica
dura fino a 8 settimane dall’inizio dei
sintomi. Esiste immunità, per cui le infezioni ripetute sono sempre causate da
sierotipi diversi. Colpisce ogni classe
d’età, anche se predilige le fasce più
basse, mentre la stagione che registra
la maggiore incidenza di casi infettivi risulta essere quella estiva.
Campylobacter
Microrganismi della famiglia Spirillaceae, Gram-negativi, mobili, non
sporigeni.
Due le specie di questo genere più
frequentemente coinvolte: Campylobacter jejuni e Campylobacter coli,
che rappresentano i batteri più frequentemente isolati da casi di diarrea dovuta
a tossinfezione alimentare (circa il 20%
dei soggetti affetti da diarrea dovuta a
tossinfenzione alimentare, contro il
3,6% di Salmonella e lo 0,6% di Shigella). Le carni avicole poco cotte sono
la sorgente più comune, anche se il latte non ben pastorizzato e acque non
correttamente potabilizzate sono state
anch’esse fonte di contaminazione.
Serbatoio dell’infezione sono gli animali,
per lo più volatili domestici, nonché i
portatori sani, più numerosi nei paesi in
via di sviluppo. Possono essere veicoli
di infezione l’acqua (se non clorata), il
latte (non pastorizzato) e gli ortaggi. Il
contagio si verifica per ingestione di un
alimento contaminato, ma anche il contagio interumano svolge un ruolo di primissimo piano. È possibile anche la trasmissione perinatale.
La durata del periodo di incubazione varia tra 1 e 10 giorni, mentre l’eliminazione del microrganismo con le feci
Escherichia coli e suoi biotipi
Escherichia coli è il batterio-tipo
della flora fecale Gram-negativa e aerobia, e rappresenta una delle numerose
specie di batteri di cui è composta la
normale flora intestinale di uomini e animali sani. Nell’ambito della specie sono
però presenti ceppi dotati di fattori di virulenza e associati a ben definite patologie, sia intestinali che extraintestinali. Le
cinque principali categorie causa di patologie enteriche sono: E. coli enterotossigena (ETEC), enteropatogena (EPEC),
enteroinvasiva (EIEC), enteroaderente o
enteroadesiva (EAEC) ed E. coli produttore di verocitotossina (VTEC), comprendente i ceppi enteroemorragici (EHEC).
Negli ultimi anni, tra i batteri patogeni emergenti, hanno acquisito particolare
importanza il gruppo di E. coli produttori
di verocitotossine (VTEC), causa di colite
emorragica e sindrome uremica-emoliti-
88
L. Morelli
ca. Il primo VTEC ad essere associato a
malattia enterica fu il sierotipo 0157:H7,
nel 1982, anche se altri sierotipi, non
0157:H7 sono in grado di produrre
un’analoga patologia nell’uomo.
Le infezioni da E. coli VTEC sono
un tipico esempio di malattie enteriche
trasmesse dagli alimenti attraverso la via
oro-fecale che, in questi ultimi anni, sono state segnalate in tutte le parti del
mondo, costituendo un serio problema
di salute pubblica.
Il più importante fattore di rischio è
rappresentato dal consumo di carne
macinata di manzo cruda o poco cotta,
ma ne è stata dimostrata la presenza
anche in altri tipi di carni.
Yersinia enterocolitica
Microrganismo Gram-negativo
asporigeno, flagellato, anaerobio facoltativo. Ne sono stati identificati diversi
Figura 1
Cellule di E. coli
89
Sicurezza microbiologica
sierotipi, dovuti a numerosi antigeni somatici e flagellati. Alcuni stipiti riescono
a produrre un’enterotossina termostabile. La malattia è ubiquitaria, anche se
predilige i paesi sviluppati, a clima rigido, laddove si trova addirittura al secondo posto nel determinare gastroenteriti acute. La stagione in cui si registra il maggior numero di casi è quella
invernale, mentre i soggetti a rischio
sono quelli in età pediatrica. L’incubazione è di circa una settimana; l’emissione di microrganismi con le feci persiste per 2-3 mesi.
Italia e sono risultati legati al consumo
di frutti di mare.
Infatti tra la microflora autoctona
dell’ambiente marino è facile riscontrare batteri con caratteristiche di patogenicità che, una volta accumulati
nei molluschi, possono rivestire un importante ruolo nelle patologie umane
e soprattutto nelle gastroenteriti di origine sconosciuta. Anche nei confronti
dei processi di depurazione, a cui i
molluschi devono essere sottoposti
per legge, microrganismi appartenenti
alla famiglia delle Vibrionacee, come
ad esempio il V. parahaemolyticus,
presentano un comportamento diverso
da quello dei germi indici di contaminazione fecale. Infatti, in base a quanto riportato in bibliografia, sembra che
siano capaci di aderire più tenacemente di altri batteri ai tessuti del
mollusco, tanto da non essere facilmente rimossi. Per quanto riguarda le
varie specie di questo genere coinvolte in episodi di tossinfezioni, ricordiamo anche:
• V. parahemolyticus che è la specie
più comunemente isolata da alimenti contaminati e causa diarrea acquosa e dolori addominali;
• V. vulnificus, più pericoloso del precedente, con un tasso di mortalità
del 50%.
Vibrio
Contrariamente alla contaminazione dei prodotti ittici da batteri coliformi,
nel caso dei vibrioni ci si trova di fronte
a batteri autoctoni dell’ambiente marino, adattati poi a proliferare anche nel
sistema enterico umano.
Alla famiglia delle Vibrionaceae appartengono specie batteriche patogene
o potenzialmente patogene per l’uomo,
che contribuiscono alla pericolosità degli alimenti ittici, quando questi siano
consumati crudi. Tra questi microrganismi, il più noto è il Vibrio cholerae 01,
agente eziologico del colera di cui alcuni episodi sono stati registrati anche in
90
L. Morelli
Il problema reale della contaminazione da stafilococco è legato, più che al
batterio, alle tossine termostabili che esso produce.
Le temperature di cottura, infatti, pur
impedendo agli stafilococchi di moltiplicarsi, non ne eliminano le tossine nocive.
Questi microrganismi sono di forte
interesse anche in ambito ospedaliero,
in quanto frequentemente coinvolti nelle
infezioni nosocomiali.
Staphylococcus
Sono germi Gram-positivi molto diffusi in natura, localizzati spesso sulla
pelle e nelle prime vie respiratorie (bocca, naso) degli animali e dell’uomo
(specie in presenza di raffreddori), su
ferite infette e su foruncoli. Si sviluppano in presenza di acqua e a temperatura
ambiente (fra 6,5 °C e 45 °C).
La contaminazione con questi
agenti infettivi riguarda soprattutto prosciutto cotto, piatti a base di carne, pollame, condimenti, salse, sughi di carne,
latte, formaggi, piatti a base di uova,
prodotti della pesca (specie crostacei e
frutti di mare), insalate di patate, creme
dolci e pasticceria alla crema. Veicolo di
infezione sono le mani sporche, utensili
contaminati, starnuti ecc. La contaminazione avviene di solito dopo la cottura, manipolando, affettando o assaggiando la pietanza e rimettendovi poi
dentro la posata impiegata per l’assaggio. L’infezione da stafilococco non è
mai grave e dura al più due giorni. Si
manifesta da una a sette ore dopo il
pasto (in media fra le 2 e le 4 ore) con
un improvviso attacco di nausea, vomito, diarrea, crampi addominali, disidratazione, sudorazione, debolezza, stato
generale di prostrazione. In genere, la
febbre è assente.
Clostridium
Sono bacilli anaerobi, Gram-positivi
e sporigeni, il che significa che risultano
particolarmente difficili da eliminare con i
trattamenti termici di bonifica.
Le due specie a rischio per gli alimenti sono Clostridium botulinum e
Clostridium perfringens.
La tossinfezione da Clostridium
botulinum è molto grave, con un tasso
di mortalità variabile tra il 35 e il 65%.
Di per sé il batterio non presenta pericoli, ma produce una famiglia di neurotossine che interferiscono con un neurotrasmettitore delle terminazioni nervose periferiche, l’acetilcolina. Di conseguenza la tossina provoca il blocco di
alcune funzioni dell’organismo, come
quella respiratoria. Se non viene curata
91
Sicurezza microbiologica
Figura 2
Clostridium sporogenes
con spora apicale
in tempo con il siero antibotulinico, l’infezione può essere mortale o provocare
una parziale paralisi respiratoria anche
per mesi.
Generalmente i primi sintomi dell’infezione si manifestano tra le 12 e le 36
ore dopo l’ingestione del cibo contaminato, ma in qualche caso possono presentarsi anche dopo sei giorni.
È proprio la doppia vita batterio-tossina a richiedere precauzioni particolari
nella preparazione e nella conservazione
degli alimenti.
Le spore del batterio sono presenti
nel terreno, nel fango, nell’acqua e
nell’intestino degli animali e sono resistenti al calore, mentre la tossina è termolabile. Per questo motivo, l’infezione
botulinica riguarda prevalentemente alimenti crudi o comunque non cucinati
dopo l’apertura della confezione. Infatti,
anche alimenti cotti, come il tonno o il
mais, possono conservare le spore oppure essere contaminati dopo la cottura, al momento di metterli in vasetto o
in scatola; se l’alimento non subisce
successivamente un’ulteriore cottura,
può provocare l’infezione. Questi rischi
sono presenti soprattutto negli alimenti
fatti in casa, dove non è possibile raggiungere nella bollitura temperature superiori a 100 gradi (tranne che con la
pentola a pressione); mentre generalmente i prodotti industriali, anche per
questo motivo, vengono trattati termicamente a temperature superiori. La stessa precauzione va presa per il contenitore, che a sua volta deve essere sterilizzato prima dell’impiego.
Anche il freddo è un nemico del
batterio. Non lo uccide, ma a temperature inferiori ai 3,5 °C non vi è più pro-
92
L. Morelli
duzione della tossina. Ecco perché è
fondamentale per alcuni alimenti la conservazione a temperature basse.
A causa della presenza delle spore nel terreno, le verdure e i vegetali
in genere sono a rischio di contaminazione; nel caso della verdura fresca, è
importante perciò eliminare subito la
presenza di terra con ripetuti lavaggi.
Si sono verificati casi di botulismo
causato dalla permanenza di terra sotto le unghie di chi ha manipolato o
consumato verdure: un altro buon motivo per lavarsi sempre accuratamente
le mani prima e dopo aver preparato i
pasti. Non è facile scoprire un alimento contaminato dal botulino. Il batterio
o la tossina non determinano sostanziali modifiche dell’aspetto o del sapore dei cibi.
Molto meno pericoloso è Clostridium perfringens, che causa forti
crampi addominali e diarrea. La patologia è di solito auto-contenuta e si esaurisce in uno-due giorni; solo le categorie a rischio (bambini, anziani e soggetti
immuno-compromessi) possono subire
complicazioni da questo batterio.
Bacillus cereus
Il Bacillus cereus è un bacillo sporigeno, aerobio, Gram-positivo, patogeno
Figura 3
Cellule e spore di
Bacillus cereus
93
Sicurezza microbiologica
perchè produce tossine responsabili di
intossicazioni alimentari. È comunemente presente nel suolo e nella polvere. Esso contamina frequentemente
alimenti a base di riso e, occasionalmente, pasta, carne e vegetali, prodotti lattiero-caseari, minestre, salse,
dolciumi che non sono stati raffreddati
rapidamente ed efficacemente dopo la
cottura e/o adeguatamente conservati.
In Europa si sono verificati casi di
gastroenterite, diarrea e avvelenamento emetico gravi e talvolta fatali,
causati dalle tossine più attive di B.
cereus, anche se pochissimi sono i
batteri in grado di causare la malattia.
B. cereus è comune negli alimenti,
dove forma spore resistenti alla maggior parte dei processi di risanamento,
e dove è in grado di moltiplicarsi durante la conservazione.
però rarissimo e confinato all’ambiente
veterinario; erano infatti gli animali i
portatori di questo germe e le persone
a rischio contaminazione erano solamente i veterinari e gli operatori zootecnici.
La riduzione dell’acidità nei prodotti lattiero-caseari (oggi il consumatore predilige prodotti poco acidi) e le
pratiche di sanitizzazione che hanno
eliminato la flora banale che competeva contro Listeria sono fra i principali
fattori che hanno portato questo germe ad “emergere” come patogeno.
Oggi alcuni studi suggeriscono
come una percentuale fra l’1 e il 10%
della popolazione possa essere considerata portatrice di L. monocytogenes; questa specie è stata trovata in
37 specie di mammiferi, domestici e
selvatici, come pure in 17 specie di
volatili. L. monocytogenes è abbastanza resistente al calore e alla refrigerazione, almeno in confronto con
altri batteri non sporigeni.
Le persone più a rischio sono le
donne in gravidanza, gli anziani, i
bambini molto piccoli e i malati il cui
sistema immunitario si trova in condizioni precarie. Il sintomo iniziale
dell’infezione, che può insorgere dopo
4 giorni-3 settimane dal momento del
contatto col bacillo, è la febbre alta e
Listeria
Si tratta di un bacillo Gram-positivo,
mobile ed è uno dei batteri patogeni
emergenti a causa della variazione avvenuta nelle tecnologie di produzione di
alcuni alimenti, principalmente i formaggi di fresco consumo e quelli erborinati.
Conosciuto fin dalle origini della microbiologia come agente patogeno, era
94
L. Morelli
improvvisa, accompagnata da nausea,
vomito, fino a meningite o aborto delle
donne in gravidanza. La listeriosi viene
trasmessa in particolare da alimenti
quali i formaggi a pasta molle (che da
soli sono responsabili di oltre la metà
dei casi), il latte non pastorizzato, la
salsiccia cruda, alcuni vegetali e frutti
non lavati.
La Listeria monocytogenes sopravvive infatti bene alla temperatura
di 4 °C, che si ha normalmente nei
frigoriferi, ma viene uccisa con una
permanenza di 5 minuti a 80 °C. Da
qui la misura precauzionale più importante: non mangiare crudi i cibi che
possono trasmetterla.
Questi batteri sono poi presenti negli
alimenti e arrivano al consumatore finale,
contribuendo ad aumentare i rischi della
diffusione di geni per l’antibiotico-resistenza anche in germi patogeni, con rischio per la salute del consumatore.
La situazione ha raggiunto elevati livelli di gravità, tanto da interessare la
stessa Organizzazione Mondiale della
Sanità. L’Unione Europea, a sua volta,
ha messo al bando, a partire dal 1997,
alcuni antibiotici utilizzati in zootecnia,
ma la selezione di batteri antibiotico-resistenti a livello ambientale era già avvenuta.
Alcuni paesi scandinavi hanno da
anni avviato progetti di monitoraggio della presenza di antibiotico-resistenze nei
batteri presenti nella filiera alimentare,
collegati a politiche di messa al bando
delle sostanze antibiotiche, più restrittive
di quelle comunitarie.
Uno studio recente ha evidenziato
come i ceppi di Listeria isolati da alimenti abbiano una limitata presenza di geni
per l’antibiotico-resistenza, ma tuttavia la
percentuale è in crescita con il passare
degli anni.
Nei paesi industrializzati è stato dimostrato che gli alimenti di origine animale sono la fonte primaria di tossinfezioni da batteri antibiotico-resistenti.
Antibiotico-Resistenza
Alla contaminazione batterica vera e
propria si è aggiunta, negli ultimi anni, la
presenza di determinanti genetiche per
l’antibiotico-resistenza nei batteri presenti negli alimenti.
Questo problema è legato al vasto
uso che è stato fatto nel passato di sostanze antibatteriche utilizzate come promotori della crescita di animali da reddito, uso che ha portato a selezionare batteri non patogeni ma antibiotico-resistenti.
95
Sicurezza microbiologica
rie (minori, maggiori, critiche). Le violazioni considerate critiche erano quelle
che, di per sé, si riteneva potessero
causare malattie, mentre quelle “maggiori” risultavano pericolose solo in presenza di altre violazioni. Per ritenere “sicura” una cucina, l’esame delle procedure seguite nelle normali cucine domestiche non doveva totalizzare più di 4
violazioni fra quelle maggiori e nessuna
violazione critica.
Fra i 106 casi esaminati in 81 città
distribuite in tutti gli Stati Uniti e il Canada, le contaminazioni crociate vennero rilevate nel 76% dei casi, le mancanze nel lavaggio delle mani nel 57% e la
cattiva o mancata refrigerazione nel
29%: tutte queste sono considerate
violazioni critiche.
Almeno una violazione critica venne
rilevata nel 96% dei casi, ma la media
di violazioni critiche osservate per ogni
cucina esaminata risultò di tre!
Altre violazioni frequentemente osservate erano:
• riporre i cibi in frigoriferi senza coprirli
(si formano aerosol che distribuiscono i
batteri da un alimento all’altro, creando
i presupposti per uno sviluppo batterico
potenzialmente anomalo);
• scongelamento di cibi surgelati
non seguito da un consumo in tempi
brevi.
La sicurezza
microbiologica
domestica
Alcuni problemi di tipo microbiologico possono essere riscontrati nel periodo “post acquisto” dei prodotti. La stabilità microbiologica degli alimenti è infatti garantita quando le confezioni sono
chiuse e, una volta aperte, conservate
in maniera appropriata e per il periodo
più breve possibile. Ancora più interessante un altro studio della FDA, svolto
nel 1997, in cui si dimostra come le
procedure di preparazione degli alimenti
nelle cucine americane non rispettasse,
nel 99% dei casi, gli standards di sicurezza fissati dalla stessa FDA per le industrie alimentari. In particolare risultavano mancanze del tipo:
• le mani non venivano lavate prima
della manipolazione dei cibi;
• una contaminazione crociata di alimenti veniva regolarmente effettuata
(ad esempio utilizzando lo stesso coltello per alimenti diversi);
• la conservazione non seguiva norme corrette (temperatura, date di
scadenza).
I criteri adottati durante questa analisi suddividevano le violazioni alle norme di sicurezza alimentari in tre catego-
96
L. Morelli
Questi dati dovrebbero far riflettere
e indurre a un’azione di educazione alimentare volta anche al rispetto delle
norme di igiene dal punto di vista microbiologico; curiosamente, sembra che
per quanto riguarda la sicurezza alimentare i consumatori si aspettino più attenzione da parte degli altri soggetti
coinvolti di quanto essi stessi non siano
disposti a porvi.
Sembra perciò interessante riportare alcuni consigli sul come organizzare
la pratica domestica seguendo delle
buone norme di manipolazione e conservazione degli alimenti:
• non mangiare mai alimenti crudi di
provenienza animale come pollame,
carne di maiale e di vitello, ma cuocerli
bene prima dell’assunzione;
• lavare minuziosamente i vegetali crudi
prima di mangiarli;
• tenere separati i cibi cotti e pronti
per essere consumati da quelli crudi;
• evitare il consumo di latte appena
munto e non pastorizzato;
• lavare le mani, i coltelli e i tegami dopo aver maneggiato i cibi crudi;
• osservare scrupolosamente la data di
scadenza, che comunque si riferisce alla confezione conservata come da indicazioni e, soprattutto, non aperta! (ricordare che, una volta aperta la confezione, il contenuto deve essere consumato in tempi molto brevi);
Figura 4
Dati di incidenza
delle infezioni enteriche
da alimenti in diverse
fasce d’età.
Rielaborazioni di dati
USA forniti da
CDC/USDA/FDA (1999).
60
50
E. coli 0157:H7
40
30
Salmonella
Campylobacter
20
10
0
0-<1
1-<10
10-<20
Età (anni)
97
20-<30
30-<40
40-<50
Sicurezza microbiologica
• le operazioni di macinatura e taglio
delle carni e delle verdure aumentano le
possibilità di sviluppo batterico (vengono messe a disposizione delle cellule
batteriche presenti più superficie e più
nutrienti).
nati alle fasce più deboli della popolazione, come la prima infanzia, risultano
particolarmente ben controllati e sicuri.
Secondo dati del Ministero della Salute, il numero di campioni di alimenti per
l’infanzia analizzati dalle strutture del Ministero stesso e trovati irregolari è fra i
più bassi delle varie categorie merceologiche e rappresenta un indicatore di un
buon livello di sicurezza alimentare. È bene ricordare come le industrie produttrici
applichino controlli lungo tutta la filiera di
produzione e non solo sul prodotto finale.
Quanto sopra detto non deve però
indurre a ritenere che, nonostante gli
sforzi delle autorità competenti, nel controllo sull’intera filiera produttiva del settore agro-alimentare nonché sulla distribuzione, la contaminazione microbica
delle derrate alimentari, non debba continuare a essere un argomento di quotidiana rilevanza.
Una particolare attenzione deve essere posta nella manipolazione degli
alimenti per i bambini, che risultano essere una categoria a rischio di infezione batterica. In figura 4 è riportato un
grafico rielaborato da dati USA che illustra efficacemente la maggiore incidenza relativa delle tossinfezioni batteriche dovute ad alimenti contaminati in
età pediatrica.
Appare evidente come l’età da 1 a
10 anni sia particolarmente esposta alle
infezioni da batterici enterici.
Gli operatori del settore hanno perciò il compito di informare genitori e chi
si prende di cura dei bambini di questa
particolare sensibilità e agire di conseguenza.
Riferimenti bibliografici
La bibliografia è stata organizzata per fornire al
lettore alcuni riferimenti essenziali e, in alcuni casi, di facile e libero accesso su Internet; ad
esempio sono stati di preferenza citati articoli il
cui testo completo è ad accesso gratuito.
Di seguito segnaliamo alcuni siti web per saperne di più e ottenere un costante aggiornamento
sulle patologie legate alla catena alimentare:
Conclusione
La situazione della contaminazione
microbiologica degli alimenti è quindi
oggi di livello molto buono nei paesi occidentali. In particolare gli alimenti desti-
http://www.cfsan.fda.gov/~mow/foodborn.html
È il sito della FDA; da leggere il BAD BUG BOOK,
98
L. Morelli
Per quanto riguarda le referenze “cartacee” la bibliografia è stata suddivisa con lo stesso ordine
del testo.
testo on-line con le caratteristiche dei principali batteri patogeni.
http://www.epicentro.iss.it/
Il sito del Laboratorio di Epidemiologia dell’Istituto
Superiore di Sanità, nell’ambito del Progetto per un
Osservatorio Epidemiologico Nazionale. Epicentro è
uno strumento di lavoro per gli operatori di sanità
pubblica, prodotto per migliorare l’accesso all’informazione epidemiologica, nell’ambito del servizio sanitario, tramite l’uso della rete Internet.
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Sicurezza microbiologica
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100
L
e micotossine nella filiera
agroalimentare:
informazioni generali
ed impatto sulla salute
dell’uomo e degli animali
M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera
Istituto Superiore di Sanità, Centro Nazionale per la qualità degli Alimenti e per i Rischi
Alimentari, Reparto Organismi Geneticamente Modificati e Xenobiotici di Origine Fungina
preposte alla gestione del rischio. Tuttavia, anche se negli ultimi anni le associazioni dei consumatori hanno dimostrato crescente attenzione al problema, resta tuttora scarsa la conoscenza, quindi l’interesse del consumatore medio, circa il problema di sicurezza alimentare legato alla contaminazione da micotossine.
A causa della elevata diffusione e
tossicità di queste sostanze, del numero crescente di derrate alimentari riconosciuto passibile di contaminazione,
dell’impatto sanitario, economico, commerciale ed etico di questi tossici, le
autorità competenti di molti Paesi del
mondo attualmente considerano il problema delle micotossine fra le priorità
in tema di sicurezza alimentare. Inoltre
nell’ultimo decennio organizzazioni internazionali quali il CODEX Alimentarious, la FAO (Food and Agriculture Organization) e il WHO (Organizzazione
Mondiale della Sanità) hanno assunto
la leadership nel difficile compito di in-
Introduzione
I composti chimici noti con il nome
di micotossine sono sostanze ad azione tossica prodotte, in particolari condizioni ambientali, da numerose specie
di funghi filamentosi microscopici. Il
numero di muffe tossigene note è andato crescendo negli ultimi decenni e,
accanto alle “micotossine principali”,
sono disponibili informazioni circa una
classe di micotossine meno studiate
(“micotossine minori”) che potrebbero
essere classificate fra i rischi emergenti.
Nonostante lo studio sistematico
delle micotossine sia iniziato da più di
quarant’anni, solo recentemente il loro
potenziale impatto sulla salute dell’uomo e degli animali ha ricevuto una
crescente attenzione sia da parte della
comunità scientifica e delle organizzazioni internazionali interessate ai problemi di sicurezza alimentare, sia da
parte dei produttori e delle autorità
101
Le micotossine nella filiera agroalimentare
dividuare e stabilire criteri per l’analisi
del rischio e per l’armonizzazione delle
procedure a questa connesse.
l’acido penicillico, l’acido micofenolico,
la rocfortina, la tossina PR e le tossine
prodotte dal genere Stachybotrys, che
sembrano particolarmente rilevanti per
gli ambienti domestici.
Le micotossine sono sostanze chimiche che residuano nelle derrate alimentari anche laddove la muffa abbia
cessato il suo ciclo vitale o sia stata rimossa dalle operazioni tecnologiche di
lavorazione dell’alimento o del mangime. Inoltre le principali micotossine
sono resistenti alle normali operazioni
di cottura degli alimenti. Le condizioni
che influenzano la biosintesi delle micotossine sono peculiari per le singole
specie e includono condizioni geografiche ed ambientali, pratiche di coltivazione, stoccaggio e tipo di substrato.
Un’eccellente rassegna sui parametri
che influenzano la crescita fungina per
le più importanti specie fungine e la
biosintesi delle principali micotossine
è fornita dal Report del CAST (Council
for Agricultural Science and Technology) pubblicato recentemente.
Produzione
di micotossine
Le muffe tossigene producono micotossine secondo vie metaboliche secondarie a seguito di stress ambientali
cui la pianta è stata sottoposta. Le
muffe particolarmente ubiquitarie e diffuse appartengono al genere Aspergillus, Penicillium e Fusarium e le micotossine principali da questi prodotte
sono le aflatossine (AFLs), l’ocratossina A (OTA), le fumonisine (FBs), i tricoteceni, lo zearalenone (ZEA), la patulina e le tossine dell’ergot. Oltre a queste micotossine particolarmente investigate, sono noti un numero considerevole di altri metaboliti fungini per i
quali frequenza di contaminazione e
studi di tossicità suggeriscono una
maggiore attenzione da parte sia della
comunità scientifica sia delle strutture
preposte alla tutela della salute dell’uomo e degli animali. Questa lista di tossine include l’acido ciclopiazonico, la
sterigmatocistina, la gliotossina, la citrinina, le tossine tremorgeniche, quali il
penitrem, la fusarina C, l’acido fusarico,
Presenza di micotossine
in alimenti e mangimi
Il numero delle matrici alimentari
per le quali l’incidenza di micotossine ha
102
M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera
suscitato motivi di preoccupazione è andato crescendo negli ultimi anni, includendo sia materie prime quali cereali,
semi oleaginosi, semi di caffè e cacao,
spezie, frutta secca ed essiccata, sia
prodotti derivati e trasformati quali vino,
birra, uvetta, cacao e cioccolata, caffè
tostato e succhi di frutta. I processi tecnologici in grado di ridurre il livello delle
tossine inizialmente presenti nelle materie prime sono pochi; in particolare i trattamenti alcalini, come ad esempio la raffinazione degli oli che degrada le aflatossine presenti nei semi oleaginosi, o la
tostatura del caffè che riduce fino al
50% l’ocratossina A presente nei semi
grezzi. Inoltre alcuni processi tecnologici
comportano una variazione del livello di
tossina nei prodotti derivati: il processo
di molitura dei cereali implica una concentrazione di tossina nelle parti cruscali e una diminuzione nelle frazioni più
raffinate, dipendente dal tipo di tossina
e di cereale. Gli studi finora effettuati riguardano l’aflatossina B1, l’OTA e la fumonisina B1. Per quanto concerne l’aflatossina M1 (AFM1), nei formaggi è stato
generalmente osservato un aumento
di concentrazione dal latte al prodotto
finito.
Livelli preoccupanti di OTA sono
stati di recente evidenziati nel latte materno. In particolare un monitoraggio
eseguito su circa 500 campioni di latte
prelevati nelle varie regioni italiane ha
evidenziato una percentuale elevata
(63%) di campioni contaminati a livelli
compresi tra 0,017 e 2,350 ng/ml. Solo
nel 34% dei campioni la contaminazione era inferiore al valore massimo di intake di 5 ng/kgpc/giorno raccomandato dal Scientific Committee for Food
(UE) per la popolazione adulta. Studi ulteriori saranno necessari per verificare
se altre micotossine possono essere
trasferite nel latte materno, fonte preziosa di nutrimento per una fascia di popolazione particolarmente a rischio.
La presenza di micotossine nei
mangimi, oltre a rappresentare un problema di vastissime proporzioni per gli
allevamenti, può costituire un’ulteriore
fonte di rischio per l’uomo, attraverso il
trasferimento di tossine nei prodotti
d’origine animale quali il latte e i prodotti lattiero-caseari, la carne e le uova. Fra le micotossine più frequentemente riscontrate in questa tipologia
di prodotti un ruolo primario è rivestito
dall’aflatossina M1, prodotta negli animali da latte per idrossilazione
dell’aflatossina B1 in ragione dell’16% rispetto alla tossina genitrice, e
l’OTA nei prodotti derivati dai suini.
Storicamente in Europa il latte rappresenta la prima matrice alimentare per
103
Le micotossine nella filiera agroalimentare
Figura 1
Interrelazioni
fra micotossine
e uomo/animali
Contaminazione
fungina
Mangime
Micotossine
Materie prime e prodotti
alimentari finiti
Inalazione
la quale sono state adottate misure
preventive per la presenza di AFM1,
attraverso la definizione di limiti per
l’AFB1 nei mangimi. Un problema di
grande attualità è rappresentato dal livello di AFM1 nei formaggi; tale livello
dipende, come sopra menzionato, da
fattori di concentrazione della tossina
durante il processo di caseificazione.
Questi fattori non sono attualmente
noti e costituiscono motivo di dibattito
nell’ambito del controllo della tossina
nei prodotti lattiero-caseari. Un’ulteriore fonte di assunzione di micotossine
da parte di alcune fasce di popolazione è rappresentata dall’inalazione di
polveri aereodisperse contaminate da
micotossine. Questa circostanza può
verificarsi sia in ambienti di lavoro in
cui sono trattate derrate contaminate,
sia in ambienti domestici in cui le cattive condizioni igienico-ambientali hanno portato all’ammuffimento delle pareti. In figura 1 sono rappresentate le
interrelazioni attualmente documentate fra micotossine e uomo/animali.
L’analisi del rischio
da micotossine
Le informazioni disponibili sulla gravità del significato globale delle micotossine e circa il loro impatto sulla salute dell’uomo e degli animali hanno spinto le organizzazioni nazionali e internazionali ad intraprendere l’analisi sistematica del rischio attribuibile a questi
104
M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera
composti. I criteri seguiti sono conformi
allo schema proposto da FAO/WHO
(1995) secondo cui l’analisi del rischio
è costituita dai tre elementi specifici di
valutazione, comunicazione e gestione
del rischio, ciascuno dei quali costituito
da diverse componenti. Per alcune sostanze chimiche, quali i pesticidi, l’analisi del rischio è stata già effettuata in
maniera organica, mentre per le micotossine molti aspetti sono ancora da
sviluppare e da armonizzare. Alcuni
aspetti dell’analisi del rischio da micotossine vengono di seguito presi in
considerazione, con particolare riferimento alla valutazione e alla gestione
del rischio. Queste due componenti non
devono essere considerate totalmente
disgiunte poiché alcuni loro elementi,
quali l’incidenza di contaminazione e la
disponibilità d’idonei metodi di campionamento e d’analisi, giocano un ruolo
importante in entrambe le componenti.
ropa, per le principali micotossine, anche se molti dei risultati ottenuti suggeriscono la necessità di ulteriori approfondimenti.
La caratterizzazione del pericolo,
cioè la valutazione qualitativa e quantitativa della natura dell’effetto tossico, è
stata sufficientemente sviluppata per le
principali micotossine quali aflatossine,
OTA, fusariotossine e patulina, mentre
per le micotossine “minori” sono necessarie ulteriori ricerche. A causa del cammino biosintetico differenziato, che porta alla formazione delle varie micotossine, la loro struttura chimica è molto diversificata, pertanto gli effetti tossici
nell’uomo e negli animali sono molto diversi e in massima parte riconducibili alla formazione di addotti con vari recettori molecolari quali DNA, RNA, proteine funzionali, cofattori enzimatici e costituenti di membrana. Un moderno approccio per la classificazione della tossicità delle micotossine è basato sulla valutazione dell’effetto tossico sui vari organi o sistema bersaglio. Il fegato è l’organo bersaglio per le aflatossine, ma
sono riportati effetti tossici da parte anche delle fumonisine e della sporidesmina; i tricoteceni esercitano un’azione
tossica sul sistema gastrointestinale e
su quello ematopoietico, mentre il sistema renale e urogenitale rappresenta
Valutazione del rischio
La valutazione del rischio, cui contribuisce sia l’identificazione e la caratterizzazione del pericolo riferibile alla
sostanza tossica, sia la valutazione
dell’esposizione, è stata sviluppata in
maniera organica, specialmente in Eu-
105
Le micotossine nella filiera agroalimentare
l’organo bersaglio soprattutto da parte
dell’OTA, ma anche del 4-deossinivalenolo (DON). Effetti tossici sul sistema riproduttivo sono particolarmente evidenti
per lo zearalenone e per gli alcaloidi
dell’ergot, effetti neurotossici sono stati
evidenziati per le tossine tremorigene
(penitrem A) e per gli alcaloidi dell’ergot.
Effetti sul sistema immunitario sono stati dimostrati per le aflatossine, i tricoteceni e l’OTA. Informazioni sul meccanismo d’azione dell’aflatossina B 1 ,
dell’OTA e della fumonisina sono fornite
dalla rassegna di Fink-Gremmels del
1996, ma ulteriori indicazioni sull’OTA e
sulle fusariotossine possono essere fornite dai risultati dei progetti europei sviluppati nell’ambito o collegati al Mycotoxin cluster (http://www.mycotoxinprevention.com). In tale contesto è stata
studiata, con tecniche più avanzate, la
tossicità di alcune micotossine fra cui
l’OTA. In particolare, gli studi di Dekant
sembrerebbero escludere l’ipotizzata
genotossicità di questa tossina.
Per quanto riguarda l’effetto cancerogeno, lo IARC (International Agency
for Research on Cancer) ha classificato
l’aflatossina B1 nel gruppo 1 (evidenza
adeguata di cancerogenicità per l’uomo), mentre l’OTA è stata classificata
nel gruppo 2B (potenzialmente cancerogeno per l’uomo). A livello europeo ot-
time informazioni sulla tossicità di OTA,
aflatossine, fusariotossine e patulina
possono ottenersi dagli Opinion Papers
dell’SCF (Scientific Commettee for
Food). Inoltre, nel 2002 il JECFA (Joint
Expert Committee on Food Additives)
del WHO e della FAO ha pubblicato un
rapporto concernente la caratterizzazione del pericolo da aflatossina M1, OTA,
fumonisine B1, B2, e B3, DON, tossina T2 e HT-2. Rapporti precedenti hanno riguardato patulina (1995), aflatossine
(1997) e zearalenone (1999). La valutazione del JECFA normalmente comprende per le sostanze non cancerogene la definizione del PMTWI (Provisional
Maximum Tolerable Weekly Intake) o
del PMTDI (Provisional Maximum Tolerable Daily Intake), in cui il termine “provisional” indica che i dati disponibili non
sono sufficienti per stabilire esattamente l’impatto sulla salute ai valori suggeriti
di assunzione massima. I valori d’assunzione massima sopraindicati sono stabiliti sulla base del NOEL (No Observable
Effect Level) e l’applicazione di un fattore di sicurezza, che è fissato normalmente a 100, ma può essere aumentato nel caso d’insufficienti dati di tossicità. Per le sostanze genotossiche, quali
l’aflatossina B1, il JECFA non assegna
alcun valore di PMTWI o PMTDI perché
si assume che tali sostanze anche in
106
M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera
piccole dosi possano esercitare un effetto tossico e dovrebbero pertanto essere assenti. Tuttavia, nei casi in cui non
sia possibile eliminare totalmente la presenza di una sostanza tossica dagli alimenti senza compromettere le riserve
alimentari mondiali, il JECFA raccomanda un livello massimo di contaminazione
definito come ALARA (As Low As Reasonably Achievable), come nel caso
dell’aflatossina B1.
In tabella 1 sono riportati i valori di
PMTDI indicati dal JECFA per le micotossine prese in considerazione.
mo, hanno fornito informazioni
sull’esposizione della popolazione europea alle principali micotossine. Secondo quanto sopraindicato, alla valutazione dell’esposizione contribuiscono
dati di incidenza di contaminazione e
di consumi alimentari. Attualmente le
metodologie di valutazione dell’esposizione per le sostanze chimiche adottate in Europa utilizzano un approccio
deterministico (“point estimate”) che
combina i database dei dati di consumi alimentari con quelli relativi all’incidenza di contaminazione. È in corso di
svolgimento un progetto comunitario
(SAFE FOODS) che intende effettuare la valutazione del rischio tramite un
approccio probabilistico (Montecarlo).
I risultati più rilevanti ottenuti per la
valutazione dell’esposizione sono stati
raggiunti dalle “Tasks” della UE, sviluppate nell’ambito della SCOOP (Scientific Cooperation on Question Related to
Valutazione dell’esposizione
Per la valutazione dell’esposizione
sono state intraprese a livello europeo
numerose iniziative che, attraverso
l’elaborazione di dati relativi all’incidenza di contaminazione e dati di consuTabella 1
Valori di PMTDI* per le
principali micotossine
Micotossina
PMTDI
Ocratossina A
5 ng/kg pc/giorno
Fumonisina B1
2 µg/kg pc/giorno
Fumonisina B2
2 µg/kg pc/giorno
Fumonisina B3
2 µg/kg pc/giorno
Deossinivalenolo
1 µg/kg pc/giorno
Tossina T-2
60 ng/kg pc/giorno
Tossina HT-2
60 ng/kg pc/giorno
*PMTD: Provisional Maximum Tolerable Daily Intake
107
Le micotossine nella filiera agroalimentare
Food). Sulla base della Decisione della
Commissione 94/652/EC è stato infatti supportato dall’UE lo sviluppo di alcune “Tasks” volte alla valutazione della
esposizione a numerose sostanze chimiche fra cui le principali micotossine.
Sono state finora sviluppate Tasks per
la valutazione della esposizione alle
aflatossine, all’OTA, alle fusariotossine e
alla patulina. Tuttavia, essendo sempre
crescente il numero delle matrici alimentari note come passibili di contaminazione, la valutazione dell’esposizione
totale, data dalla somma dei contributi
da parte delle singole matrici alimentari,
è un dato destinato a variare all’aumentare delle conoscenze disponibili.
programma GEMS FOOD. Inoltre una
recente e valida rassegna dei dati di incidenza di contaminazione è disponibile
nel Report del CAST che fornisce dati
accorpati per genere/specie fungine riscontrati nelle diverse derrate, per matrici affette da contaminazione e per livelli di tossine negli alimenti processati.
A livello europeo, dati di incidenza di
contaminazione di alcune micotossine
in talune derrate alimentari (OTA in cacao e caffè, aflatossine in spezie, arachidi, pistacchi e alimenti per l’infanzia)
sono stati sviluppati nell’ambito del controllo ufficiale degli alimenti. Un aspetto
cruciale della valutazione dell’incidenza
di contaminazione e conseguentemente della valutazione del rischio è data
dall’attendibilità dei metodi di analisi e
campionamento impiegati nei monitoraggi. La rilevanza dell’assicurazione di
qualità del dato analitico è stata riconosciuta solo negli ultimi anni, pertanto
l’attendibilità di dati non recenti d’incidenza di contaminazione da micotossine è da ritenersi scarsa. A tale mancanza di attendibilità inoltre può contribuire in maniera determinante il mancato impiego di procedure di campionamento appropriate. Essendo, infatti,
le micotossine distribuite in maniera disomogenea nella massa, il dato proveniente dalle analisi di laboratorio è rap-
Incidenza di contaminazione
Un’accurata conoscenza dell’incidenza di contaminazione, cioè delle frequenze e dei livelli di contaminazione
da micotossine nelle diverse matrici alimentari, rappresenta la base non solo
per la valutazione dell’esposizione, ma
anche per la programmazione delle opportune misure di gestione del rischio.
Una delle iniziative a livello internazionale per valutare frequenza e livelli di
contaminazione da micotossine nelle
derrate alimentari è rappresentata dal
108
M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera
Tabella 2
Assunzione giornaliera di OTA con la dieta per ciascun alimento (µg/kg o µg/l)
Cereali Caffè Birra
Danimarca (P)
0,86
0,19
0,14
Finlandia (P)
1,03
3,94
0,12
Francia (P)
1,24
Francia (A)
1,14
Francia (B)
Vino Cacao Frutta Carne Spezie Altro Assunzione
secca
totale
1,19
0,12
0,02
0,27
0,50
0,10
0,40
2,51
0,25
0,47
0,10
0,35
2,31
2,26
0,11
0,03
0,11
0,88
3,39
Germania(P>14)
0,65
0,14
0,08
0,07
0,06
1,05
Germania(P<14)
1,25
0,01
0,01
0,29
0,11
1,67
Germania (D)
2,10
0,03
0,66
0,20
2,99
0,05
5,23
Grecia (P)
0,10
0,05
0,15
Grecia (U)
0,10
0,03
0,13
Grecia (SU)
0,10
0,06
0,16
Grecia (R)
0,12
0,11
0,23
Italia (P)
0,06
0,06
0,01
0,20
0,12
0,02
0,47
Italia (C)
0,24
0,09
0,03
0,68
0,17
0,05
1,26
Norvegia (P)
0,74
2,29
0,07
3,10
Norvegia (U)
0,80
2,26
0,07
3,13
Norvegia (D)
0,66
2,29
0,06
3,01
Portogallo (P)
0,69
0,09
0,01
0,02
Spagna (P)
0,08
0,15
0,09
0,07
Svezia (A)
1,04
1,12
0,05
0,18
0,40
0,22
3,01
Svezia (B)
1,61
0,46
0,04
0,18
0,52
0,45
3,26
0,06
0,07
0,30
2,58
0,81
0,39
Svezia (P)
0,99
1,13
0,03
Olanda (P)
1,21
0,21
0,03
1,45
Olanda (C)
0,30
0,95
1,25
Inghilterra (P>16)
0,34
0,04
0,05
0,05
Inghilterra (P 1,5-4,5) 0,61
0,06
0,14
0,55
0,29
1,45
Inghilterra (C >16)
0,04
0,04
0,09
0,03
0,74
0,67
5,18
6,66
0,42
Inghilterra (C 1,5-4,5) 0,73
0,48
P = Tutta la popolazione; A = Adulti; B = Bambini; D = Donne; U = Uomini; SU = Popolazione della periferia; R = Popolazione rurale;
C = Solo consumatori
109
Le micotossine nella filiera agroalimentare
presentativo dell’intera massa solo se
le operazioni di campionamento sono
state eseguite in maniera idonea.
L’errore insito nel campionamento è di
gran lunga superiore a quello associato all’analisi. Purtroppo, nella pratica, le
procedure di campionamento spesso
non sono eseguite correttamente a
causa sia della scarsa conoscenza del
problema sia dell’onere economico e
del dispendio di tempo insiti nell’esecuzione di un buon campionamento.
Pertanto, errate procedure di campionamento inficiano totalmente l’affidabilità del dato analitico, portando ad
una sottostima del livello di contaminazione e molti dei dati d’incidenza di
contaminazione prodotti nel passato
dovrebbero considerarsi non rappresentativi della la situazione reale.
Relativamente all’OTA, in tabella
2 vengono riportati i recenti risultati
ottenuti per la valutazione dell’esposizione della popolazione europea derivante dalle diverse matrici passibili di
contaminazione, in figura 2 è illustrato tale contributo all’esposizione. Come si può rilevare nessun Paese europeo ha potuto fornire dati relativi a
tutte le matrici alimentari fino a quel
momento considerate suscettibili di
contaminazione, portando pertanto a
valori sottostimati dell’esposizione totale. Va inoltre considerato che attualmente le matrici potenzialmente
contaminate da OTA sono in numero
maggiore rispetto a quelle considerate nella “Task” includendo altre voci
quali frutta secca, spezie e liquirizia.
Figura 2
44%
Contributo delle varie
matrici alimenteri alla
esposizione totale del
consumatore europeo
all’ocratossina A*
44
15
3
3
9
4
5
10
7
Cereali
9%
Caffé
7%
Birra
10%
Vino
5%
Cacao
4%
Frutta secca
3%
Carne
3%
Spezie
15%
Altro
* Tratto da http://europa.eu.int/comm/food/fs/scoop/3.2.7_en.pdf
110
M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera
prendendo pertanto l’intera filiera produttiva, dal campo al piatto. Inoltre, la
conoscenza dell’ecologia fungina rappresenta la base per la prevenzione della formazione di muffe e di micotossine.
Molte iniziative in tal senso sono state
intraprese ed alcune hanno già mostrato i primi risultati. In particolare, sotto il
coordinamento della FAO, sono stati
condotti studi mirati alla conoscenza
completa dell’ecologia fungina che porta alla presenza dell’OTA nel caffè e
all’individuazione dei punti critici dell’intera filiera produttiva. Tali conoscenze
hanno fornito la base per l’attuazione di
programmi di educazione dei piccoli e
medi produttori di questa materia prima,
economicamente importantissima per
alcuni Paesi in via di sviluppo. Rapporti
sull’ecologia fungina e sui sistemi di
prevenzione della contaminazione da
muffe e da micotossine sono stati elaborati sotto l’egida del CODEX; in particolare sono reperibili informazioni per
l’OTA, lo zearalenone, le fumonisine ed i
tricoteceni nei cereali, per la patulina nei
prodotti a base di mela, e per le aflatossine nei pistacchi (www.codex.com).
Inoltre, nell’ambito del programma
della Commissione Europea “Quality
of life”, sono state di recente sviluppate ricerche volte allo sviluppo di sistemi preventivi per alcune micotossine
Gestione del rischio
In generale molti sono gli elementi che dovrebbero essere presi in considerazione nell’attuazione di una gestione del rischio efficace e prospettica. Alcuni di questi aspetti, quali la valutazione dell’incidenza di contaminazione e l’assicurazione di qualità sia
del dato analitico che del campionamento, sono stati discussi in precedenza. Vengono di seguito trattate altre misure di gestione del rischio, con
particolare riferimento alle azioni di
prevenzione della contaminazione
stessa e alla definizione di limiti di
legge.
Azioni preventive
Le azioni volte a prevenire l’attacco
delle muffe tossigene e la formazione di
micotossine sono usualmente raggruppate in attività relative alle fasi di coltivazione/raccolto e in attività eseguite nella fase post-raccolto, incluso il trasporto,
l’immagazzinamento e le attività di trasformazione. Per le micotossine, infatti,
più che per altri contaminanti, è fondamentale che il sistema di HACCP (Hazard Analysis Critical Control Point) sia
considerato in maniera integrata, com-
111
Le micotossine nella filiera agroalimentare
(OTA e fusariotossine) in talune matrici (www.mycotoxin-prevention.com).
Un progetto satellite del “Mycotoxin
Cluster” ha sviluppato il problema
dell’OTA nel vino, valutandone il rischio
e studiando i problemi relativi alla gestione integrata per questa tossina
nell’uva e nel vino (www.ochrawine.com).
Un efficace sistema di prevenzione della contaminazione da muffe e
micotossine può essere rappresentato
dalla coltivazione di alcune tipologie di
piante OGM. In particolare è stata evidenziata una rilevante riduzione di fusariotossine nel mais geneticamente
modificato per la resistenza agli insetti.
Il minore attacco da parte degli insetti
riduce, infatti, il danno alle granaglie
con conseguente minore possibilità di
attacco da parte delle muffe.
del problema da parte degli “stakeholders”. Per le micotossine la complessità
dei fattori e delle conseguenze attribuibili alla loro presenza nelle derrate alimentari comporta che la fissazione di limiti massimi di legge sia influenzata da
numerosi fattori, alcuni dei quali estranei alla tossicità della micotossina in
esame; infatti, anche se le TDI (“Tolerable Daily Intake”) raccomandate rappresentano generalmente l’elemento
guida per la definizione di tali limiti, altri
fattori giocano un ruolo di rilievo, quali
l’entità dell’incidenza di contaminazione
nelle derrate in circolazione e la disponibilità di appropriati metodi validati di
campionamento e di analisi. Inoltre,
considerazioni di carattere commerciale
ed etico e di disponibilità di risorse alimentari sono fattori che sono presi in
considerazione in una visione internazionale della definizione di limiti massimi tollerabili. Ad esempio la regolamentazione stringente per l’aflatossina B1
attualmente in vigore in Europa crea ad
alcuni Paesi in via di sviluppo problemi
nell’esportazione delle materie prime
impiegate nelle preparazioni mangimistiche. Negli ultimi anni l’UE ha tenuto
sotto controllo, e in molti casi ha temporaneamente bloccato, le importazioni
di pistacchi dall’Iran e dalla Turchia, di
arachidi dall’Egitto e dalla Cina, di noci
Limiti di legge
Fra le componenti della gestione
del rischio derivante dalla presenza di
una sostanza indesiderabile negli alimenti e nei mangimi, la fissazione di limiti massimi ammissibili rappresenta
uno dei momenti più incisivi al fine di
salvaguardare la salute dell’uomo e degli animali e di armonizzare la gestione
112
M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera
brasiliane dal Brasile, di fichi secchi e
nocciole dalla Turchia. Per quanto concerne gli aspetti etici sono rilevanti le
considerazioni legate alla disponibilità
di risorse alimentari nei Paesi in via di
sviluppo, dove la contaminazione da micotossine è particolarmente elevata a
causa delle favorevoli condizioni geografiche ed ambientali e dello scarso
impiego di buone pratiche agricole.
Questi Paesi sono spesso economicamente dipendenti dall’esportazione di
materie prime e limiti troppo restrittivi
Tabella 3a
nei Paesi importatori possono comportare l’utilizzo “in loco” di derrate non idonee all’esportazione. Inoltre in questi
Paesi, in cui le risorse alimentari sono
già limitate, l’esclusione dal consumo di
derrate contaminate può portare alla
mancanza di sufficienti risorse alimentari e ad un eccessivo aumento dei
prezzi.
La complessità dei fattori che influenzano la normativa rende molto
lento e controverso, a livello internazionale, il processo di definizione di li-
Limiti per le aflatossine in Europa*
µg/kg
µg/kg
µg/kg
B1
B1+B2+G1+G2
M1
Arachidi, frutta a guscio e frutta secca e relativi prodotti di
lavorazione destinati al consumo umano diretto e all’utilizzazione
quali ingredienti per la produzione di derrate alimentari
2,0
4,0
–
Arachidi da sottoporre a trattamenti fisici prima del consumo
umano o dell’impiego come ingrediente di derrate alimentari
8,0
15,0
–
Frutta a guscio e frutta secca da sottoporre ad altri trattamenti
fisici prima del consumo umano o dell’impiego quale
ingrediente di derrate alimentari
5,0
10,0
–
Cereali e relativi prodotti della lavorazione destinati al consumo
umano diretto o all’impiego come ingrediente di derrate alimentari
2,0
4,0
–
Cereali destinato alla cernita o altri trattamenti fisici prima
del consumo umano o dell’impiego quale ingrediente
di derrate alimentari
2,0
4,0
–
Granoturco da essere sottoposto a trattamento fisico prima
del consumo umano o dell’impiego quale ingrediente
di derrate alimentari
5,0
10,0
–
–
–
0,05
5,0
10,0
–
Matrice alimentare
Arachidi, frutta a guscio e frutta secca
Cereali
Latte
Spezie: peperoncini, pepe di caienna, paprika, pepe bianco,
pepe nero, noce moscata, zenzero e curcuma
*Reg. (CE) N. 2174/2003 del 12 dicembre 2003
113
Le micotossine nella filiera agroalimentare
Tabella 3b
Limiti per la patulina in Europa*
µg/kg
Matrice alimentare
Succhi di frutta, in particolare succo di mela e ingredienti di succo di frutta
presenti in altre bevande compreso il nettare di frutta
50,0
Bevande alcoliche, sidro e altre bevande fermentate derivate dalle mele
o contenenti succo di mela
50,0
Prodotti contenenti mele allo stato solido, compresi la composta di mele
e il passato di mele destinati al consumo
25,0
Succo di mela pronto al consumo e prodotti contenenti mele allo stato solido,
compresa la composta e il passato di mele per lattanti e bambini nella prima infanzia
etichettati e venduti come tali
10,0
* Reg. (CE) N. 1425/2003 dell’11 agosto 2003
Tabella 3c
Limiti per l’ocratossina A in Europa*
µg/kg
Matrice alimentare
Cereali e prodotti a base di cereali
Cereali non lavorati
5,0
Tutti i prodotti derivati dai cereali
3,0
Frutti essiccati della vite
10,0
* Reg. (CE) N. 472/2002 dell’11 agosto 2002
miti massimi tollerabili; un ruolo di rilievo nell’armonizzazione dei limiti è attualmente rivestito dal CODEX Alimentarious.
In Europa il processo di regolamentazione delle micotossine negli alimenti
è iniziato nel 1998 con il Regolamento
CE 1525/98; attualmente i limiti sono
stabiliti dai Regolamenti CE 472/2002,
2174/2003 e 1425/2003. I limiti fissati da queste normative sono riassunti nelle tabelle 3a, 3b, e 3c. Attualmente sono in discussione a livello comunitario limiti per fumonisina, DON e
zearalenone. In aggiunta ai limiti massimi ammissibili in vigore in Europa, la legislazione italiana prevede limiti massimi ammissibili per altre micotossine in
talune matrici alimentari (Tabella 3d)
(Circolare n. 10 del 9 giugno 1999).
Principali micotossine
Vengono di seguito riportate alcune informazioni sulle principali micotossine, rimandando alle letture consigliate per ulteriori approfondimenti.
114
M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera
Tabella 3d
Valori massimi ammissibili per le micotossine nella legislazione italiana*
Matrice
alimentare
µg/kg
B1
Alimenti
per l’infanzia
Spezie
10
µg/kg
B1+B2+G1+G2
µg/kg
M1
µg/kg
ocratossina A
0,1
0,01
0,5
µg/kg
patulina
µg/kg
zearalenone
20
20
Caffè crudo
8
Caffè tostato
4
Cacao**
2
Cioccolato**
0,5
Birra
0,2
Carne suina e
prodotti derivati
1
Cereali e prodotti
derivati
Piante infusionali
o loro parti
100
5
10
* Gazzetta Ufficiale N. 135 - Circolare 9 giugno 1999, N. 10
**(punto 2, lettere a,b,c,d del decreto legislativo n. 178/2003)
***(punto da 3 a 10 del decreto legislativo n. 178/2003)
Aflatossine
re superiori alla media e piovosità inferiori alla media. La presenza d’insetti
spesso coincide con alti livelli di aflatossine specie nel caso della piralide
del mais (Ostrinia nubilalis).
Le aflatossine sono sostanze chimicamente riferibili alla difuranocumarina. Fra le 17 aflatossine finora isolate
solo quattro sono considerate rilevanti,
le aflatossine B1, B2, G1 e G2, sia per
diffusione, che per tossicità. La serie G
contiene un anello lattonico in D, mentre la serie B contiene un anello ciclopentenonico che è responsabile della
maggiore tossicità della serie B. Sono
Le aflatossine sono prodotte da
specie di Aspergillus, principalmente
A. flavus e A. parasiticus. Questi funghi sono ubiquitari, ma sono più abbondanti nei climi subtropicali e caldoumidi a latitudini da 26° a 35° a Nord e
a Sud dell’equatore. I prodotti passibili
di contaminazione in campo includono
mais, arachidi, cotone, spezie, mandorle, pistacchi, nocciole e noci del Brasile. La produzione di aflatossine da parte dell’A. flavus risulta particolarmente
abbondante in stagioni con temperatu-
115
Le micotossine nella filiera agroalimentare
sostanze cristalline, solubili in solventi
organici moderatamente polari, come
cloroformio, metanolo, dimetilsolfossido, poco solubili in acqua (10-30
µg/ml) e insolubili nei solventi organici
non polari. Le aflatossine allo stato puro sono stabili in assenza di luce e degradate dalle radiazioni UV, instabili in
condizioni di pH <3 e >10 e in presenza di agenti ossidanti. Queste tossine sono dotate di fluorescenza nativa,
che è utilizzata per l’analisi e per la cernita delle unità contaminate (ad esempio per fichi secchi e arachidi).
Le formule chimiche delle aflatossine sono riportate in figura 3.
L’aflatossina B1 è genotossica e
cancerogena a carico del fegato, anche gli effetti tossici delle altre aflatossine sono riconducibili a epatotossicità,
Figura 3
O
O
O
B2
OCH3
O
O
L’ocratossina A è prodotta principalmente da funghi del genere
Aspergillus (principalmente A. ochraceus) e Penicillium (principalmente
P. verrucosum). Per la vite e i prodotti derivati, incluso il vino, la contaminazione da ocratossina A è riferibile
predominantemente all’attacco dell’A.
carbonarious. A 24 °C i valori di Aw
(attività dell’acqua libera) ottimali per
la produzione di tossina sono nell’intervallo 0,95–0,99 a seconda dell’organismo produttore. Per valori di Aw
ottimali, gli intervalli di temperatura in
O
O
O
G1
Ocratossina A
Struttura chimica delle aflatossine B1, B2, G1, G2, M1
O
B1
iperplasia dei condotti biliari, emorragia
del tratto gastrointestinale e dei reni.
O
O
O
O
OCH3
O
O
O
OCH3
G2
O
O
O
O
116
O
O
O
OCH3
M1
O
O
O
O
OCH3
M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera
Figura 4
COOH
Struttura chimica
dell’ocratossina A
O
OH
NH
O
O
Cl
cui si ha formazione di tossina sono
12-37 °C per l’A. ochraceus e 4-31 °C
per il P. verrucosum. Nei cereali l’OTA
è prodotta dai Penicillium più frequentemente che dagli Aspergillus, trattandosi in genere di una contaminazione
da stoccaggio. Gli effetti tossici
dell’OTA includono una marcata nefrotossicità con necrosi tubulare dei reni,
danni al fegato, enteriti, teratogenicità
e cancerogenicità a carico dei reni. Gli
alimenti più suscettibili alla contaminazione da OTA includono cereali (frumento, mais, orzo e avena), caffè e cacao, formaggi e carne suina.
La formula chimica dell’OTA è riportata in figura 4.
Tricoteceni
I tricoteceni sono un numeroso
gruppo di sostanze prodotte da varie
specie di Fusarium, Myrothecium,
Stachybotrys, Trichoderma, Cephalo-
117
sporium, Trichothecium e Verticimonosporium. Sono attualmente noti
circa 170 tricoteceni, tutti con un sistema ad anello tetraciclico sesquiterpenoide 12,13-epossitricotecen9-ene, in cui la tossicità è dovuta al
gruppo epossidico. La contaminazione si ha principalmente in frumento,
orzo, segale e mais. I tricoteceni del
tipo A includono principalmente le
tossine T-2, HT-2 e diacetossiscirpenolo (DAS), quelli del tipo B includono principalmente il DON, noto come
vomitossina, il nivalenolo (NIV), il 3acetildeossinivalenolo (3-AcDON) e il
15-acetildeossinivalenolo (15-AcDON). La specie più tossica di questo gruppo è la tossina T-2, seguita
dal DAS e dal NIV. Il DON è la tossina più diffusa e per questo più studiata, anche se negli studi di tossicità
acuta ha dimostrato una bassa tossicità. Gli effetti tossici sull’uomo riferibili alle tossine di questo gruppo includono nausea, vomito, disordini ga-
Le micotossine nella filiera agroalimentare
Figura 5
Struttura chimica dei
principali tricoteceni
H
H3C
1
10
2
11
9
H
H
O
8
6
12
5
7
O
CH3
R4
R = OH o gruppi acil-ossi
4
H
CH2
15
R2
14
R3
rum e F. sacchari). Lo zearalenone è
stato frequentemente riscontrato insieme ai tricoteceni ed è considerato, dopo
il DON, la micotossina più frequentemente presente nel mais. Informazioni
dettagliate sulle proprietà chimico-fisiche dello zearalenone possono essere
reperite dalle pubblicazioni dello IARC.
La struttura chimica dello zearalenone è riportata in figura 6.
strointestinali e mal di testa. Un’eccellente rassegna dei dati chimico-fisici relativi a questo gruppo di micotossine è stata pubblicata dall’WHO e
dallo IARC.
La struttura chimica dei principali
tricoteceni è riportata in figura 5.
Zearalenone
Lo zearalenone (ZEA) è una tossina
con effetti estrogenici a struttura non
steroidea prodotta da funghi del genere
Fusarium (F. graminearum, F. culmoFigura 6
R1
3
O
13
Fumonisine
Le fumonisine sono prodotte da
OH
Struttura chimica dello
zearalenone
O
CH3
H
O
HO
O
118
M. Miraglia, F. Debegnach, C. Brera
Figura 7
Struttura chimica delle
fumonisine
CH3 OR
CH3 R'
NHR''
H3C
CH3
OR
OH
FB1 R=COCH2CH(CO2H)CH2CO2H;
R'=OH;
FB2 R=COCH2CH(CO2H)CH2CO2H;
R'=R''=H
OH
R''=H
Figura 8
O
Struttura chimica della
patulina
O
O
OH
funghi del genere Fusarium, soprattutto F. verticilloides e F. proliferatum. Il cereale più frequentemente
contaminato da queste tossine è il
mais, ma sono state ritrovate anche
nel sorgo. Dal punto di vista della
struttura le fumonisine sono correlate
alle basi sfingoidi. Il consumo di mais
contaminato da fumonisine è stato
associato ad elevate incidenze di tumore esofageo. Studi di tossicità sugli animali evidenziano che il fegato è
un organo bersaglio in tutte le specie
studiate, il rene solo per alcune di
queste. Nei cavalli il consumo di mais
contaminato da fumonisina è collega-
to alla leucoencefalomalacia.
La struttura chimica delle fumonisine è riportata in figura 7.
Patulina
La patulina è una tossina prodotta da un numero elevato di funghi del
genere Aspergillus e Penicillium. È
stata ritrovata in frutta, ortaggi e cereali ammuffiti, ma la sua presenza è
correlata soprattutto alla contaminazione da P. expansum sulle mele.
Il grado di contaminazione è generalmente proporzionale a quello di am-
119
Le micotossine nella filiera agroalimentare
muffimento, ma la tossina rimane confinata alle parti ammuffite. Essendo la
patulina resistente ai processi industriali di lavorazione della frutta, i prodotti da questi derivanti rappresentano
le principali fonti di assunzione.
Da un punto di vista chimico la
patulina è un lattone, solubile in acqua, etanolo ed acetone. Si tratta di
un composto di citotossicità mediata
da un aumento della permeabilità di
membrana. Inibisce “in vitro” numerosi enzimi, inclusi la DNA polimerasi e
l’RNA polimerasi. Gli studi di cancerogenicità e di mutagenicità finora
condotti non sono sufficienti per fornire indicazioni circa questa tipologia
di effetti.
La struttura chimica della patulina
è riportata in figura 8.
bili alla presenza di queste tossine.
Da un punto di vista conoscitivovalutativo, nonostante i progressi effettuati negli ultimi decenni, è necessario che vengano ancora acquisite
molte informazioni per giungere ad un
trattamento esaustivo della problematica. In particolare meriterebbero ulteriori approfondimenti argomenti quali
la genomica delle specie tossigene, la
valutazione del rischio per le tossine
emergenti e vari aspetti della diagnostica, inclusa la valutazione statistica
degli errori riferibili al campionamento,
nonché lo sviluppo di metodi rapidi
per il dosaggio delle micotossine.
Riferimenti bibliografici
FAO/WHO (1995), “Application of risk analysis to
food standards issues. Report of the Joint
FAO/WHO Expert Consultation”, Geneva, 13 - 17
March.
Conclusioni
Le micotossine rappresentano uno
degli aspetti più attuali e rilevanti della
contaminazione di alimenti e mangimi.
L’argomento si presenta particolarmente complesso, in quanto le considerazioni relative all’impatto sulla salute dell’uomo e degli animali si interfacciano con quelle relative alle pesanti
ricadute economiche e politiche riferi-
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121
122
S
icurezza tecnologica
in alimentazione
I. De Noni
Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari e Microbiologiche
Facoltà di Agraria. Università degli Studi di Milano
Fin dall’antichità l’uomo ha imparato
a trattare gli alimenti di origine animale e
vegetale per aumentarne la conservabilità e la palatabilità. Sino al XVIII secolo,
tuttavia, questi obiettivi sono stati raggiunti sfruttando tecniche empiriche sostanzialmente invariate e solo con “l’appertizzazione”, agli inizi del 1800, si può
parlare di tecnologia applicata alla trasformazione degli alimenti. L’appertizzazione prende il nome dal cuoco
francese Nicholas Appert che vinse i
12.000 franchi del concorso istituito da
Napoleone per lo sviluppo di un metodo
per produrre alimenti di lunga conservabilità da destinare alle truppe. La soluzione proposta da Appert prevedeva il
confezionamento di carne e verdure bollite in recipienti di vetro chiusi con tappi
di sughero sigillati con pece e la successiva immersione degli stessi recipienti in acqua bollente. Il risultato fu la
preparazione della prima conserva alimentare, anche se solo con gli studi di
Pasteur, più di 50 anni dopo, si arrivò a
porre le basi scientifiche e conoscitive
sulle quali tale pratica si fondava, individuando nella contaminazione microbica
la principale causa del decadimento della sicurezza d’uso e della qualità dell’alimento. Da allora, lo sviluppo della tecnologia alimentare è enormemente progredito e ha portato alla messa a punto,
negli ultimi 50 anni, di processi sempre
più perfezionati, in grado di garantire la
sicurezza dei prodotti alimentari nel rispetto delle loro proprietà nutrizionali e
sensoriali. Oggi l’industria alimentare
trasforma più del 70% della produzione
agricola nazionale ed è, quindi, un fattore chiave per la sicurezza alimentare che
a sua volta rappresenta il più importante
fattore di fidelizzazione del consumatore
verso l’industria stessa.
Peraltro, il tema della sicurezza rappresenta l’elemento portante della politica dell’Unione Europea nel settore degli
alimenti. Il “Libro bianco sulla sicurezza
alimentare” indica in questo senso le linee strategiche fondamentali, preve-
123
Sicurezza tecnologica in alimentazione
dendo sia il rafforzamento e l’adeguamento della legislazione in vigore sia
l’adozione di sistematiche misure di prevenzione e controllo a tutti i livelli della filiera. L’intenzione di condividere la responsabilità della sicurezza alimentare
attraverso un approccio dal “campo alla
tavola” è oggi una necessità. Non è, infatti, pensabile di demandare alle sole
tecnologie alimentari questo importante
ruolo che, in ogni caso, non potrebbe
essere attuato in maniera efficace trasformando materie prime di scarsa qualità. Infatti, la qualità del prodotto alimentare finito viene in gran parte impostata a livello di produzione in campo o
in azienda, attraverso una corretta gestione delle pratiche colturali e zootecniche. Da questo punto di vista l’introduzione di sistemi obbligatori di autocontrollo a livello di produzione primaria, peraltro cogenti per le aziende di trasformazione, può costituire un elemento determinante per la sicurezza del prodotto
finito.
La sicurezza alimentare è il presupposto della qualità dell’alimento e comporta l’assenza di qualsiasi pericolo per il
consumatore che utilizzi l’alimento correttamente preparato, conservato e manipolato. La sicurezza d’uso non è tuttavia
l’unico obiettivo dei processi di trasformazione la cui applicazione determina anche
una maggiore conservabilità e, in taluni
casi, un miglioramento delle proprietà funzionali e sensoriali del prodotto (Figura 1).
Difficilmente questi obiettivi possono essere raggiunti nel rispetto integrale del
valore biologico della materia prima. L’innovazione e lo sviluppo delle tecnologie
alimentari sono stati quindi indirizzati al
raggiungimento degli obiettivi citati attraverso la minimizzazione del danno all’alimento, che è prevalentemente di tipo
meccanico e termico. Questo tipo di evoluzione è stato favorito anche dalla necessità di soddisfare la crescente esigenza del consumatore di avere prodotti
sempre meno trattati e sempre più simili
al prodotto non trattato, normalmente
considerato come riferimento di genuinità
e naturalità. In realtà, questa convinzione
è vera solo in parte e il rischio di minime
variazioni delle proprietà nutrizionali e
sensoriali è spesso ampiamente compensato dalla sicurezza d’uso garantita
solo da una corretta tecnologia di lavorazione; quest’ultima, in ogni caso, deve
assicurare l’assenza di contaminazioni
chimiche o microbiche. Durante la trasformazione, infatti, il prodotto può subire
contaminazioni diverse in funzione del
processo applicato ovvero del tipo di modificazioni (pH, umidità, superficie esposta ecc.) intervenute che possono favorire lo sviluppo e/o la selezione di partico-
124
I. De Noni
Figura 1
Effetti dei principali processi tecnologici su alcune caratteristiche degli alimenti
conservabilità
modificazione
delle proprietà
sensoriali
lari specie microbiche. Il processo di lavorazione deve quindi essere attuato attraverso rigorose pratiche mirate a garantire
l’igienicità dell’intero processo. Per questo scopo l’industria di trasformazione ricorre oggi a sistemi di gestione della
qualità che implicano l’adozione di buone
pratiche di produzione (GMP, Good Ma-
frittura
irraggiamento
fermentazione
liofilizzazione
essiccazione
congelamento
blanching
sterilizzazione UHT
sterilizzazione
pastorizzazione
max
mantenimento
delle proprietà
nutrizionali
nufacturing Practice) e a procedure di
autocontrollo (HACCP, Hazard Analysis
Critical Control Points) che garantiscono
standard costanti di sicurezza igienica e di
qualità. Senza approfondire l’argomento,
è tuttavia utile ricordare i principi fissati
dal metodo HACCP che impongono alle
aziende alimentari:
125
Sicurezza tecnologica in alimentazione
1) l’analisi dei potenziali rischi per gli
alimenti;
produttore e di legislatore. I microrganismi sono presenti nella maggior parte
degli alimenti e delle loro materie prime,
tuttavia è evidente che solo una minima
parte di essi sia a rischio. Al contrario
(come più avanti discusso), certi alimenti
devono la loro stabilità e sicurezza alla
presenza di microrganismi o meglio all’attività metabolica di questi. Come ovvio,
sono il livello e il tipo di contaminazione
che determinano salubrità e conservabilità dell’alimento ma, anche il tipo di tecnologia applicabile per ottenere prodotti
con tali caratteristiche. La distruzione totale o selettiva dei microrganismi e l’inibizione della loro crescita si può ottenere
attraverso l’applicazione di processi di
conservazione basati sull’utilizzo di:
1) trattamenti fisici principalmente attuati mediante apporto o sottrazione
di calore o attraverso la riduzione del
contenuto di acqua;
2) l’individuazione dei punti in cui possono verificarsi dei rischi per gli alimenti;
3) l’adozione di opportune procedure di
controllo e di sorveglianza dei punti
critici, cioè di quei passaggi della filiera di lavorazione che possono incidere sulla sicurezza dei prodotti finiti.
Viene quindi introdotto un principio
innovativo che prevede l’obbligo di un
sistema di gestione e controllo sistematico e continuo dell’intero processo produttivo e delle problematiche di sicurezza alimentare legate alla sua attuazione.
L’HACCP è quindi un sistema di controllo in tempo reale che permette di attuare immediati interventi correttivi. Da
questo punto di vista, ciò rappresenta
una vera e propria rivoluzione rispetto a
quanto avveniva in precedenza, quando
il controllo del prodotto finito era la sola
garanzia dell’igienicità e sicurezza
dell’intero processo.
Come detto, la sicurezza d’uso è un
prerequisito per qualsiasi alimento e
l’obiettivo principale di tutte le tecnologie
alimentari. La contaminazione microbica
rappresenta sicuramente il primo e più
sentito problema in termini di sicurezza
alimentare a livello di consumatore, di
2) tecniche biologiche che sfruttano la
crescita e l’attività metabolica di
specifici microrganismi;
3) conservanti chimici ad attività battericida o batteriostatica (Figura 2).
Le numerose tecnologie oggi disponibili non devono far pensare che il processo di risanamento possa in ogni caso compensare la scarsa igiene del prodotto da trattare. Come accennato, il più
126
I. De Noni
efficace processo di risanamento è
sempre quello effettuato all’origine della
filiera. La tecnologia applicata deve ovviamente considerare la natura e il livello
di rischio microbiologico legato sia al tipo di prodotto, e quindi alla sua suscettibilità verso particolari contaminazioni,
sia alla fascia di consumatori cui è destinato. Attualmente le tecnologie di risanamento e conservazione sono prevalentemente orientate verso l’utilizzo dei
metodi fisici, e in particolare di quelli più
rispettosi delle proprietà sensoriali e nutrizionali di materie prime e prodotti finiti.
In questa direzione, un ruolo importante
viene svolto dall’accoppiamento di metodi fisici classici (refrigerazione e riscal-
damento) con nuove tecnologie (filtrazione su membrana, alte pressioni) e
con appropriate tecniche di condizionamento e packaging (sottovuoto, in atmosfere modificate o controllate).
Non essendo possibile trattare le
tecnologie di ogni singola filiera agroalimentare, verranno descritte per linee
orizzontali le principali tecnologie di risanamento e discusse le problematiche relative alla sicurezza tecnologica dei prodotti ottenuti. Per lo scopo della trattazione verranno solo accennate le caratteristiche degli impianti utilizzati, mentre non
verranno discusse le tecnologie di conservazione mediante approccio chimico,
ossia attraverso l’aggiunta di additivi.
Figura 2
Processi tecnologici in grado di garantire o migliorare la sicurezza d’uso degli alimenti
chimici
fisici
riduzione a w
salatura
zuccheraggio
riscaldamento
raffreddamento
biologici
irraggiamento
pastorizzazione
sterilizzazione
refrigerazione
congelamento
essiccazione
liofilizzazione
congelamento
tecnologie
di filtrazione
a membrana
fermentazioni
microfiltrazione
raggi γ e χ
conservanti
127
alte pressioni
atmosfere
modificate
Sicurezza tecnologica in alimentazione
inattivare ma anche da altri numerosi
fattori in grado di aumentare (presenza
di grasso soprattutto) o diminuire (basso
pH, preventivo congelamento, fase di
crescita logaritmica dei microrganismi,
alto valore di acqua libera o umidità) la
termoresistenza dei batteri stessi. Indicativamente lieviti e muffe sono distrutti
prima dei batteri. Tra questi, i Gram-negativi sono più sensibili all’innalzamento
della temperatura mentre le forme sporulate di tutti i microrganismi sono molto
più termoresistenti di quelle vegetative.
La distruzione termica di qualsiasi microrganismo può essere descritta da una
semplice relazione matematica, graficamente rappresentata in figura 3, dove N
indica la carica microbica inizialmente
presente nel prodotto e t il tempo di applicazione del trattamento. La relazione
tra queste due variabili è definita, nel si-
Trattamenti termici
Tra le tecnologie di risanamento, i
trattamenti termici (anche condotti a livello domestico) sono senza dubbio i più
diffusi. Per una migliore comprensione
degli effetti del trattamento termico sulla
sicurezza del prodotto finito è opportuno
descrivere brevemente i principi che regolano la distruzione termica dei microrganismi. L’evoluzione e l’efficacia dei
trattamenti termici sono, infatti, strettamente legate allo studio della cinetica di
distruzione termica dei microrganismi
comparata allo studio della cinetica di
degradazione dei principi nutritivi dell’alimento e alla possibile formazione di sostanze indesiderate. I parametri di processo, ossia i binomi tempo/temperatura utilizzati, dipendono dal tipo di microflora banale o patogena che si desidera
Figura 3
Distruzione termica dei
microrganismi
log N N (ufc/kg)
107
7
6
106
5
105
4
104
3
103
microrganismo A
microrganismo B
D: tempo di riduzione decimale
DA
10
128
20
DB
30
40
50
t (s)
I. De Noni
stema di assi cartesiani, da una retta detta “di sopravvivenza”. In termini pratici,
questa relazione indica che, a una data
temperatura letale, la velocità di distruzione di un microrganismo è proporzionale al
numero di microrganismi viventi presenti
nel prodotto all’istante considerato (la
stessa legge può essere applicata anche
a processi atermici come la filtrazione su
membrana). La diversa termoresistenza
dei microrganismi, a parità di temperatura
di trattamento, è descritta dall’inclinazio-
ne della retta ossia, in termini matematici,
dal suo coefficiente angolare, definito come “tempo di riduzione decimale” o D. In
pratica, D rappresenta il tempo necessario, a una determinata temperatura, per
ridurre di un ciclo logaritmico (da 105 a
104ufc/kg ad esempio) il numero di microrganismi presenti nell’alimento. Maggiore è il suo valore, maggiore risulta la
termoresistenza e quindi minore la velocità di distruzione del microrganismo considerato (Tabella 1). In genere, il valore di
Tabella 1
Termoresistenza di alcuni microrganismi
Mezzo
T (°C)
D* (min)
z** (°C)
tampone
60
3,2
7,5
Streptococcus pyogenes
latte
66
0,2-2
5-7
Mycobacterium tubercolosis
latte
66
0,16-0,33
4-6
Salmonella spp.
latte
66
0,07-0.2
4,0-5,2
-
66
0,07-0,2
4,0-5,2
Staphylococcus aureus
latte
66
0,2-1
5,0-5,2
Yersinia enterocolitica
latte
62,8
0,01-0,3
-
Escherichia coli
latte
62.8
0,13
4,6
Pseudomonas fluorescens
Brucella spp.
Lactococcus lactis spp. lactis
Listeria monocytogenes
siero
62.8
0,32
7,3
tampone
71
0,01-0,04
4-6
6-10
latte
121
0,06-0,3
Bacillus cereus, forma vegetativa
acqua
70
0,013-0,016
-
Bacillus subtilis, spore
acqua
121
0,3-0,4
6-10
Bacillus subtilis, forma vegetativa
Bacillus cereus, spore
acqua
55
1-5,6
-
Bacillus stearothermophilus, spore
latte
121
4-6
8-12
Clostridium botulinum, spore
latte
121
0,05-0,25
6-10
Aspergillus spp.
tampone
55
2
4
Saccharomyces cerevisiae
tampone
60
1
5
*D: tempo di riduzione decimale alla temperatura indicata
**z : incremento di temperatura necessario per ridurre a 1/10 il valore di D
129
Sicurezza tecnologica in alimentazione
raddoppierebbe (2 x DA) e, contemporaneamente, aumenterebbe il danno termico a carico dei principali macrocomponenti del prodotto. È quindi evidente
l’importanza della qualità microbiologica
del prodotto da trattare e di tutte le misure a monte della filiera in grado di operare un risanamento preventivo.
La seconda considerazione deriva
dall’andamento esponenziale che caratterizza la distruzione termica dei microrganismi; ne risulta che nessun trattamento termico, per quanto intenso, può
azzerare una data popolazione microbica
che, invece, si riduce del 90% (106 ,
105 .….10-6, 10-7, etc.) ogni D secondi,
senza tuttavia diventare mai pari a zero.
Questo concetto deve essere interpretato in termini statistici: ad esempio, la riduzione della carica microbica a valori di
10-7 ufc/kg deve essere interpretata come la possibilità di trovare un
microrganismo o spora ogni 10.000 tonnellate (10-7 kg) di prodotto. È evidente
che l’opportunità di abbassare tale probabilità dovrà essere valutata anche in
rapporto alla necessità di ridurre quanto
più possibile la degradazione delle proprietà sensoriali e nutrizionali dell’alimento. In pratica, per ogni processo di risanamento termico vengono fissati parametri minimi di riferimento di inattivazione
microbica per la verifica dell’efficacia del
D viene dato a 121 °C, temperatura cui
viene comunemente condotta la sterilizzazione in autoclave con 1 atm di sovrapressione e può variare da secondi a minuti passando dalle forme vegetative a
quelle sporulate.
La semplicità della relazione così come esposta non rende conto dei numerosi fattori, oltre al tipo di microrganismo,
che possono influenzarla (pH, umidità
ecc.) e che, peraltro, vengono controllati
e sfruttati nei vari processi della tecnologia alimentare. Un simile approccio, tuttavia, ha un indubbio significato applicativo nella valutazione della sicurezza tecnologia degli alimenti, permettendo di fare qualche importante considerazione.
La prima è che l’abbassamento della carica microbica è di tipo esponenziale in
funzione dell’andamento lineare del tempo. A ciò consegue che a parità di tempo di trattamento la carica residua sarà
tanto più elevata quanto più elevata era
la carica iniziale. Ovvero, la stessa carica
microbica finale viene raggiunta con
tempi di trattamento linearmente più lunghi all’aumentare della carica iniziale.
Nella figura 3 e con riferimento al microrganismo A, la riduzione della carica
da un valore iniziale di 105 a un valore finale di 104 comporta un tempo di trattamento pari a DA secondi. Se la carica
iniziale fosse 106, il tempo di trattamento
130
I. De Noni
trattamento stesso. Il trattamento di sterilizzazione, ad esempio, deve garantire
almeno 12 riduzioni decimali del numero
di spore di Clostridium botulinum. Ad
esempio, con una carica iniziale pari a
105 per kg di prodotto, la sterilizzazione
deve garantire una carica finale non superiore a 10-7 per kg di prodotto.
Come accennato, ogni microrganismo ha una propria resistenza termica,
tuttavia un aumento della temperatura di
trattamento ha come effetto l’accelerazione della sua distruzione. Questo fenomeno viene tecnologicamente descritto dal valore di z che rappresenta
l’incremento di temperatura necessario
per ridurre a un decimo il valore di D,
ossia per aumentare di 10 volte la velocità di distruzione del microrganismo
(Tabella 1). Per temperature comprese
tra 100 e 140 °C, esso è in genere pari
a 5 °C per le forme vegetative e 10 °C
per le spore termoresistenti. Conoscendo i valori di D e z è quindi possibile ottenere lo stesso effetto battericida utilizzando diversi e infiniti binomi
tempo/temperatura.
L’aumento di temperatura ha come effetto anche l’accelerazione di altre reazione di degradazione spesso
indesiderate, per esempio quelle a carico dei nutrienti. La relazione che lega l’incremento della velocità di una
reazione all’aumentare della temperatura è rappresentata dall’energia di attivazione (Ea) della reazione stessa e
dal valore del suo “coefficiente di temperatura” (Q10) (Tabella 2). La distruzione dei microrganismi presenta i più
elevati valori di Q10 tra le reazioni che
possono avvenire in un prodotto alimentare. Ne consegue che, se lo
scopo del trattamento è l’inattivazione
totale o parziale dei microrganismi
Tabella 2
Effetto della temperatura
sulla velocità di alcune
reazioni
Molte reazioni chimiche
Molte reazioni enzimatiche
Energia di attivazione
(kJ/mole)
Q10*
(a 100 °C)
80-125
2-3
40-60
1,4-1,7
Reazione di Maillard
100-180
2.4
Denaturazione proteine
200-600
6-175
450
50
Distruzione spore
400-600
8-10
Distruzione batteri
250-330
100
Inattivazione enzimi
*Q10: incremento della velocità di reazione per un aumento della temperatura pari a 10°C.
131
Sicurezza tecnologica in alimentazione
Figura 4
Condizioni
tempo/temperatura
adottate nei principali
trattamenti di
risanamento termico
degli alimenti
t (s)
6000
4000
sterilizzazione in
contenitore chiuso
2000
pastorizzazione in
contenitore chiuso
1000
600
400
200
100
sterilizzazione UHT
in flusso continuo
60
40
20
pastorizzazione
in flusso continuo
10
6
4
2
T (°C)
1
60
80
100
120
140
160
Pastorizzazione
minimizzando gli effetti degradativi
della qualità del prodotto, le condizioni
di processo ottimali corrispondono a
temperature sempre più alte applicate
per tempi sempre più brevi. Su questi
principi fondamentali sono basati i
moderni processi di pastorizzazione e
sterilizzazione applicati a prodotti allo
stato sfuso o confezionati (conserve).
I due processi termici si diversificano
comunque per obiettivi, condizioni di
processo (Figura 4), caratteristiche e
durabilità dei prodotti ottenuti.
La pastorizzazione è un trattamento termico relativamente blando condotto a temperature inferiori a 100 °C
con un riscaldamento minimo del prodotto ad almeno 72 °C per 15 secondi. Tale trattamento provoca la distruzione dei microrganismi patogeni potenzialmente presenti nel prodotto e la
riduzione (circa 2-4 cicli logaritmici)
della microflora banale in modo da
rendere l’alimento conservabile a tem-
132
I. De Noni
Sterilizzazione
perature di refrigerazione o mediante
altri mezzi di condizionamento. Al trattamento resistono le spore e molti enzimi (lipasi e proteasi), mentre il valore
nutrizionale e le caratteristiche sensoriali dell’alimento rimangono in gran
parte inalterati. La pastorizzazione di
prodotti sfusi avviene di norma in flusso continuo utilizzando scambiatori a
piastre ossia un sistema di piastre metalliche riunite tra loro e tra le quali
scorre in strato sottile (1-2 mm) il fluido di riscaldamento (acqua) e, in controcorrente, il prodotto fluido da riscaldare. Al termine del trattamento il prodotto viene rapidamente raffreddato
per impedire lo sviluppo della microflora
residua e infine confezionato. Alcuni
prodotti vengono pastorizzati anche già
confezionati, in genere per passaggio
in tunnel dove la confezione viene immersa in acqua calda o aspersa sempre con acqua o vapore. La pastorizzazione di prodotti con pH inferiore a 4,5
(vino, succhi di frutta e birra ad esempio) ha come principale obiettivo la distruzione di microrganismi ed enzimi
capaci di degradare il prodotto finito e
viene condotta in condizioni tempo/temperatura che considerano anche l’effetto
sinergico esercitato dall’acidità su crescita e resistenza dei microrganismi, come
più avanti descritto.
Il processo di sterilizzazione si propone di distruggere tutti i batteri in forma vegetativa e sporulata presenti nel
prodotto che, una volta trattato, risulta
stabile anche a temperatura ambiente.
Come spiegato in precedenza, non è
tuttavia possibile ottenere una sterilità
assoluta ma solo una sterilità cosiddetta
commerciale, ovvero quella ottenibile
con un trattamento termico in grado di
garantire almeno 12 riduzioni decimali
del numero di spore di Clostridium botulinum. Considerando che il valore di
D, a 121 °C, per Clostridium botulinum è pari a 15 secondi, il trattamento
a questa temperatura dovrà essere effettuato per 180 secondi (12 riduzioni
decimali, ognuna di 15 secondi). Se si
considera il valore di z dello stesso fenomeno, pari a 10 (Tabella 1), il tempo
di trattamento sarà invece di 18 secondi a 131 °C (180 s/10) ovvero di 1,8
secondi a 141 °C e così via.
Come accennato per la pastorizzazione, l’acidità del prodotto è un fattore
determinante per la scelta del binomio
tempo/temperatura di trattamento. Al riguardo, prodotti con un valore di pH inferiore o superiore a 4,5 subiscono, a
parità di effetto sanitizzante finale, trattamenti termici diversi e con apparecchia-
133
Sicurezza tecnologica in alimentazione
ture dedicate. Questo valore di pH rappresenta il fattore maggiormente limitante per la crescita e la germinazione delle
spore di Clostridium botulinum e, conseguentemente, per la produzione di
tossina. Per i prodotti acidi, in genere di
origine vegetale, sono quindi sufficienti
trattamenti a temperature inferiori a
100 °C, applicate al prodotto già confezionato in bottiglia, in contenitori di banda stagnata o altro idoneo materiale.
La sterilizzazione dei prodotti con
pH>4,5 avviene invece a temperature
superiori a 100 °C con apparecchiature
più complesse, la cui evoluzione ed efficacia sono, come detto, strettamente
legate allo studio cinetico degli effetti
desiderati o meno che avvengono
nell’alimento trattato a elevata temperatura. I sistemi utilizzati sono diversi per i
prodotti confezionati o per quelli sfusi.
Per i primi si passa dalla semplice autoclave ad apparecchiature più complesse
nelle quali lo scambio termico viene favorito dalla continua agitazione del contenitore. Per i prodotti sfusi, il riscaldamento avviene a 135-150 °C per qualche secondo in scambiatori a piastre o
per contatto diretto del vapore con il
prodotto da riscaldare (il vapore condensato viene eliminato per successiva evaporazione in una camera di espansione
sottovuoto, ad una temperatura di circa
70 °C). Sono questi, ad esempio, i due
processi utilizzati per la preparazione del
latte sterilizzato UHT. Nel caso dei prodotti sfusi alla sterilizzazione segue dapprima il rapido raffreddamento mirato a
ridurre il danno termico del prodotto e,
infine, il confezionamento asettico.
I microrganismi possono ridurre la sicurezza d’uso di un alimento anche attraverso la produzione di particolari tossine e
senza che vi sia un’evidente alterazione
dell’alimento stesso. Il pericolo di tossinfezioni è tuttavia condizionato da numerosi fattori in grado di favorire lo sviluppo
dei batteri responsabili della produzione
della tossina ovvero di determinare i livelli
di tossina presente. Molto importanti sono le condizioni tempo/temperatura di
conservazione e le caratteristiche dell’alimento (umidità e pH in particolare) che
possono favorire la produzione di tossina
da parte del microrganismo patogeno.
Con rare eccezioni, un “moderato” riscaldamento è in grado di inattivare la maggior parte delle tossine. Quella botulinica,
ad esempio, viene neutralizzata con trattamenti di 30 minuti a 80 °C o di qualche
minuto a 121 °C. Al contrario, l’enterotossina B di Staphylococcus aureus è
degradata solo a 100 °C per 30-40
minuti, quando temperature di soli 5060 °C sono già letali per le cellule.
Sebbene di minor frequenza rispetto
134
I. De Noni
alle contaminazioni batteriche e fungine,
le parassitosi possono rappresentare un
ulteriore fattore in grado di ridurre la sicurezza degli alimenti. I più comuni parassiti della carne vengono distrutti dal
calore e, quindi, la miglior profilassi consiste nella cottura del prodotto. Trichinella spiralis, ad esempio, è distrutta
dalla cottura uniforme della carne di
maiale a temperature superiori a 58 °C.
Allo stesso risultato si giunge congelando la carne a – 24 °C per 20 giorni, anche se il congelamento non risulta
ugualmente efficace su altri parassiti.
L’effetto positivo dei trattamenti termici sulla sicurezza d’uso dell’alimento
è legato anche alla distruzione dei virus
eventualmente presenti. Questo argomento, al pari di quelli sopra accennati
(tossinfezioni ecc.), è sviluppato in altri
capitoli del presente volume ai quali si
rimanda.
secondo, salve poche eccezioni, sono
sottoposti tutti gli ortaggi e alcuni tipi di
frutta prima dell’inscatolamento. Il blanching consiste in un breve trattamento
per immersione in acqua bollente, o per
iniezione di vapore, con il quale si intende eliminare l’aria e inattivare enzimi responsabili della degradazione del colore,
del sapore e della consistenza del prodotto finale. Con lo stesso trattamento,
tuttavia, si ottiene anche una parziale sanitizzazione superficiale del prodotto.
Refrigerazione
e congelamento
L’utilizzo sistematico del freddo nella conservazione degli alimenti è legato
all’inizio della produzione industriale di
ghiaccio nel 1800, fino alla comparsa
dei primi frigoriferi domestici agli inizi
del secolo scorso e all’immissione sul
mercato negli anni ’30 dei primi alimenti surgelati. La refrigerazione è oggi una
delle tecnologie più utilizzate sia per la
conservazione delle materie prime che
per la conservazione di prodotti finiti.
Allo stato refrigerato, ossia a temperature comprese tra 0 e 5 °C, il metabolismo delle cellule dei tessuti vegetali
o animali risulta rallentato così come
l’evolversi di reazioni chimiche e di alcu-
Altri trattamenti termici
Infine, tra i trattamenti termici è opportuno ricordare anche quelli effettuati
a livello domestico (in acqua, a vapore, al
forno, microonde ecc.) e il “blanching”. I
primi non sempre garantiscono il raggiungimento di temperature superiori ai
100 °C in tutte le parti del prodotto. Al
135
Sicurezza tecnologica in alimentazione
ni fenomeni fisici. Come precedentemente descritto nel capitolo relativo ai
trattamenti termici, è il valore di Q10 del
fenomeno che determina l’entità di questo rallentamento. Il risultato dell’abbassamento della temperatura è il miglioramento della conservabilità degli alimenti
ma non della loro qualità igienica. Infatti,
una temperatura inferiore a 10 °C impeTabella 3
Temperature minime di
crescita di alcuni batteri
patogeni potenzialmente
presenti negli alimenti
(Fonte: Manuale tecnico
Flair Flow Europe FFE
378A/00: “Gestione della
catena del freddo per la
qualità e la sicurezza
degli alimenti”, 2001)
Classe
Mesofili
Psicrotrofi
disce la crescita della maggior parte della microflora banale e patogena (l’unica
eccezione è rappresentata da Listeria
monocytogenes che si sviluppa bene
anche a 7 °C) (Tabella 3) ma non è in
grado di distruggerla né di inattivare
eventuali tossine presenti (Figura 5).
Da questo punto di vista, la sicurezza
d’uso dei prodotti refrigerati deve essere
Specie batterica
Temperatura minima
di crescita (°C)
Salmonella
+5,1/+8,7
Staphylococcus aureus
+9,5/+10,4
(per la crescita)
Escherichia coli
+14,3
(per la produzione della tossina)
Listeria monocytogenes
+7,1
Yersinia enterocolitica
-0,1 /+1,2
Figura 5
Influenza della
temperatura sulla
crescita microbica
Microrganismi
patogeni
Microrganismi
psicrotrofi*
37
rapida
moltiplicazione
10
rapida
moltiplicazione
lenta moltiplicazione
5
nessuna
moltiplicazione
0
-10
nessuna moltiplicazione,
lenta distribuzione raramente completa
-18
* microrganismi in grado di svilupparsi a temperature di refrigerazione
136
I. De Noni
in primo luogo assicurata dalla corretta
gestione del processo (velocità ed efficienza del raffreddamento, adeguata
circolazione d’aria, mantenimento rigoroso della temperatura di refrigerazione)
ma anche delle fasi di filiera che precedono e seguono la refrigerazione stessa, con particolare riferimento al mantenimento di una rigorosa catena del freddo dalla produzione al consumatore finale. Non bisogna dimenticare che sbalzi
di temperatura anche di 1 o 2 °C durante la conservazione possono dimezzare i tempi di duplicazione di alcuni batteri degradativi o patogeni (L. monocytogenes e Y. enterocolitica ad esempio) che ben si adattano alle basse temperature. È opportuno invece sottolineare come l’abbinamento con altri interventi tecnologici può notevolmente implementare la stabilità e la sicurezza degli alimenti refrigerati. Ci riferiamo al
preventivo trattamento termico del prodotto da refrigerare (blanching e pastorizzazione) o al confezionamento (sottovuoto, in atmosfera modificata) del prodotto refrigerato.
Al contrario della refrigerazione, il
congelamento, ossia il raffreddamento
a temperature ≤18 °C, arresta completamente la moltiplicazione e il metabolismo cellulare (Figura 5). Sebbene le
temperature utilizzate siano diverse,
è la quantità di acqua allo stato liquido
all’interno dell’alimento a costituire la
differenza fondamentale con la refrigerazione. Infatti, il congelamento associa
l’effetto favorevole delle basse temperature con il passaggio di stato dell’acqua in ghiaccio. Tale trasformazione
aumenta la concentrazione dei soluti
abbassando il valore di acqua libera
(aw) e, di conseguenza, la disponibilità
della stessa acqua come solvente e
reattivo per il metabolismo cellulare. In
pratica, nessun microrganismo è in
grado di svilupparsi a temperature inferiori a -10 °C e la formazione di cristalli
di ghiaccio all’interno della cellula e negli spazi intercellulari determina una
mortalità variabile in funzione del tipo di
batteri (i Gram-positivi sono in genere
più resistenti). Tale mortalità, tuttavia,
non è mai totale ed è fortemente dipendente dalla durata della conservazione a temperature di congelazione e
dalla dimensione dei cristalli di ghiaccio, fenomeno a sua volta influenzato
dalla velocità del congelamento. I prodotti congelati presentano quindi una
durabilità superiore a quelli refrigerati,
ma anche per essi la qualità igienica è
un presupposto e non il risultato del
congelamento che, quindi, non rappresenta un metodo di sanitizzazione microbiologica dell’alimento né di inattiva-
137
Sicurezza tecnologica in alimentazione
zione di spore o tossine eventualmente
presenti. Per queste ragioni non ci soffermeremo nella descrizione delle tecnologie attualmente utilizzate per la refrigerazione o il congelamento dei prodotti alimentari.
La surgelazione rappresenta una
tecnica di congelazione ultrarapida (ad
esempio con azoto liquido) che si effettua portando in pochi minuti la temperatura del prodotto a -30/-40° C. In
queste condizioni all’interno del prodotto si formano microcristalli di ghiaccio
che non ledono le pareti cellulari dei
tessuti vegetali e animali, aspetto di
grande importanza anche per la qualità
igienica dell’alimento una volta scongelato. Il mantenimento dell’integrità della
parete cellulare riduce infatti la quantità
di liquidi separati dal prodotto durante la
Figura 6
Valori di acqua libera
(aw) in grado di inibire
la crescita di alcuni
microrganismi e
caratteristici di alcuni
alimenti
fase di scongelamento. Quest’ultima
avviene, per diverse ragioni, in tempi
lunghi che abbinati alla presenza di essudati ricchi di sostanze nutritive, come
nel caso dei prodotti carnei, possono
conseguentemente favorire lo sviluppo
dei microrganismi sopravvissuti al congelamento.
Riduzione dell’acqua libera
La stabilizzazione microbiologica degli alimenti può essere ottenuta anche
attraverso la riduzione del loro contenuto di acqua o meglio mediante la riduzione del valore di acqua libera (aw).
L’acqua libera rappresenta la porzione di
acqua effettivamente disponibile per lo
sviluppo e l’attività dei microrganismi e
Pseudomonas, Y. enterocolitica,
Bacillus cereus, Cl. perfringes
L. monocytogenes, E. coli,
Cl. botulinum, Salmonella spp.
1.0
prodotti freschi
0,9
maggior parte dei batteri
lieviti
alimenti contenenti il 55%
di saccarosio o il 12% di NaCI
alimenti contenenti il 65% di saccarosio
o il 15% di NaCI, salumi, formaggi stagionati
farina, riso
Staphylococcus aureus, muffe
0.8
marmellata
batteri alofili
muffe xerofile
0.7
cioccolato
batteri osmofili
0.4
massima resistenza
termica delle spore
0.2
138
spezie, latte in polvere,
pasta secca, biscotti, crakers
I. De Noni
per l’evolversi dei fenomeni di deterioramento chimico ed enzimatico. Più alto
risulterà tale valore (in una scala da 0 a
1) minore saranno la conservabilità e la
sicurezza del prodotto. Tutti gli alimenti
freschi (frutta e verdura, carne e pesce)
mostrano valori di aw tra 0,98 e 0,99
che consentono la crescita della maggior parte dei microrganismi (Figura 6).
Al contrario, valori di acqua libera inferiori a 0,90 sono in grado di inibire la
crescita e la produzione di tossine della
maggior parte dei batteri. L’unico patogeno in grado di svilupparsi a valori più
bassi è Staphylococcus aureus. Le
muffe, pur potendosi sviluppare a valori
di aw ben più bassi, non sono più in
grado di produrre tossine a livelli inferiori a 0,85. L’abbassamento del valore di
aw riduce quindi progressivamente lo
sviluppo microbico fino all’arresto totale
della crescita in valori di tale indice inferiori a 0,50-0,60. Anche se l’azione
battericida è piuttosto modesta, la riduzione dell’acqua libera rappresenta comunque un efficiente sistema per rendere l’alimento più sicuro e conservabile. Come ovvio, la stessa riduzione non
ha alcun effetto sulle tossine eventualmente presenti se non abbinata a un
trattamento termico. Tecnologicamente
il valore di aw può essere abbassato per
disidratazione (mediante essiccazione o
liofilizzazione), per congelamento, per
salatura o zuccheraggio. In questi ultimi
due trattamenti, l’aggiunta di un soluto
(comunemente cloruro di sodio o saccarosio) determina un aumento della
pressione osmotica e l’abbassamento
del valore di aw.
La riduzione del valore di aw al diminuire dell’umidità è caratteristica per
ogni alimento: ciò comporta che a parità di umidità, due prodotti alimentari
possono presentare una conservabilità
significativamente diversa, ovvero, che
per ottenere la stessa conservabilità i
due prodotti dovranno subire, ad
esempio una disidratazione più o meno
spinta.
Molti prodotti alimentari, come formaggi a lunga stagionatura, alcuni insaccati, prugne, fichi secchi e prodotti
da forno, risultano facilmente conservabili soprattutto per i livelli di aw che li caratterizzano e che li rendono microbiologicamente stabili. Sullo sfruttamento
dello stesso principio si basano le tecniche di preparazione dei cosiddetti “alimenti a umidità intermedia”, soprattutto
prodotti dietetici e dolciari, nei quali la
riduzione del livello di aw (circa 0,7) viene ottenuto combinando la disidratazione con l’aggiunta di umettanti. Poiché
valori superiori a 0,60 non sono garanzia di assoluta conservabilità, vengono
139
Sicurezza tecnologica in alimentazione
adottati altri accorgimenti tecnologici
quali la riduzione del pH, la refrigerazione o la conservazione sottovuoto.
Come descritto, la disidratazione e
l’abbassamento dell’attività dell’acqua
non sono metodi di risanamento dell’alimento. La sopravvivenza dei microrganismi in condizioni di aw inferiori a quelle
minime di crescita è molto variabile e
fortemente dipendente dalle condizioni
ambientali come pH, composizione del
mezzo e altro ancora. È necessario invece considerare che la termoresistenza
dei batteri aumenta in ambienti progressivamente più secchi (per le spore ad
esempio è massima con a w di 0,2).
Questa è la ragione per cui l’eventuale
trattamento termico dovrà precedere la
disidratazione del prodotto. Peraltro,
durante i processi di disidratazione a cui
si è accennato, il prodotto non raggiunge temperature superiori ai 100 °C durante l’essiccazione con aria calda (sebbene la temperatura di questa possa arrivare anche a 180 °C) ovvero rimane
addirittura congelato durante la liofilizzazione. Questi processi di disidratazione
determinano quindi un ridotto o nullo risanamento termico del prodotto. Non
solo, con l’eliminazione dell’acqua si ha
una progressiva “concentrazione” di
buona parte dei microrganismi della materia prima nel prodotto finito; una scor-
retta conservazione può promuovere
l’assorbimento di umidità e, di conseguenza, lo sviluppo dei batteri e la germinazione delle spore sopravvissuti. Risulta evidente la strettissima relazione
tra la qualità igienica del prodotto da disidratare e quella del prodotto essiccato.
Processi biologici
La sicurezza d’uso non necessariamente deve essere raggiunta mediante
la distruzione della microflora presente
nell’alimento o nella materia prima. È
questo il punto focale del dibattito attorno all’impatto che le attuali norme igieniche avrebbero sulle caratteristiche di
molti “prodotti tradizionali”. Senza entrare in questa disputa, è tuttavia opportuno ricordare che alcune tecnologie di
trasformazione di materie prime potenzialmente non sicure da un punto di vista igienico consentono di realizzare
prodotti finiti di assoluta affidabilità sotto questo profilo. A titolo di esempio
basti considerare molte tecnologie di
caseificazione a partire da latte crudo
per produrre formaggi a lunga stagionatura. Per questi prodotti non esiste relazione tra la qualità igienica del latte e
quella del formaggio finito la cui sicurezza è legata a una corretta lavorazio-
140
I. De Noni
ne del latte e a un’adeguata maturazione (>60 giorni) del formaggio. Al raggiungimento della sicurezza concorrono
i parametri tempo/temperatura adottati
in caseificazione e durante le prime fasi
di conservazione della cagliata e, soprattutto, l’attività fermentativa dei batteri lattici dell’innesto a carico del lattosio con produzione di acido lattico. La
corretta acidificazione del latte in caldaia e il conseguente rapido abbassamento del pH (5,1-5,2) nella cagliata
(e formaggio) impediscono lo sviluppo
della microflora patogena eventualmente presente nel latte crudo di partenza,
che viene completamente inattivata in
alcuni casi già in questa fase della lavorazione o comunque durante la stagionatura. Quest’ultima deve ovviamente
avvenire in condizioni ambientali e di attrezzature idonee. Anche l’affioramento
del latte crudo, ossia la sosta per 8-16
ore a 8-15 °C, necessario per la preparazione di alcuni formaggi, consente, se
opportunamente condotto, di ridurre il
numero di batteri e spore mediante la
loro asportazione fisica per inglobamento nella crema che si separa dal latte.
Più in generale, gli alimenti fermentati rappresentano uno degli esempi più antichi di sfruttamento empirico
dell’attività di microrganismi (batteri e
lieviti) per la trasformazione e la con-
servazione di alcuni prodotti agricoli.
Solo con gli studi di Pasteur l’utilizzo
dell’attività metabolica microbica avvenne su precise basi conoscitive. Oggi lo sviluppo delle tecniche microbiologiche ha portato alla selezione e alla
produzione di starter con caratteristiche
(metaboliche e fisiologiche) specifiche
per le diverse applicazioni cui sono destinati (prodotti da forno, bevande fermentate, prodotti lattiero-caseari). Al di
là di questi aspetti, la presenza e l’attività di questi microrganismi consente,
tra gli altri obiettivi, di migliorare o addirittura garantire la sicurezza igienica
dell’alimento attraverso la produzione di
metaboliti (acido acetico, acido lattico,
etanolo) e la competizione per il substrato. Tali fenomeni sono in grado di
inibire la crescita di batteri patogeni, diminuendo nello stesso tempo la necessità di adottare altri processi di conservazione, come il trattamento termico o
la refrigerazione.
Nuove tecnologie
di risanamento
Negli ultimi anni l’innovazione tecnologica ha portato alla sperimentazione
e allo sviluppo di metodi di risanamento
atermici in abbinamento o alternativi al
141
Sicurezza tecnologica in alimentazione
trattamento termico. Lo sviluppo di questi metodi è strettamente collegato alla
necessità di conciliare al meglio il prerequisito di sicurezza dell’alimento con il
maggior rispetto possibile delle sue proprietà nutrizionali e sensoriali. Tra questi
metodi, alcuni ancora in fase sperimentale, si possono annoverare l’impiego
delle tecniche di filtrazione su membrana, delle alte pressioni idrostatiche, degli
ultrasuoni, dei campi elettrici ad alta intensità e delle tecniche di irraggiamento.
Spesso, tuttavia, la completa sicurezza
del prodotto finale sottoposto a tali tecnologie può essere garantita solo con
più ripetizioni del processo o con l’abbinamento a un trattamento termico, per
quanto blando, o all’aggiunta di conservanti. Un cenno meritano i trattamenti
ad alta pressione, le tecniche di filtrazione tangenziale su membrana e l’irraggiamento.
Nei trattamenti ad alta pressione
idrostatica l’alimento (generalmente un
prodotto liquido) viene confezionato e
posto in camere d’acciaio riempite di
acqua e chiuse ermeticamente. La
pressione esercitata sull’acqua si trasferisce uniformemente sul prodotto consentendo di ridurne la carica microbica
senza un importante aumento della temperatura (circa 2-3 °C/100 bar). La
pressione applicata comporta un signifi-
cativo effetto battericida, soprattutto
verso i batteri Gram-positivi e ancora di
più verso lieviti e muffe, mentre non determina distruzione di spore che, al contrario, germinano sotto lo stimolo della
pressione applicata. Per tale ragione è
necessario un trattamento termico successivo o un ulteriore trattamento ad alta pressione. L’effetto battericida è proporzionale alla pressione utilizzata e al
tempo di applicazione della stessa. La
completa inattivazione dei batteri patogeni (Escherichia coli e Staphylococcus aureus ad esempio) richiede comunque ripetuti trattamenti a elevate
pressioni (>400 bar). In funzione dei parametri applicati, l’alta pressione determina anche totale o parziale inattivazione degli enzimi, con evidenti vantaggi
per la stabilità del prodotto finito.
Le tecnologie di filtrazione tangenziale su membrana (ultra-, micro- e nanofiltrazione) si sono sviluppate soprattutto nel settore lattiero-caseario dove
oggi sono applicate con successo, ad
esempio con la microfiltrazione per la
depurazione batterica del latte. Questa
tecnologia prevede la filtrazione del latte
crudo scremato su membrane con porosità di 1,4-2 µm e la successiva rimiscelazione con la crema pastorizzata prima del confezionamento. La ritenzione
batterica della membrana è superiore al
142
I. De Noni
99.9% ed è totale per cellule e spore,
garantendo nel prodotto una riduzione
della carica microbica pari a 2-4 riduzioni decimali e una conservabilità superiore a 10 giorni a 4 °C.
Al pari dei trattamenti termici, anche
per il processo di microfiltrazione la riduzione decimale della popolazione batterica è indipendente dalla carica iniziale.
Tuttavia, rispetto alla sanitizzazione termica, la microfiltrazione non è basata sulla
diversa termoresistenza dei batteri e di
conseguenza non risulta selettiva per la
microflora patogena. Permette invece di
rimuovere con i batteri e le cellule somatiche il relativo corredo enzimatico che
può significativamente modificare le proprietà sensoriali del latte, o di altri alimenti, riducendone la durabilità. Inoltre,
operando più microfiltrazioni in successione è possibile aumentare l’efficacia
del processo senza indurre rilevanti modifiche alle caratteristiche nutrizionali,
sensoriali e tecnologiche del latte.
L’irraggiamento prevede l’uso di radiazioni ad alta energia (raggi γ e x) per
la distruzione dei microrganismi. L’applicazione di tale tecnologia ha sollevato
numerosi problemi di ordine tecnologico
e, soprattutto, di accettabilità da parte
del consumatore. In queste tecnologie
l’energia della radiazione è tale da danneggiare il DNA e quindi impedire la
crescita o la riproduzione dei microrganismi. I batteri Gram-negativi sono in genere i più sensibili e, tra questi, potenziali patogeni come Yersinia enterocolitica, Salmonella spp. e Campylobacter spp. Un importante svantaggio
dell’irraggiamento è rappresentato dal
fatto che le dosi necessarie per il risanamento microbiologico dell’alimento
(0,20-0,70 kGray per una riduzione decimale a 4 °C) sono superiori a quelle
normalmente utilizzate per la distruzione
di insetti infestanti o per impedire il germogliamento, applicazione quest’ultima
per cui viene comunemente utilizzato tale processo. Le stesse dosi non sono
comunque sufficienti per distruggere
tutte le spore presenti: occorrono infatti
da 2 a 10 kGray per inattivare le spore
di Cl. botulinum e Bacillus cereus. Tali
livelli di irraggiamento possono quindi
comportare una riduzione della qualità
legata, ad esempio, all’irrancidimento
del grasso, a fenomeni di imbrunimento
e all’intenerimento dei tessuti vegetali.
Questi fenomeni sono indipendenti dal
tipo di radiazione utilizzata e la loro intensità è determinata unicamente dal livello energetico della radiazione stessa.
Nonostante questi effetti, per alcuni
prodotti come le carni fresche (intere o
tritate), l’irraggiamento potrebbe rappresentare un idoneo mezzo per la riduzio-
143
Sicurezza tecnologica in alimentazione
ne delle contaminazioni da E. coli, Salmonella, Campylobacter spp. e L. monocytogenes. La distruzione di tossine
o enzimi degradativi comporta invece
l’applicazione di dosaggi incompatibili
con il mantenimento di accettabili caratteristiche qualitative dell’alimento.
ciente ad arrecare gravi danni alla salute del consumatore. Molti di questi fattori possono essere inattivati con opportuni trattamenti di cottura, soprattutto “ a umido” (bollitura, a vapore). La
cottura-estrusione della soia cruda, ad
esempio, permette di inattivare gli inibitori della tripsina in essa presenti e in
grado di inibire la completa utilizzazione
delle proteine da parte dell’uomo e degli animali. La soia stessa e altre leguminose contengono ulteriori fattori antinutrizionali (lectine ad esempio)
anch’essi inattivati da trattamenti ad alta umidità (“a umido”).
Altri fattori possono essere eliminati
con operazioni meccaniche. L’acido fitico, in grado di ridurre l’assimilazione di
sali minerali, è contenuto nella cariosside di diversi cereali, perlopiù nei tegumenti (crusca) con i quali viene eliminato durante le normali operazioni di macinazione. Anche la sbramatura del riso
Fattori antinutrizionali
Il ruolo della tecnologia alimentare
nel migliorare la sicurezza dell’alimento
non è limitato al solo risanamento microbiologico ma include anche la distruzione o l’eliminazione di sostanze
antinutrizionali naturali contenute in alcuni alimenti, soprattutto di origine vegetale, in grado di interferire in diversi
processi metabolici e fisiologici dell’uomo (Tabella 4). Normalmente la quantità di questi composti negli alimenti è
contenuta, e quasi sempre non è suffiTabella 4
Fattori antinutrizionali presenti in alcuni prodotti vegetali e processi in grado di inattivarli
Trattamento
termico
Semi di soia ed altre leguminose
Macinazione e
decorticazione semi
Trattamenti chimici
ed enzimatici
Inibitori proteasi, lectine
Fava, sorgo, grano saraceno
Tannini
Cereali e sottoprodotti
Fitati
Colza
Glucosinolati
Lupino, pisello
Alcaloidi
144
I. De Noni
grezzo, con la quale si ottiene il riso brillato, consente di allontanare dalla cariosside la lolla, ossia gli strati esterni di
natura legnosa, abrasiva e soprattutto
di basso valore nutrizionale per l’elevato
contenuto di sostanze minerali, silice in
particolare. Il processo di decorticazione
è un particolare sistema di eliminazione
degli strati più esterni del seme dei cereali. Quando applicato a sorgo, miglio
e grano saraceno consente di eliminare
i tannini contenuti nel loro pericarpo,
rendendo commestibili i prodotti derivati. Infatti, l’asportazione di questi composti, capaci di interagire con le proteine, migliora la digeribilità di quest’ultime, così come l’assorbimento di ferro
che, se complessato dai tannini, risulta
poco assimilabile a livello intestinale. Lo
stesso processo di decorticazione determina un ulteriore miglioramento della
sicurezza d’uso del cereale attraverso la
riduzione del numero di microrganismi e
dei residui di antiparassitari presenti
sulla superficie della granella.
Tra i fattori antinutrizionali dei prodotti animali è sufficiente ricordare
l’ovomucoide (inibitore della tripsina) e
l’avidina (rende indisponibile la biotina)
presenti nell’uovo ed entrambi inattivati
dalla cottura dello stesso. Per i limiti e
gli obiettivi di questa esposizione non è
possibile approfondire ulteriormente
questi aspetti. Quindi, per la trattazione
di altri fattori tossici naturali, e in particolare per quelli presenti nei prodotti ittici, si rimanda a testi specialistici.
È opportuno invece sottolineare come il rapporto tra tecnologia e sicurezza
degli alimenti non si esaurisca con il risanamento del prodotto e la distruzione
degli eventuali fattori antinutrizionali in
esso presenti. La tecnologia alimentare
non deve infatti a sua volta favorire la
formazione di artefatti nutrizionali o di
molecole xenobiotiche potenzialmente
tossiche capaci di ridurre la sicurezza
d’uso e la salubrità dell’alimento. Al riguardo, le problematiche più studiate attengono gli effetti dei trattamenti termici,
compresi quelli effettuati a livello domestico, su proteine, grassi e carboidrati.
Ad esempio, gli idrocarburi policiclici aromatici, ai quali sono attribuiti possibili effetti cancerogeni, hanno suscitato un
notevole interesse: essi possono formarsi negli alimenti proteici sottoposti a severi trattamenti di cottura (carne alla griglia in particolare) in concentrazioni
dell’ordine di parti per miliardo. Ancora i
trattamenti termici, specie se in presenza
di alcali, possono originare fenomeni di
crosslink inter- e intra-proteico con possibile formazione di molecole xenobiotiche; tra queste, una delle più studiate
per i suoi possibili effetti nefrotossici è la
145
Sicurezza tecnologica in alimentazione
lisinoalanina.
La perossidazione, decomposizione
e polimerizzazione dei lipidi durante la
frittura è un altro fenomeno di un certo
interesse che tuttavia assume un significato tossicologico solo per trattamenti
prolungati o ripetuti, possibili solo
nell’ambito di una scorretta pratica domestica.
È opportuno infine ricordare il recente caso dell’acrilamide. Questo
composto è stato ritrovato, in concentrazioni anche di qualche centinaia di
ppm, soprattutto in prodotti amidacei
(patate soprattutto) sottoposti a cottura ad alta temperatura e in particolare
alla frittura e alla cottura al forno o alla
griglia. Il meccanismo di formazione
non è ancora conosciuto così come gli
effetti sulla salute umana. Al momento, il rischio legato al consumo di tali
prodotti sarebbe comunque limitato
anche in considerazione del massiccio
uso che l’uomo fa da tempo di questi
prodotti.
Gli esempi citati sono solo alcune
delle problematiche coinvolte nella valutazione della tecnologia più adatta,
così come nella definizione dei parametri ottimali di processo. Lo stesso
discorso vale per l’introduzione di qualsiasi nuova tecnologia che viene studiata in termini di sicurezza ed efficacia
anche rispetto a problematiche come
quelle sopra accennate. Tutti questi
aspetti assumono particolare rilevanza
nella scelta dei processi da adottare
per la preparazione di alimenti destinati
alla prima infanzia o ad altre fasce vulnerabili della popolazione.
Il ruolo
del consumatore
Come inizialmente affermato, il solo
processo di trasformazione non può garantire l’assoluta sicurezza del prodotto
alimentare. Le modalità di conservazione
(tipo di confezione, condizioni ambientali
di stoccaggio) e di utilizzo (preparazione,
manipolazione e cottura), sia a livello domestico sia in strutture di ristorazione
pubblica, possono fortemente incidere
sulla sicurezza. In questo senso, il ruolo
del consumatore nel garantire la sicurezza del prodotto alimentare è rilevante.
Basti pensare che buona parte delle
contaminazioni degli alimenti avviene in
fase di utilizzo e manipolazione del prodotto. In ambito domestico il maggior rischio è proprio di carattere microbiologico a causa di riscaldamento o raffreddamento inadeguati, contaminazione crociata tra alimenti crudi e cotti e contaminazione da parte dello stesso consuma-
146
I. De Noni
tore o operatore. Al riguardo, è opportuno considerare che i prodotti stabilizzati
microbiologicamente sono i più sensibili
verso una contaminazione post-processo. In mancanza di una microflora banale
competitiva, quella patogena può diventare dominante in opportune condizioni
ambientali. In genere il consumatore,
seppur sensibile al problema della sicurezza dei prodotti, presta scarsa attenzione all’adozione a livello domestico di idonee misure per ridurre o meglio annullare
tali rischi. Da questo punto di vista, una
corretta e quanto mai auspicabile educazione alimentare (sia per gli aspetti igienici sia per quelli nutrizionali) a livello
scolastico può giocare un ruolo fondamentale per la sicurezza alimentare.
È opportuno inoltre ricordare la prima regola, banale ma troppe volte sottostimata, della corretta lettura dell’etichetta che viene spesso ritenuta unica-
mente identificativa della tipologia merceologica senza porre grande attenzione
alle informazioni relative alle modalità
d’uso o alla qualità nutrizionali e di sicurezza in essa contenute. Non bisogna,
infine, dimenticare l’importanza della
confezione che svolge, oltre a finalità
igieniche, un ruolo attivo per il mantenimento delle caratteristiche qualitative
dell’alimento. Da questo punto di vista,
la sua integrità rappresenta un primo ed
efficace criterio che il consumatore può
adottare per valutare sicurezza e qualità
del prodotto.
Da quanto fin qui descritto risulta
chiaro che il binomio sicurezza alimentare e tecnologia rimane un passaggio
chiave, ma non l’unico, per garantire
prodotti sicuri. Questi ultimi, in funzione
dei processi cui sono sottoposti, presentano garanzie di sicurezza limitatamente
a uno o più dei fattori di rischio conside-
Tabella 5
Effetto dei singoli processi tecnologici sulla sicurezza degli alimenti
Distruzione
microrganismi
patogeni
Distruzione
tossine
Distruzione
enzimi
Formazione
di artefatti
antinutrizionali
si
si/no
si/no
si/no
Refrigerazione
no
no
no
no
Congelamento
si/no
no
no
no
Disidratazione
si/no
no
no
no
Conservanti chimici
si/no
no
no
si/no
Fermentazione
si/no
no
no
no
Riscaldamento
147
Sicurezza tecnologica in alimentazione
rati in questa trattazione (Tabella 5).
Come già accennato, non è tuttavia
possibile esasperare il ruolo della tecnologia alimentare alla quale è difficile
pensare di demandare l’intera responsabilità della sicurezza alimentare. In
questo senso, solo la corretta gestione
di tutti i passaggi della filiera può consentire di ottenere piena sicurezza nel
rispetto della qualità globale di materia
prima e prodotto finito. Ciò comporta
un atteggiamento più responsabile e
attivo di tutti gli operatori della filiera
stessa verso ciò che si produce, si trasforma o si consuma.
Allo stesso modo non bisogna enfatizzare più del necessario il problema
della “sanitizzazione” degli alimenti. I
numerosi “prodotti tradizionali”, preparati in deroga alle principali normative
in materia di igiene ma secondo tecnologie di lavorazione consolidate nel
tempo, sono un’evidente e significativa
prova di come l’adozione di opportuni
accorgimenti nella lavorazione consenta di esaltare i peculiari tratti sensoriali
e, parallelamente, di tenere sotto controllo lo sviluppo della microflora patogena eventualmente presente nelle
materie prime e nel prodotto finito.
Riferimenti bibliografici
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Gestione della catena del freddo per la qualità e la
sicurezza degli alimenti”, 2001.
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www.who.int/health_topics/food_safety/en/ World Health Organization.
148
O
organismi geneticamente
modificati
A. Poli*, G. Poli**
*Facoltà di Medicina e Chirurgia. Università degli Studi di Milano
**Dipartimento di Patologia Animale, Sezione di Microbiologia e Immunologia.
Comitato interfacoltà per il Corso di Laurea in Biotecnologie.
Facoltà di Medicina Veterinaria. Università degli Studi di Milano
menti, di malattie, di sollievo e di piacere, ha sempre dato origine a paure
e a proibizioni sin dall’era neolitica.
Introduzione
La presenza sempre più frequente
sulla nostra tavola di cibi che hanno
avuto un qualche trattamento biotecnologico sollecita, nei consumatori più
attenti, frequenti domande sull’affidabilità dei cibi, sull’eventuale influenza
sulla salute e sui vantaggi che ne derivano. La risposta che si attendono è
invariabilmente un sì o un no. In effetti,
nessun consumatore accetta con consapevolezza rischi nel proprio piatto.
Fatalmente, a tutt’oggi, il percorso decisionale che conduce alla risposta è
legato più a fattori emotivi che non a
scelte eseguite con razionalità, derivanti cioè dalla conoscenza dell’argomento trattato.
In effetti, gli esseri umani hanno
con il cibo una relazione mistica e allo
stesso tempo carnale. Gli alimenti
passano attraverso il corpo e misteriosamente lo trasformano. Il cibo, fonte
di “estasi mistica” (l’Eucarestia), di tor-
tecnologie
per la produzione
di piante produttive
transgeniche
L’ingegneria genetica, e in particolare la metodologia del DNA ricombinante, consentono di trasferire geni
estranei di qualunque provenienza
(microbica, vegetale, animale) o nel
seme di un vegetale o nella cellula uovo fecondata di un animale, in modo
da produrre piante o animali cosiddetti
“transgenici”, caratterizzati cioè da caratteristiche “nuove”, che mai avrebbero potuto acquisire con tecniche
naturali.
Sono stati così messi a punto diversi protocolli sperimentali che consentono di inserire, in modo estrema-
149
Organismi geneticamente modificati
mente mirato, un gene “nuovo” in una
pianta in modo che rimanga, per il resto del genoma, perfettamente identica a quella iniziale.
La procedura classica e più usata
per produrre piante transgeniche prevede i seguenti passaggi:
1) isolamento del gene che si vuole
trasferire, separandolo dal restante
DNA mediante un enzima di restrizione (enzima di origine batterica
ad attività endonucleasica, in grado cioè di riconoscere e tagliare il
DNA in modo specifico e ripetibile
a livello di brevi sequenze nucleotidiche diverse per ciascun enzima);
cioè in grado di generare un intero organismo) e quindi dalle cellule trasformate possono svilupparsi piante complete, in grado di riprodursi normalmente. Per l’ingegneria genetica, la
maggior parte dei metodi si basa oggi
su cellule di espianti, ottenute cioè da
piccoli frammenti della pianta; tali
frammenti possono venire ingegnerizzati e successivamente dare origine a
una pianta intera con le nuove caratteristiche codificate dal gene esogeno
inserito.
Per realizzare l’ultimo passaggio
sopra riportato, al fine di trasferire il
gene desiderato nella cellula vegetale,
è stato utilizzato, quale primo vettore, il
plasmide “Ti” di Agrobacterium tumefaciens; in effetti il plasmide di questo
batterio possiede la peculiare caratteristica di integrarsi naturalmente e con
alta efficienza entro i cromosomi della
pianta che infetta, la quale accoglierà
ed esprimerà così i geni nuovi preventivamente inseriti in tale plasmide.
Un metodo alternativo, che aumenta il rendimento nel trasferimento
dei nuovi geni in una cellula vegetale,
è rappresentato dal “bombardamento”
di cellule vegetali con il materiale genetico da trasferire. Più precisamente,
microsferule di metallo (in genere oro
o tungsteno) vengono rivestite con il
2) inserimento del gene isolato in un
vettore molecolare (ad esempio un
plasmide batterico);
3) replicazione del plasmide in un
batterio in modo da avere l’amplificazione, in molte copie, del gene
da trasferire;
4) trasferimento del plasmide, che
veicola il gene “passeggero” in una
specie vegetale, ottenendo così
una nuova pianta dalle caratteristiche volute.
Un vantaggio, per gli interventi di
ingegneria genetica, è dato dal fatto
che le cellule vegetali sono “totipotenti” (come cellule indifferenziate sono
150
A.POLI, G. Poli
DNA che costituisce il transgene (gene esogeno da trasferire) e quindi vengono letteralmente “sparate”, con aria
compressa, su cellule vegetali isolate
o su espianti; le microparticelle penetrano attraverso la parete di cellule intatte veicolando così il nuovo materiale
genetico che viene integrato nel DNA
dei cromosomi della cellula vegetale.
Infine, indipendentemente dalla tecnica usata per trasferire il transgene
(Agrobacterium tumefaciens o “bombardamento”) vengono selezionate le
cellule che esprimono correttamente il
nuovo gene ed essendo, come detto,
totipotenti, vengono indotte a differenziarsi per rigenerare piante intere, ora
transgeniche.
È anche possibile costruire particolari plasmidi “vettore” che hanno la
caratteristica di integrarsi e quindi trasferire il gene “nuovo” anziché nel
DNA dei cromosomi nucleari, nel DNA
del cloroplasto (organello sub-cellulare
simile in struttura ai mitocondri, esclusivo delle cellule vegetali e contenente
clorofilla ed enzimi deputati alla fotosintesi). Questo nuovo approccio è importante per alcuni scopi applicativi in
quanto il DNA del cloroplasto è ereditato, nella maggior parte delle piante
coltivate, per via materna; quindi il gene esogeno non sarà presente nel pol-
line e pertanto verranno evitati i rischi
di diffusione del transgene nell’ambiente, con conseguente contaminazione di colture adiacenti o che si vogliono mantenere “OGM free”
Le metodologie sono sufficientemente perfezionate da permettere la
trasformazione genetica della maggior
parte delle piante di interesse agronomico.
I traguardi, in parte già raggiunti e
in parte ancora allo studio, riguardano
soprattutto la protezione delle piante e
l’aumento della loro produttività. Gli
esperimenti di ingegneria genetica sono cioè rivolti a conferire proprietà desiderabili ai prodotti agricoli, quali miglioramento in quantità e qualità nutrizionali del prodotto, resistenza agli
stress ambientali e ai patogeni.
Particolare successo hanno avuto
gli esperimenti per l’inserimento nelle
piante di geni di origine batterica, che
conferiscono la resistenza ai parassiti
o, con tecniche diverse, ad altri agenti
patogeni, quali funghi e virus; interessante anche la resistenza indotta verso
gli erbicidi.
A tutt’oggi sono già state prodotte
numerose piante transgeniche, tra cui:
mais, soia, frumento, riso, pomodori,
patate, lattuga, cotone, piselli, carote,
verze, cocomeri, fragole, girasoli, bar-
151
Organismi geneticamente modificati
babietole, papaie, kiwi, melanzane,
pere, mele, uva, asparagi e altre.
no così già state prodotte carpe, trote
e salmoni transgenici che si sviluppano
molto più rapidamente e con dimensioni molto maggiori degli animali controllo
(non transgenici) in quanto sovraesprimono l’ormone della crescita. Pertanto, se supereranno le verifiche di biosicurezza, sia per l’ambiente sia per la
salute dei consumatori, saranno proprio
i pesci transgenici a essere la prima
specie animale OGM eventualmente
messa sul mercato. D’altra parte, gli
animali transgenici da reddito sembrano particolarmente adatti alla produzione di “alimenti speciali” che non si trovano nella normale catena produttiva
agro-zootecnica (ad esempio i cosiddetti alimenti funzionali o nutraceutici).
L’esempio più caratteristico di questo
approccio è rappresentato dal trasferimento nel bovino del transgene
dell’enzima lattasi in modo da farlo
esprimere solo a livello della ghiandola
mammaria: ne consegue la produzione
di un latte privo di lattosio, in quanto
metabolizzato dal citato enzima. Un latte con tali caratteristiche sarebbe ideale per tutte quelle persone che sono intolleranti al lattosio. Anche in questo
caso, ovviamente, sia la biosicurezza in
generale, sia la sicurezza per il consumatore devono essere valutate molto
attentamente e garantite.
Gli ogm quali alimenti
Alimenti di origine animale
(carne, latte, uova) prodotti
da animali transgenici
(bovini, suini, ovini, polli,
pesci)
Nonostante le numerose ricerche
finalizzate a produrre linee genetiche di
animali da reddito che producono alimenti migliori e in maggiore quantità, i
successi sono stati molto modesti sia
per la complessità dei processi coinvolti, sia per gli effetti negativi rilevati
soprattutto nei ruminanti (bovini, pecore, capre) resi transgenici per migliorarne le “performances” produttive.
Non pare quindi esservi ulteriore
interesse a investire in ricerche per ottenere un miglioramento nella crescita
o nella qualità di carne, latte o uova,
che già sono realizzabili con le tecniche di allevamento convenzionali. Unica eccezione sono i pesci, in quanto
l’inserimento del transgene nell’uovo
fecondato è facilitato dal fatto che sia
la fertilizzazione sia lo sviluppo dell’uovo di pesce avvengono all’esterno. So-
152
A.POLI, G. Poli
Alimenti di origine vegetale
esaminate le caratteristiche di queste
due sole varietà vegetali transgeniche.
Come detto, a tutt’oggi sono già
state prodotte e messe in commercio
numerose piante modificate geneticamente al fine di renderle resistenti agli
insetti, ai virus, agli erbicidi o agli stress
ambientali (ad esempio gelo e siccità),
oppure per migliorarne la conservabilità
o le caratteristiche alimentari, ottenendo ad esempio un contenuto meglio bilanciato di carboidrati e aminoacidi, una
riduzione dei grassi, un elevato contenuto di vitamine e di ferro, una maggiore digeribilità. Più precisamente, tra i
cereali e legumi OGM si annoverano:
mais, soia, riso, frumento, segale, fagioli, piselli; tra frutti e ortaggi OGM si
annoverano: pomodori, patate, lattuga,
carote, broccoli, cavoli, cetrioli, sedano,
barbabietole, melanzane, asparagi, fragole, cocomeri, pere, mele, uva, noci,
papaie, kiwi e altri.
Di tutti questi prodotti OGM, che si
consumano in vari paesi del mondo e
in particolare in Stati Uniti, Canada,
Argentina, Cina e India, solo due sono
stati approvati nei paesi dell’Unione
Europea per la sola commercializzazione (ne è vietata la semina in molti paesi): il mais Bt, reso resistente agli insetti, e la soia resa resistente agli erbicidi. Pertanto, qui di seguito, verranno
Caratteristiche
del mais e della soia
geneticamente
modificati:
unici ogm consentiti
nei paesi della u.e.
quali alimenti per
l’uomo e per gli animali
da reddito
Mais e soia sono presenti sotto forma di lecitina, farina, amido e olio in oltre il 50% degli alimenti confezionati: dai
gelati ai biscotti, dal cioccolato alle marmellate, dalle bevande alle margarine.
Poiché un quarto della soia mondiale è
transgenica e anche il mais OGM è ampiamente coltivato dai Paesi produttori
“leaders”, diviene importante conoscere
le caratteristiche di questi due prodotti
transgenici che, come detto, sono gli
unici autorizzati per il mercato europeo.
Mais Bt, resistente
agli insetti
Le tecniche del DNA ricombinante
hanno consentito di produrre piante
153
Organismi geneticamente modificati
transgeniche che resistono all’attacco
degli insetti. Per la maggior parte sono
state ottenute mediante l’inserimento
di un gene, il gene “Bt” del batterio
Bacillus thuringiensis, ampiamente
diffuso nel terreno, che codifica per
una “proteina insetticida” (denominata
proteina “Bt”). Se le piante, così modificate, vengono aggredite dagli insetti
nocivi, i danni causati alle foglie sono
minimi, mentre le larve muoiono rapidamente. Infatti, quando l’insetto sensibile ingerisce frammenti di una pianta
trasformata con gene Bt, ingerisce una
proteina Bt che non è in effetti una
tossina ma una pro-tossina. Questa diviene tossina solo se trova nell’intestino dell’insetto una specifica proteasi,
cioè un enzima, esclusivo degli insetti,
che, staccando una porzione della proteina ne libera la parte tossica.
Per questo motivo la tossina non è
nociva per l’uomo e per gli altri animali
e ne è addirittura consentito l’uso da
oltre 40 anni in agricoltura biologica
appunto quale insetticida sotto forma
di spray.
Uno dei primi prodotti con queste
caratteristiche, autorizzato per l’uso in
diversi paesi del mondo, è rappresentato da un nuovo mais transgenico
che, appunto grazie alla capacità di
produrre nelle sue cellule la proteina
Bt, risulta altamente resistente agli attacchi di un insetto devastatore chiamato piralide.
La semina e il consumo di piante
resistenti all’attacco degli insetti è desiderabile per più motivi:
• una resistenza intrinseca elimina
o riduce la necessità di impiegare
insetticidi che, per lo più non biodegradabili, persistono causando
inquinamento ed effetti nocivi sia
per gli ecosistemi che per i consumatori;
• il mais, infestato dalla piralide,
diviene estremamente sensibile ad
altre malattie causate da virus o da
funghi che producono le temibili
micotossine. In effetti il mais Bt è
stato dimostrato essere più salutare per i consumatori in quanto presenta quantità trascurabili sia di
micotossine che di insetticidi e
fungicidi, rispetto a quelle presenti
in mais “naturali” cioè non Bt. Al
riguardo si rammenta che le principali micotossine presenti negli alimenti sono rappresentate dallo
zearalenone, ad attività estrogenica, e da aflatossina B, fumosina,
ocratossina A e patulina, tutte con
dimostrata attività cancerogena oltreché genotossica, nefrotossica
ed epatotossica.
154
A.POLI, G. Poli
Soia resistente agli erbicidi
Gli erbicidi trovano ampia applicazione nella distruzione delle erbe infestanti che, crescendo tra le piante agricole, possono ridurre l’entità del raccolto di oltre il 10%. D’altra parte, gli erbicidi non sono molto selettivi in quanto
agiscono alterando processi fisiologici
caratteristici delle piante, quali la fotosintesi e la biosintesi di aminoacidi e
quindi, sebbene più attivi verso le erbe
infestanti, danneggiano in parte anche
le piante agricole.
Esiste poi una classe di erbicidi,
definiti erbicidi totali, che uccidono indiscriminatamente tutte le piante, e alcuni
di questi (ad esempio glifosato e glifosinato) sono rapidamente biodegradabili
e hanno bassissima tossicità per l’uomo
e per gli animali.
In alcuni batteri del suolo sono stati
scoperti e poi isolati e clonati alcuni geni
che codificano per enzimi capaci di inattivare, per acetilazione o idrolisi, gli erbicidi totali. Poiché tali enzimi sono del
tutto innocui per l’uomo e per gli animali, si è subito progettato di sfruttarli per
produrre piante transgeniche resistenti
agli erbicidi totali biodegradabili.
Sono state pertanto prodotte piante
transgeniche resistenti a glifosato e
glifosinato.
La più importante e diffusa è la soia
transgenica che può venire coltivata impiegando un singolo trattamento con
l’erbicida glifosato quando la soia è appena germogliata, contemporaneamente alle erbe infestanti.
Poiché, come detto, il glifosato viene rapidamente biodegradato, la coltivazione e il consumo di questa soia
transgenica non rappresenta alcun rischio di eventuali residui di erbicidi né
per l’ambiente né per il consumatore.
I paventati rischi
derivanti dal consumo
di alimenti prodotti
da piante transgeniche
(ogm)
Li hanno definiti “Frankestein food”:
sono pomodori, insalata, mais, soia,
barbabietole, frumento “transgenici”,
cioè vegetali nel cui DNA è stato inserito un gene estraneo di origine batterica o talvolta di origine animale. Meno
deperibili, e dunque più economici dei
cereali e degli ortaggi tradizionali, questi vegetali crescono potenzialmente
più sani, perchè non trattati con insetticidi e diserbanti. C’è chi assicura che
saranno l’arma vincente nella lotta contro la fame nel mondo. Ma hanno su-
155
Organismi geneticamente modificati
scitato nuove paure: di mutazioni genetiche incontrollate e di pericoli per la
salute dell’uomo e dell’ambiente. Gli
“organismi geneticamente modificati”
(OGM) sono dunque nell’occhio del ciclone. L’Europa ne ha regolamentato il
commercio, gli ecologisti li vogliono al
bando. Gli scienziati si interrogano sulla
loro sicurezza. Di fatto, sono già arrivati
sulle nostre tavole. E allora che fare?
Accettarli o rifiutarli? Qui di seguito si
cercherà di fornire l’informazione
scientifica più accurata possibile relativa ai paventati rischi da consumo di alimenti OGM che sempre più spesso
vengono sollevati dagli oppositori delle
biotecnologie.
conferisce resistenza agli antibiotici:
ad esempio ampicillina per il mais Bt.
Questa procedura ha destato la
preoccupazione che il gene di resistenza possa trasferirsi dalla pianta
OGM ai batteri dell’intestino, o peggio
al genoma umano, conferendo resistenza all’antibiotico (oggi comunque
di scarso interesse clinico) e determinando quindi inefficacia dell’antibiotico in terapia medica. L’accusa manca
di realismo scientifico: il fatto che un
gene presente in un vegetale, e dotato, si badi, di un promotore vegetale
inattivo nei batteri, possa essere trasferito ai batteri del nostro intestino, e
da questi passare a batteri patogeni
ha una rilevanza clinica virtualmente
uguale a “zero”. Infatti i geni dell’antibiotico-resistenza sono ubiquitari e
sono già presenti in natura nella stessa flora microbica intestinale di animali o uomini, e questo vale per ogni antibiotico passato, presente e futuro.
Ma ancora più importante è il rilievo
della rapidissima degradazione che
subisce il DNA ingerito da parte degli
enzimi digestivi (nucleasi) e dalla bassissima probabilità che un gene con
un promotore vegetale possa essere
acquisito, integrato e addirittura
espresso da un batterio della flora microbica intestinale.
Trasmissione dei geni
dell’antibiotico-resistenza
Una particolare preoccupazione
che è sorta tra i consumatori è legata
al fatto che la selezione del gene per
il carattere desiderato, da inserire nella pianta transgenica, avviene inizialmente impiegando quei geni batterici
che codificano per l’antibiotico-resistenza.
Pertanto, le piante OGM oggi coltivate sono dotate, oltre che del gene
di interesse, anche di un gene che
156
A.POLI, G. Poli
Alimenti OGM e allergie
L’efficacia dei controlli è dimostrata dal molto pubblicizzato caso di
una soia OGM in cui era stato integrato un gene di noce brasiliana codificante l’albumina 2S, ricca in metionina, aminoacido invece carente nella
soia. La soia OGM aveva acquisito
migliorate capacità nutrizionali, ma
anche le proprietà allergeniche
dell’albumina. Tale effetto allergizzante è stato dimostrato nel 1996, da
Nordlee e Collaboratori che hanno
esaminato campioni di sangue di individui già noti per la loro ipersensibilità
alla noce brasiliana, per verificarne la
reattività nei confronti della soia
OGM. Si è osservato che gli anticorpi
di classe IgE presenti nei campioni di
sangue reagiscono con la soia OGM
ma non con la soia non modificata. A
seguito di questi rilievi è stato quindi
abbandonato il progetto e negato il
permesso di coltivazione. Le analisi
hanno comunque permesso di chiarire la natura dell’agente allergizzante
della noce brasiliana stessa.
Per quanto riguarda più in particolare il mais e la soia transgenici, è stata esclusa e dimostrata sperimentalmente l’assenza di ogni potenziale allergenicità delle nuove proteine
espresse: la tossina Bt e l’enzima che
degrada il glifosato.
Le piante OGM sono accusate di
scatenare allergie alimentari. Le allergie
sono dovute a un’azione di rigetto del
nostro organismo nei confronti di una
specifica proteina contenuta nel cibo.
Già oggi, in tutto il mondo, il 2-4% dei
bambini e l’1-2% degli adulti soffre di allergie alimentari. Soia, latte vaccino, pomodoro, noci, arachidi, pesci, crostacei,
cioccolata ne sono la causa principale.
L’unica cura efficace è evitare il cibo cui
si è allergici.
Nel caso di piante OGM, il gene esogeno potrebbe effettivamente codificare
per una proteina allergenica, ma le legislazioni dei diversi paesi prevedono che si
analizzi preventivamente:
a) la fonte del gene (è derivato da un
organismo che dà allergie?);
b) i parametri fisico-chimici della nuova
proteina (similarità della sequenza
aminoacidica con proteine allergeniche, sua stabilità alla digestione e alla cottura);
c) gli effetti del gene esogeno sulla produzione degli allergeni endogeni della
pianta ospite;
d) risultati di saggi “in vitro” (RAST, ELISA) e “in vivo” (test cutanei, simulazione alimentare).
157
Organismi geneticamente modificati
Altri rischi paventati
funzione ancora sconosciuta; quando si
mangia una mela si ingeriscono migliaia
di milioni di geni e il numero già impressionante si può anche decuplicare quando mangiamo un vasetto di yogurt. Inoltre i geni presenti negli OGM non sono
diversi da quelli presenti in natura; pertanto se fosse possibile un trasferimento
di geni con gli alimenti, gli animali e gli
uomini avrebbero già sviluppato caratteristiche proprie dei vegetali.
Tossicità del prodotto del transgene,
rischio di infezioni o addirittura di tumori,
nonché il possibile trasferimento dei
nuovi geni ai consumatori rappresentano
altri rischi attribuiti agli OGM se utilizzati
come alimenti. Tutti questi rischi paventati sono stati analizzati e valutati altamente improbabili se non del tutto fantascientifici. Si pensi ad esempio al paventato trasferimento del transgene ai microrganismi della flora intestinale, se non
addirittura alle cellule di tessuti e organi
dei consumatori stessi. Per dare una risposta a questo timore basti ricordare
che ogni giorno noi mangiamo l’intero
contenuto genetico (DNA) di piante, batteri e animali; ora ammettiamo pure che
il DNA mantenga la sua integrità nell’intestino per alcuni minuti prima di essere
digerito, ma se cerchiamo un gene di
bovino, di mela o di insalata nel genoma
dei batteri dell’intestino umano o nelle
nostre stesse cellule non lo troviamo. In
effetti non c’è trasferimento di DNA da
una specie all’altra: gli insetti si cibano di
vegetali, i ruminanti mangiano vegetali, i
carnivori mangiano ruminanti, ma il DNA
ingerito non conferisce nuove caratteristiche. Per esempio, la cellula di un frutto (ad esempio la mela), contiene da 20
mila a 80 mila geni e porzioni di DNA a
Bambini e anziani
rappresentano una
popolazione a maggior
rischio se alimentati
con prodotti ogm?
Tale domanda viene spontanea
quando vengono enfatizzati strumentalmente dai media i paventati rischi
degli OGM, oppure allorché in alcune
regioni italiane nelle mense scolastiche
e degli asili infantili vengono serviti
esclusivamente alimenti da “agricoltura
biologica” e ciò indipendentemente
dalla necessaria libera scelta che dovrebbe essere lasciata ai genitori.
Orbene, tali opinioni e decisioni sono praticamente demandate agli organi
politici, i quali risentono pesantemente
di condizionamenti non scientifici.
158
A.POLI, G. Poli
Alla luce di quanto esposto in questo capitolo, e a parere di chi scrive,
gli alimenti OGM attualmente autorizzati e quindi in commercio in Europa
sono più salutari della controparte cosiddetta “naturale” o comunque non
sono più rischiosi.
In effetti, per la prima volta nella
storia dell’uomo, ogni varietà vegetale
prodotta con la biotecnologia viene
sottoposta a una serie completa di
analisi e valutazioni scientifiche. Cioè
gli OGM sono sottoposti a tutte le
possibili prove di rischio tra cui: tossicità (studi sugli animali); allergenicità
(uova, pesce, pomodoro, cioccolato,
latte, kiwi ecc, sono allergenici ma non
sono OGM); assenza di pesticidi, erbicidi; valutazioni microbiologiche; proprietà nutrizionali; impatto ambientale;
altre valutazioni (provenienza del transgene, sue caratteristiche, suo impatto/influenza sugli altri caratteri).
Al contrario, sui prodotti cosiddetti
“naturali” (come quelli biologici) i controlli
effettuati sono minori se non sono talvolta del tutto assenti e così si mettono
in commercio prodotti “naturali” potenzialmente pericolosi quali: mais infestato
da piralide e quindi con infestioni fungine e presenza di aflatossine (epatotossiche, nefrotossiche, cancerogene).
Al lettore quindi la risposta al que-
sito posto in questo paragrafo e più in
generale al quesito sulla sicurezza alimentare dei cibi OGM attualmente in
commercio.
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160
I
nfezioni da alimenti
F. Salvini, S. Di Giacomo
Clinica Pediatrica. Facoltà di Medicina e Chirurgia
Università degli Studi di Milano.
Ospedale San Paolo, Milano.
rologici), va sospettata l’origine alimentare della malattia. I segni clinici, il periodo di incubazione, i dati epidemiologici devono guidare il medico alla diagnosi (Tabella 1), confermata poi da esami
di laboratorio specifici. Tutte le categorie di alimenti possono essere fonte di
infezione, dalla carne ai molluschi fino
alla frutta e alla verdura. Verranno di
seguito trattate le infezioni da alimenti
più diffuse e alcune problematiche
emergenti al riguardo, come la contaminazione dei latti in polvere.
Introduzione
Il miglioramento delle condizioni
igieniche e delle modalità di preparazione del cibo per il commercio ha ridotto notevolmente la consistenza del
problema delle così dette tossinfezioni da alimenti, quanto meno nei paesi
industrializzati di cui l’Italia fa parte.
Tuttavia la soglia di attenzione non deve abbassarsi, visto che le malattie
trasmesse da alimenti restano una delle principali cause di morbilità e mortalità fra i bambini e gli adulti anche nei
paesi ricchi. Il quadro è complicato notevolmente oltre che dalla gran varietà
di germi implicati, anche dalla globalizzazione dei commerci degli alimenti
con rapida distribuzione a livello internazionale e con importanti mutamenti
nelle abitudini alimentari.
Ogniqualvolta due o più individui
che hanno condiviso un pasto presentano nausea, vomito, diarrea, ma anche
segni extra-intestinali (ad esempio neu-
Intossicazione
stafilococcica
Eziologia
Si manifesta con una gastroenterite
acuta causata dall’ingestione di alimenti
inquinati dalle enterotossine preformate
prodotte da alcuni ceppi di Staphylococcus aureus (gruppi fagici III e IV
161
Infezioni da alimenti
Tabella 1
Guida alla diagnosi di infezione alimentare
Periodo di
incubazione
tipico
Malattia clinica
Agente eziologo
Epidemiologie e
diagnosi di laboratorio
Febbre
Vomito
1-7 ore
Rara
Abbondante
Enterossina dello
Staphylococcus aures
Riscontro della tossina nel cibo;
isolamento di > 105 microrganismi
nel vomito e nelle feci
8-14 ore
Rara
Occasionale
Enterossina del
Clostridium perfrigens
Isolamento del microrganismo o
della tossina nel cibo o nelle feci
delle persone infette; incriminazione
epidemiologia di un alimento
16-36 ore
Frequente
Occasionale
Shigella
Salmonella
Vibrio parahemolyticus
Escherichia coli invasiva
Yersinia enterocolitica
Isolamento dei microrganismi
nel cibo o nelle feci delle persone
infette
12-36 ore
Sindrome clinica compatibile
con botulinismo
Clostridium botulinum
Isolamento del microrganismo
delle tossine dalle feci o della tossina
da sieri o cibi
16-72 ore
Occasionale
Escherichia coli
enterotossica
V. parahaemoli enterotossico
V. cholerae enterotossico
Isolamento del microrganismo nel
cibo o nelle feci delle persone infette;
incriminazione epidemiologica
di un alimento
Escherichia coli 0157:H7
e altri simili a shigelle,
E. coli che producono la
tossina
Isolamento del microrganismo nel
cibo o nelle feci delle persone infette;
incriminazione epidemiologica
di un alimento
Occasionale
3-5 giorni
Non frequente
Frequente
1-7 giorni
Occasionale
Occasionale
Campylobacter jejuni
162
F. Salvini, S. Di Giacomo
coagulasi-positivi) e raramente di
Staphylococcus epidermidis.
enterotossiche (A-E), termoresistenti
(30 minuti a 100 °C), le quali, dopo
essere passate nella circolazione
sistemica, incrementano la peristalsi
intestinale, agiscono a livello centrale
scatenando il riflesso del vomito e
inducono la produzione di IL-1.
Epidemiologia
L’uomo è il principale serbatoio e può
ospitare l’agente in corrispondenza di
lesioni cutanee o a livello nasale; è
responsabile della contaminazione degli
alimenti (latte, latticini, creme, gelati,
insaccati…) durante la loro preparazione. Normalmente i caratteri
organolettici dei cibi contaminati non
cambiano. L’intossicazione è più
frequente nei periodi estivi e insorge
quando si verificano contemporaneamente alcune condizioni: l’alimento inquinato deve essere idoneo per lo
sviluppo del microrganismo; deve
essere lasciato a temperatura ambiente
senza essere consumato per molte ore,
il tempo necessario allo sviluppo del
microrganismo e alla liberazione delle
tossine termostabili; la quantità delle
tossine presenti deve essere sufficiente
per scatenare la sintomatologia.
Frequentemente l’intossicazione
acquista carattere epidemico.
Sintomatologia
L’incubazione è breve, la sintomatologia
compare bruscamente circa 1-8 ore
(normalmente 2-4 ore) dopo l’ingestione dell’alimento inquinato e si
manifesta con nausea, vomito, dolori
addominali crampiformi, diarrea,
apiressia. Il decorso è favorevole in 810 ore e si assiste alla risoluzione
completa in 2-3 giorni.
Diagnosi
Alcune caratteristiche cliniche indirizzano verso la diagnosi di
intossicazione stafilococcica, come il
periodo di incubazione molto breve, la
comparsa della sintomatologia
pressoché simultanea in tutti i soggetti
che hanno ingerito l’alimento inquinato,
l’assenza di febbre; elementi questi che
permettono di differenziarla da altre
forme di tossinfezione. La diagnosi
viene confermata mediante la ricerca
Patogenesi
Lo Staphylococcus aureus produce
almeno cinque tipi di esotossine
163
Infezioni da alimenti
del microrganismo e delle enterotossine
nelle feci e negli alimenti interessati.
con passaggio di flagelli da un tipo di
specificità a un altro. Attualmente sono conosciuti oltre 2000 tipi OH. L’antigene O è una endotossina e conferisce resistenza alla fagocitosi (i ceppi
che ne sono privi non sono patogeni).
Un altro antigene è il polisaccaride capsulare di virulenza (Vi) presente su
Salmonella typhi e raramente riscontrato su alcuni ceppi paratyphi C.
I microrganismi della salmonella resistono a molti agenti fisici, ma possono
essere uccisi al calore a 130 °F (54,4
°C) per un’ora oppure a 140 °F (60 °C)
per 15 minuti. Le salmonelle rimangono
vitali per giorni a temperatura ambiente e
possono resistere per settimane nelle acque di scolo, negli alimenti in polvere, nei
composti farmaceutici e nelle feci. Lo
schema di Kauffman-White, comunemente usato per classificare i sierotipi di
salmonella, si basa sugli antigeni O e H.
I sierotipi che causano la maggior
parte delle infezioni nell’uomo sono i
sierotipi A-E. I ceppi più frequentemente isolati sono stati S. tiphymurium
(sierogruppo B), S. heidelberg (B), S.
enteridis (D), S. newport (C2), S. infantis (C), S. agona (B), S. thompson
(C1), S. montevideo (C1); la S. typhi
è classificata nel sierogruppo D.
La classificazione in sierotipi è importante dal punto di vista clinico per-
Terapia
Sintomatica. Solo nei casi più gravi è
utile ricorrere alla somministrazione di
liquidi ed elettroliti. Non è indicata la
terapia antibiotica.
Profilassi
È raccomandata la conservazione degli
alimenti a 4 °C, temperatura che inibisce
la produzione delle tossine, e l’esclusione
dalla “preparazione di cibi” del personale
con affezioni stafilococciche in atto.
Salmonellosi
Eziologia
Le salmonelle sono bacilli Gram
negativi della famiglia delle Enterobacteriaceae. Le salmonelle come le
Enterobacteriaceae possiedono antigeni della parete cellulare “O” (somatici) e antigeni flagellari o “H”. Attualmente sono stati riconosciuti oltre 50
tipi distinti di antigeni O e relativi sottotipi, e oltre 50 antigeni H e sottotipi.
Inoltre il fenomeno di fase-variazione si
presenta fra molti tipi di salmonelle,
164
F. Salvini, S. Di Giacomo
ché alcuni sierotipi tendono a essere
associati a sindromi cliniche specifiche.
mori, AIDS e altre malattie immunosoppressive. I casi descritti sono per lo
più sporadici; sono più comuni le epidemie nelle istituzioni, in particolare
quelle di origine alimentare.
I principali serbatoi per sierotipi
non tifoidei di salmonella sono gli animali: pollame, bestiame, rettili e animali domestici. I principali veicoli di
trasmissione sono i cibi di origine animale come polli, carni rosse, uova, latte non pastorizzato. Altri veicoli sono
rappresentati da frutta, verdura, riso,
germogli alfa-alfa. Si tratta di veicoli
contaminati dal contatto con prodotti
animali e persone infette. Altre modalità di trasmissione comprendono l’ingestione di acqua contaminata o con
trasmissione diretta orale-fecale (rara),
contatto con rettili infetti (tartarughe
domestiche, iguane e altri rettili), contatto con medicazioni, tinture e strumenti medici contaminati.
Unico serbatoio naturale della Salmonella typhi è l’uomo. Pertanto per
sviluppare l’infezione è necessario il
contatto diretto o indiretto con una
persona infetta (portatore malato o
cronico). L’ingestione di cibi o acqua
contaminati con feci umane è il metodo più frequente di trasmissione. Nei
paesi in via di sviluppo si osservano
principalmente epidemie trasmesse
Epidemiologia
Ogni anno negli Stati Uniti vengono segnalati più di 1.500.000 casi di
salmonellosi all’anno (98% salmonellosi non tifoidee), di cui 400 di febbre
tifoide. In Italia, nel 1999 secondo il
bollettino Epidemiologico del Ministero
della Salute si sono verificati 14.122
casi di salmonellosi. Nel 2000 il numero totale degli isolamenti è stato di
10.864.
La febbre tifoide non è frequente
nei paesi industrializzati, ma è endemica in zone meno sviluppate del mondo.
I casi riportati nei paesi industrializzati
sono per lo più conseguenza di viaggi
all’estero, in paesi nei quali mancano
appropriate misure igieniche per l’acqua potabile e per il cibo, o del consumo di cibo contaminato da portatori
cronici.
La salmonella causa frequentemente infezione nei soggetti di età inferiore a 5 anni e di età superiore a 70
anni, con un picco nel primo anno di
vita. Le infezioni invasive e la mortalità
sono più frequenti nei lattanti, negli
anziani e nei pazienti con malattie di
base, soprattutto emoglobinopatie, tu-
165
Infezioni da alimenti
tramite l’acqua, a causa di scadenti
misure sanitarie o per diretto contatto
oro-fecale per la scarsa igiene personale. Un’altra fonte di infezione diffusa
è costituita da ostriche o altri mitili coltivati in acque contaminate da fognature.
sto periodo può essere prolungato dalla terapia antibiotica. Circa il 15% dei
pazienti continua a eliminare la salmonella per più di un anno.
Batteriemia: una condizione di batteriemia transitoria si manifesta nell’1-5%
dei casi di gastroenterite acuta. La batteriemia da salmonella si manifesta con
febbre e brividi (Tabella 2).
Manifestazioni cliniche
Le infezioni da salmonella non tifoidea provocano diverse sindromi cliniche, a seconda dei fattori dell’ospite e
dello specifico sierotipo coinvolto.
Infezioni extraintestinali: dopo che le
salmonelle sono penetrate nel circolo
ematico, hanno la capacità unica di
causare metastasi e provocare un’infezione purulenta, focale in quasi tutti
gli organi. Solitamente sono coinvolti i
siti con anomalie preesistenti. Le infezioni focali comunemente interessano
lo scheletro, le meningi, i siti intravascolari. La salmonella è una causa frequente di osteomielite nei bambini con
anemia falciforme. Spesso l’osteomielite si manifesta in sede di traumi precedenti o protesi. La meningite compare principalmente nei lattanti ed è
caratterizzata da un elevato tasso di
mortalità (50%) e sequele neurologiche nonostante una corretta terapia
antibiotica. I sierotipi che causano la
maggior parte delle infezioni focali extraintestinali sono la S. tiphymurium e
la S. choleraesuis.
Gastroenterite acuta: è la manifestazione clinica più frequente; dopo un
periodo di incubazione di 6-72 ore
compare una sintomatologia addominale caratterizzata da nausea, vomito e
dolori addominali crampiformi, a cui
seguono diarrea acquosa fino a un
quadro di dissenteria con muco e sangue. Nel 70% dei pazienti si verifica
febbre. Nei bambini sani i sintomi
scompaiono entro 2-7 giorni. Il rischio
di contagio esiste per tutta la durata
dell’escrezione fecale del germe. Questo periodo è variabile. Dodici settimane dopo l’infezione il 45% dei bambini
con età inferiore a 5 anni elimina ancora la salmonella, rispetto al 5% dei
bambini più grandi o degli adulti. Que-
166
F. Salvini, S. Di Giacomo
Tabella 2
Condizioni che
aumentano il rischio
di batteriemia
da salmonella durante
le gastroenteriti
da salmonella
non tifoidea
Neonati e lattanti (< 3 mesi)
AIDS, granulomatosi cronica e altre immunodeficienze
Tumori maligni, in particolare leucemie e linfomi
Terapia immunosoppressiva e corticosteroidea
Anemia emolitica, anemia falciforme, malaria e bartonellosi
Connettiviti
Malattie infiammatorie croniche intestinali
Acloridria e terapia antiacida
Schistosomiasi
Malnutrizione
Febbre tifoide: è una sindrome clinica
sistemica prodotta da alcuni microrganismi di salmonella. Essa comprende i termini tifo, causato da S. tyhi, e paratifo,
causato da S. paratyphi A, S. paratyphi
B, S. paratyphi C. La salmonella ingerita si moltiplica nell’intestino tenue e, dopo essere penetrata attraverso la mucosa, i linfatici e il dotto toracico, raggiunge
il torrente sanguigno e la cistifellea (fase
asintomatica); qui la salmonella si moltiplica e si diffonde nell’intestino con la bile
per riprendere la via del circolo e causare
batteriemia sintomatica.
Il periodo di incubazione è solitamente di 7-14 giorni, ma può andare
da 3 a 30 giorni.
I settimana: l’insorgenza dei sintomi è molto insidiosa ed è caratterizzata
da febbre, malessere, inappetenza,
anoressia, mialgia, cefalea, dolori addominali.
Si può verificare diarrea con una
consistenza simile a una purea di piselli; in seguito la stipsi diventa il sintomo dominante. Nausea e vomito sono
rari e indicano solitamente la presenza
di una complicanza. Alcuni soggetti
presentano una grave letargia.
La febbre, che aumenta per gradi,
diventa costante ed elevata nelle prime
settimane, raggiungendo spesso i 40 °C.
II settimana: la febbre alta è continua, con peggioramento dell’astenia e
dei sintomi addominali. Il paziente,
molto compromesso, può presentare
delirio e stato soporoso.
All’esame obiettivo si può evidenziare: bradicardia relativa che contrasta
con la febbre alta, epatosplenomega-
167
Infezioni da alimenti
lia, iperestesia addominale, esantema
maculare (nel 50% dei pazienti).
settimana (80%), ma già alla terza solo
in una minoranza degli infetti. Il contrario accade per l’esame colturale delle
feci, con massimo di positività alla terza-quarta settimana.
III-IV settimana: risoluzione della
sintomatologia; malessere e letargia
possono persistere per alcuni mesi.
La febbre tifoide causata da salmonella non tifoidea è più lieve, di minore durata e presenta meno frequentemente complicanze.
La febbre intestinale può manifestarsi nei bambini più piccoli come una
lieve malattia febbrile non descritta.
Esami di laboratorio: tipica una leucopenia; un aumento dei leucociti può
essere la spia di una complicanza (meningite, osteomielite, ecc.); può essere
presente un transitorio innalzamento
delle ALT (alanina-aminotransferasi).
Trattamento
Esami di laboratorio: anemia normocitica, leucopenia (ma anche leucocitosi in presenza di ascessi piogeni), piastrinopenia, alterata funzionalità epatica.
Proteinuria, sangue e leucociti nelle feci.
a) Salmonella non tifoidea. Nel trattamento di routine della gastroenterite da
salmonella non sono indicati gli antibiotici. È consigliato il trattamento antibiotico in lattanti e bambini che corrono il
rischio maggiore di contrarre una patologia disseminata e in quelli con decorso più grave e prolungato.
Inoltre, il trattamento antibiotico
(ampicillina, trimetoprim-sulfametossazolo, cloramfenicolo) viene utilizzato in
caso di batteriemia o infezioni extraintestinali. La resistenza della salmonella
agli antibiotici è sempre più diffusa; è
quindi necessario eseguire test di sensibilità antibiotica.
La durata della terapia antibiotica è
di 10-14 giorni nei bambini con batte-
Test diagnostici
L’isolamento di salmonella da colture di feci, sangue, urine e dai focolai infettivi in base alla sindrome da salmonella sospettata è diagnostico. I test
sierologici per agglutinine da salmonella
(“agglutinine febbrili”, reazione di Widal)
possono suggerire la diagnosi di S.
tiphy. Tuttavia, a causa di risultati falsi
positivi e negativi, questi test non sono
attendibili. L’emocoltura è positiva nella
maggior parte dei pazienti nella prima
168
F. Salvini, S. Di Giacomo
MISURE PREVENTIVE
riemia, 4-6 settimane per osteomielite
acuta e 4 settimane per la meningite.
b) Salmonella typhi. Per il trattamento della febbre tifoide è necessaria la
terapia antibiotica, in particolare per il
tifo. Tuttavia, a causa della crescente
resistenza antibiotica, la scelta della
terapia empirica adeguata è spesso
controversa. Cloramfenicolo, trimetoprim-sulfametossazolo e ampicillina
hanno dimostrato una buona efficacia
clinica. La febbre recede in genere
nel giro di 7 giorni, tuttavia il trattamento di casi non complicati dovrebbe
essere proseguito per almeno 10-14
giorni o per 5-7 giorni dopo la defervescenza.
È inoltre importante tentare di eliminare lo stato di portatore cronico (escrezione di salmonella nelle feci per più di
un anno nel 2-3% dei casi di salmonella
tifoidea); tuttavia l’eradicazione è difficile,
nonostante la sensibilità “in vitro” all’antibiotico utilizzato. Un ciclo di 4-6 settimane di ampicillina ad alte dosi (o amoxicillina), associata a probenecid o trimetoprim-sulfametossazolo, comporta la guarigione dello stato di portatore nell’80%
dei casi. In caso di patologie delle vie biliari si consiglia una colecistectomia entro 14 giorni dal trattamento antibiotico.
Il farmaco di scelta per i portatori adulti
cronici è la ciprofloxacina.
I soggetti ammalati di febbre tifoidea devono essere ricoverati in reparto
ospedaliero di isolamento fino a negatività di tre esami colturali delle feci per
3 settimane consecutive.
Consumatori e produttori devono
essere istruiti sulla preparazione e la
cottura di uova e di altri alimenti ad alto rischio. La contaminazione trasversale degli alimenti deve essere evitata.
Le uova, il pollame e le carni crudi dovrebbero essere mantenuti separati
dagli altri cibi e dagli alimenti pronti da
mangiare. Le mani, le lame ed altri
utensili dovrebbero essere lavati accuratamente dopo l’utilizzo per qualsiasi
alimento, in particolare per gli alimenti
crudi.
• Cuocere la carne tritata, il pollame e
le uova prima del consumo. La carne e
il pollame devono raggiungere 65,5 °C.
• Evitare alimenti e bevande contenenti uova grezze (maionese, zabaione
casalingo), insalata russa e pane tostato francese non abbastanza cotto.
• Evitare assolutamente il latte crudo
non pastorizzato.
• Lavare le mani, le superfici di lavoro
della cucina e gli utensili con acqua e
sapone e subito dopo il contatto con
alimenti di origine animale.
169
Infezioni da alimenti
• Fare particolare attenzione agli alimenti per neonati, anziani e soggetti
con sistema immune compromesso. Si
valuta infatti che un adulto sano deve ingerire 106-108 cellule di salmonella per
contrarre la malattia, mentre nei lattanti
e nelle persone debilitate basta una carica batterica inferiore.
• Lavarsi le mani con sapone dopo il
contatto con rettili, anfibi o uccelli con
escrementi d’animali domestici. I neonati/lattanti e i soggetti immunocompromessi non dovrebbero avere contatto diretto o indiretto con tali animali.
l’efficacia (67-82%). Sono rari gli effetti collaterali importanti.
I bambini (6 anni o più) e gli adulti
devono ricevere una capsula gastroprotetta ogni 2 giorni per un totale di quattro capsule in otto giorni. Il vaccino orale non è consigliato sotto i 6 anni per
l’esperienza limitata. Essendo un vaccino vivo attenuato è controindicato nei
pazienti affetti da immunodeficienza.
Una dose di richiamo ogni 5 anni è raccomandata solo nel caso di esposizione
continua o ripetuta a Salmonella typhi.
Nei bambini di 2 anni o più è invece
consigliata la vaccinazione con vaccino
capsulare CPS polisaccaridico da Vi
CPS 0,5 ml (25 µg) intramuscolo. Anche gli effetti collaterali di Vi CPS sono
minimi. È raccomandata una dose di richiamo ogni 2 anni dopo la dose primaria se l’esposizione è continua e ripetuta.
Si consiglia un vaccino tifoide ai visitatori di aree endemiche, soprattutto
America Latina, Sud Est Asiatico ed
Africa. È importante ricordare che il
vaccino non sostituisce l’igiene personale e una scelta attenta di cibi e bevande, in quanto nessun vaccino ha
un’efficacia del 100%.
Si consiglia la vaccinazione a persone a stretto contatto con un portatore noto, anche al fine di controllare le
epidemie.
Vaccinazioni
Sono disponibili tre vaccini contro
S. typhi (Tabella 3). Il vaccino termofenolo-inattivato offre una scarsa protezione (51-76% di efficacia) ed è associato a effetti collaterali come febbre, reazioni locali, cefalea, in almeno
il 25% dei vaccinati. Questo vaccino è
consigliato solo in bambini con meno
di due anni di età ad alto rischio di
esposizione. La vaccinazione primaria
consiste in due dosi (0,25 ml ciascuna) sottocute con un intervallo di 4
settimane. Un secondo vaccino consiste in un preparato orale vivo-attenuato del ceppo Ty21a di S. typhi (Vivotif). Diversi studi ne hanno dimostrato
170
F. Salvini, S. Di Giacomo
Tabella 3
I vaccini antitifo disponibili
Vaccino
Tipo
Via di
somministrazione
Età minima del
ricevente in anni
N.
dosi
Frequenza dei
richiami in anni
Effetti
Avversi (%)
Inattivato da
calore e fenolo
Cellula intera
uccisa
Sottocutanea
0,5
2
3
< 35
Ty21a
Vivo attenuato
Orale
6
4
5
5
Vi CPS
Polisaccarido
Intramuscolare
2
1
2
<7
completa consente ai batteri di sopravvivere e di essere ingeriti, mentre una corretta cottura dell’alimento distrugge le
tossine e i microrganismi presenti. Oltre
alla carne poco cotta, altri veicoli del batterio sono il latte non pastorizzato e gli
ortaggi irrorati da acqua contaminata
proveniente da sistemi idrici non clorati.
È possibile, inoltre, il passaggio diretto
animale-uomo e uomo-uomo, per via
orofecale.
Le infezioni sono prevalentemente
sporadiche e meno frequentemente epidemiche, particolarmente tra soggetti
istituzionalizzati.
Enterocolite
da escherichia coli
enteroemmoragica
(echec)
Eziologia
Causata prevalentemente dal ceppo 0157: H7 di Escherichia coli, descritto la prima volta negli USA nel
1982, in circa 50 soggetti che avevano consumato hamburger contaminati.
Epidemiologia
Il principale serbatoio del batterio è il
bestiame, la cui carne viene accidentalmente inquinata con il contenuto intestinale durante la macellazione o la preparazione degli alimenti (enterite da hamburger). Con la macinazione, il batterio
dalla superficie della carne viene fatto
penetrare all’interno, dove la cottura in-
Patogenesi
La virulenza si correla principalmente
alla capacità dell’E. coli 0157 di produrre, a livello della mucosa intestinale, due
tossine (VT1 e VT2), chiamate “verotossine”, perché hanno un effetto citopatico
171
Infezioni da alimenti
sulle cellule VERO, o “Shigatossine”, in
quanto simili a quelle prodotte da Shigella dysenteriae. VT1 e VT2 hanno
una duplice azione: a livello locale riescono a inibire la sintesi proteica delle cellule cui aderiscono, legandosi alla subunità
60 S dei ribosomi, e a livello sistemico
inducono un’importante liberazione dei
fattori dell’infiammazione, responsabile di
severe complicanze. Tuttavia non tutti i
ceppi produttori di verotossine sono patogeni; sono in genere necessari altri
fattori di virulenza, tra cui appunto la capacità del ceppo di aderire alle cellule
epiteliali intestinali.
presenti aree di infiltrazione neutrofila
nella lamina propria, ascessi criptici e
pseudomembrane. L’interessamento
maggiore è a livello del tratto cecale.
La sintomatologia compare dopo circa 3-4 giorni dal consumo del cibo inquinato e ha un decorso di circa 6-7 giorni.
Un’importante complicanza di questa infezione è la sindrome emolitico-uremica
(HUS), che compare in circa il 6% dei
soggetti con diarrea emorragica e si caratterizza per una letalità del 3-5%. Si ritiene che la sindrome sia conseguente al
passaggio in circolo della tossina. Tale
sindrome si manifesta con anemia emolitica, piastrinopenia, microangiopatia, insufficienza renale, talora manifestazioni
neurologiche (convulsioni, sopore, coma,
vasculopatie cerebrali a focolaio) e segni
di interessamento epatico e pancreatico.
In altri casi la complicanza è rappresentata soltanto da una porpora trombotica
piastrinopenica (TTP), con compromissione renale modesta. I fattori di rischio
più importanti per lo sviluppo di
HUS/TTP sono l’età inferiore a 15 anni
e superiore a 65 anni, la presenza di ipocloridria, un elevato valore di PCR, la
conta dei leucociti plasmatici superiore a
11,0x103/µl e la temperatura corporea
superiore a 38 °C. Inoltre, una terapia
antibiotica condotta prima dell’infezione
può predisporre a queste complicanze.
Sintomatologia
Il quadro clinico è variabile. Si possono riscontrare forme asintomatiche o forme con diarrea non caratteristica, acquosa; più frequentemente si osserva
una forma diarroica emorragica molto
severa accompagnata da dolori addominali intensi e, talora, nausea e vomito.
Le feci sono in genere striate di sangue,
ma talvolta il soggetto può evacuare
sangue franco e coaguli. La febbre è di
norma assente o moderata e la conta
dei leucociti è in genere superiore a
10x103/µl. All’endoscopia, la mucosa
colica appare iperemica, edematosa, con
aree necrotiche focali; possono essere
172
F. Salvini, S. Di Giacomo
Diagnosi
Profilassi
Si ottiene mediante identificazione
dei ceppi EHEC in coprocoltura con antisieri specifici, che deve essere appositamente richiesta se si sospetta l’infezione. È possibile, inoltre, effettuare una
diagnosi sierologica, ricercando gli anticorpi diretti contro il lipopolisaccaride
0157.
È fondamentale prevenire e controllare le epidemie, informando i soggetti
circa il rischio di contrarre l’infezione con
l’assunzione di carne poco cotta e segnalando immediatamente ai dipartimenti
sanitari locali i casi riscontrati.
Infezione da
enterobacter
sakazakii
Terapia
La terapia è essenzialmente sintomatica: il trattamento di supporto, mediante reidratazione e correzione dello
squilibrio elettrolitico, e delle complicanze, quali l’insufficienza renale e l’anemia,
sono fondamentali per garantire la sopravvivenza del soggetto. La maggior
parte dei pazienti mostra in genere un
recupero completo senza sequele. Anche per l’HUS il trattamento si basa sulla
reidratazione e solo nei casi più gravi è
necessario ricorrere alla dialisi. Altre misure includono la plasmaferesi, la trasfusione di plasma fresco congelato e la
somministrazione endovenosa di immunoglobuline.
Non esistono prove circa l’efficacia degli antibiotici, i quali sembrano
addirittura peggiorare il decorso
dell’infezione.
Eziologia
E. sakazakii è un bacillo mobile,
Gram-negativo, appartenente alla famiglia delle Enterobacteriaceae. Tale
germe, noto fino al 1980 come “yellow-pigmented Enterobacter Cloacae”, è stato di seguito rinominato
Enterobacter sakazakii.
È comunemente presente nell’ambiente e in condizioni normali non è
patogeno; dati di letteratura degli ultimi anni lo indicano come patogeno
emergente in grado di causare sepsi,
meningite ed enterocolite necrotizzante in neonati, in particolare nei
prematuri o nei bambini immunodepressi.
È inoltre una causa rara di batteriemia e osteomielite negli adulti.
173
Infezioni da alimenti
Epidemiologia
Diagnosi
L’habitat naturale del batterio è sconosciuto. Diverse indagini condotte negli
ultimi anni e segnalazioni del CDC (Centers for Disease Control and Prevention)
di Atlanta hanno rivelato che l’infezione
può essere associata all’utilizzo di formule
di latte in polvere contaminate da tale germe. Il rischio per l’infezione può dipendere
da diversi fattori, tra cui la carica batterica
presente nel prodotto, la manipolazione
dopo la preparazione e le caratteristiche
del paziente (immunosoppressione, prematurità o basso peso alla nascita).
È possibile mediante coltura del batterio su terreni arricchiti, le cui colonie
manifestano una caratteristica colorazione giallastra, o mediante PCR.
Nella gestione dei pazienti con riscontro di E. sakazakii nel sangue o nel
liquido cerebrospinale, è utile eseguire la
TC dell’encefalo che, in quasi tutti i casi,
documenta la presenza di alterazioni cistiche, ascessi, raccolte di fluidi, ventricoliti
o infarcimenti cerebrali. Poiché il rischio
di idrocefalo è elevato, tali pazienti vanno
seguiti con un attento follow-up e con TC
dell’encefalo ripetute nel tempo.
Patogenesi
Terapia
Studi di laboratorio hanno dimostrato
che l’azione patogena del batterio è legata alla produzione di un’enterotossina
letale.
Tradizionalmente la meningite da E.
sakazakii viene trattata con ampicillina
e gentamicina o ampicillina e cloranfenicolo. Tuttavia, per l’aumentata resistenza all’antibiotico, vengono oggi
presi in considerazione i carbapenemi o
le più recenti cefalosporine associate a
un secondo agente antibatterico, come
un aminoglicoside.
Sintomatologia
L’infezione si manifesta con meningite, frequentemente complicata dalla formazione di ascessi cerebrali, batteriemia
o enterocolite necrotizzante. Il tasso di
mortalità è circa del 50 % e, in quasi tutti
i pazienti colpiti, il coinvolgimento del
SNC, in caso di sopravvivenza residua, in
ritardo mentale.
Profilassi
La profilassi è aspecifica e si
identifica, per il lattante, nell’utilizzo
174
F. Salvini, S. Di Giacomo
della formula liquida sterilizzata disponibile in commercio, poiché il latte in
polvere non è sterile e può quindi rappresentare un buon mezzo di coltura
per l’E. sakazakii; inoltre, periodi prolungati di stoccaggio e la somministrazione a temperatura ambiente
possono amplificare la carica batterica
presente. Un’alternativa all’utilizzo
della formula liquida, è rappresentata
dall’adozione di procedure asettiche
durante la preparazione del latte in
polvere, condotte esclusivamente da
personale specializzato. A questo fine
sono state avanzate delle linee-guida
dall’American Dietetic Association
(ADA) che indicano la corretta norma
di preparazione e di conservazione del
prodotto.
Vibrio cholerae
Eziologia
Vibrio cholerae è un batterio
Gram-negativo, mobile per mezzo di un
singolo flagello polare, di cui si conoscono diversi sierogruppi. Non è invasivo e colpisce di solito l’intestino tenue.
Produce un’enterotossina composta da
subunità A e B. La subunità A è la parte attiva della tossina, che entra nella
cellula ed è responsabile del cambiamento del metabolismo cellulare stesso. Questo condizionamento cellulare
induce un aumento di secrezione di acqua e sali, determinando una diarrea
secretiva. V. cholerae 01, di cui il biotipo El Tor è attualmente dominante, è
responsabile della settima pandemia,
attualmente in corso (Figura 1).
Figura 1
Diffusione globale
di colera durante la
settima pandemia
1970
1963
1971
1965-68
1970
1965-66
1964
1970
1962
1963
1970
1971
1971
175
1961
Infezioni da alimenti
Questa pandemia è iniziata nel
1961, quando il vibrione è comparso
come causa del colera epidemico in
Indonesia. Da allora, la malattia si è
rapidamente estesa ad altri paesi
dell’Asia (Bangladesh, India, Urss,
Iran e Iraq); negli anni ’70 l’epidemia
ha raggiunto l’Africa, che non aveva
avvertito la presenza di epidemie di
colera da più di 100 anni, diventando
endemica nella maggior parte del
continente. Nel 1991 El Tor ha raggiunto l’America Latina dove in un anno si è diffuso in 11 paesi.
Disastri naturali e provocati
dall’uomo possono aumentare considerevolmente il rischio di epidemie: ad
esempio nel 1994 nei campi di rifugiati ruandesi si sono verificati almeno
48.000 casi di colera.
Fino al 1992, soltanto il sierogruppo 01 di V. cholerae ha causato
il colera epidemico, mentre altri sierogruppi sono stati responsabili di casi
sporadici di diarrea. In quell’anno, India e Bangladesh hanno conosciuto
un’epidemia provocata da un sierogruppo precedentemente sconosciuto, V. cholerae 0139, denominato
Bengala.
Attualmente solo i ceppi 01 e 0139
sono in grado di causare epidemie.
Ciò non esclude però la possibilità
di nuove pandemie. Ad esempio, El
Tor fu originariamente isolato come
ceppo non virulento nel 1905, ma in
seguito ha acquisito sufficiente virulenza per causare la pandemia attuale.
I casi ufficiali riportati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel
2002 sono 123.986 con 3.763 decessi. La grande maggioranza di essi
si è verificata in Africa, soprattutto in
Congo, Malawi, Mozambico e Sud
Africa, dove si sono verificati oltre
90.000 casi pari al 72,6% del totale
annuo. In Europa sono stati segnalati
5 casi e nessun decesso, tutti attribuibili a malattia da importazione. Tali numeri sono da considerarsi una sottostima dei casi reali, dato che in molti
paesi del sud del mondo i sistemi di
sorveglianza e di denuncia di malattia
sono poco organizzati e capillari.
Trasmissione
L’uomo è l’unico ospite naturale
certo; è possibile dimostrare la presenza di organismi vitali nelle acque
dove la presenza del Vibrio cholerae è
associata alla fioritura di alghe (plancton), influenzata dalla temperatura
dell’acqua. Liberato nell’ambiente, il
vibrione del colera non sopravvive più
di 7 giorni.
176
F. Salvini, S. Di Giacomo
La più comune via di contagio è
rappresentata dall’ingestione di acqua
contaminata, oppure da crostacei, molluschi crudi o poco cotti, grano umido
conservato a temperatura ambiente e
pesce crudo o parzialmente secco.
La bollitura dell’acqua, il trattamento con iodio o cloro e l’adeguata cottura
dei cibi uccidono il germe.
I soggetti con bassa acidità gastrica
sono a maggior rischio di infezione colerica. Non vi è prova di possibile trasmissione interumana.
Nelle zone altamente endemiche, il
colera è prevalentemente una malattia
dei bambini in giovane età, mentre gli
allattati al seno ne sono meno frequentemente colpiti.
siemia e acidosi che possono condurre
a shock ipovolemico, coma, convulsioni
e ipoglicemia.
Le feci sono caratteristiche e si
presentano incolori con “fiocchi di muco”; vengono definite ad “acqua di riso”.
La maggior parte delle persone infettate non contrae la malattia, anche
se il batterio è presente nelle feci per
7-14 giorni. Nei casi di contagio, più
del 90% degli episodi sono di severità
lieve o moderata e sono difficili da distinguersi clinicamente da altri tipi di
diarree acute.
Meno del 10% dei casi sviluppa il
colera nella sua forma più grave.
Tale variabilità è data dalla carica
batterica ingerita, dal numero di recettori intestinali per il colera e per le sue
tossine. Inoltre un ruolo di primo piano
nel manifestarsi della malattia è giocato
dalla memoria immunitaria, come è dimostrato nei paesi fortemente endemici
in cui l’incidenza di malattia è relativamente bassa tra gli adulti rispetto ai
bambini.
Manifestazioni cliniche
Il periodo di incubazione è solitamente di 1-3 giorni, variando da alcune
ore fino a 5 giorni, quando compare
diarrea acquosa non accompagnata da
dolore addominale o febbre. Il vomito è
presente nella maggior parte dei casi.
Nelle sue manifestazioni severe, è
una delle malattie infettive che può più
rapidamente portare a disidratazione e
a morte se il trattamento non viene iniziato prontamente. Nel giro di 4-12 ore
può causare disidratazione, ipopotas-
Diagnosi
La diagnosi avviene con esame delle feci al microscopio in contrasto di fase e deve essere confermata con esame colturale su terreni specifici.
177
Infezioni da alimenti
Trattamento
se), sono gli antibiotici di scelta; la resistenza alla tetraciclina sta aumentando
e tale antibiotico non è raccomandato
nei bambini sotto gli 8 anni, a causa dei
danni ossei e allo smalto dentale, ma in
caso di colera i benefici possono superare i rischi. Altri antibiotici efficaci sono eritromicina (40 mg/kg/die fino al massimo
di 1 g), trimetoprim/sulfametossazolo (8
mg/kg/die TMP + 40 mg/kg/die SMX)
ed il furazolidone (5,5 mg/kg/die fino a
un massimo di 1400 mg).
Quando il colera si presenta in una
comunità che non possiede un adeguato sistema di sorveglianza o qualora
manchino le condizioni per la diagnosi e
il trattamento, i tassi di letalità possono
arrivare al 50%. Di contro, in un paese
organizzato dal punto di vista sanitario
la percentuale di decessi causati dalla
malattia può essere inferiore all’1%.
La maggior parte dei casi di diarrea
causati da V. cholerae possono essere
trattati adeguatamente con una terapia
reidratante per bocca (il sacchetto standard ORS-Oral rehidratation-salt di
OMS/UNICEF è considerato uno dei
presidi di salute pubblica a miglior costo/beneficio).
Durante l’epidemia, l’80-90% dei
pazienti con diarrea può essere curato
tramite la reidratazione orale, ma i pazienti che sono severamente disidratati
devono essere trattati con soluzioni reidratanti per via endovenosa.
Nei casi severi, un antibiotico efficace può ridurre volume e durata della
diarrea, oltre che il periodo di escrezione del vibrione. Tetraciclina (50
mg/kg/die fino a un massimo di 2
g/die, in 4 somministrazioni per 3 giorni) oppure doxiciclina (6 mg/kg/die fino
a un massimo di 300 mg in singola do-
Controllo epidemico e
misure preventive
Quando il colera compare in una
comunità è essenziale:
1) l’eliminazione igienica delle feci
umane;
2) un rifornimento sufficiente di acqua
potabile;
3) la predisposizione di misure efficaci
di igiene alimentare.
Le misure efficaci di igiene alimentare includono la cottura completa
dell’alimento e il suo consumo mentre è
ancora caldo. Evitare la contaminazione
degli alimenti cucinati, tramite il contatto con superfici contaminate o con mosche ed evitare frutta e ortaggi non
sbucciati. Lavarsi le mani dopo defeca-
178
F. Salvini, S. Di Giacomo
zione e prima del contatto con alimenti
o acqua potabile.
Il trattamento sistematico di una
comunità con antibiotici, "la chemioprofilassi totale", non ha effetto sulla diffusione del colera.
L’installazione di cordoni sanitari alle frontiere coinvolge risorse umane ed
economiche che dovrebbero essere dedicate a misure di controllo efficaci e
impedisce la collaborazione fra istituzioni e paesi che dovrebbero unire i loro
sforzi per combattere il colera.
Recentemente sono diventati disponibili in alcuni paesi stock limitati di due
vaccini orali anti colera che assicurano la
protezione ad alto livello per parecchi
mesi contro il colera causato da V. cholerae 01. Entrambi sono consigliabili ai
viaggiatori, anche se non sono stati ancora usati su vasta scala per scopi di sanità pubblica. L’uso del sistema vaccinale per evitare gli scoppi delle epidemie
non è suggerito, perchè può dare un
senso falso di sicurezza agli individui vaccinati e ai servizi sanitari, portandoli a trascurare le misure più efficaci.
Nel 1973 la Organizzazione Mondiale della Sanità ha cancellato dalle regolazioni internazionali di salute il requisito della presentazione di un certificato
di vaccinazione del colera. Oggi nessun
paese richiede la prova della vaccinazio-
ne del colera come condizione indispensabile per l’ingresso e il certificato
di vaccinazione internazionale non possiede più uno spazio specifico per la registrazione di tali vaccinazioni.
Vaccinazione
Vibrio cholerae 01
L’osservazione che l’infezione naturale conferisce immunità di lunga durata
ha spinto la ricerca a sviluppare vaccini.
Il primo tentativo di vaccino è del 1960:
somministrato per via parenterale conferiva protezione immunitaria del 90%
ed efficacia per un anno.
Le caratteristiche ideali del vaccino
dovrebbero essere il mantenimento dei
requisiti di patogenicità per la colonizzazione intestinale (motilità, fimbrie, neuroaminidasi), senza produrre tossine
complete, ma solo la subunità B: quest’ultima determina la produzione di anticorpi che andrebbero a competere a
livello recettoriale sul sito di legame tossina-cellula epiteliale.
Il rischio di infezione per i viaggiatori
che seguono norme precauzionali è
molto basso anche in zone endemiche,
tanto che la vaccinazione non è generalmente consigliata.
Sono stati sviluppati due nuovi vaccini anticolera che hanno dimostrato di
179
Infezioni da alimenti
possedere una buona efficacia e immunogenicità. Un vaccino (Cholerix, SBL
Vaccin AB, Stoccolma) è costituito da vibrioni del sierotipo 01 uccisi associati o
meno con la subunità B ricombinante
della tossina colerica (WC/rBS). Sperimentazioni cliniche condotte in Bangladesh, Colombia, Perù e Svezia hanno
evidenziato che due dosi conferiscono un
alto grado di immunità (85%) e una breve protezione (per 4-6 mesi) nei confronti
del biotipo El Tor. Il secondo è un vaccino
orale vivo attenuato, costituito da vibrioni
del ceppo Inaba 569 (CVD 103 HgR) resi deficitari del gene che codifica la subunità A della tossina (Orochol Berna Istituto Svizzero di Sieri e Vaccini, Berna). Si
tratta di una preparazione liofilizzata (contenente 5x108 batteri) che viene disciolta
con un tampone in acqua e assunta a
stomaco vuoto. La protezione compare
dopo una settimana e perdura per circa 6
mesi; non è attualmente raccomandata
una dose di richiamo. Non vanno somministrati contemporaneamente farmaci antimalarici, chinoloni o altri antibiotici attivi
nei confronti di V. cholerae; la vaccinazione antitifica orale va differita di almeno
3 settimane. Il vaccino è controindicato in
caso di gastroenteriti e nei pazienti con
immunodeficienza. Dopo una singola
somministrazione sembra conferire un’ottima protezione nei confronti del colera
sostenuto da biotipi classici o El Tor,
mentre non induce una protezione nei
confronti del ceppo di V. cholerae 0139.
I vaccini possono essere indicati per
viaggiatori ad alto rischio che passino
periodi prolungati in aree rurali o in
campi profughi in paesi in cui la malattia
è endemica.
Vibrio cholerae Bengala
Esiste un vaccino acellulare attivo
contro Vibrio cholerae Bengala, ma
che non produce immunità residua da
Vibrio cholerae 01.
Denuncia
In tutti i paesi del mondo il colera è
una malattia da denunciare alle autorità
sanitarie che devono essere informate
prontamente di ogni caso di colera noto
o presunto dovuto a V. cholerae 01 e
0139 Bengala.
Commercio di prodotti
alimentari che vengono
dalle regioni infettate
dal colera
Il Vibrio Cholerae 01 può sopravvivere in una vasta varietà di derrate alimentari fino a cinque giorni a temperatura ambiente e fino a 10 giorni a 5-10 °C.
180
F. Salvini, S. Di Giacomo
Il microrganismo può sopravvivere anche
congelato. Le basse temperature, tuttavia, limitano la proliferazione del vibrione
e possono impedire che il livello di contaminazione raggiunga una dose infettiva.
Il vibrione è sensibile all’acidità e
all’essiccamento e gli alimenti silicei
(pH 4,5) o secchi sono quindi senza rischio.
L’irradiazione e le temperature superiori a 70 °C distruggono il vibrione.
Gli alimenti che causano la preoccupazione più grande ai paesi di importazione sono frutti di mare e verdure
che possono essere consumati crudi.
Tuttavia, soltanto in rari casi tossinfezioni da colera si sono presentate come
conseguenza del consumo di un alimento. L’OMS a oggi non ha documentato un’epidemia significativa di colera
causata da alimenti provenienti da paesi
“a rischio”.
Di conseguenza, l’OMS non ritiene
giustificate limitazioni di importazione alimentari basate sul solo fatto che il colera
sia epidemico o endemico in un paese.
ceppi di C. perfrigens di tipo A sono
in grado di elaborare una potente enterotossina termolabile, capace di provocare una profusa diarrea, mentre i
ceppi di tipo C provocano una grave
forma di enterite necrotizzante.
Eziologia
Appartenente alla famiglia dei Clostridium, è un bacillo Gram-positivo,
anaerobio, capsulato, immobile. In forma vegetativa, poco resistente agli
agenti chimici e fisici, elabora esotossina ad azione necrotizzante ed emolitica.
È un batterio sporigeno e le spore prodotte sono molto resistenti al calore, al
freddo all’essiccamento.
Epidemiologia
Il C. per frigens è ubiquitario
nell’ambiente e spesso è presente su
carne e pollami crudi. L’inquinamento
può avvenire nei mattatoi o nelle cucine. L’agente eziologico può essere
isolato da numerosi campioni di carne
cruda, da feci di animali o umane
(soggetti sani). Sporulando, il germe
sopravvive all’iniziale cottura; le spore
germinano e proliferano durante il raffreddamento, dando luogo a forme vegetative con produzione di tossine.
Clostridium Perfrigens
Il Clostridium perfrigens è responsabile di una importante tossinfezione alimentare; in particolare alcuni
181
Infezioni da alimenti
Una volta ingerite, le spore continuano
a germinare nel tubo digerente, elaborando nuova tossina, i cui effetti si sommano a quelli della tossina preformata
eventualmente presente nell’alimento
(tossinfezione). Dopo essere state ingerite, le spore e l’enterotossina provocano
la sintomatologia caratteristica.
Le fonti alimentari più comuni sono
carne di manzo, pollame, sughi e cibi
liofilizzati e precotti.
Frequentemente l’infezione viene
contratta in banchetti, scuole, campeggi, o da cibi prodotti in grande quantità
e mantenuti riscaldati per lungo tempo.
Questa forma di enterite non ha
trasmissione interpersonale.
Il periodo d’incubazione è di circa
6-24 ore.
le capacità di riassorbimento del resto
dell’intestino, si instaura diarrea acquosa.
Buona parte della sintomatologia
deriva invece dall’assunzione della tossina preformata. Da qui la definizione
di tossinfezioni alimentari.
Clinica
L’intossicazione alimentare da C.
perfrigens è caratterizzata dall’improvvisa insorgenza, a distanza all’incirca di
8 ore dall’ingestione dell’alimento inquinato, di diarrea acquosa, dolore epigastrico crampiforme (moderato o grave).
Raramente si osserva vomito o febbre.
In genere la sintomatologia si risolve nel
giro di 24-48 ore.
L’assenza di febbre permette di distinguere questa enterite dalla shigellosi
e dalla salmonellosi, mentre la rarità del
vomito e il più lungo periodo d’incubazione la differenziano dall’intossicazione
alimentare da metalli pesanti, da
Staphylococcus aureus e da pesci e
molluschi.
Spesso l’enterite da C. perfrigens
è indistinguibile da quella da Bacillus
cereus. L’enterite necrotizzante è diffusa in Papua e Nuova Guinea, dove è
responsabile di grave malattia e di
morte.
Patogenesi
Una volta ingerite le spore e prodotta la tossina, questa altera la via
metabolica dell’adenilato-ciclasi, inibendo così il sistema di riassorbimento
del sodio nelle cellule dei villi, e attiva il
sistema di escrezione dei cloruri dalle
cripte; si verifica così un progressivo
aumento della quantità di cloruro di
sodio contenuta nel lume intestinale,
cui segue passivamente l’acqua.
Quando il volume di tale liquido supera
182
F. Salvini, S. Di Giacomo
Diagnosi
Profilassi
È possibile isolare l’agente responsabile dalle feci del paziente o
dall’alimento inquinato. Considerato
che il C. perfrigens è di frequente riscontro nelle feci di soggetti sani, per
parlare di infezione è necessario isolare almeno 10 6 spore di C. perfrigens per grammo di feci raccolte entro 48 ore dall’esordio della sintomatologia. L’enterotossina in causa può
essere messa in evidenza nelle feci
anche con metodiche immunoenzimatiche (ELISA) o ricorrendo a specifici
kit.
Per considerare inquinato uno
specifico alimento è necessario dimostrare una concentrazione di forme
vegetative di almeno 10 5 per grammo.
La diagnosi andrebbe fatta sulle
feci piuttosto che su tamponi rettali,
per poter in questo modo valutare il
numero di spore.
Si basa essenzialmente sulle opportune norme di manipolazione e di conservazione degli alimenti (cottura, refrigerazione).
Clostridium Botulinum
Il botulismo è una grave malattia
neuroparalitica causata dalla potente
neurotossina del Clostridium botulinum. Tale tossina produce la paralisi
dei muscoli scheletrici tramite l’inibizione del rilascio presinaptico di acetilcolina.
Si riconoscono quattro differenti
entità cliniche, a seconda della via di
contagio verificatasi.
Il botulismo alimentare si osserva
quando cibi inquinati dalle spore di C.
botulinum siano stati conservati in condizioni inadeguate e in anaerobiosi, permettendone in questo modo la germinazione, la moltiplicazione e la produzione
di tossine. La malattia consegue dunque
all’ingestione di cibo non adeguatamente
cotto contenente la neurotossina.
Terapia
È unicamente sintomatica. Nei casi
di grave disidratazione è utile ricorrere a
una terapia reidratante orale o endovenosa. Non è indicata alcuna terapia antibiotica.
Il botulismo infantile insorge quando le spore di C. botulinum colonizza-
183
Infezioni da alimenti
no l’intestino dove producono la tossina
botulinica.
mente all’ingestione di cibo conservato
in scatola (soprattutto pesce e verdure),
di insaccati o di mascarpone contaminati dalla tossina preformata. In particolare fattori favorenti la germinazione
delle spore e la produzione di tossine
sono un pH poco acido, una bassa tensione di ossigeno e un alto contenuto di
ossigeno stesso. Nel 90% dei casi si
tratta di alimenti conservati artigianalmente in ambiente domestico; i prodotti
industriali infatti risultano meno pericolosi grazie alle procedure di controllo
utilizzate dalle aziende produttrici. Generalmente l’intossicazione alimentare
si presenta in piccoli episodi epidemici.
Il botulismo alimentare è di rara osservazione nei bambini.
Il botulismo alimentare può essere
causato dalle tossine A, B, E; in particolare la neurotossina E si associa generalmente all’ingestione di pesce contaminato, il tipo A determina casi clinicamente severi, mentre il tipo B si associa a casi di modesta gravità.
Ha un periodo d’incubazione di 1236 ore e non sviluppa immunità contro la
tossina anche dopo una grave malattia.
Il botulismo da ferita compare
quando, in seguito alla penetrazione
delle spore attraverso soluzioni di continuo della cute, si verifica la produzione
della tossina nei tegumenti.
Infine, una percentuale variabile di
casi di botulismo è di natura indeterminata.
Eziologia
Il Clostridium botulinum è un bacillo
anaerobio obbligato, Gram-positivo, che
produce spore molto resistenti al calore
(fino a 120 °C), presenti nel suolo e nelle
acque marine, dove spesso contaminano
prodotti agricoli e ittici. Dopo la germinazione delle spore avviene l’elaborazione
della neurotossina, della quale ne sono
stati identificati sette tipi. Il botulismo
umano è provocato dalle tossine A, B, E,
F, mentre quello che colpisce gli altri animali è causato dai tipi C e D. La quasi totalità dei casi di botulismo infantile e alimentare è provocato dai tipi A e B.
Il botulismo da ferita rappresenta
la forma più rara. Dovuto alla crescita
del batterio e alla sua produzione di tossine all’interno di tessuti traumatizzati,
Epidemiologia
Il botulismo alimentare (mediana
annua dei casi = 24) consegue abitual-
184
F. Salvini, S. Di Giacomo
riconosce come eventi predisponenti le
ferite traumatiche o chirurgiche di grande entità e, negli ultimi anni, l’uso di
droghe per via iniettiva. Il periodo di incubazione è di 4-14 giorni tra il momento della lesione e l’esordio della
sintomatologia.
grassi volatili e di numerosi microrganismi intestinali (Bacteroides sp, Lactobacillus e altri clostridi), sono fattori in
grado di inibire la crescita di C. botulinum.
Alcuni studi effettuati su ratti hanno
identificato come fattori di rischio per
l’impianto di C. botulinum la presenza
a livello intestinale di batteri coliformi e
di enterococchi, preceduta da una colonizzazione anaerobia (condizione che si
verifica al momento del divezzamento).
I bambini allattati artificialmente
hanno una flora di tipo putrefattivo, con
crescita predominante di batteri anaerobi e Bacteroides sp. mentre i bambini
allattati al seno hanno una flora di tipo
fermentativo con predominanza di lattobacilli e bifidobatteri, un basso pH intestinale e alti livelli di lattoferrina, tutti
fattori che sembrano sfavorire la crescita del C. botulinum. In questi bambini
però, all’inizio del divezzamento l’introduzione di alimenti diversi dal latte materno determina una modificazione della
flora intestinale, aumentando così il rischio di colonizzazione da parte del C.
botulinum.
Questo è dimostrato anche da uno
studio condotto in Pennsylvania, nel
quale sono stati valutati 43 casi di botulismo infantile verificatisi tra il 1976 ed il
1983: di questi, il 100% era allattato al
Il botulismo infantile (mediana annua dei casi = 71) secondo i CDC rappresenta ormai la forma più frequente,
superando ampiamente come incidenza
quella della forma alimentare. Esso si
sviluppa quasi esclusivamente in bambini
di età inferiore a sei mesi e deriva dall’ingestione di spore di C. botulinum; una
volta ingerite, le spore germinano, proliferano e producono la tossina nell’intestino. Il periodo d’incubazione è variabile
da 3 a 30 giorni dall’ingestione del cibo
contaminato da spore.
Non è noto perché la malattia colpisca alcuni lattanti mentre in altri l’ingestione delle spore rimanga inoffensiva.
Flora intestinale
e botulismo infantile
Sembra che lo sviluppo delle spore
nell’intestino sia strettamente correlato
al tipo di microflora che colonizza l’intestino. È stato dimostrato che basso pH,
carenza di nutrienti, presenza di acidi
185
Infezioni da alimenti
seno al momento dell’insorgenza dei sintomi e quasi tutti i bambini erano stati divezzati nelle quattro settimane precedenti l’esordio della malattia.
Nella flora intestinale dei soggetti
affetti è stata poi identificata la predominanza di Enterobacteriaceae e di altri anaerobi, facendo così ipotizzare che
il maggior rischio per la colonizzazione
da parte del C. botulinum si abbia in
momenti diversi a seconda del tipo di
allattamento. In particolare il bambino
allattato con formula sembra essere a
maggior rischio già dalle prime settimane di vita, durante le quali sono presenti
elevati livelli di enterococchi e Bacteroides. L’allattato al seno, invece, sembra
presentare un livello massimo di rischio
più tardivamente, in relazione all’epoca
di inizio del divezzamento, conseguente
alle modificazioni della flora intestinale
che si verifica in questo periodo.
Sin dalla scoperta della malattia si è
posto il problema di individuare la fonte
delle spore del clostridio. Molteplici sono gli alimenti che possono essere contaminati da spore del C. botulinum; tra
questi il maggiormente implicato è il
miele. Analisi microbiologiche condotte
su questo alimento hanno evidenziato la
presenza di spore del botulino nel 25%
dei prodotti.
In letteratura sono stati riportati
molti casi di botulismo infantile secondari al consumo di miele; in particolare
indagini effettuate in occasione di casi
accertati di botulismo infantile in Canada, USA, Italia, Giappone, Argentina e
Norvegia, solo il miele è stato dimostrato veicolare le spore di C. botulinum.
L’analisi di residui di miele utilizzato da
questi bambini ha evidenziato la presenza di una discreta carica di spore e
mai di tossina.
Questo è dovuto al fatto che il processo di maturazione del miele favorisce la crescita delle spore al suo interno, soprattutto se le condizioni di microanaerobiosi sono state create dal
metabolismo ossidativo del Bacillus alvei, un altro comune contaminante del
miele. Purtroppo i trattamenti convenzionali per distruggere le spore non
possono essere utilizzati per il miele,
perché ne altererebbero profondamente
le caratteristiche organolettiche.
Per tale motivo le più importanti associazioni sanitarie in Usa e in Europa,
compresa l’Italia, hanno raccomandato
di evitare l’uso del miele nei bambini al
di sotto del primo anno di vita.
Clinica
Tranne che nel botulismo infantile,
la malattia può esordire acutamente in
186
F. Salvini, S. Di Giacomo
poche ore, o più gradualmente in alcuni
giorni.
Nelle primissime fasi si osserva una
paralisi flaccida della muscolatura bulbare cui segue una progressiva discesa
simmetrica; solo in un secondo momento si ha un coinvolgimento della
muscolatura somatica. A questo punto
la paralisi simmetrica può evolvere rapidamente. Per questo motivo i bambini
con forme rapidamente progressive, alla prima visita possono già avere segni
di ipotonia e debolezza generalizzata.
Nei bambini più grandi possono
comparire diplopia, offuscamento della
vista, secchezza della bocca, disfagia,
disfonia e disartria.
Nel botulismo infantile il primo sintomo è rappresentato da costipazione che,
già nelle prime fasi della malattia, si accompagna a letargia, scarsa alimentazione, pianto flebile, diminuzione dei riflessi
rotulei, lieve paralisi oculare. Nell’arco di
tre giorni compaiono scarsa suzione,
perdita del controllo del capo, ipotonia e
debolezza generalizzate (floppy infant),
riduzione dei movimenti spontanei. A
questi segni e sintomi si associano tachicardia, ipotensione, vescica neurologica.
La malattia può presentare uno
spettro clinico ampio, potendo andare
da un’iniziale manifestazione lieve che
può passare inosservata, alla forma di
botulismo fulminante, indistinguibile per
storia e presentazione dalla morte improvvisa in culla (SIDS).
Test diagnostici
Un test di bioneutralizzazione della
tossina del topo viene utilizzato per
identificare la tossina botulinica in
campioni di siero, feci o cibi sospetti,
mentre terreni arricchiti e selettivi sono utilizzati per isolare il C. botulinum
dalle feci e dai cibi.
Nelle forme infantili o da ferita, la
diagnosi viene posta dimostrando il
microrganismo o la neurotossina nelle
feci, nell’essudato delle ferite o in
campioni tissutali.
Andrebbero esaminati sia il siero
sia le feci dei bambini con sospetto
botulismo. Se i campioni di siero sono
stati raccolti a più di tre giorni di distanza dall’ingestione delle spore non
sono da considerarsi attendibili e bisogna ricorrere all’esame di coprocolture
e a colture di aspirati gastrici.
Anche l’elettromiografia può fornire
elementi utili per la diagnosi. Si può infatti osservare con stimolazione nervosa
ad alta frequenza (più di 20 cicli per secondo) una risposta aumentata dei potenziali muscolari evocati e, più frequentemente, si può osservare un
187
Infezioni da alimenti
Tabella 4
Diagnosi differenziali del botulinismo
Botulinismo
Segni e sintomi a livello dei muscoli oculobulbari
Sindrome
di Guillan-Barr
Debolezza progressiva, segni di neuropatia,
elevati livelli di proteine nel liquor
Miastenia grave
Anticorpi anti-recettori acetilcolinergici, “edrophonium test”
Neuropatia
da difterite
Essudato tonsillare,
neuropatia periferica tardiva
Variante
di Miller-Fischer
Riflessi tendinei profondi assenti, atassia
Poliomelite
Attacco acuto di debolezza simmetrica,
elevati livelli di proteine e cellule nel liquor
aspetto caratteristico con potenziali motori brevi, piccoli e frequenti (BSAP).
infezioni secondarie, perché la lisi cellulare può aumentare il rilascio di neurotossina da parte del C. botulinum. Da
evitare l’uso di aminoglicosidi.
Terapia
Il principale supporto terapeutico è
rappresentato da un’attenta terapia di
supporto, soprattutto da un punto di vista nutrizionale e respiratorio.
Sembra essere efficace il ricorso al
trattamento con antitossina ottenuta
dall’uomo: il suo utilizzo sembra essere
associato a una riduzione significativa
dei giorni di ospedalizzazione, della durata della ventilazione meccanica e della
nutrizione parenterale.
Il trattamento con antitossina va iniziato al più presto, senza attendere la
conferma laboratoristica della diagnosi.
Il ricorso alla terapia antibiotica nella
forma infantile va riservato alla cura di
Prevenzione
Nei soggetti asintomatici che hanno
ingerito cibi contenenti la tossina botulinica non è raccomandata una profilassi
passiva e il ricorso ad antitossina umana va attentamente ponderato.
L’eliminazione della tossina può essere facilitata inducendo il vomito o ricorrendo alla lavanda gastrica. Queste
misure non vanno però adottate nel botulismo infantile.
Cardine della prevenzione resta
però un’adeguata informazione circa il
metodo di inscatolamento artigianale
degli alimenti.
188
F. Salvini, S. Di Giacomo
Le fonti d’infezione dei casi denunciati ai CDC sono:
• rapporto stretto con una persona infetta in famiglia o nell’ambito di piccole
comunità;
• viaggi internazionali;
• epidemie associate a cibo (cozze,
molluschi, verdure crude) o acqua (acqua da fonti non controllate, bevande
con ghiaccio preparato con acqua infetta, bagni vicino a fognature) infetti;
• attività omosessuale maschile;
• uso di droghe per via endovenosa;
• rara è la trasmissione madre-bambino.
La trasmissione oro-fecale fra persone asintomatiche, particolarmente
bambini piccoli, probabilmente rende
conto della maggior parte dei casi con
causa non riconoscibile.
Va sottolineato a questo proposito
che non esiste lo stato di portatore
cronico del virus HAV e che il serbatoio
d’infezione è pertanto rappresentato
solo dai soggetti con infezione acuta.
Anche in assenza di qualsiasi sintomatologia essi, infatti, eliminano il virus
con le feci per un breve periodo di
tempo. L’eliminazione fecale è massima nell’ultimo periodo della fase d’incubazione (1-2 settimane prima dell’insorgenza dei sintomi) e si riduce rapidamente dopo la comparsa dell’ittero
(1 settimana). Tuttavia, particolarmente
EPATITE A
L’epatite A è un’infiammazione
acuta del fegato che non cronicizza
mai.
Eziologia
Il virus dell’epatite A (HAV) è un virus a RNA, di diametro di 27-28 nm,
privo di involucro, classificato come enterovirus 72 appartenente alla famiglia
Picornaviridae.
L’HAV è stabile in ambiente acido e
alla temperatura di 60 °C per un’ora; e
viene inattivato dalla bollitura in acqua,
dalla formalina per tempi prolungati e
dai raggi ultravioletti.
L’HAV è presente nel fegato, nella
bile, nelle feci e, per un breve periodo,
nel sangue durante l’ultima fase del periodo d’incubazione.
Modalità di trasmissione
ed epidemiologia
La più frequente via di trasmissione
è da persona a persona per contaminazione fecale e ingestione orale (via orofecale). Va comunque ricordato che sono stati descritti, seppur eccezionalmente, casi di epatite A contratti a seguito di emotrasfusioni.
189
Infezioni da alimenti
nel neonato e nel bambino piccolo, il
virus si può ritrovare per periodi più
lunghi.
L’epatite A è diffusa in tutto il mondo sia in forma sporadica sia in forma
epidemica.
Nei paesi in via di sviluppo, caratterizzati da scarse condizioni igienico-sanitarie, l’infezione si trasmette rapidamente tra i bambini, nei quali la malattia è
spesso asintomatica, e molti adulti risultano, pertanto, già immuni all’infezione.
Nei paesi economicamente più
avanzati, le migliori condizioni igienicosanitarie hanno, invece, determinato
una riduzione della diffusione dell’infezione tra i bambini e una conseguente
maggior diffusione tra gli adulti, a causa
di una più alta proporzione di soggetti
suscettibili che hanno un maggior rischio di contrarre forme cliniche evidenti e severe.
Nei paesi industrializzati, la trasmissione è frequente in ambito familiare e si
verifica sporadicamente negli asili nido,
dove sono presenti bambini che fanno
uso dei pannolini.
L’infezione è altrettanto frequente
fra i soggetti che fanno viaggi in paesi
in cui la malattia è endemica (Africa,
Sud-Est Asiatico, Messico, Sud America).
In Italia, l’infezione è, ancora oggi,
assai diffusa. Tuttavia il sensibile miglioramento delle condizioni igienicosanitarie ha modificato il quadro epidemiologico: sensibile riduzione del tasso
d’incidenza (passato da 5 a
2/100.000 abitanti nel corso degli anni 1985-1995) e progressiva riduzione
della prevalenza di soggetti con evidenza sierologica d’infezione pregressa
(positività per anticorpi anti HAV di
classe IgG) fra i giovani.
Tabella 5
Casi notificati di epatite A con fattore di rischio identificato. SEIEVA 2002
Fattori di rischio
Fasce di età
0-14 (%)
15-24 (%)
>25 (%)
TOTALE (%)
Consumo di
frutti di mare
63 (44)
116 (71)
255 (70)
434 (65)
Contatto con itterico
nelle 6 settimane
17 (14)
12 (8)
18 (6)
47 (8)
Notte fuori città
62 (43)
47 (29)
161 (44)
270 (40)
142
175
434
751
Totale
190
F. Salvini, S. Di Giacomo
Patogenesi
te dall’HAV. L’effetto citopatico è quindi
virus-specifico e funzionalmente collegato al complesso maggiore di istocompatibilità.
La patogenesi dell’epatite A non è
stata ancora chiarita.
Il virus viene diffuso nell’ambiente
attraverso le feci dove giunge con la bile, dopo essere stato liberato dagli epatociti infettati. È ignoto come il virus,
una volta ingerito con cibo o acqua contaminati, attraversi la mucosa intestinale
e si localizzi nel parenchima epatico.
Oltrettutto, il passaggio attraverso
il canale intestinale non sembra costituire una tappa fondamentale ai fini della localizzazione epatica; basti pensare
ai rari casi di trasmissione dell’infezione
attraverso emotrasfusioni.
Ancora da chiarire sono i meccanismi
responsabili della necrosi cellulare. Numerose osservazioni suggeriscono che la
necrosi epatocitaria non sia conseguenza
dell’attività citopatica del virus, ma della
risposta immunitaria dell’ospite all’infezione: l’assenza di attività citopatica “in vitro”, la presenza di replicazione virale nelle settimane precedenti l’esordio clinico
della malattia, l’esistenza di un infiltrato
infiammatorio (linfomonociti) nel parenchima epatico nel corso della fase acuta.
Secondo recenti indagini, inoltre, la
gran parte di tali cellule è costituita da
linfociti T citotossici (CD8+) che riconoscono in modo specifico cellule infetta-
Diagnosi
La diagnosi di infezione da HAV si
basa sulla ricerca degli anticorpi specifici.
Test sierologici per gli anticorpi IgG e IgM
anti-HAV sono disponibili in commercio.
Anticorpi IgM anti-HAV sono presenti
all’inizio della malattia e generalmente
scompaiono entro 4 mesi, tuttavia possono essere presenti per 6 mesi o più. La
presenza di IgM indica infezione recente o
in atto, anche se vi sono dei falsi positivi.
Le IgG anti-HAV si sviluppano poco
dopo le IgM; esse, in assenza di IgM,
indicano una passata infezione e protezione verso l’infezione.
Altri dati di laboratorio importanti ai
fini della diagnosi sono:
• iperbilirubinemia di tipo misto (con
prevalenza della bilirubina diretta) e di
intensità molto variabile;
• aumento spiccato degli indici di necrosi epatocitaria (AST, ALT);
• aumento del tempo di protrombina (in
modo proporzionale alla gravità dell’episodio epatitico);
• modesto aumento delle gammaglobuline.
191
Infezioni da alimenti
Manifestazioni cliniche
miche e l’esame obiettivo mette in
evidenza epatomegalia e talora
splenomegalia;
Un episodio di epatite acuta può
essere distinto in 4 fasi diverse:
4) periodo della convalescenza.
1) periodo d’incubazione: 15-50 giorni con una media di 25-30;
Clinicamente si possono distinguere
3 forme cliniche di epatite A.
2) periodo preitterico: caratterizzato da
una sintomatologia aspecifica (anoressia, nausea, vomito, talora febbre
e alterazione dell’alvo, astenia intensa e malessere) della durata variabile
tra alcuni giorni (3-4) e qualche settimana (2-3);
Epatite acuta asintomatica: forma
frequente nei bambini di età inferiore
ai 6 anni. La malattia non causa disturbi o solo alcuni, aspecifici e per
brevi periodi di tempo (astenia, dispepsia, febbricola).
3) periodo itterico: caratterizzato da
un aumento della bilirubinemia di
variabile entità e durata, i sintomi
prodromici si risolvono spontaneamente; in questa fase, le feci appaiono ipocoliche, le urine ipercroFigura 3
Epatite acuta sintomatica: tipica delle persone adulte e dei bambini più
grandi; i disturbi sono più evidenti, si
protraggono a lungo (non oltre 6 mes i ) e c o mp r e n d o n o l a c o mp a r s a
dell’itttero.
Epatite DA HAV
Sintomi
IgG anti-HAV
Livelli
ALT
IgM anti-HAV
Virus nelle feci
0
2
4
6
8
10
Settimane dopo l’esposizione all’HAV
192
12
F. Salvini, S. Di Giacomo
Epatite fulminante: è rara, ma più frequente in persone con un’epatopatia
di base.
Non esistono forme croniche di
epatite A.
di lavoro, i bambini e gli adulti con infezione da HAV devono essere allontanati per una settimana dopo l’inizio
dei sintomi.
Un’altra possibile misura di prevenzione è l’uso delle immunoglobuline (IgG,
0,02 ml/Kg) che contengono anticorpi
contro il virus HAV: sono utili per un breve periodo di tempo e debbono essere
somministrate entro 2 settimane dal momento in cui il soggetto è venuto a contatto con il virus.
Esiste anche il vaccino contro
l’epatite A. In Italia, sono disponibili due
diversi vaccini che forniscono una protezione dall’infezione già dopo 14-21
giorni dalla somministrazione. I vaccini
sono costituiti da antigeni virali purificati da colture di fibroblasti umani diploidi infettati dall’HAV inattivati alla
formalina e adsorbiti su alluminio
idrossido (Havrix e Vaqta). Tutti i vaccini sono per uso intramuscolare.
In studi randomizzati in doppio cieco
l’efficacia protrettiva del vaccino contro
l’epatite A è stata del 94-100%.
La necessità di richiami non è
stabilita in quanto i vaccini anti-HAV
sono in studio da troppo poco tempo,
tuttavia si è osservato che il vaccino
determina, dopo la seconda dose,
un’immunità della durata di almeno
10 anni.
Terapia
Il trattamento dell’epatite A è di
supporto, in quanto non esiste una terapia specifica.
Il paziente deve essere isolato per
un periodo di 7 giorni dalla comparsa
dell’ittero. La terapia si basa su riposo
e dieta che deve essere molto limitata: liquidi zuccherati nei primi giorni di
malattia, quando viene riferita anoressia spiccata, nausea e vomito, poi con
la scomparsa di tale sintomatologia,
viene consigliata una dieta ricca di
glucidi e protidi, senza tuttavia una
esclusione dei lipidi troppo rigida.
Prevenzione
La principale misura di prevenzione
per le infezioni da HAV è rappresentata dal miglioramento delle strutture
igieniche (fornitura di acqua e preparazione del cibo) e dell’igiene personale
(es. pulizia delle mani dopo il cambio di
pannolini negli asili).
Nelle scuole, negli asili e sul posto
193
Infezioni da alimenti
Tabella 6
Dosi e schedule raccomandate per il vaccino inattivato anti epatite A.
Età (anni)
Vaccino
Dose di
antigene
Volume per
dose (ml)
N. dosi
Schedula
2-18
Havrix
750 ELU
0,5
2
inizio e dopo 6/12 mesi
2-17
Vaqta
25 U
0,5
2
inizio e dopo 6/18 mesi
> 19
Havrix
1440 ELU
1
2
inizio e dopo 6/18 mesi
> 18
Vaqta
50 U
1
2
inizio e dopo 6 mesi
lassi passiva o attiva dipende dal
tempo che manca alla partenza,
dal costo e dalla disponibilità di
IgG e vaccino, dalla durata
dell’esposizione e dalla probabilità
di ulteriori esposizioni. Le immunoglobuline sono protettive contro
l’HAV subito dopo la somministrazione, mentre il tempo preciso che
serve per l’insorgenza di un titolo
protettivo in seguito a una dose di
vaccino è di 2-4 settimane. I bambini di età inferiore a 2 anni dovrebbero ricevere solo le IgG, in
quanto l’uso del vaccino per questa età non è ancora stato approvato.
Gli effetti collaterali sono moderati
e includono dolore locale e, meno
spesso, indurimento della sede di vaccinazione. Non sono mai stati segnalati effetti collaterali gravi attribuibili con
sicurezza al vaccino.
Nel bambino, prima dell’immunizzazione, non è richiesta la ricerca degli
anticorpi anti-HAV. Il test potrebbe avere un buon rapporto costo-efficacia, in
individui con un’alta probabilità di essere immuni per una precedente infezione, come quelli che hanno passato la
loro infanzia in zone ad alta endemia,
quelli con storia di ittero e soggetti di
età superiore ai 40 anni.
2) Bambini appartenenti a comunità
con alta endemia o epidemie periodiche di epatite A.
Chi deve essere vaccinato?
1) Soggetti suscettibili che si recano
o lavorano in paesi con incidenza
intermedia o alta di infezione da
HAV. La scelta dell’immunoprofi-
3) Pazienti con malattia epatica cronica, i quali hanno un maggior rischio di contrarre gravi epatiti
194
F. Salvini, S. Di Giacomo
fulminanti durante l’infezione da
HAV.
4) Omosessuali maschi.
tra i bambini di un centro dove tutti
i bambini hanno il controllo degli
sfinteri e sanno usare il WC, le IgG
sono raccomandate per il personale suscettibile a contatto con il caso indice e per i bambini suscettibili della stessa classe. Quando un
caso d’infezione da HAV è identificato tra il personale o i bambini o
tra i contatti familiari di due o più
bambini che frequentano un asilo
nido dove non tutti i bambini usano
il WC, la somministrazione di IgG è
raccomandata per tutto il personale e per tutti i bambini.
5) Tossicodipendenti per via endovenosa.
6) Pazienti con disordini dei fattori
della coagulazione
La profilassi post-esposizione con
IgG, invece, è raccomandata in alcuni
casi ben definiti.
1) Familiari e persone con contatti
sessuali suscettibili devono ricevere immunoglobuline (IgG) entro 2
settimane dall’esposizione; l’uso
di IgG oltre 2 settimane dopo
l’esposizione non è indicato;
4) Scuole: l’esposizione scolastica
generalmente non comporta un rischio significativo di infezione e le
IgG non sono indicate.
2) Neonati nati da madri infette da
HAV; la trasmissione materno-fetale del virus è rara; alcuni esperti
hanno consigliato la somministrazione di IgG al bambino (0,02
ml/Kg) nel caso in cui i sintomi
della madre siano insorti da 2 settimane prima a 1 settimana dopo
il parto, tuttavia, l’efficacia del
trattamento non è stata ancora
stabilita;
5) Istituzioni e ospedali: negli istituti
di custodia, quando si verifica
un’epidemia, gli ospiti e gli operatori in stretto contatto personale
con il paziente devono ricevere le
IgG. La somministrazione di IgG al
personale ospedaliero che segue
un paziente con infezione da HAV
non è invece di norma indicata.
6) Esposizione a fonti comuni: la fonte è generalmente individuata
troppo tardi perché le IgG siano
efficaci.
3) Personale dei centri diurni per
bambini, bambini e loro contatti familiari. Quando un caso di epatite
A è identificato tra il personale o
195
Infezioni da alimenti
no una sieroprevalenza delle donne in
età fertile del 25%; il rischio di infezione primaria in una gravida sieronegativa
è del 0,7%. La percentuale di infetti
però è nettamente più elevata nel caso
di pazienti già affetti da immunodeficienza, come ad esempio i malati di
AIDS, che raggiungono percentuali del
50%.
Uno studio europeo effettuato in
sei grandi città (tra cui anche Milano e
Napoli), pubblicato sul British Medical
Journal nel 2000, dà una stima di 1-10
casi di toxoplasmosi congenita ogni 10
mila bambini nel nostro continente, di
cui 1-2 % muoiono o sviluppano forme
di ritardo mentale, mentre il 4-27%
presentano corioretinite che porta a una
condizione di cecità unilaterale permanente. Risulta chiaro che i fattori di rischio principali sono legati all’alimentazione (dal 30 al 63% dei casi dovuti
all’assunzione di carne di maiale e agnello poco cotta), contatti con suolo contaminato (6-17% dei casi) e viaggi in paesi dove le condizioni igieniche sono meno controllate. Nessuno dei casi sembra
dovuto a contatto diretto con gatti.
TOXOPLASMOSI
La toxoplasmosi è una zoonosi sostenuta dal Toxoplasma gondii, un
protozoo intracellulare obbligato. Il
Toxoplasma è presente in natura in
tre forme diverse: l’oocita, escreto con
le feci dai gatti infetti, la forma proliferativa (trofozoita o tachizoita) e quella
cistica (cistozoite) che si trova invece
nei tessuti degli animali infetti.
L’ospite principale della malattia
più vicino all’uomo è il gatto, ma la
trasmissione non avviene solitamente
per diretto contatto con l’animale,
bensì con le sue feci. Il Toxoplasma
in natura può avere moltissimi altri ospiti
tra gli animali, dai mammiferi agli uccelli
fino ai rettili, e può trasmettersi da un
animale all’altro attraverso l’alimentazione con carne infetta.
L’uomo, ospite intermedio, presenta solo la fase di sviluppo asessuato extraintestinale.
Epidemiologia
Secondo i dati presentati da Health
Canada, nel mondo l’incidenza della
toxoplasmosi è estremamente variabile:
dal 3 al 70% degli adulti risulta sieropositivo per la malattia. La sieroprevalenza
aumenta con l’età; studi italiani riporta-
Clinica
La malattia è spesso asintomatica;
nel 10-20% dei casi può presentarsi con
196
F. Salvini, S. Di Giacomo
Figura 4
)
1
i Oocisti
)
fecali
Sia le oocisti sia le cisti tissutali si trasformano
rapidamente in tachizoiti dopo l’ingestione.
I tachizoiti si localizzano nei tessuti nervoso e
muscolare e si trasformano in cisti tissutali
(bradizoiti).
Se una donna gravida si infetta, i tachizoiti
possono infettare il feto per via ematica.
3
i = stadio infettivo
d = stadio diagnostico
d
Siero, liquido
cerebrospinale
d
d
Stadio diagnostico
1) diagnosi sierologia
2) identificazione diretta del parassita
da sangue periferico, liquido amniotico
o sezioni di tessuto
197
i Cisti
tissutali
2
Infezioni da alimenti
sintomi simil-influenzali quali linfoadenopatia, rinite e dolore muscolare e linfocitosi. Nel soggetto immunocompetente, la
parassitemia viene facilmente contrastata, ma le cisti di Toxoplasma, possono
sopravvivere nei tessuti e riattivarsi in seguito a compromissione del sistema immunitario. Nei soggetti immunocompromessi, bambini, malati di HIV, trapiantati
o in corso di chemioterapia, la malattia
può presentarsi in forma severa con danni cerebrali e oculari. La toxoplasmosi è
ad alto rischio nel caso in cui venga contratta in gravidanza, diventando così un
importante elemento di cui tenere conto
nel campo della salute materno-infantile;
se trasmessa al feto può causare malformazioni gravi e rischio di aborto.
In gravidanza, per le gestanti sieronegative, la ricerca degli anticorpi è da
eseguire ogni 40 giorni fino al momento
del parto.
Qualora fosse accertata un’infezione materna, si deve considerare
l’eventualità che il protozoo passi la
placenta ed infetti il feto.
La probabilità di trasmissione al feto solitamente aumenta con l’avanzare
della gravidanza e non è correlata con i
sintomi materni, andando da un 15%
del primo trimestre ad oltre il 60% nel
terzo. Tuttavia, la gravità del danno fetale è direttamente proporzionale all’età
gestazionale al momento dell’infezione,
con una gravità maggiore tanto più precoce è l’infezione.
Di norma, la malattia può causare
nel bambino infettato in epoca pre-natale tre condizioni cliniche: corioretinite,
idrocefalo e calcificazioni intracraniche.
Questi sintomi sono presenti solo nel
10-30% dei casi, mentre più del 75%
dei neonati è asintomatico alla nascita
e può presentare sintomi più tardivamente. Altre possibili manifestazioni di
infezione fetale sono ritardo di accrescimento endouterino e prematurità
con ittero e anemia spiccati. L’infezione
congenita può presentare segni neurologici gravi, e i più frequenti sono le
convulsioni, il nistagmo, la microcefalia,
l’idrocefalia, l’epilessia e il ritardo psicomotorio.
Trattamento
Nel caso in cui venga contratta in
gravidanza o anche solo sospettata, la
toxoplasmosi va trattata con spiramicina
fino all’esclusione dell’infezione o fino al
parto se l’infezione è confermata. Il
trattamento della malattia, secondo alcuni studi, riesce a ridurre fino al 60%
la trasmissione fetale, ma non sembra
avere efficacia nel migliorare la prognosi nel soggetto infetto.
198
F. Salvini, S. Di Giacomo
Essa sembrerebbe migliorare con
l’associazione sulfadiazina/pirimetamina, anche se una revisione dei lavori
scientifici pubblicati (BMJ) evidenzia la
difficoltà di produrre una stima dell’efficacia del trattamento per la scarsità di
studi randomizzati confrontabili.
Il neonato subclinico con anticorpi
negativi è indistinguibile dal neonato sano; il trattamento iniziato alla nascita può
proteggere dalle gravi sequele a distanza
della malattia; non esiste uniformità di
giudizio sul tipo di protocollo da adottare
nel neonato infetto né in quello dubbio.
Il protocollo più largamente utilizzato comprende un’associazione di pirimetamina, sulfadiazina e acido folinico
alternato a cicli di spiramicina. In caso
di corioretinite va aggiunta la terapia
con prednisone.
I pazienti sottoposti a terapia devono eseguire emocromi seriati ed esami
periodici delle urine per controllare gli
effetti collaterali della terapia, quali anemia, leucopenia, piastrinopenia, aciduria
ed albuminuria.
Il trattamento nel primo anno di vita
non previene del tutto il rischio di “outcome” neurologico né la riattivazione di
un focolaio di corioretinite.
Esistono programmi di follow-up
per i soggetti infetti, fino a tutto il secondo anno di vita.
Prevenzione
Il toxoplasma può essere prevenuto
con una serie di norme igieniche e alimentari. Per inattivare le sue cisti, è necessario esporle ad alte temperature
Tabella 5
Schema di trattamento della Toxoplasmosi
Gravità clinica d’esordio
Farmaci di scelta
Durata terapia totale 12 mesi
Pirimetamina + sulfadiazina+ac. folico
6 settimane
2a fase
Spiramicina
6 settimane
3a fase
Pirimetamina + sulfadiazina+ac. folico
4 settimane
Pirimetamina + sulfadiazina+ac. folico
6 mesi
Spiramicina
4 settimane
Pirimetamina + sulfadiazina+ac. folico
4 settimane
FORMA SUBCLINICA
1a fase
FORMA CLINICA
1a fase
2a fase
199
Infezioni da alimenti
Aureliani P, Franciosa G, Pourshaban M
Foodborne botulism in Italy.
The Lancet 7 (348): 1594, 1996.
(>70 °C) o congelarle per 48 ore a
temperature inferiori ai 20 °C. È quindi
consigliabile, in particolare per i soggetti
a rischio, evitare carne cruda (soprattutto quella di maiale e quindi la maggior
parte dei salumi), latte non pastorizzato,
uova crude, né toccare la mucosa di occhi e bocca quando si maneggiano questi alimenti. Inoltre, è necessario lavare
accuratamente frutta e verdura che possa essere venuta a contatto con feci di
animali e usare i guanti nelle attività di
giardinaggio. Infine, per chi ospitasse
gatti in casa, è importante evitare di venire a contatto con la lettiera e lavarsi
frequentemente le mani dopo ogni contatto diretto con l’animale.
Conviene alimentare il proprio animale con cibi essiccati o in scatola.
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