Il sistema economico e monetario internazionale: il caso della Cina di Gian Cesare Romagnoli1 1. Introduzione Un sistema monetario internazionale (s.m.i.) è un sistema di pagamenti internazionali. Esso è dato da un insieme di regole e norme, definite da trattati internazionali e integrate da convenzioni e usi accettati dai paesi che ne fanno parte, riguardanti i criteri di regolamento dei pagamenti internazionali, il grado di stabilità dei tassi di cambio fra le valute dei paesi membri e gli aiuti finanziari fra banche centrali o Stati in caso di crisi di bilancia dei pagamenti. L'utilità e la necessità di un s.m.i. aumentano con la dimensione degli scambi commerciali fra i paesi e quindi con la specializzazione produttiva internazionale, che aumenta la ricchezza delle nazioni2. L'iniziativa per la creazione di un s.m.i. nasce generalmente dal paese economicamente e politicamente dominante nell'economia mondiale (l'Inghilterra nel caso del tallone aureo, gli Stati Uniti nel secondo dopoguerra con il gold exchange standard), che ha il maggior interesse a mantenere questa posizione. Come conseguenza, i s.m.i. sono generalmente ''asimmetrici'', nel senso che un paese assume il ruolo di guida con il vantaggio di trasferire sugli altri paesi membri quasi tutto l'onere dell'aggiustamento dei disavanzi di bilancia dei pagamenti e di trarre benefici dall’emissione della propria moneta (il cosiddetto ''signoraggio''3) e dal suo uso anche nel resto del mondo, sia come riserva internazionale che, soprattutto, come mezzo di pagamento. Storicamente, le monete nazionali che vengono ad essere usate a livello internazionale hanno dato evidenza di acquisizione di potere monetario ed esteso la sovranità nazionale, la reputazione e il prestigio dei relativi paesi. Ma il grado di asimmetria di un s.m.i., da cui dipendono le pressioni per il suo cambiamento, può variare di molto (Tullio, 1994). Lo spettro agitato da molti commentatori negli anni passati di un rallentamento dell‘economia cinese, iniziato nel 2012, si è manifestato con evidenza nell’estate del 2015, sollevando numerosi interrogativi sia sulla tenuta della struttura economica sia sulle aspirazioni globali di Pechino. I timori sono derivati dalla possibilità che il crollo delle borse cinesi sia stato il sintomo di problemi strutturali che il paese doveva risolvere per garantire lo sviluppo economico anche a costo di ritardare, come poi non è stato, il pieno riconoscimento del renminbi4 come moneta internazionale da parte del Fondo Monetario Internazionale (FMI). L’integrazione economica e commerciale di Pechino con il resto del mondo proietta, su scala globale, gli effetti del rallentamento della crescita cinese, mentre le nuove iniziative finanziare cinesi: New Development Bank BRICS (NDB BRICS) 5, Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), il gigante cinese dell’e-commerce Alibaba e la Export and Import Bank si pongono, per il loro orizzonte mondiale, in antitesi con le istituzioni di Bretton Woods: FMI, Banca 1 Università Roma Tre: <giancesare.romagnoli@uniroma3 it> Di fatto ai benefici statici e dinamici del commercio internazionale si associano anche i costi rappresentati dalla dipendenza produttiva (Romagnoli, 1979). 3 Il beneficio che si trae dal signoraggio è dato dalla differenza tra il potere d’acquisto della moneta e il suo costo di emissione. 4 Renminbi vuol dire “valuta del popolo” ed è la moneta ufficiale della Repubblica Popolare Cinese (RPC). Lo yuan (che vuol dire oggetto tondo, come lo yen giapponese) è l’unità di base del renminbi ma anche un termine alternativo, usato soprattutto all’estero, per la valuta cinese. La distinzione tra renminbi e yuan è simile a quella tra sterling e pound, che si riferiscono rispettivamente alla moneta britannica e alla sua unità (di peso) primaria. 5 L’acronimo BRICS sta per i paesi emergenti Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa. 2 1 Mondiale (BM), Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) 6. Negli ultimi anni, i fronti tra Cina e Stati Uniti si sono irrigiditi a causa di un estraniamento reciproco. Questa contrapposizione si presenta oggi assai più forte rispetto a quando lo status della Cina era peggiore dal punto di vista economico, politico e culturale. Ma le iniziative suddette lasciano pensare che sia giunto il momento di riformare tutte le istituzioni economiche e finanziarie internazionali, coinvolgendo anche la Cina. Questo lavoro analizza le motivazioni che sono alla base delle pressioni economiche e geopolitiche per il cambiamento del s.m.i. e si divide in 3 parti. La prima descrive brevemente i s.m.i. gold standard e gold exchange standard, basati sull’approccio egemone, con riferimento prima alla sterlina e poi al dollaro. Anche dopo il crollo del s.m.i. di Bretton Woods, il dollaro è rimasto la moneta egemone sui mercati valutari che hanno assecondato le scelte della politica monetaria statunitense nonostante la presenza di altre monete internazionali che hanno fanno parte del paniere dei Diritti Speciali di Prelievo (DSP) 7. L’istituzione dell’euro e il suo iniziale successo hanno costituito una sfida al ruolo egemone del dollaro, a causa della crescente dimensione del debito interno ed esterno statunitense. Tuttavia la crisi finanziaria internazionale 2007-2009 ha perfino rafforzato la valuta statunitense. La seconda parte di questa ricerca è dedicata alla Cina, un’economia continentale che ha sperimentato per trenta anni tassi di crescita eccezionali del prodotto interno lordo (Pil) e degli investimenti esteri finanziati dalle riserve in dollari accumulate durante decenni di surplus corrente della bilancia dei pagamenti, ma che ha recentemente cambiato modello di sviluppo: da quello export led a quello trainato dalla domanda interna di consumi. Questo passaggio, che ha dato luogo prima al rallentamento della crescita economica cinese e, più recentemente, allo scoppio di una bolla finanziaria e immobiliare, seguita da alcune piccole svalutazioni della sua moneta, ha avuto effetti negativi sull’economia mondiale, sia con riguardo ai paesi emergenti che a quelli avanzati ed ha dato luogo a diverse letture in cui campeggiano le ambizioni economiche e geopolitiche della Cina. Tra queste, il riconoscimento dello status di moneta internazionale al renminbi era stata una delle principali aspirazioni di Pechino. La terza parte prende le mosse dalle debolezze del s.m.i. attuale basato sul peg tra renminbi e dollaro cui si addebita l’instabilità dei mercati finanziari che ha dato luogo prima a tensioni valutarie sui mercati e poi a una guerra delle valute. Si esaminano, infine, alcune ipotesi di riforma del s.m.i. nel contesto di una “stagnazione secolare” che potrebbero favorire il passaggio da un approccio sostanzialmente egemone a uno multivalutario maggiormente differenziato rispetto a quello attuale, soprattutto al fine di affrontare la minaccia dirompente di un possibile crollo del valore del dollaro. 2. L’approccio egemone: le dominant monies 2.1 Caratteristiche e vantaggi economici del paese che emette valuta di riserva internazionale 6 La OMC ha sostituito, nel 1996, il General Agreement on Tariffs and Trade (GATT) firmato nel 1947. Esso era rimasto al posto dell’International Trade Organization (ITO), istituito all’Avana nel 1948, ma che non ebbe applicazioe per la mancata ratifica da parte del Congresso degli Stati Uniti. 7 I DSP sono un particolare tipo di valuta. Si tratta dell'unità di conto del FMI, creata nel 1969 con gli accordi della Jamaica, al fine di sostenere il sistema di Bretton Woods che però crollò qualche anno dopo (1971-1973). Il suo valore è ricavato da un paniere costituito dalle principali valute nazionali. 2 Alla moneta si riconoscono tradizionalmente tre ruoli: unità di conto, mezzo di scambio, deposito di valore. La moneta conferisce a chi la crea il potere del signoraggio che è tanto maggiore quanto più ampia è l’area che utilizza tale moneta. Questa capacità ulteriore estende la sovranità nazionale, influenza la volontà politica di altri paesi e li costringe a fare cose che non avrebbero fatto altrimenti. Diviene, in breve, un segno di potere internazionale (Strange, 1994; Cohen, 2006; Helleiner, 2009). Strange (1971) ha identificato quattro tipi di monete internazionali: top, master, neutral and negotiated currencies. La prima, esemplificata dal dollaro, porta con sé un privilegio esorbitante, ravvisato da Charles De Gaulle, dovuto alla leadership mondiale del paese emittente, spiegata sia da fattori militari che economici, la seconda è la valuta di un’area dominata territorialmente, la terza, esemplificata dal franco svizzero, è tipica di un paese che, indipendentemente dalla sua dimensione territoriale, emette una valuta stabile e attraente nei momenti di turbolenza sui mercati valutari, la quarta, infine, è la valuta di un paese che non ha ancora acquisito o ha perso, in parte, potenza politica e militare e induce il suo uso attraverso aiuti economici o tecnologici, protezione militare, capacità diplomatica. Questa classificazione è flessibile, pertanto una moneta può assumere caratteri diversi nelle varie aree planetarie. Pertanto il dollaro è una top currency in parte dell’Asia e dell’America Latina ma una negotiated currency nei BRICS. L’euro è una top currency in Europa e in Nord Africa, ma una neutral o negotiated currency altrove. Prima della crisi, diversi paesi, tra cui Cina, Brasile, Federazione russa, Libia, Iraq, Iran, Venezuela, avrebbero visto volentieri il dollaro e l’euro come negotiated currencies (Otero-Iglesias, 2012). La letteratura teorica ha esplicitato, in maniera consolidata, le condizioni da soddisfare perché una valuta assuma lo status di moneta internazionale (Helleiner, 2008; Marzovilla, 2009; De Grawe, 2013). Le principali sono tre: fiducia, liquidità e rete di scambi internazionali. La letteratura empirica ha inoltre identificato le caratteristiche di un'economia che permettono ad una valuta di divenire dominante (Eichengreen e Matieson, 2001; Chinn e Frankel, 2008) anche se esse non sono tutte presenti congiuntamente. Un primo fattore chiave riguarda la dimensione dell'economia in questione. Di norma, solo le grandi potenze economiche possono sperare che la propria moneta venga usata negli scambi internazionali: in un'economia di grandi dimensioni gli investitori internazionali possono più facilmente trovare un'ampia gamma di attività finanziare su cui riversare i propri risparmi. Nel corso del tempo, le valute usate sovranazionalmente sono state numerose e la storia ha spesso mostrato (Fratianni, 2008) come vi sia stata la tendenza per una sola di esse a dominare tutte le altre. Dall’inizio del XX secolo, gli Stati Uniti sono diventati la prima nazione in termini di ricchezza prodotta. Dopo la seconda guerra mondiale il divario con le altre nazioni è stato così netto che nessuna economia, nemmeno quella tedesca o quella giapponese, ha mai avuto la concreta possibilità di sopravanzare gli Stati Uniti in termini di Pil ed il dollaro come valuta internazionale. Va osservato, peraltro, che entrambi questi paesi hanno rinunciato volentieri a raggiungere questo status che avrebbe condizionato, attraverso l’automatico apprezzamento del cambio, i loro obiettivi di conquista di quote crescenti del mercato internazionale dei beni. Nei primi anni di questo secolo la situazione è però decisamente cambiata. L'Eurozona ha avuto un Pil tale da poter competere con quello degli Stati Uniti. In prospettiva, anche la Cina acquisirà gradualmente la possibilità di sfidare l’Unione Europea (UE) e gli Stati Uniti in termini di Pil. Si ipotizza che ciò avverrà entro il 2050, quando l'economia cinese sopravanzerà quella statunitense. Sebbene l'euro abbia apportato significativi cambiamenti e benefici sia sul versante della mobilità dei mercati dei fattori produttivi (Alesina, Ardagna, Galasso 2008) sia su quella del mercato finanziario (Hartmann, 2007), molti ritengono comunque che gli Stati Uniti mantengano ancora un certo 3 vantaggio in quanto i mercati del lavoro, dei capitali e dei fattori produttivi sono più flessibili e meno regolati là rispetto a quanto avviene in Europa (Posen, 2008; De Grawe, 2013). Questi fattori permettono una più rapida ricollocazione delle risorse verso i settori con maggiori prospettive di guadagno, in grado quindi di produrre una crescita più elevata (Caballero, 2004; Papaioannu, 2008). L'Europa rimane ancora indietro agli Stati Uniti in questo campo. Altri fattori rilevanti che determinano l'importanza internazionale di una valuta sono la struttura degli scambi con l'estero e lo sviluppo del sistema finanziario interno che deve essere efficiente e sufficientemente liquido in modo da permettere ai detentori delle attività in valuta un rapido disimpegno che possa comportare un costo di transazione il più basso possibile. Anche in questo campo, il predominio degli Stati Uniti appare netto sebbene ci siano stati segnali positivi in questo senso anche per quanto riguarda l’euro 8. Quando definiamo il dollaro “valuta di riserva”, lo facciamo in riferimento al suo utilizzo da parte di altri paesi per saldare conti commerciali internazionali. Ad esempio, se il Canada acquista merci dalla Cina, quest’ultima potrebbe preferire un pagamento in dollari statunitensi invece che in dollari canadesi. Il dollaro è la valuta più “commerciabile” a livello internazionale e ciò significa che la maggior parte dei paesi lo accetta in pagamento, per cui la Cina può usare i suoi dollari per acquistare beni da altri paesi, non solo dagli Stati Uniti. Tale non è il caso per il dollaro canadese e la Cina dovrebbe detenere dollari canadesi fino a quando non trovasse qualcosa da comprare in Canada. Se si estende questo scenario a tutti i paesi del mondo che stampano la propria valuta, si vede che senza una valuta ampiamente accettata in tutto il mondo il commercio internazionale rallenterebbe e diventerebbe più costoso. L’effetto sarebbe simile a quello di erigere barriere commerciali, come ad esempio il famigerato Smoot-Hawley Tariff del 1930 che acuì la Grande Depressione. Ci sono molti studiosi che tracciano un collegamento tra il crollo del commercio internazionale e la guerra. Il grande economista francese Frédéric Bastiat disse che “quando le merci non attraversano le frontiere, lo fanno i soldati.” Il sociologo Ralf Dahrendorf, riferendosi ai paesi dell’Europa centroorientale, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, disse, rivolgendosi agli europei occidentali: “O vi prenderete le loro merci o vi prenderete loro”. Se non è possibile acquisire pacificamente i beni prodotti all’estero di cui si ha bisogno, nasce la tentazione di invadere quei territori per colonizzarli. Così, una valuta accettata quasi universalmente può essere vitale sia per la pace nel mondo sia per la prosperità mondiale. Uno dei vantaggi chiave di emettere valuta internazionale è quello di poter denominare le proprie passività sull'estero nella propria valuta e quindi di potersi indebitare ad un tasso inferiore di quello che si ottiene sulle proprie attività sull'estero (Rogoff 1998, Papaioannu 2007). Il fatto che le attività finanziarie siano considerate come una riserva sicura di valore fa sì che gli operatori siano disposti a rinunciare ad una parte della remunerazione, o meglio al premio per il rischio, pur di disporre dei vantaggi e delle caratteristiche qualitative intrinseche della valuta di riserva. Un paese che ha ambizioni di emettere valuta internazionale dovrebbe anche farsi carico di mantenere un valore il più possibile stabile nei confronti delle altre divise. In particolare, due sono gli elementi critici da tenere sotto controllo: uno riguarda il livello di inflazione, che deve essere tenuto ad un livello basso e stabile, l'altro concerne il grado di indebitamento del paese, sia interno che estero. Anche il fatto di avere una banca centrale credibile, che in caso di crisi eserciti anche il ruolo di 8 L'evidenza empirica conferma che l'entrata in vigore dell'euro ha innalzato la liquidità e l'efficienza dei mercati dei paesi membri. Nei primi dieci anni di vita dell’euro, lo spread tra le quotazioni bid (ovvero le proposte di acquisto degli operatori finanziari e sui mercati) e quelle ask (le proposte di vendita) delle obbligazioni e azioni quotate in euro è diminuito sensibilmente assestandosi ai livelli di quelli statunitensi (Papaioannu e Portes, 2008). 4 prestatore di ultima istanza, è un fattore determinante nella scelta della valuta di riserva. I comportamenti dei paesi che hanno mantenuto la sovranità monetaria, a partire dalla Federal Reserve Bank (Fed), al contrario di quelli dell’Eurozona, davanti alla crisi 2007-2009, ne sono stati esempi evidenti. Al tempo stesso l'emissione di valuta di riserva internazionale presenta anche alcuni punti di svantaggio come ad esempio quello di dover accettare una variabilità più pronunciata della domanda della propria valuta rendendo più arduo per la banca centrale il compito di controllare gli stock monetari nel caso in cui quest'ultima decida di intervenire sul mercato dei cambi. Inoltre il paese che emette valuta di riserva si dovrebbe fare anche carico dell’onere di operare non solo per il perseguimento dei propri obbiettivi macroeconomici interni ma anche di agire in modo tale da mantenere gli equilibri dei mercati mondiali. Per capire se una moneta è il fulcro del sistema rispetto alla posizione subalterna delle altre valute, si sono rivelati utili strumenti semplici e diretti come l'analisi del turnover valutario sul Forex 9 oppure l'andamento nel tempo delle riserve detenute dalle banche centrali. 2.2 Dalla sterlina al dollaro Nel corso della storia, una moneta ha sempre prevalso sulle altre come valuta di riferimento del s.m.i. e non va trascurata la capacità del paese emittente di valuta internazionale di difendere il proprio status anche con l'uso della forza. Come testimoniano gli imperi, nella storia sono rari i tentativi di introdurre un’unione monetaria senza ricorrere alla forza delle armi. Da più di duemila anni, la moneta è uno degli strumenti principali della sovranità usato dai detentori del signoraggio per finanziare le proprie spese con una forma di “tassazione senza rappresentanza politica” come la chiamavano i protagonisti della rivoluzione americana del 1776 (Romagnoli, 2013, 27). Non è un caso che le due valute internazionali per eccellenza degli ultimi due secoli, la sterlina ed il dollaro, siano state sostenute dagli eserciti e dalle flotte più grandi, potenti e temuti del mondo, come era avvenuto negli imperi precedenti. I paesi militarmente avanzati possono dunque offrire un’ulteriore garanzia a sostegno del valore della propria valuta. Il rapporto tra moneta e potenza emerge chiaramente da un confronto storico tra le grandi monete degli ultimi due secoli: dollaro e sterlina. Nel corso del XX secolo la sterlina è stata sostituita, come prima moneta internazionale, dal dollaro statunitense. Non è stato un processo senza difficoltà. Gli Stati Uniti erano divenuti la prima economia del mondo ormai nell’ultimo quarto dell’Ottocento. Ma l’Inghilterra e il suo impero resistevano come principali fornitori e intermediari di capitali. Londra continuò ad assolvere questo ruolo fino a quando fu possibile richiamare capitali da intermediare. In retrospettiva storica, il mancato sorpasso del dollaro sulla sterlina all'inizio del '900 può essere attribuito alla mancanza di un istituto centrale negli Stati Uniti che garantisse le suddette funzioni. Infatti, se l'economa americana aveva già superato quella britannica, lo stesso non si poteva dire del sistema finanziario, in cui spiccava l’assenza di una banca centrale che ne garantisse il corretto 9 Il foreign exchange market, detto più comunemente Forex, è il più grande mercato valutario del mondo, in termini di valore delle transazioni, e include gli scambi che avvengono tra importanti istituzioni bancarie, banche centrali, speculatori valutari, imprese multinazionali, governi e altri mercati finanziari ed istituzioni. 5 funzionamento e prevenisse eventuali crisi dei mercati finanziari. La Fed nacque invece nel 1913, come portato della crisi economica del 1907. Fino al 1914, la sterlina fu la principale valuta di riserva, grazie alla dimensione del commercio internazionale britannico e all’indiscusso primato della City quale mercato dei capitali10. Londra usò la primazia internazionale del pound per fare credito, in primis agli Stati Uniti in pieno boom demografico e infrastrutturale, usando le risorse guadagnate dalla perla dell’impero, l’India, tramite la concentrazione delle produzioni primarie. Il surplus del commercio estero indiano non era reinvestito nell’economia locale, ma convogliato dai viceré inglesi nella City londinese e da qui redistribuito, sotto forma di investimenti, all’America emergente. In parte serviva a finanziare le guerre di Sua Maestà, come quella anglo-boera. Questo circuito finanziario, che aveva a Londra il suo fulcro, e nella sterlina il veicolo, aveva dunque un’impostazione coloniale prettamente ottocentesca. La madrepatria sfruttava la sua principale colonia (l’India) per finanziare, a interesse, lo sviluppo della sua principale ex colonia (gli Stati Uniti). Quando Washington divenne il più grande creditore mondiale (durante e dopo il primo conflitto mondiale), Londra perse progressivamente il suo status di potenza finanziaria, commerciale, navale e, da ultimo, coloniale (dopo il 1948), ma il paradigma mutò. Il dollaro non fu usato per travasare ricchezza da una regione all’altra, esigendo una “tassa” di transito nella veste degli interessi pagati alle grandi banche londinesi. Piuttosto inondò il mondo intero occidentale (prima e dopo il crollo dell’URSS) come contropartita delle crescenti importazioni statunitensi dal resto del globo. Il risultato è stata un’indiscussa centralità monetaria pagata al prezzo di un alto deficit commerciale, a sua volta sostenuto anche da un indebitamento pubblico e privato reso possibile proprio da questo signoraggio. Nonostante la fine di Bretton Woods, il dollaro è riuscito a conservare un ruolo centrale. A riprova che la forza di una valuta è data in primo luogo dalla potenza economica e politico-militare che il suo emittente è in grado di esprimere, ma anche dell’uso che ne fa. In quest’ottica è tornato utile il paragone con la sterlina. 2.3 Le motivazioni geopolitiche della valuta dominante Uno dei maggiori sostenitori della teoria che la valuta dominante del sistema venga scelta per ragioni geopolitiche, piuttosto che di natura prettamente economica, è stato Adam Posen (2008, 93). Dalla sua analisi emerge come, sebbene per molti paesi sarebbe stato più consono mantenere un peg con l'euro o addirittura con lo yen o il renminbi, in virtù del fatto che gli scambi con l'estero sono principalmente indirizzati verso i paesi che emettono quelle monete, con conseguente sincronizzazione degli shocks, la maggior parte di essi sono stati riluttanti ad abbandonare un cambio fisso con il dollaro e a smettere così di sostenere il deficit statunitense con l'estero. Posen ha sottolineato come alla base della scelta della valuta di riserva vi siano principalmente delle ragioni geo-strategiche e di sicurezza nazionale dei vari paesi coinvolti. La Germania Ovest ed il Giappone ne sono stati gli esempi storici più eclatanti, almeno fino alla creazione dell’euro. Ma anche quello della Francia, con De Gaulle che nel 1966 uscì dalla Nato per controversie con gli Stati Uniti e il Regno Unito, o la firma del Trattato di Maastricht (per la nascita dell’euro) subito dopo l’implosione dell’Unione Sovietica ne sono esempi importanti. Sembra dunque evidente, da questi esempi storici, come le ragioni geopolitiche abbiano avuto, nel corso degli anni, una importanza fondamentale nell'ergere il dollaro quale valuta dominante. La maggior parte dei paesi che ospitano truppe 10 La prima guerra mondiale introdusse i controlli del movimento dei capitali per farli restare nelle economie nazionali. 6 americane sul proprio suolo sono quelli che hanno scelto, de iure o de facto, un cambio fisso con il dollaro. Dal Giappone alla Corea del Sud e all'Arabia Saudita, i maggiori finanziatori degli Stati Uniti sono quelli che più dipendono da essi per la propria difesa nazionale. In questa ottica si può comprendere meglio come l'ascesa della Cina sia vista con sospetto e con preoccupazione dalle autorità americane. La Cina non è legata agli Stati Uniti da alcun vincolo militare, anzi essa può essere percepita sostanzialmente come un paese rivale, sia economicamente che politicamente. Prerogativa della valuta dominante è quella di influenzare fortemente i tassi delle altre valute ed al tempo stesso ricevere una quantità limitata di feedback. Sia la Gran Bretagna del XIX secolo, sia gli Stati Uniti durante il periodo di Bretton Woods hanno potuto godere di tassi d'interesse a lungo termine inferiori rispetto a quelli degli altri paesi, confermando dunque uno degli elementi caratteristici della dominanza delle rispettive valute. Questa esperienza si è interrotta nel periodo 1995-2008 ma è inaspettatamente ripresa negli anni successivi all’ultima crisi. Il vero elemento di differenziazione che emerge tra la dominanza della sterlina e del dollaro è però un altro. La Gran Bretagna, per tutto il lasso di tempo che la sterlina è stata la valuta di riferimento del sistema, era un paese capace di generare un consistente surplus di partite correnti. Nel periodo tra le due guerre mondiali la posizione sull'estero britannica iniziò a declinare diventando negativa nel 1931. È in questo periodo che di fatto inizia la transizione con il dollaro che, lentamente ma inesorabilmente, si approprierà del ruolo di valuta di riserva internazionale. Nel periodo 1960-1971, gli Stati Uniti risultano anch'essi un paese con un lieve surplus di partite correnti ma con una bilancia dei pagamenti negativa già a partire dal 1958 (Bordo, 1992). Tramite questo deficit della bilancia dei pagamenti, gli Stati Uniti fornivano la liquidità necessaria al funzionamento del sistema. Così facendo però hanno perduto credibilità come debitore affidabile nei confronti del mondo, dando luogo al noto dilemma di Triffin (1960)11. Un solo anno di deficit di partite correnti, il 1971, ha fatto crollare il sistema a cambi fissi (Alessandrini, Fratianni, 2009a). La seconda economia mondiale del XIX secolo, la Cina, era poco aperta agli scambi con l’estero: la sua moneta, ancorata all’argento, quando il resto del mondo aderiva al gold standard, era poco scambiata sui mercati: mancavano le condizioni per farne una moneta di riserva. Tra le due guerre mondiali, il dollaro si affiancò alla sterlina come valuta di riserva, in un mondo diventato multipolare, nel quale la Cina non trovò spazio. A Bretton Woods, Keynes combatté, senza successo, una battaglia fuori tempo per la creazione di una valuta internazionale, il bancor che, nella sua visione, avrebbe limitato lo “strapotere” del dollaro conservando un ruolo alla sterlina. Dopo il 1945, all’egemonia economica, politica e militare degli Stati Uniti si accompagnò il quasi totale monopolio del dollaro quale mezzo di pagamento internazionale e, dunque, moneta di riserva. Il “privilegio esorbitante” del dollaro, denunciato e combattuto da De Gaulle, era radicato nella struttura stessa dell’economia mondiale della quale gli Stati Uniti costituivano ben il 40 per cento. Ricerche recenti hanno mostrato che il gold standard classico può essere considerato un sistema molto più decentrato se paragonato ai sistemi monetari che si sono susseguiti nei periodi successivi (Alessandrini, Fratianni, 2009a) e si può affermare che il dollaro abbia assunto il ruolo di valuta di riserva in una maniera molto più accentrata rispetto alla sterlina di fine XIX secolo. Il sistema di 11 Si tratta del dilemma fra finanziamento dei commerci mondiali con riserve in dollari (l'unica strada percorribile dal momento che la produzione aurea era insufficiente) e il venir meno della fiducia nella convertibilità del dollaro in oro. 7 Bretton Woods12 era imperniato sul dollaro, attorno a cui gravitavano soprattutto le monete ad esso geograficamente più prossime, come quelle latino-americane. Queste avevano tuttavia una banda di oscillazione relativamente ampia, essendo tali paesi incapaci di sostenere un cambio rigido con il dollaro. Le divise che hanno sostenuto il sistema sono state quelle europee. Il sistema non era perfetto: già prima del 1971, quando Richard Nixon sospese la convertibilità del dollaro in oro, vi erano state le rivalutazioni del marco tedesco e le svalutazioni della sterlina britannica. Con lo Smithsonian Agreement del dicembre 1971, i dieci paesi più industrializzati (Germania, Belgio, Canada Stati Uniti, Francia, Italia, Giappone, Olanda, Regno Unito e Svezia) avevano ratificato un'intesa in base alla quale il prezzo ufficiale dell'oro veniva fissato a 38 dollari l'oncia; si sanciva il riallineamento dei tassi di cambio, fissando nuove parità sulla base dei risultati della fluttuazione di quei mesi e si ampliavano i margini di oscillazione dei tassi di cambio al 2,25%. Gli accordi smithsoniani costituirono l'ultimo tentativo di recuperare, per quanto possibile, il sistema monetario di Bretton Woods ma, a causa dei continui disavanzi della bilancia dei pagamenti statunitense, essi furono abbandonati nel 1973 con l'instaurazione di un sistema di cambi flessibili che aprì il “ballo delle valute”. Tuttavia, a posteriori, stupisce che un assetto monetario ancorato alle riserve d’oro delle banche centrali abbia tenuto per quasi trent’anni in un mondo che, dal miracolo economico europeo, ha visto una espansione straordinaria del commercio internazionale e con esso degli scambi di valute. Seguendo la concettualizzazione di Cohen (2006), il potere monetario a livello macroeconomico si manifesta con la capacità di un paese di evitare il costo degli aggiustamenti degli shocks: o rinviandolo13, o spostandolo su altri paesi. Per conseguire questo scopo, il paese deve possedere autonomia e influenza. La prima, che secondo Cohen precede la seconda, si manifesta attraverso la scelta delle politiche economiche. La seconda, attraverso la capacità di imporre ad altri paesi cambiamenti nelle loro politiche economiche. Ciò può avvenire sia direttamente, imponendo la propria volontà nelle scelte, che indirettamente attraverso la institution building che promuove idee e weltanschaung. L’euro, al contrario del dollaro, ha mostrato al mondo (Asia, Africa, America Latina, Medio Oriente) il successo potenziale di un modello di regionalizzazione monetaria basato su adesioni pacifiche e volontarie contrapposto a quello unico egemone a livello mondiale (Marzovilla, Romagnoli, 2013; Marzovilla, 2016a). Il consolidamento dell’euro nel suo primo decennio di vita ha suggerito una possibilità reale di orientare il s.m.i. verso un approccio veramente multivalutario che potesse includere anche il renminbi. La posizione di Zhou Xechouan, governatore della Banca Popolare Cinese (BPC), e la recente inclusione del renminbi nel basket dei DSP sono tributari dell’esperienza dell’euro. Ma l’euro è stato paradossalmente vittima del proprio successo perché ha adottato un cambio flessibile, invece che fisso, verso l’esterno e, mentre è stato in grado di assorbire le oscillazioni di cambio con il dollaro (fino all’85% tra il 2002 e il 2008), senza perdere, nel complesso, quote di commercio internazionale, ha però creato squilibri all’interno dell’Eurozona. Ciò ha avvantaggiato la Germania a discapito dei paesi della periferia sud sui quali è ricaduto il peso della 12 Il sistema di Bretton Woods, in vigore dal 28 luglio 1944 al 15 agosto 1971, era basato, da un lato, sulla convertibilità del dollaro in oro consentita a tutti i governi membri (non ai singoli cittadini e alle imprese), garantita dal governo degli Stati Uniti e dalle sue enormi riserve auree (circa 25 miliardi di dollari nel 1949, scese poi a circa 11 miliardi nel 1971) e dall'altro sui cambi fissi, ma aggiustabili in caso di ''squilibrio fondamentale'' della bilancia dei pagamenti (Tullio, 1994). 13 Gli Stati Uniti hanno accumulato deficit correnti dall’inizio degli anni ’70 senza sopportare costi di aggiustamento e ciò ha consentito ai suoi cittadini di consumare al di là delle loro risorse. 8 crisi statunitense a causa della perdita della loro competitività e delle condizioni della finanza pubblica. La competizione interna all’Eurozona ha interrotto la sua crescita e inibito la sua capacità di influenza per la riforma del s.m.i.. Ciò ha mostrato anche le mancanze nella governance14 dell’Eurozona oltre alla sua incapacità di gestire il tasso di cambio dell’euro quando la sua stabilità ha incoraggiato chi aveva riserve in dollari, in particolare la Cina, a diversificarle a favore dell’euro. L’unione monetaria ha aumentato l’autonomia dell’area, come dimostrano i ritardi nelle politiche espansive e nell’insistenza in quelle restrittive, ma la mancanza di unione politica e fiscale e di forza militare autonoma ha limitato l’influenza europea anche all’interno del FMI. Anche la Cina ha acquistato autonomia attraverso l’accumulo di 3500 miliardi di dollari di riserve che la pongono al riparo dagli shocks esterni e le consentono di minacciare il valore del dollaro. Ma la forza militare della Cina, nonostante il riarmo in corso, non le consente di competere con gli Stati Uniti. Cohen (2008) ha concluso che gli squilibri globali hanno aumentato l’autonomia di Europa e Cina ma non altrettanto la loro capacità di influenza. La forza militare degli Stati Uniti, al contrario, dà a questo paese la capacità di negoziare la centralità del dollaro negli scambi internazionali, come si vede nei casi di Giappone e Arabia Saudita. Come dimostra la crisi del debito esplosa nel 2007-2008 proprio negli Stati Uniti, nessun pasto è gratis. Nel mondo nuovamente multipolare di fine e inizio secolo, il declino del dollaro come moneta di riserva è stato assai lento, come era stato quello della sterlina tra le due guerre. Il dollaro è stato affiancatodall’euro, come partner minore, mentre il prepotente emergere della Cina, come seconda economia mondiale, ha ottenuto solo recentemente l’ambito riconoscimento ufficiale dell’importanza del renminbi. Ma l’assetto attuale del s.m.i. consente al dollaro di restare centrale, malgrado le sue debolezze e il relativo ridimensionamento politico-economico degli Stati Uniti prodotto dalla temuta rise of the rest, l’ascesa del resto del mondo. 3. Il dollaro 3.1 Dalla crisi di Bretton Woods alla nascita dell’euro Con il sistema di Bretton Woods, gli Stati Uniti avevano proposto ai paesi del globo di collegare le varie monete nazionali al dollaro, l'unica valuta convertibile con l'oro, a 35 dollari per oncia. Nel tempo, il modello di Bretton Woods realizzò la leadership del dollaro, ma proprio la convertibilità aurea, che impediva alla Fed di stampare valuta ad libitum, riduceva il suo margine di manovra. Il FMI era stato istituito con il preciso scopo di monitorare le azioni della Fed, garantendo che non avrebbe inflazionato il dollaro e che sarebbe sempre stata pronta a scambiare dollari in oro. I paesi avevano, quindi, fiducia che i dollari in loro possesso erano tanto “buoni come l’oro”, come lo era stata la sterlina inglese nel gold standard (Marzovilla, 2016b). Tuttavia la Fed non ha mantenuto l’impegno preso a Bretton Woods e il FMI non ha cercato di costringerla a detenere abbastanza oro da onorare la convertibilità della valuta in circolazione. 14 Si può dire che la governance sia una forma di governo priva di rappresentanza democratica. 9 Gli Stati Uniti decisero, durante gli anni ’50 e ’60, di partecipare a conflitti finanziariamente assai dispendiosi che impedirono di gestire l’equilibrio tra dollari e riserve auree15. In particolare, durante gli anni ’60 gli Stati Uniti finanziarono la guerra in Vietnam e la guerra interna alla povertà con l’emissione di dollari non coperti da oro. Come Charles De Gaulle che, consigliato da Jacques Rueff e sospettoso della tenuta del dollaro, ordinò, nel 1965, al Ministero delle Finanze e alla Banca Centrale francesi di convertire in oro l’intero portafloglio di circa 2,3 miliardi di dollari, molti paesi emularono l’affondo di De Gaulle spingendo Washington a un passo dal collasso. Il volume di dollari in circolazione superò la capacità degli Stati Uniti di convertirli a 35 dollari l’oncia. Dopo essere stato usato come moneta di scambio e di riserva per oltre venti anni, il dollaro aveva sostanzialmente perso il legame con l’oro. E così gli Stati Uniti abbandonarono il gold exchange standard. Tuttavia non c’era altra valuta che potesse competere col dollaro, nonostante il fatto che fosse “slegato” dall’oro. Sicché esso ha continuato ad essere la moneta di riserva di molte banche centrali, e a denominare gli scambi commerciali internazionali. Il sistema di Bretton Woods collassò principalmente per tre ragioni (Bordo 1992). Per prima cosa, due crepe minacciavano il sistema dall'interno. La prima era che il paese leader si era esposto ad una crisi di convertibilità in oro, dovendo esso fornire al mondo la liquidità necessaria, tramite i propri deficit di bilancia dei pagamenti, in modo da permettere al s.m.i. di funzionare mentre avrebbe dovuto evitare che sorgessero dubbi sulla sua convertibilità effettiva in oro (Triffin 1960). Il secondo difetto endemico era da ricercarsi nel fatto che il sistema, in cui le parità erano aggiustabili si era trasformato; i tassi di cambio erano di fatto fissi precludendo così gli aggiustamenti tra i paesi in surplus e quelli in deficit. La terza ragione, che viene spesso evidenziata, è che la politica monetaria statunitense, a partire dalla seconda metà degli anni '60, sia stata inappropriata per il ruolo di valuta cardine attribuita al dollaro. L'aumento della spesa pubblica, trainato dalla guerra del Vietnam, aveva comportato una politica inflazionistica che aveva favorito il collasso del s.m.i.. I paesi in surplus, la Germania in primis, ma anche il Giappone, erano riluttanti sia ad accumulare ingenti riserve di dollari sia a rivalutare la propria moneta per non penalizzare le proprie esportazioni. Per questo, si può pensare che la politica guns and butter di Lyndon B. Johnson, per creare consenso durante la guerra del Vietnam, sia stato l’antecedente della politica dei sub prime mortgages di George W. Bush jr. durante le più recenti guerre in Afghanistan e in Iraq. La pressione di stampare denaro è venuta dalla politica sia per la guerra sia per combattere la guerra interna contro la povertà. Entrambe rappresentano attività che consumano capitale; non sono “investimenti” che possono garantire un rendimento. In un ambiente economico che usa una “moneta pegno”, dove l’offerta di moneta non può essere inflazionata, emerge un limite naturale alla quantità di fondi che una società è disposta a dedicare alla guerra e al welfare. Ma in un contesto di fiat money, essi possono espandersi in modo incontrollato, almeno nel breve periodo, perché le conseguenze negative si fanno sentire solo più tardi. All'indomani della fine del sistema di Bretton Woods, il mondo si ritrovò in uno scenario del tutto inedito con l'adozione di un sistema di cambi flessibili. Il tentativo del dicembre 1971 di ristabilire i cambi fissi fra le principali valute con gli “accordi smithsoniani” fallì nel febbraio-marzo 1973, Se nel 1944, essi possedevano 19.500 tonnellate di oro (circa l’80% delle riserve auree mondiali), dopo aver raggiunto un massimo di di 20.500 tonnellate nel 1957, le riserve auree erano scese a 8500 nell’agosto del 1971. Da allora sarebbero rimaste pari a circa 8.200 tonnellate. 15 10 quando le principali valute furono lasciate fluttuare più o meno liberamente 16. Nei primi anni ‘70, il dollaro subì un forte declino, ma fu salvato grazie al sostegno dei paesi esportatori di petrolio con la prospettiva di elevarne il prezzo. Infatti, dopo la decisione dell’amministrazione Nixon di cancellare unilateralmente la convertibilità diretta del dollaro con l’oro, gli Stati Uniti chiesero ai paesi produttori che gli scambi di petrolio fossero denominati in dollari. Da quel momento il controllo sul commercio di petrolio divenne la priorità della politica estera di Washington. Unione Sovietica e Cina si rifiutarono, allora, di candidare le rispettive monete e continuarono a usare il dollaro per i loro commerci17. Abbandonato l’oro, Washington aveva collegato il dollaro alla risorsa energetica strategica per eccellenza che è così divenuta la base del nuovo s.m.i. 18. L’abbandono graduale dell’oro a favore della denominazione in dollari degli scambi petroliferi ha attirato l’interesse del mondo intero sulla moneta statunitense. Per la prima volta, sostrato di una valuta non era più un metallo prezioso, ma la credibilità del governo statunitense che se ne sarebbe servito per accrescere la propria influenza e sottrarre ricchezza al resto del mondo. I due shocks petroliferi del 1973-74 e del 1979-80, l'enorme crescita della spesa pubblica in molti paesi, le politiche ''reaganiane'' degli inizi degli anni ‘80 e la crisi del debito dei paesi in via di sviluppo (pvs) avevano contribuito in misura significativa a trasformare un sistema, che pur con i suoi difetti era sempre un sistema, quasi in un ''non-sistema'' (Tullio, 1994). Esso ha portato a disavanzi senza precedenti delle partite correnti di molti paesi, incluso quello che emetteva la valuta di riserva 19. Oltre ai pericoli protezionistici derivanti dalle eccessive oscillazioni dei cambi, e a quelli inflazionistici o deflazionistici derivanti dall'assenza di regole riguardanti la creazione di liquidità internazionale, è emerso un terzo problema: quello del debito estero di numerosi pvs. Esso ha incrinato la stabilità del sistema bancario internazionale e rallentato lo sviluppo economico mondiale per effetto delle politiche restrittive che i paesi indebitati sono stati costretti a seguire. Dal 1973 il s.m.i. si è sfaldato lasciando il posto a un grado di cooperazione fra le politiche economiche dei principali paesi assai variabile nel tempo, a una gestione comune delle situazioni di crisi con il contributo del FMI, a cambi molto instabili, a consistenti deviazioni dei cambi dai livelli di equilibrio e a disavanzi delle partite correnti senza precedenti. I cambi fissi vennero progressivamente abbandonati, anche nelle forme di currency board e di dollarizzazione quando si cominciò a capire che molte delle crisi valutarie che ebbero luogo tra gli anni '70 e '80, specialmente in America Latina, erano da attribuirsi principalmente ad attacchi speculativi contro valute che non 16 Per quanto riguarda la flessibilità dei cambi dopo il 1973, si credette dapprima, sotto l'influenza di autorevoli contributi accademici, tra gli altri, quello di Milton Friedman (1951), che essa potesse conciliare il raggiungimento degli obiettivi economici interni (bassa inflazione, piena occupazione) con quelli esterni (equilibrio delle bilance dei pagamenti). L'esperienza mostrò, invece, che in assenza di sufficiente coordinamento delle politiche economiche fra i principali paesi, le oscillazioni dei cambi risultavano troppo elevate e tali da mettere in serio pericolo la libertà degli scambi internazionali, uno dei presupposti della crescente prosperità economica del periodo post-bellico e la stessa sopravvivenza dell'industria, in particolare negli Stati Uniti e nel Regno Unito nella seconda metà degli anni ‘70. Nonostante i pericoli insiti nelle eccessive deviazioni dei cambi dal livello di equilibrio, le svalutazioni si rivelarono molto efficaci nel ridurre i disavanz i correnti, soprattutto se accompagnate da adeguate misure di contenimento della domanda aggregata. Nel caso degli Stati Uniti il forte deprezzamento del dollaro, a partire dal 1985, ebbe successo, anche se agì lentamente. Altrettanto avvenne in Italia dopo il settembre 1992, quando la lira si svalutò del 30% circa rispetto al marco tedesco (Tullio, 1994). 17 Un’inerzia globale che, nell’ottobre del 1973, consentì agli Stati Uniti di ottenere dai membri dell’Opec che la vendita di greggio sarebbe stata effettuata in dollari. 18 Nel 2014, sebbene la quota statunitense sul Pil mondiale non superasse il 22%, l’80% dei pagamenti internazionali è avvenuto in dollari. 19 Per quasi trenta anni, gli Stati Uniti hanno avuto grandi disavanzi correnti, in media superiori al 3% del Pil. Il deficit statunitense di parte corrente si è contratto solo negli ultimi anni da 1,4 migliaia di dollari (il massimo raggiunto nel 2009) a 438 miliardi nel 2015 (Federal Reserve Bank of St. Luis (FRED), Economic Data). 11 erano più in linea con i fondamentali dell'economia, causando, di conseguenza, gravi perdite di ricchezza ai paesi colpiti. Vari tentativi e proposte di riportare un certo ordine nel sistema dei cambi si sono susseguiti da allora, come ad esempio il Serpente Monetario in Europa, ma senza mai dar luogo ad assetti stabili e duraturi, soprattutto a causa della asimmetria nel sostenimento degli oneri di aggiustamento degli squilibri. Una proposta d'introdurre regole che garantissero una maggiore stabilità dei cambi, ma senza tornare all'eccessiva rigidità di Bretton Woods, fu quella delle ''zone obiettivo''20, proposta che ha sempre trovato l'opposizione di principio degli Stati Uniti e del Regno Unito per il timore delle conseguenze politiche di un riequilibrio dei conti pubblici (Williamson, 1986). Dopo la svalutazione del dollaro concordata al Plaza Hotel nel 1985, l'atteggiamento statunitense mutò ancora con gli accordi del febbraio 1987, detti del Louvre. Con essi i principali paesi industrializzati si impegnarono a coordinare più strettamente le loro politiche economiche al fine di mantenere i cambi stabili intorno ai livelli raggiunti a quella data. Ma gli accordi del Louvre sono rimasti solo un primo, fragile passo verso un s.m.i. basato su cambi più stabili. Fa eccezione il Sistema Monetario Europeo (SME), un accordo regionale, formalmente simmetrico, entrato in vigore nel marzo 1979, che ha registrato un notevole successo nello stabilizzare i cambi e l'inflazione, all'interno di diversi paesi dell'Europa Occidentale, fino alla crisi dei cambi del settembre 1992. Questo sistema prevedeva che le valute europee dovessero oscillare intorno ad una parità prefissata rispetto alle altre valute e che le autorità centrali fossero in grado di intervenire sul mercato per mantenere queste parità. Ovviamente non vi erano interventi sul mercato dei cambi nei confronti di valute extra SME. Tolto questo caso fortunato che, tra alti e bassi, alla fine degli anni '90 ha portato alla creazione della nuova valuta europea, l'euro, i restanti tentativi di sistemi monetari a cambi fissi hanno riguardato paesi di secondaria importanza o si sono conclusi in maniera disastrosa per chi li ha adottati, come nel caso eclatante del currency board argentino dal 1991 al 2002. Unica, ma significativa eccezione, tra i sistemi a cambi fissi, negli ultimi 20 anni, è stato quello tra il renminbi e il dollaro. Tra Stati Uniti e Cina esiste, dal 1995, un regime di cambio a fluttuazione controllata compatibile con il mantenimento di un tasso di cambio reale sottovalutato della moneta cinese. Questo s.m.i., indicato come Bretton Woods 221 ha generato, da una parte, sufficiente competitività di prezzo a vantaggio delle esportazioni cinesi. Esse hanno agito come motore di crescita sufficiente ad assorbire la manodopera proveniente dalle zone rurali, che altrimenti sarebbe rimasta disoccupata. Dall’altra ha consentito agli Stati Uniti, che si sono specializzati nella produzione di science based goods, di acquistare a buon mercato beni ormai non più prodotti all’interno. L’investimento delle riserve ufficiali accumulate dalla Cina e dagli altri paesi emergenti ad essa collegati ha svolto sia un ruolo di self insurance oltre a quello di produrre rendimenti. Questa politica ha isolato la crescita dalla domanda interna privilegiando quella estera. Ciò ha aumentato la correlazione del ciclo tra economie emergenti e paesi industrializzati esponendo i primi al rischio di recessione importata dai secondi. Il decoupling22 non è quindi una realtà consolidata perché il rischio finanziario viene accresciuto da una 20 Esse consistevano in una banda larga (fra ±5 e ±10%) intorno a parità centrali aggiustabili al variare dell'inflazione e di altre variabili macroeconomiche fondamentali. 21 Nella letteratura, questo sistema viene chiamato anche Flexible Dollar Standard o Pacific Dollar Standard. 22 La parola è venuta di moda per contestare il vecchio detto secondo cui, per quanto riguarda il ciclo economico, quando gli Stati Uniti starnutiscono il resto del mondo si prende un raffreddore.Negli ultimi anni però, con l'impetuosa crescita dei Bric, il resto del mondo non è stato più così strettamente legato alla buona salute dell'economia americana. In questo senso si è verificato un decoupling. 12 maggiore esposizione nei confronti dell’estero generata da una maggiore interdipendenza commerciale. All'inizio del XXI secolo lo scenario planetario è mutato con l’ingresso dell'euro. Questa nuova moneta, di cui si sono dotati alcuni paesi europei in sostituzione delle vecchie divise nazionali, è divenuta presto il più serio rivale del dollaro per la leadership valutaria internazionale (Alessandrini, Fratianni, 2009a). Ciò è avvenuto soprattutto a causa di alcune scelte delle varie amministrazioni che hanno continuato a indebolire la posizione finanziaria statunitense, ormai da oltre un ventennio, un debitore netto nei confronti del mondo. 3.2 Lo status del dollaro Il dollaro è stata, come si è ricordato, la valuta dominante nel periodo di Bretton Woods, sia per quanto riguarda le riserve ufficiali detenute dalle banche centrali, sia per la sua denominazione del trade, ma ciò era prevedibile se si considera che il dollaro era l'unica valuta convertibile con l'oro. Sorprendentemente ha continuato ad esserlo anche dopo il crollo del regime a cambi fissi, anche se non era in grado di conservare il suo valore nel tempo nei confronti di altre valute. Ciò è avvenuto perché non c’è stata una concorrenza per questo ruolo da parte di altre valute. Naturalmente anche fattori non economici sono entrati nella domanda di dollari, dal momento che gli Stati Uniti sono stati fino all’inizio degli anni ’90 il protettore militare di tutte le nazioni occidentali contro i paesi comunisti. Quindi, il dollaro non solo è sopravvissuto, ma per un certo periodo ha rafforzato addirittura la sua posizione23. Alla fine del 2015, esso rappresentava il 64,0% delle riserve delle banche centrali (a fronte del 21% detenute in euro) e risulta, quindi, essere la valuta più scambiata sul mercato dei cambi e quella più usata per la fatturazione da parte delle aziende (IMF/FMI, 2015b). Il dollaro rimane tuttora la valuta dominante del s.m.i. e il segno più chiaro di questo status è dato dal fatto che è ancora la valuta maggiormente utilizzata nel mercato del petrolio. Tuttavia, una new view (Chitu L., Eichengreen B., Mehl A., 2014a) è emersa recentemente, secondo la quale i rendimenti crescenti di scala nell’utilizzazione di una valuta non sono così forti come è stato ipotizzato in passato (Frankel, 2009)24 e ciò lascia supporre che, se non si tiene conto della forza militare degli Stati Uniti, anche in un mercato omogeneo come questo, ci possa essere spazio anche per altre valute internazionali. D’altra parte, anche in precedenza, gli scambi internazionali sono stati denominati contemporaneamente in diverse valute internazionali. Il dollaro è sopravvissuto alla fine di Bretton Woods ma lo scenario attuale è veramente un caso unico nella storia. Il paese leader del sistema, gli Stati Uniti, è anche un debitore netto con l'estero presentando un saldo di partite correnti decisamente negativo, sia in termini assoluti che rapportato Nel 1977, esso rappresentava circa l’80% delle riserve valutarie contro il 56% per cento del 1965. Tuttavia, negli anni ’80, la quota del dollaro è scesa gradualmente fino a un minimo del 48% (1990). Essa è poi risalita nel decennio successivo per l’accumulazione di riserve in dollari da parte dei paesi emergenti e dei pvs (Galati e Woolbridge, 2006). Un nuovo massimo locale fu raggiunto nel 2001 (70,9%) mentre nel 2010 si è avuto un nuovo minimo (Romagnoli, 2013). 24 Un filone rilevante della letteratura economica spiega che il dominio attuale del dollaro è da ricercarsi principalmente nelle sue network externatilities ovvero nell'incremento di efficienza che hanno i mercati, in termine di diminuzione di costi di transazione, quando si adotta una singola moneta per regolare gli scambi internazionali. Secondo questi economisti, il fatto che il dollaro sia ancora così usato può dipendere dal fatto che lo è stato negli ultimi 60 anni e che la transizione verso altre valute, se eventualmente ci sarà, sarà per forza di cose lenta. 23 13 al PIL, e una posizione finanziaria netta sull'estero altrettanto deficitaria. Nonostante ciò, il ruolo del dollaro negli ultimi anni non è stato ridimensionato, nonostante la crisi, e questo perché il finanziamento del debito estero statunitense è passato principalmente attraverso le banche centrali di alcuni paesi asiatici, dei quali senza dubbio la Cina è l'esponente principale. La crisi del 2008 ha palesato la preminenza del dollaro, nonostante le profezie del suo crepuscolo, ha evidenziato la debolezza dell’architettura monetaria europea e ristabilito la distanza tra Washington e Pechino. La politica statunitense ha dominato la finanza e l’ha utilizzata per fini nazionali. La polverizzazione dei mutui sub prime, che è stata funzionale a una poltica del consenso per le enormi risorse spese nelle guerre americane in Medio Oriente, ha sconvolto l’ordine monetario mondiale, ha posto Wall Street sull’orlo del collasso e minacciato il dollaro di perdere il suo “privilegio esorbitante”. Il successivo svolgersi degli eventi ha invece visto prevalere proprio gli Stati Uniti, l’unico paese che può disporre simultaneamente di sovranità monetaria, potenza militare, certezza e stabilità istituzionale. La congiuntura economica internazionale ha finito per colpire soprattutto i rivali degli Stati Uniti, dall’Europa alla Cina, dalla Russia ai paesi emergenti. Si può quindi concludere nuovamente che il valore intrinseco di una moneta dipende dall’autorità politica e militare di chi la emette. I leader europei hanno pensato che fosse possibile creare una valuta senza Stato, o forse hanno pensato che esso sarebbe seguito in tempi più brevi. Al contrario, i cinesi, in questo paradossalmente in consonanza con gli americani, non hanno creduto al primato del mercato sulla sovranità. Essi riconoscono che è la potenza e la solidità delle istituzioni federali statunitensi a determinare l’appeal del dollaro, non viceversa. Sono altresì consapevoli che è la Marina militare statunitense, potenzialmente in grado di escludere qualsiasi soggetto dal commercio internazionale, ad aver creato la globalizzazione. E non hanno mai considerato un pericolo l’esposizione statunitense verso l’estero perché solo un ampio deficit mercantile consente alla moneta di diffondersi per il globo. I cinesi, gelosi difensori del loro surplus commerciale, hanno continuato negli anni ad accumulare dollari e a contenere la crescita del renminbi, in attesa di creare un loro consistente mercato interno. Consci delle fondamenta su cui si regge la loro supremazia, gli Stati Uniti si affidano allo Stato o alla guerra per rilanciare l’economia. Fu così durante il secondo conflitto mondiale, quando la spesa bellica estrasse definitivamente il paese dalla recessione degli anni Trenta. Negli anni ‘80 l’America si trasformò definitivamente nel principale debitore internazionale, persuadendo i contribuenti stranieri a finanziare i costi del riarmo americano in funzione antisovietica. Allo stesso modo, durante la presidenza Bush jr. furono soprattutto i giapponesi e i cinesi, attraverso l’imponente sottoscrizione di T-Bonds a sponsorizzare le guerre al terrorismo islamico che mantenevano l’egemone mondiale occupato in teatri secondari (Quiao, 2015). 3.3. I tentativi di de-dollarizzazione La serie di crisi finanziarie, più o meno intense, che si sono susseguite con frequenza crescente dagli anni ’80 e ’90 fino alla grande crisi dei mutui sub-prime del 2007-2009 non hanno scalfito lo status del dollaro. L’alta domanda di dollari nel mondo permette al governo degli Stati Uniti di rifinanziare il proprio debito a tassi d’interesse molto bassi. Da ciò emergono motivazioni macroeconomiche forti per cui il dollaro è considerato un bene di interesse strategico per gli standard di vita dei cittadini statunitensi (Quiao, 2015). Secondo il generale cinese, ciò si è manifestato con le guerre irachene contro Saddam Hussein (1990 e 2003) che aveva deciso di denominare in euro le sue vendite di 14 petrolio (anche se le motivazioni formali delle due invasioni sono state date rispettivamente dall’invasione irachena del Kuwait e dalla produzione di armi di distruzione di massa), con le sanzioni contro l’Iran che aveva proposto di istituire una Borsa del greggio in euro nel 2005 (anche se la motivazione formale dell’erogazione delle sanzioni è stata la dissuasione dalla produzione di armi nucleari) e infine con il rovesciamento del leader libico Muammar Gheddafi nel 2011, che aveva deciso di passare all’euro nei pagamenti del petrolio, prima d’introdurre il dinaro d’oro per sostituire la moneta europea, (anche se, in questo caso, la motivazione ufficiale dell’intervento Nato era stato quello della guerra civile). Tuttavia, dal 2010, questo scenario è cambiato di nuovo a causa della grave e persistente crisi di secondo livello che ha colpito l’euro dopo quella finanziaria internazionale del 2007-2009. La richiesta di creare un nuovo s.m.i. è cresciuta in tutto il mondo. Negli ultimi anni le politiche degli Stati Uniti, utilizzate per sostenere la posizione internazionale della loro moneta, hanno incontrato sempre più spesso opposizione e un numero crescente di paesi ha cercato di abbandonare il dollaro statunitense e la dipendenza dagli Stati Uniti, perseguendo una politica di de-dollarizzazione. Tre Stati sono stati particolarmente attivi in questo campo: Cina, Russia e Iran. Questi Paesi hanno cercato di perseguire la de-dollarizzazione, insieme ad alcune banche e società petrolifere europee attive nei loro territori25. Sicché, mentre in Europa i governi continentali erano alle prese con la crisi dell’euro propiziata dalla debolezza fiscale dei paesi della sua periferia sud cui sono seguite le lunghe politiche dell’austerità, gli Stati Uniti hanno scelto di rispondere alle politiche di de-dollarizzazione attraverso la geopolitica. 25 Il governo russo ha tenuto una riunione sulla de-dollarizzazione nella primavera 2014, in cui il Ministero delle Finanze annunciò il piano per aumentare la quota di accordi in rubli e il conseguente abbandono del dollaro. Inoltre, nell’agosto 2014 una società controllata da Gazprom ha annunciato la disponibilità ad accettare il pagamento in rubli di 80000 tonnellate di petrolio, estratto dai giacimenti artici, da inviare in Europa, mentre il pagamento del petrolio fornito dall’oleogasdotto “Siberia orientale – Pacifico” potrà essere in renminbi. Nel maggio 2015, in occasione del vertice di Shanghai, la delegazione russa firmò il cosiddetto “affare del secolo” per l’acquisto, nei prossimi 30 anni, di 400 miliardi di dollari di gas russo dalla Cina, pagati in renminbi. Altrettanto vale per i futuri progetti infrastrutturali russo-cinesi come la ferrovia Mosca-Pechino e la linea ad alta velocità Mosca-Kazan. Lo scorso agosto, il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato che “il sistema dei petrodollari dovrebbe diventare storia” e che “la Russia discute l’uso di monete nazionali nelle transazioni con un certo numero di Paesi”. La de-dollarizzazione è argomento di discussione e accordo anche nei rapporti bilaterali fra Russia e altri paesi. Il governo russo sta sostituendo il dollaro con monete nazionali nei suoi rapporti con Iran, Cipro, Egitto e sperava di farlo anche con la Turchia prima degli incidenti nella guerra di Siria. Queste misure, adottate di recente dalla Russia, si accompagnano alla acquisizione della Crimea e alla destabilizzazione dell’Ucraina orientale che hanno motivato l’adozione di sanzioni economiche da parte dell’Occidente. Negli ultimi mesi, anche la Cina si è attivata in questa campagna “anti-dollaro”, firmando accordi con Canada e Qatar per denominare i loro scambi nelle valute nazionali. Per questa ragione, il Canada è divenuto il primo hub oltreoceano del renminbi in Nord America. Questo fatto, da solo, potrebbe raddoppiare o addirittura triplicare il volume degli scambi commerciali tra i due Paesi, dato che il volume dell’accordo di cambio stipulato tra Cina e Canada è pari a 200 miliardi di renminbi. L’accordo della Cina con il Qatar sul currency swap diretto tra i due Paesi equivale a 5,7 miliardi di dollari ed è divenuto la base per l’utilizzo del renminbi nei mercati del Medio Oriente. Inoltre, la Cina sta stringendo degli accordi con Iran e India per pagare le materie prime in valuta cinese. Quindi, nella lotta tra il dollaro, che rimane ancora la valuta dominante, e il renminbi, quest'ultimo potrebbe avere la meglio nel medio periodo, anche se con alta volatilità. I paesi produttori di petrolio del Medio Oriente hanno scarsa fiducia nel dollaro, a causa della esportazione di inflazione, quindi altri Paesi dell’OPEC potrebbero firmare accordi con la Cina. Nella regione del Sud-Est asiatico, la creazione di un centro di compensazione a Kuala Lumpur, che promuoverà un maggiore uso del renminbi, è un altro importante passo della Cina nella regione. Ciò si è verificato meno di un mese dopo che il centro finanziario leader in Asia, Singapore, ha stabilito un rapporto diretto tra dollaro di Singapore e renminbi divenendo il centro di scambio del renminbi nel Sud-Est asiatico. L’Iran ha recentemente reiterato la sua riluttanza ad usare dollari nel suo commercio estero. Infine, il presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbaev, ha recentemente incaricato la Banca nazionale di de-dollarizzare l’economia nazionale (Odintsov, 2015). 15 In linea con i dettami della scuola keynesiana, la Fed, guidata da Ben Bernanke, ha inaugurato nel novembre 2008 un programma di Quantitative Easing (QE) che, nell’arco di 5 anni, avrebbe registrato un esborso di 4.500 miliardi di dollari. Esso è stato pensato per stimolare la domanda interna e provocare una diminuzione dei tassi d’interesse sul debito, oltre a una svalutazione del dollaro, anche se non è da una ripresa delle esportazioni che gli Stati Uniti si aspettano la ripresa della loro economia. Alla base c’è il dollaro come moneta di riserva e la credibilità del sistema politico statunitense. Secondo le aspettative della Fed, poiché costrette dalle contingenze, negli anni successivi le principali potenze economiche mondiali avrebbero finanziato la ripresa statunitense e ridimensionato così, le proprie ambizioni coltivate prima della crisi finanziaria. Questa previsione si è dimostrata corretta. Preoccupati dal possibile deprezzamento del dollaro e dall’implosione dell’euro, tra il 2009 e il 2013, la Cina, il Giappone e le economie del G20, dal Brasile alla Turchia, fino al Messico, hanno acquistato quantità ingenti di dollari sul mercato valutario. A provocare questa reazione sono state motivazioni di natura semi-mercantilistica. Le nazioni acquirenti volevano frenare il rafforzamento delle proprie monete, causato dall’afflusso di capitali stranieri in cerca di rendite superiori a quelli del debito statunitense, che rischiava di danneggiare le loro esportazioni. Allo stesso tempo, hanno accresciuto le loro riserve ridotte dagli interventi connessi ai salvataggi imposti dalla crisi, per impedire che la debolezza del dollaro ne erodesse il valore. La poderosa acquisizione di dollari ha innescato un circolo vizioso funzionale agli interessi degli Stati Uniti. Le banche centrali hanno acquistato il 65% delle obbligazioni federali presenti sul mercato e gli interessi pagati sono crollati dal 4 all’1,5%. Nonostante abbiano creato materialmente la crisi finanziaria mondiale, i titoli americani sono così rimasti il più sicuro degli investimenti26. L’ampia classe media statunitense fa del paese la destinanzione naturale dell’export internazionale, Wall Street è tuttora la piazza finanziaria più rilevante del pianeta e il mercato del debito pubblico statunitense, con i suoi 30.000 miliardi di dollari, il doppio di quello giapponese, il primo al mondo per importanza. Questa capacità di attrazione delle risorse finanziarie è dovuta a ragioni di tipo militare, giuridico e politico. Talassocrazia inarrivabile, gli Stati Uniti sono rimasti immuni dagli sconvolgimenti globali che hanno causato. Così, mentre la crisi finanziaria di secondo livello ha messo in crisi l’UEM e mentre il Giappone è stato costretto a spendersi per rafforzare le valute straniere, tra il 2009 e il 2013 si è riversata negli Stati Uniti pressoché la stessa cifra emessa nelle prime due fasi del QE, Washington non ha speso un soldo per rivitalizzare la propria economia. Hanno provveduto a questo amici e nemici, economie avanzate e paesi emergenti. Dopo una flessione della domanda registrata in concomitanza con la nascita dell’euro, tra il 2008 e il 2012, la quantità di dollari presente fuori dei confini nazionali è aumentata, invece di diminuire. Gli effetti sull’economia statunitense sono stati notevoli. Il soccorso al dollaro ha successivamente provocato la reazione delle cancellerie internazionali, da quella brasiliana a quella tedesca, da quella indiana a quella cinese, che si sono resi finalmente conto che il QE ha giovato soprattutto agli Stati Uniti mentre ha avuto un effetto deleterio sul resto del pianeta (praticamente un gioco a somma zero in anni di bassa crescita mondiale). Paesi con un reddito pro capite assai basso hanno finanziato, in cambio di interessi quasi nulli, i consumi dei cittadini statunitensi. Nel 2013, la situazione è peggiorata ulteriormente per i paesi emergenti. Il 22 maggio 2014, l’annuncio della progressiva riduzione del QE ha reso nuovamente attraenti i titoli di Stato americani agli investitori privati. In meno di due mesi, le Borse dei principali pvs hanno perso quasi mille miliardi di dollari, 26 La solidità delle istituzioni statunitensi e la rule of law (anche se riferita alla normativa interna piuttosto che internazionale) garantiscono il rispetto delle transazioni e l’inviolabilità dei capitali. Anche se vi sono stati casi di sequestri temporanei, i governi stranieri si aspettano che, pure in tempi avversi, Washington non confischerebbe le loro proprietà. 16 mentre è crollato il cambio delle valute locali (Quiao, 2015). Sebbene il tapering27 fosse ritenuto inevitabile, i governi colpiti si sono scagliati contro l’insularità americana perché si è riprodotto lo stesso fenomeno che un ventennio prima aveva causato la crisi del debito estero dei pvs. La Fed ha rivendicato il ruolo svolto a esclusivo servizio dell’interesse nazionale ma l’impegno cooperativo preso dagli Stati Uniti al G20 di Londra è stato disatteso. Il successo americano ha indisposto il governo cinese che ha provato a minare le certezze dell’antagonista con la vendita di una piccola parte del debito statunitense, ma è scattata la “trappola della sterlina” per cui nel rapporto di interdipendenza tra due Stati rivali, quello che detiene i titoli o le riserve altrui non può disfarsene se non danneggiando se stesso. Era già accaduto alla Francia nel primo dopoguerra quando aveva chiesto alla Gran Bretagna di convertire le sterline in oro provocando un terremoto finanziario e infine quasi la bancarotta della Banca di Francia. La stessa sorte toccherebbe oggi alla Cina se provasse ad affrancarsi dal dollaro con la medesima tecnica. La RPC potrebbe conquistare un margine di manovra solo se riuscisse a far accettare una riforma del s.m.i. verso un sistema veramente multivalutario in cui il renminbi diventi moneta di riserva globale. Miopie e deficienze altrui, insieme a prerogative proprie, hanno dunque permesso agli Stati Uniti di mantenere il primato monetario e di riemergere dalla recessione in maniera incruenta. Perfino l’enorme debito nazionale ha cessato di essere una questione urgente, anzi data l’attrattività in prospettiva delle obbligazioni federali e considerato il vincolo stringente con la Cina, secondo i calcoli del Tesoro, crescendo del 2-3% l’anno, gli Stati Uniti potrebbero non ripianare mai il disavanzo. Per questo l’amministrazione Obama ha continuato a prendere impegni di spesa pubblica piuttosto che effettuare tagli. Certo, le ataviche disfunzioni della politica statunitense e un incremento del Pil più basso del previsto potrebbero incrinare il delicato equilibrio. Proprio la necessità, prevista per legge, che il Congresso autorizzi il Governo a vendere titoli di Stato quando il debito raggiunge il tetto prefissato (caso quasi unico al mondo, insieme alla Danimarca) spinge ciclicamente il paese a un passo dall’insolvenza. Tuttavia la crisi iniziata nel 2008 ha danneggiato principalmente gli altri paesi. L’UEM, nella sua forma attuale, rischia l’instabilità, il Giappone non riesce a rianimare la propria economia, la Cina, schiacciata dal finanziamento del debito statunitense, è in difficoltà. Ne deriva che al momento l’egemonia del dollaro nel s.m.i. non è in discussione. Esso rimane la moneta di intermediazione mondiale per eccellenza, mentre gli scambi in euro restano in gran parte confinati negli Stati che l’hanno adottato. I timori statunitensi sono svaniti quando è apparso chiaro che la salute dell’euro è strettamente legata a quella dell’economia tedesca. Una valuta globale abbisogna infatti di un centro che crei e redistribuisca moneta nella periferia e ciò è possibile attraverso due soli canali: i prestiti e i deficit commerciali. Dal 1914 in poi, ma soprattutto dopo la seconda guerra mondiale (fatta salva un breve periodo di “scarsità” del dollaro negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto, gli Stati Uniti hanno perseguito entrambe le strade. Non così la Germania, la cui economia ha nelle esportazioni il suo unico motore di crescita e pertanto risulta strutturalmente incompatibile con un prolungato deficit dei conti con l’estero. Delle preoccupazioni statunitensi per l’avvento di un reale concorrente del dollaro restano tuttavia chiari echi nel tacito obiettivo statunitense di impedire che l’euro travalichi il suo ruolo di moneta regionale (De Cecco, Maronta, 2015). 27 Con il termine tapering si indica la progressiva riduzione degli stimoli monetari concessi da una banca centrale all’economia (o al sistema bancario) del proprio Stato. 17 3.4 Squilibri correnti Si deve guardare al concetto di valuta di riserva considerando tale status come un privilegio e una responsabilità, non come un’arma da usare contro il resto del mondo. Come paese emittente di valuta di riserva gli Stati Uniti si sono invece esonerati dall'aggiustare la propria economia in funzione degli squilibri con l'estero. La prassi della Fed è stata quella di compensare i flussi di capitali in uscita con l'immissione di nuova liquidità nel sistema impedendo ai tassi americani di innalzarsi, all'economia di contrarsi ed in ultimo al deficit estero di riassorbirsi. La domanda internazionale di dollari, essendo questi la principale valuta di riserva, non è diminuita mai e ciò ha permesso agli Stati Uniti di imporre l’onere dell'aggiustamento, tramite l’esportazione di inflazione, sui paesi in surplus. Una politica di disavanzo eccessivo viene sanzionata dagli speculatori con una fuga di capitali dal paese, seguita da una svalutazione, come nel caso della Gran Bretagna nel 1931. Il fatto di emettere valuta di riserva ha messo gli Stati Uniti al riparo da questa eventualità. Gli Stati Uniti hanno avuto un deficit pubblico crescente dall’inizio degli anni ’90 e la situazione si è deteriorata durante gli anni della crisi finanziaria, come mostra il grafico 1. Grafico 1 – I deficit pubblici statunitensi dal 2005 al 2015 Fonte: Congressional Budget Office Nel 2012, il debito nazionale degli Stati Uniti ammontava a circa 16 mila miliardi di dollari, oltre il 100% del Pil, come mostra il grafico 2. Nel 2015 ha raggiunto quasi 19 mila miliardi28. L’Amministrazione Obama ha fatto crescere il debito pubblico americano di 7,4 migliaia di miliardi (una media di 3,45 miliardi al giorno), creando il 41% di tutto il debito pubblico della storia degli Stati Uniti. Nel 2007, il debito nazionale americano era di 6000 miliardi. Nel 2011, dopo un acceso dibattito tra repubblicani e democratici, il Congresso ha aumentato il limite di indebitamento consentito a 16.4 migliaia di miliardi (e a 16,7 nel 2013), altrimenti il governo federale sarebbe stato costretto a dichiarare il default. 28 18 Grafico 2 – Il debito nazionale totale e pubblico29 degli Stati Uniti (migliaia di miliardi di dollari e in percentuale del Pil) dal 1940 al 2010 Fonte: Congressional Budget Office Seguendo la tradizionale relazione che sussiste in un’economia aperta: S – I = NX dove S indica i risparmi, I gli investimenti e NX le esportazioni nette. Ovvero il surplus/deficit di partite correnti che presenta un paese è equivalente alla differenza che c’è tra il risparmio nazionale, sia pubblico che privato, e gli investimenti. Se il risparmio nazionale eccede gli investimenti il paese Il debito nazionale (gross) ha due componenti: l’ammontare dei titoli emessi dal Tesoro che vengono trattati sul mercato secondario (public), e l’ammontare dei titoli emessi dal Tesoro non scambiabili detenuti da istituzioni intragovernative. 29 19 in questione si troverà in una situazione di surplus di partite correnti, viceversa un risparmio nazionale inferiore alla quota degli investimenti provocherà un disavanzo di partite correnti e la necessità per il paese di finanziare questo eccesso di investimenti utilizzando risparmio e capitali esteri. Nel caso di un sistema monetario a cambi fissi, il surplus/deficit di partite correnti si tramuta in un accumulo/decrescita di riserve ufficiali. Ma i dollari sono valuta di riserva. Negli anni ’90, mentre gli investimenti privati aumentavano negli Stati Uniti, la quota di risparmio privato sul PIL era rimasta pressoché invariata. Questa differenza tra investimenti e risparmio privato è stata finanziata attirando capitali dall'estero ed incrementando il proprio deficit di conto corrente 30. Gli Stati Uniti sono ancora in una situazione di twin deficit in cui ad un consistente deficit della finanza pubblica si associa anche un deficit nei conti con l'estero. Ma da un contesto in cui questi squilibri dipendevano principalmente da investimenti elevati, si è passati a uno in cui ad una diminuzione di quest’ultimi, fisiologica dopo lo scoppio di una bolla, è seguita una diminuzione ancora più marcata del risparmio, sia privato che pubblico. Il deficit di conto corrente attuale è quindi da attribuirsi al basso livello di risparmio. La differenza non è solo numerica: un'elevata spesa per investimenti può lasciar presupporre in futuro redditi maggiori oppure un significativo aumento della produttività cosa che difficilmente accade quando l'incremento è dovuto alla crescita della spesa pubblica militare. Al di là dei giudizi qualitativi che si possono dare sulle variazioni del saldo di parte corrente, un aspetto accomuna entrambi i tipi di deficit ovvero il loro bisogno di trovare finanziatori sul mercato dei capitali esteri per poter essere colmati. Gli Stati Uniti l’hanno trovato nella RPC. Gli squilibri statunitensi di parte corrente hanno assunto una dimensione tale da essere definiti squilibri globali. In generale, questi vengono motivati in due modi. Secondo alcuni analisti, essi riflettono l’esito ineludibile della diversa struttura demografica delle economie avanzate rispetto a quelle emergenti: questa è una delle ragioni del saving glut mondiale di Bernanke. Secondo altri analisti, gli squilibri sarebbero causati dalla politica di export led growth praticata dalla Cina e dagli altri BRICS31. 3.5 Politiche di aggiustamento o benign neglect? Se i bassi tassi d'interesse hanno facilitato i consumi a discapito del risparmio delle famiglie statunitensi, creando i presupposti per una corsa all'indebitamento, più sottile è il meccanismo che si 30 Durante gli anni '90, il deficit delle partite correnti è stato in parte contenuto dal fatto che il deficit della finanza pubblica americana si è mantenuto su livelli bassi, anzi registrando un surplus negli anni '97, ‘98 e ‘99. È negli anni dell'amministrazione Clinton che si innesca la bolla speculativa della new economy e dei titoli dotcom e il boom di investimenti ha finanziato il comparto delle aziende del settore tecnologico. Con l'inizio del nuovo millennio lo scenario, economico e politico è mutato rapidamente. La nuova amministrazione repubblicana guidata da Bush jr. viene eletta nel novembre del 2000 e contemporaneamente scoppia la bolla speculativa, legata ai titoli della new economy, trascinando gli Stati Uniti in una breve, quanto lieve, recessione. L’amministrazione decide però di agire massicciamente a sostegno dell’economia tramite un congruo taglio fiscale per rilanciare i consumi interni. Contemporaneamente la Fed, allora guidata da Alan Greenspan, decide di intraprendere una politica monetaria fortemente espansiva. Queste due manovre hanno dato il via a due tendenze: 1. la finanza pubblica degli Stati Uniti passa nel giro di poco tempo da una situazione di sostanziale equilibrio a una di deficit; 2. i bassi tassi d’interesse spingono le famiglie a diminuire il risparmio (già storicamente molto basso rispetto a quello di altri paesi), in maniera consistente e a ricorrere sempre più al debito per finanziare l’acquisto di beni durevoli e non. Nel frattempo, avviene l’attentato alle torri gemelle di New York dell'11 settembre 2001. Gli interventi militari che ne sono seguiti, in Afghanistan prima e in Iraq poi, hanno peggiorato sia il deficit della finanza pubblica che quello delle partite correnti. 31 Il mondo si è così diviso tra creditori (Cina, Russia, Indonesia, Iran, Arabia Saudita, Africa nord-occidentale e sudoccidentale, Venezuela) e debitori (America del Nord, Centrale e Latina, Europa, Turchia, India, Sud-Est asiatico, Australia). 20 annida nella scelta di collocare gli investimenti in un settore piuttosto che in un altro. I bassi tassi d'interesse hanno certamente favorito lo sviluppo di quei settori che producono beni non tradable, come ad esempio l'edilizia, a discapito dei beni commerciati internazionalmente, i cosiddetti tradable. Questo fatto, coniugato alla grande concorrenza internazionale delle merci asiatiche a basso costo, ha fatto sì che, nell’ultimo decennio, l'industria manifatturiera statunitense sia stata pesantemente ridimensionata dal s.m.i. noto come Bretton Woods 2 (Obstfeld, Rogoff, 2005). Di conseguenza, un eventuale aggiustamento del deficit di conto corrente americano sarà tanto più facile da fronteggiare quanto più l'economia statunitense sarà in grado di sostituire i beni importati dall'estero con quelli prodotti all’interno. Siccome questa capacità negli anni è venuta meno, in mancanza di una dinamica inflazionistica rilevante nei paesi esportatori, l'aggiustamento dovrà invece prevedere una diminuzione più marcata dei consumi interni ed un aumento molto forte del prezzo dei beni importati in seguito a un eventuale deprezzamento del dollaro. O, in alternativa, si può prevedere un ritorno al protezionismo, che peraltro già viene invocato nel corso della campagna elettorale. Il deficit crescente statunitense di parte corrente ha posto alla letteratura economica, da oltre dieci anni (Obstfeld, Rogoff, 2005), la domanda sulla misura della svalutazione del dollaro necessaria al riequilibrio attraverso un aumento delle esportazioni statunitensi e sulle ripercussioni che questo aggiustamento imporrebbe all’Europa e all’Asia. Qualsiasi sia lo scenario ipotizzato, emergono rischi per i mercati finanziari e per la stabilità economica e finanziaria in generale. Tali rischi sono legati sia all’ammontare del deficit statunitense che ad altri fattori. Tra questi il tasso eccezionalmente basso di risparmio negli Stati Uniti (1%), favorito dalla bolla immobiliare prima della crisi del 2007-2009, il deterioramento della finanza pubblica, la dipendenza crescente dell’economia statunitense dalle scelte delle banche centrali cinese e dei paesi produttori di petrolio che sono politicamente instabili. A queste vulnerabilità si aggiungono la rigidità dell’economia europea, il modello di sviluppo giapponese centrato sulle esportazioni, la suscettibilità delle economie emergenti ad ogni segnale di volatilità e, infine, il fatto che le controparti nelle transazioni internazionali di attività finanziarie sono sempre più costituite da compagnie di assicurazione, hedge funds e altri intermediari finanziari non bancari e non regolati32. Al di sopra di tutto ciò, si pongono i rischi geopolitici e la minaccia di terrorismo internazionale che sono cresciuti in modo consistente a partire dal 2001. Se qualche forte shock di domanda per la domanda internazionale di beni statunitensi dovesse innescare un processo graduale di riequilibrio della bilancia commerciale statunitense, i problemi si limiterebbero ai tassi di cambio, al fallimento di qualche istituto bancario e non bancario e a recessioni non gravi in Europa e in Giappone. Ma, dati gli altri fattori di rischio, da un decennio gli economisti continuano a raccomandare agli Stati Uniti di non rinviare le politiche di riduzione degli squilibri 33. Tali misure dovrebbero invertire il processo di formazione di risparmio, attraverso una contrazione del deficit pubblico federale, affrontando i problemi posti ai fondi pensione dall’invecchiamento della popolazione e quello del finanziamento della sanità. Solo una crescita della produttività del resto del 32 Secondo Mc Kinsey Global, anche i Sovereign Wealth Funds (Swf) sono stati parte attiva nel processo di bust che ha condotto alla più grande crisi finanziaria ed economica del secondo dopoguerra. Infatti i Swf condividono con gli hedge funds e i private equity funds il ruolo di power brokers. L’abbondanza di credito statunitense ha favorito operazioni finanziarie di vario tipo, oltre ai consumi delle famiglie (anche in case di proprietà) che, a loro volta, richiedevano quantità crescenti di esportazioni dai paesi asiatici la cui produzione richiedeva una quantità corrispondente di energia esportata dai paesi del Golfo. I surplus di questi due ultimi attori globali venivano poi trasferiti negli Stati Uniti attraverso l’acquisto di debito pubblico statunitense, contribuendo ad alimentare ulteriormente la disponibilità di credito a condizioni vantaggiose e a sostenere nel tempo un meccanismo che produceva squilibri sempre maggiori. 33 Roubini e Setser (2004) avevano previsto conseguenze ancora peggiori dovute all’innalzamento consistente dei tassi d’interesse mondiali nel caso in cui il dollaro perdesse il suo ruolo di moneta di riserva. 21 mondo confinata alla produzione di non traded goods potrebbe agevolare questo tipo di aggiustamento. È essenziale, inoltre, che l’Asia abbia un atteggiamento responsabile nell’accettare la sua parte di peso dell’aggiustamento altrimenti l’eliminazione di solo metà dello squilibrio corrente statunitense, dovuto a shifts di domanda, in presenza di un peg delle valute asiatiche con il dollaro, comporterebbe una rivalutazione difficilmente tollerabile dell’euro. In sintesi lo squilibrio corrente statunitense è una spada di Damocle che pende sull’economia mondiale. Ma per quanto riguarda questo problema, gli ultimi Presidenti della Fed (Alan Greenspan e Ben Bernanke) hanno palesemente riposto la loro fiducia in un processo di benign neglect34. Gli Stati Uniti sono stati capaci, finora, di continuare a pagare tassi di rendimento sulle loro passività minori di quelli guadagnati sulle attività finanziarie da loro possedute nel mondo. Ciò è stato dovuto alla detenzione di enormi quantità di Treasury Bills nelle riserve ufficiali delle banche centrali, al ruolo centrale del dollaro come moneta internazionale e al fatto che gli Stati Uniti posseggono una quota di attività straniere in azioni e obbligazioni ad alto rischio molto maggiore di quella che gli stranieri detengono in attività finanziarie statunitensi. Ma la questione è se tutto ciò può continuare in presenza di deficit correnti grandi e persistenti perché questa situazione può essere considerata gravemente distorsiva nella equa ed efficiente allocazione mondiale tra risparmio ed investimento (Roubini, 2005). L’eliminazione completa dello squilibrio della bilancia dei pagamenti statunitense comporterebbe variazioni dei tassi di cambio tali da generare pressioni per l’adozione di misure protezionistiche nei confronti di un Asia che non abbandoni il peg con il dollaro e davanti a una riduzione della domanda di capitali a prestito da parte degli Stati Uniti. La svalutazione del dollaro migliorerebbe la posizione finanziaria estera degli Stati Uniti (infatti tutte le sue passività sono in dollari mentre solo metà delle sue attività lo sono35), ma non porterebbe al riequilibrio del conto corrente statunitense a causa della scarsa possibilità di sostituire le merci importate. Inoltre un innalzamento, anche moderato, dei tassi d’interesse sulle sue obbligazioni, durante il processo di aggiustamento, cancellerebbe facilmente il guadagno associato alla svalutazione (Obstfeld, Rogoff, 2005). La contrapposizione del debito crescente statunitense all’accumulazione di riserve cinese è motivata dal timore di perdite in conto capitale (per la BPC e per i Swf cinesi) nel caso di un deprezzamento del dollaro. Il terrore finanziario mantiene quindi un equilibrio molto instabile che espone le due Si può dire che applicazioni eclatanti di benign neglect furono l’inazione del FMI nei confronti dei paesi eccedentari (Germania e Giappone) negli anni ’60 e la scelta statunitense, posta davanti al dilemma di Triffin, di provocare il crollo del sistema di Bretton Woods. Con benign neglect era stata indicata anche la politica di Reagan che, seguendo i consigli di Martin Feldstein durante il suo primo mandato, aveva lasciato innalzare i tassi di interesse, e quindi la domanda e il valore del dollaro, simbolo della prosperità statunitense, fino al 50% su marco tedesco, sterlina, yen, e franco francese, nei primi anni ‘80, senza preoccuparsi delle crisi di crescita imposte al resto del mondo e all’Europa e al Giappone in particolare. Con l’accordo del Plaza (settembre, 1985), a New York, Francia, Regno Unito, Germania, Giappone e Stati Uniti dichiararono il dollaro sopravalutato sullo yen e sul marco tedesco, ma a febbraio del 1987, i ministri delle finanze degli stessi paesi si riunirono di nuovo al Louvre, a febbraio del 1987, e concordarono che, nel frattempo, il dollaro si era deprezzato abbastanza. 34 35 Quando il dollaro si deprezza nei confronti delle altre valute, oltre che far guadagnare competitività alle merci prodotte dagli Stati Uniti, migliora anche la loro posizione netta sull'estero. Ciò avviene perché lo status di valuta internazionale del dollaro permette agli Stati Uniti di emettere le passività nella propria valuta e di detenere attività sull'estero nelle valute locali. Questa considerazione lascia presumere che gli Stati Uniti siano ben poco interessati ad una riforma del s.m.i. che limiti la loro capacità di emettere la principale valuta di riserva internazionale. 22 potenze a un rischio crescente. Questo problema è ancora più grave per gli Stati Uniti in quanto la leadership politica è fortemente interconnessa con la fiducia che il mercato esprime nei confronti della moneta emessa dal paese leader. La minaccia, anche solo velata, di smettere di finanziare il deficit di conto corrente americano obbliga l'amministrazione statunitense a muoversi con prudenza ogni qual volta si deve esporre su argomenti spinosi per le autorità cinesi. Un esempio recente di quanto pesa l'opinione cinese si è avuto al momento del salvataggio del 2008 da parte del Tesoro americano dei due colossi erogatori di mutui Freddie Mac e Fannie Mae in cui i Swf cinesi avevano investito una quota considerevole (Lossani et a., 2013). Il credito cinese, vantato soprattutto nei confronti degli Stati Uniti, si è trasformato da tempo in un’arma diplomatica. Per la Cina il vantaggio politico è dato dal dissolvimento delle molteplici tensioni dovute al rispetto dei diritti civili, al Tibet, a Taiwan, alla minaccia nucleare nordcoreana, alle emissioni di CO236. Il potere finanziario può diventare così una vera e propria arma diplomatica. Le condizioni per cui questo si verifichi sono che: a. i paesi investitori/creditori devono essere sufficientemente grandi rispetto al paese in cui si investe (target country); b. i paesi investitori non devono essere economicamente interdipendenti con il target country; c. soprattutto non devono essere i suoi alleati politico-militari. Il caso dei Medici insegna. Queste condizioni non sono soddisfatte dai paesi del Golfo. I legami economici tra Stati Uniti e Cina sono invece di tale dimensione che nel tempo si è venuto a creare un equilibrio di terrore finanziario. Questa mutua interdipendenza riduce sensibilmente il potenziale politico dei Swf cinesi. Dopo la crisi, finanziaria, i paesi del Golfo hanno riorientato i loro investimenti (inclusi quelli dei Swf), prima solo sui mercati esteri, poi verso attività reali interne volte a creare infrastrutture per lo sviluppo. La compresenza delle tre condizioni invece ha posto, in particolare la Cina, nella condizione di esprimere le proprie ambizioni planetarie, come l’introduzione del renminbi nel basket dei DSP e la creazione di istituzioni economiche internazionali concorrenti con quelle di Bretton Woods (FMI, BM, WTO). La conseguenza ultima del potere finanziario cinese è quindi la riduzione della capacità di controllo esercitata dalle grandi potenze occidentali sulla governance mondiale. Il passaggio dal G8 al G20 ne è stato un esempio. La stabilità del dollaro dipende, in definitiva, dalla volontà dei cinesi di continuare a finanziare il deficit di partite correnti statunitense. Ma più la Cina finanzia questo disavanzo, più il suo stock di riserve valutarie in dollari aumenta esponendola ancora di più al rischio di consistenti perdite in conto capitale nel momento in cui decidesse di fermare o comunque ridimensionare il flusso di capitali verso gli Stati Uniti. La posizione delle autorità cinesi non è dunque facile. Proseguire nella politica di cambio fisso e sottovalutato implica dei costi, sia in termini di inflazione attesa (ma questo costo è marginale in tempi di deflazione) che di perdite in conto capitale, decisamente ingenti. D'altro canto l'abbandono del peg renminbi-dollaro comporterebbe la rivalutazione della moneta cinese sui mercati e la perdita di competitività internazionale delle merci cinesi con pesanti ricadute sul tasso di crescita e su quello di occupazione interno37. Barack Obama e Hillary Clinton affermarono nella loro campagna presidenziale che “era difficile condurre un negoziato duro con i cinesi sapendo che essi sono i nostri banchieri”. Inoltre la Cina ha acquisito la capacità di imporre una condizionalità geopolitica, come nel caso in cui ha richiesto il disconoscimento di Taiwan al Costa Rica per la concessione di un prestito di alcune decine di milioni di dollari. 37 Per la Cina, il peg (o quasi) con il dollaro è servito a mantenere la competitività internazionale delle sue esportazioni e ad attrarre Ide che le hanno consentito di evitare uno stress sul suo fragile sistema bancario. 36 23 Obstfeld (2006) ha suggerito che una graduale rivalutazione della divisa cinese avrebbe avuto un impatto limitato sulla competitività delle sue esportazioni. Questo studioso ha fatto riferimento, in questo caso, alle rivalutazioni del marco da parte della Germania Ovest negli anni del sistema di Bretton Woods. Tali rivalutazioni non avevano, infatti, minato la competitività delle merci tedesche consentendo al paese di mantenere un ingente surplus di bilancia dei pagamenti anche dopo aver ripetutamente rivalutato il marco (Bordo, 1992). Ma il caso cinese è molto diverso da quello tedesco perché nel primo caso si faceva affidamento sulla competitività di prezzo (che è una teoria del prezzo minimo) mentre, nel secondo, sulla competitività tecnologica (che è una teoria del prezzo massimo). La crisi finanziaria mondiale ha interrotto bruscamente la crescita del mercato internazionale dei capitali che durava dagli anni ‘80 con l’intervallo dell’attentato alle torri gemelle e la permanenza degli squilibri economici mondiali potrebbe innescare un ritorno al protezionismo. 3.6 Le responsabilità della Fed In realtà la Fed ha contribuito, sia prima che durante la crisi 2007-2009, attraverso il QE mirato a rivitalizzare l’economia statunitense, a mettere a rischio lo status del dollaro riducendone il potere d’acquisto e stimolando le grandi nazioni commerciali del mondo ad utilizzare altre valute. Una perdita progressiva di domanda di dollari come valuta di riserva avrebbe significato che migliaia di miliardi di dollari detenuti all’estero sarebbero rifluiti negli Stati Uniti, causando o inflazione, o recessione, o entrambe le cose. La quota globale di dollari detenuti dalle banche centrali è attualmente il 62%, per lo più sotto forma di debito del Tesoro statunitense38. Qualora la domanda estera dovesse ridurre la quota di asset denominati in dollari, il Tesoro potrebbe finanziarne la rimborsabilità solo in tre modi: aumentando le tasse per rimborsare il debito detenuto all’estero; alzando i tassi d’interesse per rifinanziare il loro debito detenuto all’estero; semplicemente stampando dollari. La monetizzazione del debito porterebbe ad un’inflazione molto elevata. La Fed trae buona parte del suo potere dal ruolo di prestatore di ultima istanza attraverso le operazioni di sconto. Le restrizioni sui prestiti e sugli acquisti di titoli hanno contribuito a sostenere, nel passato, la sua indipendenza politica dal Congresso e dalla Casa Bianca. Tuttavia, mentre questi poteri conoscevano un’espansione senza precedenti nel 2008, le limitazioni tradizionali sono venute meno, rivelando le falle dell’indipendenza della Fed. Tra queste si colloca la disattenzione della sua vigilanza per la proliferazione dei mutui sub-prime. Durante la crisi, la Fed ha sostenuto Wall Street, ovvero le grandi banche, attraverso l’acquisto di titoli sui mutui come collaterale dei prestiti (la grande preoccupazione di Paul Volcker), e i mercati finanziari, i cartelli e le grandi società (AIG, American International Group, ecc.), ignorando però le piccole e medie imprese e le attività a conduzione famigliare che danno vita alle Main Street di tutto il Paese. Ha mostrato così la sua parzialità diventando da prestatore di ultima istanza a intermediario e compratore di ultima istanza. Goldman Sachs, Morgan Chase, altri giganti finanziari e i Swf si sono lanciati in operazioni speculative all’estero, per esempio scommettendo sul debito sovrano e privato in Grecia, Spagna e Italia (che poi chiedevano di salvare con i soldi dei contribuenti tedeschi), dopo aver aiutato questi paesi a nasconderlo. I critici hanno accusato questo approccio espansivo di sostenere artificialmente i mercati 38 Le banche centrali detengono il debito fruttifero del Tesoro statunitense piuttosto che i dollari. 24 finanziari, creando nuove bolle e ignorando i bisogni dell’economia reale 39, nonché di ostacolare la crescita in altri paesi. Il programma della Fed è diventato poi un modello per le altre banche centrali (inglese, giapponese e da ultimo europea). La politica alternativa che pure avrebbe potuto essere seguita, senza costi per il governo, attraverso il finanziamento di Main Street, degli studenti, delle banche statali infrastrutturali, avrebbe sospinto Stati Uniti ed Europa fuori dall’austerità, in direzione di una politica economica più eterodossa, keynesiana di pieno impiego. Invece, si è ripetuto, dopo 40 anni, il fenomeno per cui la crisi del dollaro finisce per rafforzarlo piuttosto che indebolirlo. La dottrina dell’indipendenza delle banche centrali poggia, in ultima istanza, sull’idea che non esista altro modo per evitare una crescita accompagnata da forte inflazione. Spesso, però, gli studi su questo tema hanno scelto selettivamente i lassi temporali per confermare questa teoria. Hanno ignorato, ad esempio che tra il 1940 e il 1970, le banche centrali erano state meno indipendenti, eppure le economie occidentali avevano conosciuto una crescita più robusta, prezzi stabili e condizioni di vita in continuo miglioramento40. Al contrario, negli ultimi venti anni con banche centrali indipendenti “catturate”, la crescita è rallentata, i salari sono rimasti stagnanti, le disuguaglianze nei redditi sono aumentate, mentre proseguono i cicli dannosi di espansione e implosione dei mercati finanziari. La saggezza convenzionale ha addebitato questi fenomeni alla globalizzazione dei mercati. Ora, a questo riguardo, si profila anche una corresponsabilità delle banche centrali41. La centralità di Wall Street dopo la crisi ha fatto propria la tesi smithiana che l’arricchimento privato fornisce un contributo fondamentale al bene comune, ma ha anche ricordato, come fece Marx, che esso porta con sé i germogli della sua stessa distruzione. Nel mondo, la finanza newyorkese e londinese, ma anche quelle di altre piazze finanziarie minori, viene percepita come un mazzo di carte truccato per gabbare gli ignari, per sviare i legislatori e i regolatori. Wall Street si è strenuamente difesa sostenendo che i non iniziati non possono capire i labirinti della finanza, che quindi vanno lasciati ai professionisti. Una mentalità valida tanto nel XIX e XX secolo come oggi. Di fatto il risultato non cambia: quando il potere finanziario ha agito senza regole sono scoppiate le crisi. Nel frattempo i mercati restano vulnerabili come nel 2008. 4. Euro, Yen e Sterlina 4.1 Il ruolo dell’euro prima della crisi L'euro è la valuta comune ufficiale attualmente adottata da 19 dei 28 Stati membri dell'UE aderenti all' Unione Economica e Monetaria (UEM)42. L’euro è stato pensato, soprattutto da Jacques Delors, 39 La Fed ha acquistato titoli dalle banche depositandone il prezzo nei conti di riserva da essa detenuti. Ciò vuol dire che il QE non ha fatto aumentare necessariamente l’offerta di moneta delle piccole e medie imprese. 40 Alcune ricerche (Posen, 1994; Hayo, 1998) hanno evidenziato da tempo che tanto l’indipendenza politica quanto l’inflazione rappresentano l’esito di interessi economici radicati ed espressi da forti gruppi di pressione. Queste conclusioni empiriche corroborano, almeno in parte, le interpretazioni neomarxiste secondo cui sarebbero le forze economiche a plasmare unidirezionalmente le istituzioni (De Grawe, 2013, 190). 41 Ma c’è un ulteriore profilo, su cui emergono domande cruciali, che mette in evidenza la contraddizione tra la valorizzazione dell’indipendenza delle banche centrali e la critica all’euro in quanto moneta che non ha come riferimento uno Stato unitario. 42 Austria, Belgio, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia e Spagna. L'ultimo Stato ad aver adottato l'euro è stata la Lituania il 25 a metà degli anni ’80, per cercare una protezione dagli shocks del dollaro e dalle variazioni dei tassi d’interesse statunitensi nell’ambito del benign neglect reaganiano. Oggi (2016) l’euro ha quasi lo stesso cambio col dollaro della sua prima emissione. Successivamente, era sceso fino a 0,83:1 (2001) perché l’effetto debito aveva dominato l’effetto portafoglio (De Grawe, 2013)43. Poi, il cambio risalì fino a 1,59:1 (2008) a causa della politica monetaria espansiva statunitense seguita allo scoppio della bolla Ict, all’attacco alle Twin Towers e alle guerre contro l’Afghanistan e l’Iraq. Per quasi un decennio dalla sua istituzione, l’euro ha espanso gradualmente il suo peso nelle transazioni internazionali e nelle riserve ufficiali delle banche centrali di tutto il mondo (Romagnoli, 2013). Questo processo faceva intravedere l’affermazione di un mondo bipolare dove, in un contesto sempre più globalizzato, la leadership monetaria sembrava destinata a essere condivisa tra gli Stati Uniti e l’Eurozona. Questa tendenza avrebbe potuto dar luogo ad un basket peg che, anche con l’accordo cinese, servisse da àncora44 ai paesi avanzati e alla maggior parte dei paesi emergenti e dei pvs, consentendo loro di conservare credibilità e fiducia, acquisire flessibilità della loro politica monetaria e di contenere gli effetti del possibile deprezzamento di una delle valute del basket. In quel contesto, la crescita dell’euro come moneta internazionale sembrava legato essenzialmente alla incapacità degli Stati Uniti di contenere i propri squilibri interno ed esterno. Infatti è incongruo predicare il free trade e poi tollerare il dumping monetario ovvero la guerra delle valute. Tuttavia, la presenza dell’euro come alternativa di liquidità internazionale al dollaro rendeva sempre più vicini i limiti della tollerabilità del resto del mondo all’indebitamento interno ed estero statunitense e le aspettative di deprezzamento del dollaro potevano condizionare le scelte delle banche centrali dei paesi emergenti e i portafogli degli operatori privati45. In tal modo l’euro, nonostante la sua giovane vita, si era già affermato pienamente come seconda valuta mondiale prima della crisi, a breve distanza dal dollaro, sul mercato internazionale dei capitali. Il 20 marzo 2006 alcuni canali di informazione davano la notizia che l'Iran avesse in programma di aprire una borsa internazionale del petrolio allo scopo manifesto di scambiare petrolio esclusivamente in euro, con un meccanismo per fissare i prezzi denominato oil marker46. In realtà, già nel 2003, l'Iran aveva iniziato a trattare con i suoi partner europei ed asiatici usando l'euro. La borsa del petrolio iraniana doveva divenire il quarto oil marker nel mercato petrolifero internazionale al fine di poter commerciare il greggio non solo in dollari ma anche in altre valute come euro, yen, renminbi, rupia. 1º gennaio 2015. L’euro è attualmente la moneta comune di oltre 330 milioni di cittadini. Ha garantito ai suoi membri la stabilità dei prezzi e li ha protetti contro l’instabilità esterna. Nonostante la recente crisi, rimane la seconda moneta al mondo per importanza, con una quota pari a quasi un quarto delle riserve mondiali di valuta e con quasi sessanta paesi e territori di tutto il mondo che, direttamente o indirettamente, hanno ancorato la loro moneta all’euro. Durante i primi sei mesi di vita dell’euro (quando tutti si aspettavano un suo rafforzamento), le emissioni di titoli denominati in euro superarono gli acquisti con il suo conseguente deprezzamento sui mercati valutari. In quel momento ciò favorì la ripresa delle economie tedesca e francese. 44 Una valuta àncora è sia una moneta di riserva che viene detenuta in quantità consistenti da governi e istituzioni sia una valuta usata per denominare i prezzi dei beni scambiati sul mercato globale. Ciò permette ai paesi che la emettono sia di risparmiare i costi di transazione sostenuti dai paesi che devono cambiare la loro valuta in quella usata come àncora nelle riscossioni e nei pagamenti sia di ottenere prestiti a tassi di interesse inferiori. 45 Già alla fine del 2006 l’ampiezza del sistema finanziario dell’UME, misurata dalla somma del valore dei mercati azionario e obbligazionario e delle attività delle banche commerciali (53.000 miliardi di dollari), era simile a quella statunitense (57.000 miliardi di dollari) e decisamente superiore a quella del Giappone (20.000 miliardi di dollari) (Marzovilla, 2009, 39). 46 I tre oil marker allora esistenti, basati sul dollaro statunitense, erano il greggio West Texas Intermediate, il greggio norvegese Brent, il greggio Dubai Crude degli Emirati Arabi Uniti. 43 26 Questa iniziativa, pregna di finalità geopolitiche, sarebbe stata una sfida ancora più grave di quella posta in precedenza da Saddam Hussein che, già nell’autunno del 2000, aveva iniziato a commerciare il proprio petrolio in euro, ed è stata vista come uno strumento per sovvertire la centralità del dollaro. L’iniziativa del governo iraniano, quarto per riserve mondiali di petrolio, di competere con il NYMEX di New York e l’International Petroleum Exchange (IPE) londinese, con un meccanismo alternativo di scambio del petrolio basato sull’euro, avrebbe avuto conseguenze importanti 47. Inoltre, nel 2007, altri paesi dell’Opec avevano proposto di abbandonare il dollaro a favore dell’euro come moneta di scambio del petrolio e solo l’opposizione dell’Arabia Saudita, primo produttore mondiale, aveva potuto scongiurare questo evento. Se il petrolio fosse stato quotato in euro e la moneta statunitense si fosse indebolita, anche gli Stati Uniti, in prospetiva, avrebbero dovuto acquistarlo in euro e di conseguenza avrebbero dovuto esportare merci e servizi sufficienti a pagarlo. La moneta unica che, come si è detto, si era già affermata a livello internazionale, anche a causa degli alti livelli di debito interno ed esterno degli Stati Uniti, avrebbe avuto un ruolo importante anche negli scambi petroliferi mettendo a rischio la supremazia del dollaro in questo mercato importante e, di conseguenza, sulla domanda internazionale di dollari e di riserve da parte delle banche centrali di tutto il mondo. L’economia americana, fortemente indebitata, dipende dalla domanda internazionale di dollari per sopravvivere. Se questa domanda dovesse venire meno, in presenza degli attuali squilibri economici e finanziari mondiali, sarebbe l’annuncio di un disastro per gli Stati Uniti. Per questo, essi sarebbero stati l’unico perdente di una manovra che avrebbe, invece, portato vantaggi all’Eurozona e ai paesi suoi partner commerciali. Infatti gli acquisti di petrolio in euro avrebbero rafforzato la diversificazione in atto di riserve delle banche centrali dal dollaro all’euro indebolendo ulteriormente la valuta statunitense e le sue capacità di importazione mentre quelle di produzione sostitutiva di beni si era già rarefatta. L’euro avrebbe conseguito un ruolo di moneta internazionale molto maggiore ma questo risultato sarebbe stato legato soltanto alla sua stabilità e alla sua crescita nei mercati finanziari e non alla sua forza militare. 4.2 La crisi di secondo livello Prima del fallimento di Lehman Brothers (2008), i progressi compiuti dal processo di integrazione del mercato finanziario dell’UEM erano stati evidenziati dalle tendenze alla convergenza dei tassi d’interesse a breve sul mercato monetario interbancario e dei tassi sui titoli pubblici. L’esplosione della crisi ha invece rallentato il processo di internazionalizzazione dell’euro. Diversi fattori hanno operato in tale direzione: i timori delle ricadute sull’Eurozona degli effetti recessivi esercitati dalla crisi sull’intera UE, le difficoltà mostrate dai governi e dalla BCE nell’adottare prontamente risposte unitarie e consistenti davanti alla crisi di secondo livello, la prevalenza di azioni unilaterali, ineludibili in assenza di situazioni-paese omogenee e di un governo federale, i vincoli posti dal Patto di Stabilità e Crescita (PSC), inclusa l’impossibilità di monetizzazione dei debiti pubblici. Con l’inversione della tendenza suddetta, i mercati finanziari hanno migliorato la loro efficienza distinguendo i rischi di Le ragioni di questa scelta strategica iraniana erano molteplici: a) l’uso dell’euro avrebbe facilitato gli scambi con l’Europa, suo principale partner straniero; b) l’indebolimento del dollaro era funzionale all “scontro di civiltà” tra Islam e Occidente rappresentato dagli Stati Uniti, un avversario più potente dal punto di vista militare; c) questo colpo avrebbe consentito di affrancare l’Opec dalla tutela statunitense e all’Iran di affermare la sua supremazia a livello regionale. 47 27 solvibilità e di liquidità dei singoli membri dell’Eurozona incapaci ormai di emettere moneta. In questo modo hanno costretto l’intera Eurozona a sopportare una recessione molto più dura di quella attesa, attraverso l’ampliamento degli spreads sui titoli di debito nazionali rispetto ai rendimenti dei Bund tedeschi, una politica inedita di rigore imposta ai paesi debitori con i fondamentali più deboli e potenziali perdite in conto capitale ai paesi detentori dei loro titoli di debito. Hanno anche inibito gli effetti della politica monetaria espansiva della BCE aggravando gli shocks asimmetrici (Marzovilla, 2009). In un clima di insicurezza e di dubbi sulla capacità di reazione dell’UME all’estendersi della sua crisi, i mercati finanziari internazionali e il dollaro sono tornati a polarizzare l’interesse del resto del mondo ma, a differenza del passato, la logica sottostante al rinnovato interesse non è stata tanto ispirata dalla fiducia nell’economia statunitense, quanto dal timore che una fuga improvvisa dal dollaro potesse comportare rischi ancora più gravi per i creditori che avevano accumulato ingenti attività finanziarie in dollari. L’Eurozona ha intrapreso, dal 2010, un cammino accelerato di riforma della sua governance al fine di conseguire una coesione fiscale e finanziaria con l’attribuzione di cogenti poteri centrali e l’istituzione di forti autorità di controllo e quindi di eliminare gli elementi di debolezza costituiti dai deficit di bilancio pubblico e di parte corrente della bilancia dei pagamenti degli stati membri più deboli. Ciò si è accompagnato a un approfondimento delle recessioni già in atto in questi paesi, con seri pericoli di perdita del consenso da parte dei governi che si sono fatti carico delle misure di austerità. L’Eurozona si è così trovata ad affrontare prima la crisi finanziaria ed economica internazionale e poi la crisi di secondo livello dell’euro con l’alternativa tra il rispetto del primo pilastro del suo statuto, che impone la stabilità monetaria e garantisce la credibilità della BCE, e il suo abbandono, visto che l’Eurozona non ha la posizione di “n.mo paese” e i mercati finanziari dell’Eurozona non erano ancora sufficientemente ampȋ e integrati. La crisi dell’euro ha portato verso la balcanizzazione della finanza europea di cui sono stati esempi eloquenti la scelta franco-tedesca, nell’ottobre del 2008, di non adottare strumenti comunitari europei per affrontare la crisi delle banche dell’Eurozona, preferendo soluzioni nazionali, e quella presa a Deauville, nell’ottobre 2010, di far partecipare le banche al taglio del valore del debito greco, decisione che ha scatenato il contagio agli altri debiti pubblici dei paesi della periferia sud dell’Eurozona (Romagnoli, 2013)48. La crisi di secondo livello dell’euro, innescata dalla speculazione sui mercati valutari che hanno innalzato gli spread sui debiti sovrani di questi paesi, può essere vista come funzionale ad eliminare la competizione dell’euro dalla scena mondiale, mentre l’austerity, che ne è seguita, può essere vista come la rinuncia a un benign neglect a favore di una via amara mirata, invece, ad evitare la sua completa dissoluzione, non avendo essa ancora acquisito uno status adeguato di moneta di riserva nelle principali banche centrali mondiali. La scelta dell’austerità rivela soprattutto la convinzione che i problemi di aggiustamento si affrontino meglio all’interno piuttosto che all’esterno di un’unione monetaria (Romagnoli, 2015b). Una soluzione migliore sarebbe stata quella di rafforzare il coordinamento fra le banche, creando un’assicurazione unica sui conti che ripartisse il rischio omogeneizzando le attività. Per far questo, però, ci sarebbe stato bisogno di regole che mettessero gli operatori in grado di agire come se fossero all’interno di uno Stato federale, seppure formalmente assente, liberalizzando fusioni, acquisizioni e altre attività “cross border”. Ma questa strategia non è percorribile al di fuori di una unione politica. Su questo punto, si consenta di rinviare all’analisi compiuta in Romagnoli (2015). 48 28 Al fine di considerare gli esiti possibili della crisi dell’euro, in assenza di unione politica europea, si riporta una sintesi delle tesi emerse su questo tema nel corso di un dibattito recente tra alcuni economisti famosi49. Essi hanno osservato che finora, in Occidente, solo gli Stati Uniti e il Regno Unito erano usciti dalla recessione originata dalla crisi finanziaria internazionale del 2007-2009, mentre la disoccupazione è rimasta molto alta in gran parte dell’Europa continentale. Lo spread sui rendimenti dei titoli pubblici dei PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna) rispetto al rendimento dei Bund tedeschi è cresciuto da allora fino all’estate del 2012, in modo esponenziale, soprattutto per i titoli di stato di quei paesi, a causa degli squilibri di conto corrente (Irlanda, Spagna e Portogallo) e dell’innalzamento del rapporto debito/Pil (Grecia e Italia). Nemmeno i tassi d’interesse reale negativi sono stati in grado di far riprendere le economie europee. L’avvicinamento dei tassi d’interesse allo zero ha dato luogo a una trappola della liquidità, piuttosto che alla ripresa della crescita perché il problema cruciale dell’Europa è quello della competitività. Questi economisti vedono solo quattro vie d’uscita possibili dalla crisi dell’euro provocata dai PIIGS: a. la ristrutturazione delle economie della periferia sud dell’Eurozona per riguadagnare competitività ed evitare che questa esperienza si ripeta in futuro (in altri termini i PIIGS devono smettere di vivere al di sopra delle proprie possibilità in un mondo globalizzato, visto che la moneta di riserva prevalente è ancora il dollaro); b. una politica monetaria espansiva attraverso il QE 50, anche se non è detto che esso funzioni in Europa a causa sia della concomitante crisi bancaria51 sia dei rischi associati ai prestiti in tempi di crisi; c. l’assistenza finanziaria delle economie deboli, ma ciò è reso difficile dal fatto che l’UEM, senza l’unione politica, non è una transfer union (Frankel, 2012); d. un’unione fiscale tra i paesi dell’UEM che consenta riforme espansive 52, ma il consolidamento dei bilanci pubblici europei sottende, anche in questo caso, l’accettazione di una sostanziale unione politica. Pertanto, queste vie d’uscita dalla crisi valgono solo in linea teorica per l’euro e, secondo questi economisti, hanno scarsa possibilità di realizzarsi in pratica. A quasi un anno di distanza dall’incontro di Boston, nel novembre 2015, un altro convegno del Centre for European Reform, ha affrontato, a Londra, un tema simile “Has the euro been a failure?” con una conclusione che può essere sintetizzata in sei punti (Portes, 2015, t.d.a): Questo dibattito si è svolto nel corso della sessione When will the Eurozone crisis end? tenuta a Boston nell’incontro annuale dell’American Economic Association il 3 gennaio 2015. Ad essa hanno partecipato Barry Eichengreen, Martin Feldstein, Jeffrey Frankel, Kenneth Rogoff e Dominick Salvatore. 49 50 Con i fondi creati attraverso il QE, le banche centrali si limitano, in condizioni normali, ad acquistare titoli posseduti dalle banche diminuendo, di conseguenza, i loro rendimenti. 51 Per questo, il loro consiglio è stato quello di utilizzare la politica monetaria con la finalità di lasciar deprezzare l’euro sul dollaro, magari attraverso l’acquisto di Treasury Bills statunitensi piuttosto che di titoli di stato europei. Ma questo sarebbe un modo di esportare la recessione mentre la vera alternativa è quella di cercare di stimolare la domanda in modo coordinato tra i paesi dell’Eurozona. Questa politica prevede soprattutto l’uso di annunci ex ante e l’eliminazione del rischio morale ex post attuato sovente attraverso il gonfiamento delle attese di crescita. Secondo alcuni studiosi, infatti, la regola seguita finora da molti paesi europei in crisi è stata quella di aggiustare le previsioni piuttosto che le politiche (Frankel, Schreger, 2012; Karsten, Kutan, Muradoglu 2015, 4). Gli eurobonds potrebbero essere utili ma anch’essi implicano una unione fiscale parziale e quindi politica. A questo riguardo, von Weizacker e Delpha (2010) hanno suggerito l’uso dei blue bonds e dei red bonds. Secondo questa proposta, i debiti sovrani dell’eurozona andrebbero divisi in due parti; la prima (senior trance – blue debt) fino al 60 per cento del Pil, dovrebbe essere messa in comune e garantita congiuntamente dai paesi membri, la seconda parte (junior tranche – red debt), oltre il 60 per cento del Pil, rimarrebbe solo sotto la responsabilità nazionale dei singoli paesi. 52 29 Nessuno ha sostenuto che l’euro sia stato un successo; la sola differenza è stata che alcuni pensavano che questo risultato fosse inevitabile, a causa dei difetti di costruzione interni, e altri ritenevano che l’insuccesso fosse dovuto a errori di politica economica, soprattutto nell’affrontare la crisi finanziaria. Vi è stato accordo sul fatto che sia la politica fiscale che quella monetaria siano state eccessivamente restrittive e che, quando sono state addolcite, avrebbero dovuto esserlo di più per consentire una ripresa ampia e solida dell’Eurozona. Una tesi condivisa è stata che la strategia attendista dell’Eurozona è stata quanto meno rischiosa e avrebbe potuto portare al suo collasso; secondo molti di loro, essa non sopravviverebbe a una nuova crisi generata sia al suo interno che all’estero o alla crisi politica di uno dei suoi membri maggiori. Vi è stato comunque consenso sulla necessaria direzione di marcia per l’Eurozona che abbisogna di cambiamenti strutturali sostanziali forse per sopravvivere, certamente per prosperare. Ciò implica il combinato disposto sia dell’unione bancaria che dei mercati dei capitali, la condivisione del rischio fiscale e la trasformazione della BCE in prestatore di ultima istanza, accompagnati dal necessario consenso politico. Vi è stato accordo anche sul fatto che queste riforme necessarie non sono realistiche nel breve periodo. Alcuni hanno pensato a un “grande scambio”, peraltro poco credibile, che preveda sia riforme strutturali che coordinamento su temi caldi come quello dei rifugiati. Ma, e questa è stata la conclusione finale, se manca il modo di rimediare la crisi dell’euro, neanche la sua fine, seppure con un default ordinato, che implica il ritorno alle valute nazionali europee, è un’opzione possibile, soprattutto per alcuni paesi. Le conseguenze probabili sarebbero infatti una combinazione di una significativa dissociazione finanziaria (nel breve periodo) e una situazione economica caratterizzata da incertezza politica continua e dannosa sul modo di gestire i cambi tra i paesi membri (nel medio periodo). In sintesi, l’elitè europea sa (o almeno pensa di sapere) cosa bisogna fare ma non è sicura di saperlo fare. Sa anche che ulteriori crisi sarebbero scoppiate ma non sa come evitarlo. Sembra, secondo Portes (2015), una descrizione del passaggio da una “teoria della bicicletta” a una del “monociclo”, che permette ovviamente di andare avanti e indietro per un po’e anche di procedere in tondo prima di cadere. 4.3 Lo status attuale dell’euro Il dollaro domina i mercati finanziari mentre l’euro, che è stato soggetto a due crisi, durate 10 anni nel complesso, è sempre più locale, al contrario del periodo precedente la crisi. L’Europa sta perdendo quote nella gestione del proprio risparmio, mentre il declino economico statunitense e l’ascesa cinese sono trend chiari e, forse, irreversibili53. L’impotenza europea è manifesta sullo sviluppo dei mercati L’indice della quota media di Pil, commercio e investimenti esteri statunitensi è sceso dal 18% del 1973 al 14% del 2010; quello della Cina è salito da 0 al 12% nello stesso periodo. Entro il 2020 si prevede che le percentuali si saranno invertite. Gli Stati Uniti mantengono la leadership in ricerca e tecnologia (e in prospettiva nella produzione di petrolio e gas), tuttavia la quota degli investimenti mondiali delle sue imprese è scesa in 15 anni dal 39 al 24%. L’aspetto sorprendente è che il dominio finanziario degli Stati Uniti continua incontrastato a dispetto del declino economico relativo. Il dollaro rappresenta il 60% delle riserve valutarie del mondo, l’86% delle transazioni in cambi, oltre metà delle passività 53 30 finanziari in euro mentre è prioritario per l’Europa facilitare l’afflusso di capitali alle imprese, sostenere la loro crescita tramite aggregazioni, attirare i capitali esteri per finanziare le infrastrutture, intermediare e gestire meglio il risparmio, promuovere l’euro come valuta internazionale per poter pagare energia e materie prime con la moneta unica. Un grande mercato unico dei capitali in euro sarebbe per l’Eurozona anche la migliore protezione dalle future crisi mondiali e questo intento ha motivato con l’austerity, anche da parte della BCE, al fine di contrarre gli spreads nella crisi di secondo livello. Nonostante il Pil e il reddito pro capite dell’Eurozona siano di poco inferiori a quelli degli Stati Uniti, l’euro tende ora a rimanere una valuta locale e il suo mercato dei capitali, perde terreno invece di svilupparsi54. In sintesi, l’Europa non riesce più a sviluppare adeguatamente il proprio mercato dei capitali, non riesce a promuovere l’uso dell’euro nel mondo, perde quote nella gestione, intermediazione, e investimento del proprio risparmio. Il settore finanziario ha bisogno di economie di scala per competere: grandi rischi richiedono grandi patrimoni e risorse per gli enormi investimenti in informatica e professionalità oggi necessari. Il sistema bancario europeo è ancora molto frammentato secondo i confini nazionali e la nuova disciplina delle risoluzioni bancarie non aiuta: lasciando la gestione delle risoluzioni alle autorità nazionali e facendo gravare il rischio di dissesto su depositanti e obbligazionisti, prevalentemente interni, disincentiva le fusioni trasnazionali perché esse aumentano il rischio che i cittadini di un paese debbano pagare per il dissesto di una banca estera, mentre le fusioni sono indispensabili per creare gruppi in grado di competere con quelli statunitensi e cinesi. Oltre agli intermediari, frammentati sono anche i sistemi giuridici, le leggi fallimentari e le autorità di regolamentazione dei mercati e degli intermediari nell’Eurozona. Così il mercato dei capitali si sposta a Londra che, nell’eventualità che il Regno Unito esca dall’UE, diventerebbe prevalentemente offshore. Oltre alla moral suasion esercitata dagli Stati Uniti, attraverso i suoi migliori economisti (Dornbush, Feldstein, Krugman, Stiglitz, ecc.), per scoraggiare la nascita di una moneta internazionale concorrente col dollaro, a rafforzare le preoccupazioni c’erano le premesse da cui era scaturito l’euro. Moneta accettata senza entusiasmo dalla Germania, come contropartita (chiesta da Mitterrand a Kohl) della riunificazione territoriale tedesca, la sua principale attrattiva per l’establishment politicoeconomico tedesco era la possibilità di deprimere il cambio del marco rispetto a dollaro e yen, grazie al fatto di fonderlo con valute deboli, quali la lira, la dracma, la peseta. Una concezione della moneta essenzialmente mercantilistica dunque, in linea con le esigenze di un’economia esportatrice, che dalla fine della seconda guerra mondiale, anche per volontà statunitense, ha dovuto cercare nelle esportazioni un sostituto pacifico al grande settore degli armamenti inserito nella struttura produttiva essenziale del paese fin dalla Prussia guglielmina. Se per l’Italia vale il detto “banche ricche industria povera”, in Germania è vero il contrario. Difficilmente tutto ciò configura la premessa ideale per una valuta di riserva globale. Ai tempi di Maastricht, un potenziale asset per l’euro poteva essere rappresentato dal ruolo compensatore della Francia e dall’eventualità, oggi improbabile, che un Regno Unito più coinvolto nel processo di unificazione europea potesse contendere a Parigi il ruolo estere delle banche. Il mercato offshore del dollaro è metà di quello interno e le obbligazioni in dollari emesse all’estero equivalgono al 54% del Pil statunitense. 54 Il risparmio mondiale gestito dalle società statunitensi è aumentato dal 45% al 50%, e per il 65% viene custodito da 4 banche statunitensi. Le prime 5 banche di investimento statunitensi, uscite rafforzate dalla crisi, hanno aumentato la quota delle transazioni finanziarie all’ingrosso in Europa dal 48 al 59%, arrivando a collocare oltre un quinto delle obbligazioni in euro. Si stima che 15 delle maggiori controparti della BCE siano Primary Dealer americani. La quota dei ricavi nel mondo delle banche di investimento statunitensi è salito dal 45% al 50%, quella delle obbligazioni in dollari dal 36% al 42%. 31 di partner di Berlino. Dopo quindici anni, lo scenario è completamente diverso, l’asse franco-tedesco è stato rimpiazzato da una netta preponderanza della Germania, la cui unione economica non dichiarata con la Polonia configura un netto spostamento a Est dell’asse portante dell’UE. Quanto a Londra, oggi appare più insulare che mai (ad eccezione del legame antico con gli Stati Uniti), intenta a contemplare l’ipotesi di uscire tout court dall’UE. Ma, nella fase attuale, ciò che mina maggiormente la solidità dell’euro è la perdurante crisi che si trascina ormai da quasi 10 anni e che molto deve ai peccati originali dell’unione monetaria. Mario Draghi è riuscito, in extremis, a scongiurare la tempesta monetaria che si sarebbe certamente scatenata in caso di mancato varo del QE, ma il prezzo che ha dovuto pagare è stato alto. I paesi creditori, a partire dalla Germania, hanno barattato le ingenti misure (60 miliardi al mese per 18 mesi) con delle clausole che trasformano radicalmente la natura dell’unione monetaria, azzerando quasi totalmente la possibilità dei paesi membri di condividere i rischi delle misure di politica monetaria non convenzionale. Il fatto che i titoli di ciascun paese membro emessi nell’ambito del programma debbano essere garantiti per l’80% dalle banche centrali nazionali indica che se gli Stati falliscono, l’UEM risponde solo per una piccola parte dei debiti. D’altronde, che gli Stati membri dell’UEM possano fallire non è una mera ipotesi di scuola: lo hanno fatto capire Merkel e Sarkozy già nell’incontro di Deauville dell’ottobre 2010. Una volta rassicurata sul fatto che l’euro non è più una minaccia per la supremazia del dollaro, l’attenzione americana si è spostata sulla Cina e sul renminbi. Ma qui la dinamica, seppure su scala nettamente maggiore e fatte salve le dovute differenze (prima fra tutte il fatto che il renminbi è la divisa di uno Stato sovrano, piuttosto che di un’unione politicamente acefala), ricalca in parte quella europea. L' Eurozona sembra, quindi, tagliata fuori dal duopolio Stati Uniti-Estremo Oriente in quanto, essendo una unione monetaria la cui banca centrale non interviene sul mercato dei cambi secondo quanto previsto dal suo statuto, essa risulta essere un'area in sostanziale equilibrio di conti con l'estero che non partecipa al processo di finanziamento del deficit di partite correnti statunitense. L' Europa è stata inoltre danneggiata dal cambio fisso renminbi/dollaro. Ogni qual volta l'euro si è rafforzato nei confronti della valuta statunitense, altrettanto è accaduto rispetto al renminbi, dando luogo a una perdita di competitività dell'industria manifatturiera europea nei confronti di quelle statunitense e cinese. Per questo motivo, l’Eurozona ha avuto la peggiore performance rispetto a tutte le altre aree valutarie, anche rispetto ai paesi dell’UE non appartenenti all’UEM. Dopo aver escluso a lungo e nella maniera più categorica interventi sul mercato valutario da parte della BCE, di fronte agli ulteriori apprezzamenti indesiderati dell'euro nei confronti del dollaro, la politica monetaria della banca centrale è mutata, nonostante alcune controversie interne al suo Comitato Direttivo, intervenendo con l’adozione di un cospicuo QE che ha prima frenato il rafforzamento dell'euro sul mercato dei cambi e successivamente lo ha lasciato svalutare del 20% sul dollaro, e quindi anche sul renminbi. L’alternativa era quella di unirsi alle banche centrali asiatiche nel finanziamento del deficit americano. Questa era stata, invece, la previsione di Roubini (2005) ed è anche la tesi attuale di Martin Feldstein che, come si è detto, aveva consigliato alla BCE di acquistare Treasury Bills piuttosto che attuare il QE (Romagnoli, 2015b). Unità nella diversità è un motto per i momenti buoni dell’Europa ma inadeguato in quelli cattivi. L’intensità senza precedenti delle crisi recenti ha fatto sì che lungo queste diversità si approfondissero delle crepe che rischiano addirittura di far crollare l’intera costruzione comunitaria, quanto meno come l’abbiamo conosciuta finora. Quando si tratta di questioni economico-monetarie la diversità si traduce in divergenza economica. La lunga crisi ha mostrato quali siano i rischi di un’Eurozona in 32 cui la divergenza economica, espressa in termini di potenziale competitivo degli stati membri, è aumentata. Una divergenza che la Bce fa fatica a tenere insieme, anche se può contare sul vantaggio di un potere forte e centralizzato. In alternativa, si rischia di dare nuova linfa al moral hazard di chi sa che non ci sono regole credibili da rispettare. In realtà, nessun paese europeo è stato mai sanzionato per aver sforato il PSC e difficilmente lo saranno, nel 2016, Francia e Spagna che sono nel corrective arm del PSC, ormai da 6 anni. Tuttavia, ciascun paese esige maggiore flessibilità e un’interpretazione meno rigorosa delle regole che tenga conto della loro “diversità”. Si tratta sostanzialmente della contrapposizione tra Nord e Sud dell’Eurozona e questa tendenza vale ben oltre gli ambiti strettamente economici. La crisi dei migranti, la paura verso il “diverso” extracomunitario, che si aggiunge ai sempre più “diversi” intracomunitari, ha fatto emergere una nuova spaccatura, quella tra Est e Ovest. Alla mappatura delle crepe europee bisogna aggiungere anche quelle all’interno dei paesi (come nei casi della Catalogna e della Scozia). Tutte queste sfide minano il percorso verso l’unione politica. Ciò spiega, almeno in parte, la ragione per cui il potere monetario dell’Europa è stato scarsamente esibito anche prima che la crisi di secondo livello lo indebolisse. Uno dei fattori decisivi che avrebbero potuto cambiare questo scenario a favore dell'euro sarebbe stata la decisione del Regno Unito di entrare nell'Eurozona portando in dote il mercato finanziario londinese, anche se insieme a una visione abbastanza diversa dell’integrazione europea. Al momento, invece, si attende l’esito del referendum sulla Brexit dall’UE nel giugno 201655. Dopo la crisi 2007-2009 e quella di secondo livello 2010-201456, appare che la Cina sia diventata un’acquirente troppo forte per operare senza traumi (rendimenti azzerati e corsi dei titoli molto alti) all’interno del mercato finanziario europeo che non ha una dimensione e una liquidità adeguate a una diversificazione delle riserve cinesi dal dollaro all’euro. Per contro, il dollaro crollerebbe e l’euro si apprezzerebbe talmente da scatenare una gigantesca guerra delle valute. Ciò darebbe luogo a una crisi di terzo livello al termine di un accidentato percorso decennale e farebbe intravedere una sindrome giapponese mondiale. Ma se ciò vale per l’euro, ancora di più vale per qualsiasi delle monete del mondo diverse dal dollaro (yen, sterlina) forse ad eccezione del renminbi. In questo senso, Krugman ha affermato che la Cina è caduta in una “trappola del dollaro” (Krugman, 2009). Con le svalutazioni in corso delle valute dei paesi emergenti, l’Eurozona perde, almeno in parte, i benefici del deprezzamento dell’euro che rimane debole verso il dollaro ma non verso le valute dei mercati emergenti. Intanto il prezzo del petrolio continua a diminuire nonostante le tensioni in Medio ed Estremo Oriente che però impediscono qualsiasi accordo dell’Opec sui limiti di produzione e quindi sul rialzo dei prezzi57. Ciò continua a deprimere la produzione di shale oil che sta portando al licenziamento di decine di migliaia di persone negli Stati Uniti. A ciò si aggiungono i dubbi della Fed 55 Tra le conseguenze prevedibili della Brexit vi sono: la perdita della tripla A inglese da parte delle agenzie di rating e l’uscita della sterlina dal basket delle valute di riserva del FMI legata alla soglia del 3% di tutti i depositi mondiali (oggi pari al 6%). 56 L’Europa sta uscendo dalla peggiore crisi economica e finanziaria degli ultimi settant’anni. Le sfide degli ultimi anni hanno costretto i governi nazionali e le istituzioni dell’UE ad adottare misure straordinarie. Essi hanno dovuto stabilizzare le loro economie e proteggere i risultati conseguiti finora grazie al graduale e a volte difficile processo dell’integrazione europea. È stato così possibile preservare l’integrità dell’intera zona euro anche se il mercato interno è ancora debole. Tuttavia, è anche chiaro che con 18 milioni di disoccupati nell’Eurozona occorre fare molto di più per migliorare le prospettive della ripresa economica. Il riferimento principale è l’ostilità tra Arabia Saudita e Iran. Quest’ultima peraltro si trova davanti all’alternativa tra l’accettazione di ridurre la quantità estratta finalizzata al rialzo dei prezzi e la riacquisizione delle quote di mercato perdute durante gli anni delle sanzioni. 57 33 sulla ripresa economica negli Stati Uniti dove l’inflazione è ancora troppo bassa, i salari crescono poco, nonostante il basso tasso di disoccupazione (5,2%). Questo però maschera l’abbandono del mercato del lavoro da parte degli scoraggiati che lo abbandonano o magari si accontentano di essere sottopagati. La mancanza di fiducia nelle prospettive frena gli investimenti industriali negli Stati Uniti e in Europa nonostante i QE che allentano solo un circuito anomalo di aspettative e incertezze ma sembrano configurare una situazione di moneta neutrale. L’Eurozona non è politicamente né fiscalmente unita e ciò la pone in condizione di inferiorità rispetto al dollaro. Il suo mercato dei titoli è frammentato e imparagonabile per dimensione a quello statunitense. Il fatto di non avere avuto una politica del cambio fino all’inizio del 2015 ha esposto l’Eurozona ai costi di aggiustamento, seguiti alla crisi finanziaria internazionale, sia degli Stati Uniti (e della Cina che aveva il peg sul dollaro), sia dei paesi come il Regno Unito o il Giappone che l’hanno utilizzata, attraverso i rispettivi QE, per facilitare la ripresa delle loro economie con la svalutazione delle loro monete. In conclusione, per il momento, il dollaro non teme rivali e la recente promozione del renminbi può sostenere o confutare questa tesi. Una decina di anni fa, analisti molto ascoltati (Papaioannu, Portes, 2008), pur con una vena di scetticismo, preconizzavano la possibile fine dell’egemonia monetaria americana di fronte all’avanzata della nuova moneta unica europea. Quel tempo è ora procrastinato sine die. L’area valutaria dell’euro è vasta, ma l’incidenza dell’euro fuori dei suoi confini è assai minore rispetto a quella del dollaro. Si può dire che è stata l’ennesima volta in cui il Bretton Woods 2 ha potuto mostrare le sue caratteristiche intrinseche di instabilità e dannosità. Per questo motivo, la cooperazione multilaterale per superare Bretton Woods 2 richiede che il ruolo del dollaro vada rinegoziato (Fabbri, 2015). 4.4 Lo yen Lo yen è stato creato nel 1871. L’emissione della nuova moneta prevedeva un sistema monetario simile a quello europeo con sistema decimale. Lo yen ha operato sotto uno standard bimetallico con oro e argento fino al 1897, quando fu ufficializzato il sistema aureo. Dopo la seconda guerra mondiale, lo yen ha perso molto del suo valore e nel 1971 è stato fissato il tasso di cambio contro il dollaro statunitense a quota 308 yen per 1 dollaro. Il tasso fisso sul cambio dollaro-yen è stato attivo fino al 1973 quando avvenne il passaggio ad un tasso con oscillazione regolata direttamente dal mercato che ha fatto apprezzare progressivamente lo yen, portandolo, nei 30 anni successivi agli accordi del Plaza del 1985, a un cambio in media di poco superiore a 110 yen per dollaro. L’ascesa dello yen al ruolo di moneta internazionale è stata a lungo osteggiata dal governo giapponese - nonostante lo sviluppo del mercato finanziario nipponico - in quanto considerata un serio ostacolo alla realizzazione della politica industriale di quel paese: la piena convertibilità della moneta avrebbe infatti impedito non solo il mantenimento di una politica valutaria incentrata su un tasso di cambio competitivo (compatibile con un modello di sviluppo di tipo export led) ma avrebbe reso difficile anche l’attuazione di una politica industriale in cui la canalizzazione delle risorse finanziarie verso i settori strategici era sostanzialmente decisa dal Ministero dell’Industria e del Commercio estero (Miti) e non lasciata al libero mercato. 34 A fine dicembre 2011, Cina e Giappone hanno firmato uno storico patto valutario, diventato operativo dal 1 giugno 2012, il quale prevede che gli scambi fra le due superpotenze asiatiche avvengano direttamente in yen e renminbi, senza fare più ricorso al dollaro. La notizia non ha avuto grande risonanza sui media, tuttavia nel medio-lungo periodo è lecito attendersi che possa avere un impatto significativo sul dollaro. Per stimare la possibile riduzione dei volumi delle transazioni che si basavano sul biglietto verde occorre considerare il valore degli scambi fra Cina e Giappone (che nel 2010 hanno raggiunto i 300 miliardi di dollari), cui vanno sommate le operazioni di copertura dei due paesi sui rischi valutari58. Al di là delle conseguenze legate ai volumi, l'aspetto più interessante è l'ipotesi di un progetto asiatico per un'area monetaria alternativa a dollaro ed euro, che avrebbe permesso all'Asia di alleggerire parzialmente l'ingente massa di dollari di cui è in possesso. Tale accordo ha rafforzato, inoltre, il ruolo internazionale del renminbi e va visto come un passo significativo verso il libero scambio della moneta cinese. Se Cina e Giappone riuscissero a creare un'area alternativa a dollaro ed euro, i mercati potrebbero anche arrivare ad accettare un'eventuale richiesta dei colossi asiatici di creare una quotazione in renminbi-yen di oro e petrolio, operazione non riuscita all'euro (se non per l'oro, ma con scarsa rilevanza). L'accordo fra Cina e Giappone poteva essere visto come un primo passo in questa direzione, per un mercato del Forex che comprendesse finalmente tutti i grandi attori della scena economica mondiale (Bank of International Settlements, 2010). Ma l’attuale acuirsi delle tensioni tra i due paesi allontana, almeno per il momento, questa possibilità. La Cina è diventata il fulcro dell’Asia, un’area geograficamente e demograficamente immensa, le cui economie, comprese quelle grandi e avanzate come il Giappone, sono sempre più connesse e dipendenti dall’interscambio commerciale e finanziario con il gigante cinese. La Bank of Japan (BoJ) ha confermato, nel 2015, la sua politica economica espansiva estendendo il suo piano di sostegno all’economia, da cui si starebbe finalmente allontanando lo spettro della deflazione, seppure senza incrementare l’intensità del programma di acquisto di asset59. Il declino del cambio dollaro/yen (certo per incerto) non è quello che ci si poteva aspettare da una disposizione di politica monetaria espansiva, ossia un apprezzamento dello yen, ma questa reazione è molto simile all’impennata dell’euro avvenuta contestualmente alla decisione di Mario Draghi di estendere la durata del QE dell’Eurozona. 4.5 La sterlina Secondo l’indicatore RMB Tracker di SWIFT, il renminbi ha raggiunto la quota del 2,79% del valore dei pagamenti mondiali, rispetto allo 0,63% del gennaio 2011. Ha quindi superato lo yen che rappresenta invece il 2,69 %. 58 Il QE nipponico prosegue senza sosta e la BoJ ha confermato l’espansione monetaria al ritmo di 80 mila miliardi di yen l’anno, corrispondenti a circa 605 miliardi di euro. Si è deciso cioè di estendere la durata dei titoli di Stato giapponesi acquistati, da 10 a 12 anni a partire dal 2016, e di destinare 300 miliardi di yen all’acquisto di Exchange Traded Fund (ETF) su azioni di aziende che dimostrino un impegno considerevole nell’aumento di investimenti e salari. Con questo provvedimento, la BoJ si schiera a favore della “Abeconomics” del premier Shinzo Abe, che preme perché le aziende indirizzino verso i salari una maggiore quota dei loro ricavi. 59 35 Dal 1880 al 1914, il cambio della sterlina è stato regolato dal sistema aureo, e la sterlina è divenuta la principale moneta di scambio nel commercio internazionale60. All'inizio della prima guerra mondiale, una legge sospese l'obbligo del Tesoro britannico di coprire con oro l'emissione di biglietti di banca61. L'abbandono della riserva aurea consentì alla Gran Bretagna di espandere l'offerta di moneta per finanziare la spesa militare, aumentando il debito pubblico e l'inflazione. Il gold standard non venne quindi sospeso de iure, ma scoraggiato, tramite provvedimenti in via amministrativa, che rendevano difficile l'acquisto e la vendita d'oro, e tramite il rifiuto, per motivazioni patriottiche, di esportare oro da parte dei dealer londinesi. Nonostante il Paese sia uscito molto impoverito alla fine della II Guerra Mondiale, le sue ex colonie, un quarto dei paesi del mondo, hanno continuato ad utilizzare la sterlina nel commercio internazionale. Il 30 dicembre 2008 la sterlina britannica ha toccato un minimo di 1 euro per 0,9804, dopo aver perso il 30% dall’inizio dell’anno. Lo stesso andamento si è registrato anche nei confronti del dollaro. Peggio è avvenuto nei confronti dello yen giapponese che, nel 2008, ha registrato una rivalutazione del 70% rispetto alla sterlina. Un simile crollo in così breve tempo trova un precedente simile, solo nel 1931 quando il governo inglese abbandonò (per la seconda volta e definitivamente) il gold standard. L'indebolimento progressivo della sterlina nei confronti dell'euro ed il rafforzamento continuo della moneta unica sembrava portare alla parità tra le due valute; ma, successivamente, la sterlina si è rivalutata nei confronti dell'euro nel corso della crisi di secondo livello iniziata nel 2010 (Bank of International Settlements, 2015). Tuttavia, rispetto al passato, le aziende manifatturiere britanniche tendono maggiormente a reperire i fattori produttivi all'estero, quindi oggi l'apprezzamento della sterlina costituisce, molto meno di prima, una minaccia per la crescita britannica. Se, nel 1992, il 45 per cento delle imprese manifatturiere britanniche si procurava almeno l'80 per cento delle merci della catena di approvvigionamento sul mercato interno, nel 2011 questa percentuale era scesa al 15 per cento. Di conseguenza, quando le aziende britanniche acquistano le materie prime dai fornitori esteri, con una moneta più forte, i loro costi produttivi diminuiscono. Vista in questa luce, la tesi secondo cui l'apprezzamento valutario riduce la competitività delle esportazioni di un paese non è più così automatica. Tale fenomeno non riguarda solo il Regno Unito, ma interessa anche paesi come gli Stati Uniti e il Giappone, che hanno trasferito buona parte della produzione manifatturiera all'estero. Per questo motivo, nei prossimi due o tre anni la rivalutazione della sterlina potrebbe alimentare di fatto la crescita economica nel Regno Unito e l'aumento delle importazioni dovrebbe porre un freno all'inflazione. Lo spostamento dei consumi interni verso i beni di fascia bassa, a sua volta, rafforzerebbe il reddito reale delle famiglie alimentando la spesa e un incremento della domanda di consumi, favorito dalla diminuzione dell'inflazione, compenserebbe eventuali perdite di Pil dovuti alla sterlina forte che penalizza le quote di commercio internazionale sui beni soggetti alla competitività di prezzo. È importante ricordare, infatti, che l'attuale vigore della sterlina riflette la ripresa registrata dall'economia britannica negli ultimi due anni (1,9% nel 2013 e 2,7% nel 2014). Il tasso di disoccupazione, che due anni fa si attestava all'8,4 per cento, oggi è pari al 7,2 per cento. 60 Le monete e le banconote prodotte in Inghilterra hanno corso legale in tutto il regno e nelle dipendenze della Corona. Diversamente dalla generalità degli Stati, tuttavia, il Regno Unito non ha mai emanato una legge che centralizzi l'emissione valutaria: per questo motivo varie banche private in Scozia e in Irlanda del Nord, e i governi delle dipendenze della Corona, coniano monete o stampano banconote destinate ai propri specifici territori, ma che occasionalmente circolano anche in Inghilterra pur non avendovi corso forzoso. 61 Si tratta del Currency and Bank Notes Act, 1914 del 6 agosto 1914. 36 La divisa britannica segue, da vicino, l’andamento del dollaro ma è condizionata dai cambi di direzione dell’euro. Un rafforzamento del dollaro sostiene spesso anche la sterlina62. Fino a pochi mesi fa, gli Stati Uniti e il Regno Unito si sono contesi il ruolo di paese occidentale capace di liberarsi per primo dalla morsa della crisi. In questi ultimi sette anni, l’economia britannica ha evidenziato quanto essa sia vicina agli Stati Uniti in termini di struttura dell’economia e impostazione di politica monetaria e quanto sia condizionata dagli shocks che si manifestano all’interno dell’Eurozona. La somiglianza con gli Stati Uniti si trova nella forte dipendenza dell’economia dal settore finanziario e nella politica monetaria espansiva adottata dalla Bank of England (BoE) per fronteggiare i momenti più difficili della crisi. Il legame con il Vecchio Continente è invece evidente nei rapporti commerciali intrattenuti con molti paesi europei: talmente intensi da frenare la ripresa economica avviata qualche trimestre fa. 5. La Cina: un nuovo protagonista dell’economia mondiale 5.1 Il miracolo economico cinese Quella cinese è una economia gigantesca, la seconda al mondo, come si vede nella tabella che segue, grande importatrice e la trasformatrice più grande del mondo, grazie agli investimenti americani, giapponesi e di altri paesi avanzati, principale acquirente di materie prime dei paesi emergenti e di macchinari dei paesi avanzati. L’economia cinese è cresciuta a un ritmo rapido per oltre trenta anni (dal 1978 al 2011 il tasso di crescita medio è stato del 10%, facendo crescere il Pil di venti volte). La maggior parte di questa crescita è venuta da un’alta produttività, mentre la crescita dell’occupazione è gradualmente diminuita insieme al rallentamento della crescita della popolazione in età di lavoro. Fino alla crisi finanziaria del 2008, il modello economico di sviluppo adottato dalla Cina si è basato, essenzialmente sulle esportazioni di beni a basso contenuto tecnologico. Il mercato del lavoro interno ha potuto così assorbire i milioni di lavoratori (circa 10) che ogni anno dalle campagne si riversano nelle città industrializzate in cerca di un impiego. Uno degli strumenti cardine della politica economica cinese per incentivare l'export è stato quello di tenere un tasso di cambio quasi fisso (peg) ed ampiamente sottovalutato tra dollaro e renminbi, fino alla recente rivalutazione del dollaro. Nell’arco di un ventennio, questa politica valutaria ha generato enormi surplus delle partite correnti, consentendo alla Cina di diventare un creditore netto internazionale, specialmente nei confronti degli Stati Uniti. In questo modo, la Cina ha accumulato un'ingente quantità di riserve valutarie in dollari, per un valore che attualmente si aggira intono ai 3.500 miliardi di dollari. Questa performance eccezionale, da parte di un paese con 1,4 miliardi di persone, ha accresciuto la quota dell’economia cinese su quella mondiale, a partire dagli anni ’80 63, influenzando sempre di più le altre economie. Ma il 2015 è stato un anno di elezioni animate dallo scontro con l’Ukip isolazionista che rischia di spingere i conservatori ad azioni contro l’Europa. In vista di ciò la sterlina si è indebolita contro l’euro mentre il dollaro cresceva. 63 Il Pil pro capite cinese è cresciuto da 1.300 dollari, nel 1980, a 7.700 nel 2010, un aumento del 500%. Nel 2014, la Cina è 89.ma nel mondo per Pil pro capite, pari a circa 7.000 dollari rispetto agli Stati Uniti, che è 10.ma con 54.597 e al Quatar che è la prima con 143.427 (IMF/FMI, 2015a). 62 37 Statistiche PIL Crescita PIL PIL pro capite Inflazione 8.358 miliardi $[1]; 12.406 miliardi $ PPA ( 2012)[1] 6.9% (2015) 6.076 $ Nominali (2012); 9,162 $ PPA (2012) 2.5% (Dicembre 2012) agricoltura: 10.1%; industria: 4 PIL per settore %; servizi: 44.6% (2012) [2] Popolazione sotto la linea della Sotto 1.25 dollari al giorno: 13.1% (2008); sotto 2 dollari al giorno: 29.8% (2008)[3] povertà Gini 0.474 (2012)[4] Forza lavoro 795.5 milioni Forza lavoro per occupazione Disoccupazione Salario medio agricoltura: 36.7%; industria: 28.7%, servizi: 34.6% (stima 2008) 4.1% (stima 2012) 457 dollari al mese (stima 2010) Fonti: [1] China, International Monetary Fund. URL 4-2013. [2] CIA - The World Factbook [3] China - New Global Poverty Estimates, World Bank. [4] Statistiche Gini della Cina, Reuters. Per comprendere il corso futuro dell’economia cinese è stato svolto recentemente un grande volume di ricerca (Eichengreen, Donghyun, Kwanho, 2011; Haltmaier, 2013; Jang, 2015). La maggior parte di questa è stata dedicata ai motivi di questa crescita elevata. Haltmaier e Jang hanno entrambi usato il modello neoclassico di crescita di lungo periodo di Robert Solow64. Tutti questi studi hanno concluso che la crescita cinese sarebbe rallentata negli anni successivi. Pertanto la questione vera diventa di quanto diminuirà la crescita cinese futura e in quale lasso di tempo. Nonostante le differenze rilevanti tra l’economia cinese e quella giapponese, l’esperienza di quest’ultima può essere d’aiuto nell’esercizio di previsione visto che la stagnazione della forza lavoro Questo modello è caratterizzato da tre idee centrali: a. l’intensità del capitale aumenta fino a massimizzare i consumo pro capite; b. a causa dei rendimenti decrescenti dei fattori produttivi, l’accumulazione di capitale rallenta fino a fermarsi, in assenza di progresso tecnico, facendo convergere l’economia verso uno stato stazionario; c. il progresso tecnico è la forza che spinge un’ulteriore accumulazione di capitale e la convergenza verso un prodotto pro capite superiore. 64 38 ne ha ridotto fortemente la crescita. Secondo uno scenario ottimista, che considera solo questo fattore limitante, Haltmaier ha previsto che il tasso di crescita dell’economia cinese si ridurrà dal 10% al 6,5% nel 2030, mentre, se si tiene conto degli altri fattori negativi (caduta degli investimenti che divengono meno produttivi, minore crescita dell’occupazione, spostamento dal settore secondario al terziario), il tasso di crescita cinese si ridurrebbe all’1,5 % nello stesso anno, anche in presenza di una crescita del capitale umano. I dati giapponesi e sud coreani, che mostrano una forte crescita di queste economie negli anni precedenti a quella cinese, sono coerenti con i risultati di questa teoria perché indicano che, nel periodo successivo ai loro “miracoli economici”, i loro tassi di crescita si sono gradualmente ridotti fino ad eguagliare quelli degli Stati Uniti 65, come si vede nelle figure 1, 2 e 3, dove ogni punto rappresenta la media mobile della crescita del Pil pro capite in relazione a quella statunitense nel mezzo secolo che va dal 1953 fino al 2002. La stima approssimativa è che il rapporto dei redditi pro capite cinese e statunitense crescerà da due a tre volte nei prossimi cinquanta anni 66. In realtà, la Cina ha sperimentato, negli ultimi anni, la riduzione dei suoi tassi di crescita. Il modello di Jang, date alcune assunzioni (ovvero che la Cina percorra lo stesso sentiero di crescita declinante Il Giappone ha sperimentato tassi di crescita che dal 6,1% degli anni ‘50 sono scesi a una media di 5,4% negli anni ‘60 e allo 0,8 % negli anni ‘90 (questo decennio perduto dell’economia giapponese ha portato a una stagnazione protrattasi fino ad oggi). Similmente la crescita della Corea del Sud è passata da una media del 8,4% negli anni ‘80, al 5,8% negli anni ‘90, al 3,8% negli anni 2000. 66 Il Pil cinese era di 10, 4 migliaia di miliardi di dollari nel 2014 (ma 17,6 in PPP contro i 17,4 degli Stati Uniti), e ciò ne faceva già la seconda economia del mondo dopo gli Stati Uniti. 65 39 del Giappone e della Corea del Sud), conduce al risultato che, tra 50 anni, il Pil pro capite cinese raggiungerà circa il 50% di quello statunitense ma questo rapporto cesserà di crescere quando il Pil cinese sarà il doppio di quello statunitense, come mostra la figura 4. Ovviamente il risultato può variare se si modificano le assunzioni, in particolare l’evoluzione istituzionale può essere diversa, ma si deve tener conto che Giappone e Corea del Sud sono economie piccole rispetto alla Cina, che potrà intervenire in modo maggiore sulle quantità scambiate e sui prezzi dei tradables nei mercati globalizzati. 40 5.2 La crescita futura Il tasso di crescita del Pil è dato dalla somma della crescita dell’occupazione e di quella della produttività del lavoro67. A questo riguardo la Cina affronta due sfide: la prima è posta dal fatto che la crescita della popolazione in età di lavoro è diminuita dal 2,5% nel 1979 a meno dell’1% nel 2011 e si prevede che diventerà negativa entro il 2020 (Haltmaier, 2013). Avendo già occupato l’80% della popolazione in età di lavoro, non c’è grande spazio per una crescita dell’occupazione che ecceda quello della popolazione in età di lavoro. Pertanto, l’aumento del Pil cinese dovrà venire da aumenti di produttività del lavoro, come peraltro sta già avvenendo. La maggior parte di questo aumento si deve a guadagni di efficienza nello spostamento da settori meno produttivi (primario) a settori più produttivi (secondario e terziario), secondo il modello di crescita di lungo periodo di Lewis. Man mano che le politiche di equità sociale ed economica si estenderanno, le differenze di reddito diminuiranno, il flusso di migranti dalle zone rurali a quelle urbane tenderà a diminuire a causa dei 67 Y = N Y/N = N π da cui ΔY ≃ ΔN + Δπ; dove Y indica il Pil, N, l’occupazione e π, la produttività. 41 costi pecuniari e non pecuniari della migrazione e così anche i guadagni di produttività. La crescita intersettoriale è stata invece favorita da altissimi tassi di investimento che sono però difficili da mantenere man mano che gli standard di vita aumentano insieme alla domanda di consumi e alla riduzione della propensione marginale al risparmio. Inoltre la necessità di ammortamenti sottrae risorse a nuovi investimenti. Man mano che l’intensità di capitale aumenta, mentre l’occupazione rimane costante o, in prospettiva, si riduce, il prodotto marginale del capitale addizionale tenderà a ridursi. Infine, lo spazio che rimane per lo spostamento del lavoro verso settori più produttivi si contrarrà gradualmente (il settore agricolo, che occupava il 70% dei lavoratori cinesi nel 1978, ne ha occupato solo il 10% nel 2015). Il settore secondario è al di sotto del 45% del Pil, ma è ancora superiore ai paesi economicamente avanzati68. Ciò suggerisce che lo spostamento dalle zone rurali si orienterà progressivamente verso il settore terziario dove la produttività è minore di quello secondario. 68 Attualmente, il settore terziario rappresenta l’80% dell’economia statunitense. 42 Come è stato già ricordato, la Cina è cresciuta per oltre trenta anni a un tasso medio vicino al 10% annuo, come mostra la figura 5. A quel tasso, il Pil è raddoppiato ogni sette anni. Nessun’altro paese è cresciuto tanto nella storia contemporanea. La crescita rapida e persistente ha elevato gli standard di vita dei cinesi69 da uno dei più bassi del mondo a quello che la BM definisce “alta classe media”, ma la Cina è stato anche un mercato in espansione per tutti gli altri paesi del mondo, perciò le sue prospettive di crescita hanno implicazioni non solo per la Cina ma anche per l’economia mondiale. Prima del 2008, il miracolo economico cinese è stato dovuto soprattutto alla crescita della produttività perseguita da misure di politica economica che hanno condotto a migliori allocazioni di capitale, lavoro, incentivi privati, oltre all’apertura dell’economia al mercato internazionale, che ha attirato gli investimenti diretti esteri (Ide) associati a nuove pratiche di gestione, know how tecnologico, accesso degli affari cinesi nel mercato mondiale. Queste misure hanno fatto crescere molto la produttività e di conseguenza gli investimenti e la produzione. Ma, dati i rendimenti decrescenti del capitale, gli investimenti non possono essere la componente principale di una crescita sostenibile. 69 La BM ha stimato che, nel trentennio 1980-2010, oltre 600 milioni di cinesi ha potuto abbandonare la soglia di povertà assoluta, ovvero 1,25 dollari al giorno. 43 Figura 5 – Tasso annuo di crescita reale della Cina. Source: IMF World Economic Outlook, CEIC. La figura 6 mostra i contributi relativi di tre fattori della crescita cinese nell’ultimo trentennio, a partire dal 198070. Si vede chiaramente che essa è stata guidata soprattutto dalle crescite di capitale e produttività, piuttosto che da quella dell’occupazione71. Dal 2008, invece, la crescita è stata meno legata alla crescita della produttività e dell’occupazione e invece, sempre più, agli investimenti per cui è gradualmente diminuita (Liu, 2015). Durante la crisi finanziaria globale 2007-2009, la domanda di esportazioni cinesi cadde notevolmente mentre l’attenuazione dei guadagni di produttività presentava un’ulteriore sfida per una crescita elevata e sostenibile. Il governo cinese rispose con l’adozione di una forte politica di stimolo fiscale, nel 2008, concentrata sulla spesa in infrastrutture e costruzioni, attuata immediatamente. Tuttavia la crescita tra il 2011 e il 2015 è scesa dal 10% al 7%. Si ignora se le riforme in corso saranno in grado di affrontare gli squilibri strutturali e quindi mantenere una crescita solida che aiuterebbe ad effettuare la transizione verso un’economia con “redditi alti”72. Si teme, invece, che il rallentamento in corso possa condurre la Cina alla “trappola del reddito intermedio” (Eichengreen, Park, Shin, 2011), come storicamente è accaduto a paesi con crescita rapida. In questo caso la crescita rallenta bruscamente man mano che il reddito pro capite raggiunge questa soglia e i salari s’innalzano fino ad erodere il vantaggio comparato del paese. Alcune economie prossime alla Cina, Giappone e Corea del Sud, sono riuscite ad eludere questa trappola e a muoversi verso un high-income status, anche se l’accumulazione del capitale ha condotto a crescite Il calcolo segue l’approccio di contabilità della crescita descritto da Zhu (2012). Il limitato ruolo svolto dal lavoro riflette, in parte, la politica di un unico figlio, che ha limitato la crescita della popolazione, e le politiche restrittive dell’immigrazione interna (come il sistema “Hukou” che vieta di lavorare in città diverse da quella di nascita). 72 Le economie con high-income status sono quelle che hanno superato i 12.500 dollari pro capite a prezzi del 2011. 70 71 44 Figura 6 – I fattori della crescita cinese Source: Penn World Tables and Liu’s calculations. inferiori, come mostra la figura 7. Nel 2015 il Pil della Cina è stimato pari a circa 7.500 miliardi dollari. Anche se continuasse a crescere a tassi tra il 6 e il 7% entrerebbe presto a far parte delle economie a redditi alti. Comunque, se l’esperienza cinese rifletterà quella dei suoi vicini, Giappone e Corea del Sud, la sua crescita potrebbe scendere al 3% intorno al 2020, quando il suo Pil pro capite si prevede intorno ai 15.000 dollari, e diminuire ancora nei decenni successivi. Questo potrebbe apparire uno scenario pessimista per la Cina, ma le prospettive di questo paese devono confrontarsi con diversi squilibri. Tra questi la repressione finanziaria, la mancanza di un’adeguata rete di sicurezza sociale, una strategia di sviluppo ancora orientata alle esportazioni, restrizioni in conto capitale. Tutti questi problemi hanno contribuito a un eccesso di risparmio73 e di squilibri del conto corrente della bilancia dei pagamenti. Risparmi elevati hanno fatto crescere gli investimenti, ma l’allocazione del credito e del capitale sono ancora molto inefficienti. Il settore bancario è controllato dallo Stato e i prestiti favoriscono in modo sproporzionato le imprese statali a scapito di quelle private più produttive. Ciò ha depresso la crescita della produttività cinese nonostante gli alti valori raggiunti74. Per affrontare gli squilibri strutturali e così conseguire una crescita sostenibile di lungo periodo, il governo cinese ha annunciato, al Terzo Plenum del novembre 2013, un piano di riforme che include: a. una riforma del settore finanziario (liberalizzazione dei tassi d’interesse, assicurazione sui depositi, rafforzamento dei sistemi di controllo e regolamentazione); b. una riforma fiscale (rafforzamento della rete di sicurezza sociale, introduzione di imposte più efficienti e redistributive, miglioramento dell’assicurazione sanitaria e della copertura pensionistica); c. riforme strutturali (con riguardo alle imprese pubbliche e al sistema Hukou, oltre a un’ulteriore apertura dei mercati); d. riforme del settore estero (liberalizzazione del tasso di cambio e dei controlli sulla mobilità dei 73 Secondo il National Bureau of Statistics of China, il risparmio delle famiglie è cresciuto dal 15 al 30% tra il 1990 e il 2014. 74 Secondo stime, se l’efficacia dell’allocazione delle risorse eguagliasse quella statunitense, la produttività totale dei fattori cinese aumenterebbe dal 30 al 50% (Hsieh, Klenow). 45 capitali). Nel periodo di transizione si prevede comunque che le riforme strutturali possano condurre a un rallentamento della crescita economica. Se questo piano di riforme potrà essere attuato con Figura 7 –La Cina seguirà il Giappone e la Corea del Sud? Source: Penn World Tables, IMF. successo, la Cina potrà sfuggire alla trappola del reddito medio e sostenere una crescita di lungo periodo a un ritmo soddisfacente. Tuttavia, durante il processo di transizione, le riforme strutturali si accompagneranno a un rallentamento della crescita (intorno al 6-7% tra il 2015 e il 2017). Ci sono però anche diverse ragioni per una visione ottimistica: lo spazio per una riallocazione fattoriale più efficiente e le liberalizzazioni possono innalzare la produttività totale dei fattori anche attraverso l’avvicinamento alla frontiera tecnologica, la presenza di ampi spazi interni che, al contrario di quelli costieri, sono rimasti indietro e potrebbero progredire molto giovandosi di migliori vie di comunicazione (alta velocità, autostrade) che sono state costruite negli anni recenti (Malkin, Spiegel, 2012). Ciò potrebbe attenuare i costi della transizione tra i due modelli di sviluppo invece che portare a un declino accentuato della crescita. Ciò porterebbe benefici all’intera economia mondiale consentendo alla Cina di superare la trappola e di affiancarsi alle economie ad alto reddito, come il Giappone e la Corea del Sud. Negli ultimi 15 anni, i paesi occidentali, e ancora di più i BRICS, hanno beneficiato in diversi modi della straordinaria crescita della Cina. Essa ha creato nuovi consumatori per i beni prodotti dall’occidente (dalla moda alle auto di lusso). Il governo cinese ha investito in infrastrutture con tecnologia occidentale e le sue esportazioni a basso costo hanno calmierato l’inflazione ovunque. La forte crescita ha fatto lievitare i prezzi delle materie prime, arricchendo i paesi esportatori che hanno poi riversato in Occidente gli ingenti capitali accumulati (aziende, titoli, proprietà immobiliare, squadre di calcio). Ora questo modello di crescita non è più sostenibile per la Cina. Tuttavia c’è una fila di paesi emergenti, seguita da un’altra di pvs che, nel loro insieme, hanno dimensioni equiparabili a quelle della Cina e sono pronti a replicarne il modello export led. 46 5.3 Gli investimenti esteri Un surplus di conto corrente implica che un paese possa finanziare altri paesi oppure acquisti di attività estere. La RPC è il primo paese al mondo per riserve in valuta estera, pari a circa 3500 miliardi di dollari. E questo enorme tesoro le consente di investire in tutto il mondo secondo gli obiettivi tracciati dal governo cinese75. La RPC è abitata dal 22% della popolazione mondiale ma possiede solo il 7% delle terre coltivabili del pianeta e reagisce alla critica di land grabbing dichiarando la sua cooperazione con governi stranieri, organizzazioni multilaterali e altri investitori istituzionali76. Negli ultimi anni si è assistito anche a uno spostamento degli investimenti cinesi verso l’industria pesante con un ulteriore incremento della domanda di risorse naturali. In questa prospettiva è stato cruciale il rapporto della Cina con l’Africa, ricca di risorse naturali e lontana dall’influenza di altre grandi potenze. L’Australia è stata tra i primi paesi a sottoscrivere il trading valutario diretto con la RPC e ad includere il renminbi nel portafoglio delle proprie riserve. Fino al 2012 era il primo paese per Ide in Cina. Nel 2013 è passata al secondo posto dietro agli Stati Uniti. Il cambiamento della classifica geografica riflette anche un cambiamento nel target di investimento cinese. Inizialmente l’interesse della Cina è stato rivolto alle risorse naturali di cui l’Australia è ricca. Ma, negli ultimi anni, l’attenzione si è spostata su nuovi settori, meno costosi ma più strategici, in primis quello immobiliare, ma anche agricolo, manifatturiero e dei servizi. L’Australia è diventata il campo di esercitazione nel processo di globalizzazione cinese. Prima, acciaio, rame, alluminio e altri minerali vari in Australia, energia idrica in Cambogia e Myanmar, metalli nelle Filippine e Indonesia, energie alternative a Singapore, ancora rame in Cile e Perù e ovunque ci fosse petrolio, dall’Iran al Venezuela. Le rotte del gas partono invece dall’Indonesia all’Iran, dal Canada al Kazahkistan. Una rete di investimenti che attraversa vari continenti. Petrolio, chimica, fonti energetiche e materie prime sono state il carburante della crescita economica della Cina. Ma oggi il paese sta cambiando modello di sviluppo. Tecnologia, salute, tecnologia ambientale e beni di consumo sono i settori che avranno maggiore sviluppo. Nel percorso di integrazione nell’economia globale, la Cina sta passando dalle economie emergenti a quelle mature e investe sia in Europa che negli Stati Uniti. Un’integrazione che si sta realizzando appunto nel real estate, nelle telecomunicazioni, nelle tecnologie e nei trasporti, compresi porti e aeroporti77. Le ultime acquisizioni all’estero hanno riguardato il settore del turismo, che è in crescita in Cina. Fino al 2013, il 90% degli investimenti erano di fondi pubblici o di società Nel 2007, appena fondata, la China Investment Corporation (CIC) si è concentrata sull’acquisto di quote in società finanziarie statunitensi come Blackstone e Morgan Stanley ma la scelta non è stata fortunata perché l’anno successivo i loro titoli sono crollati. Sicché la CIC ha diversificato i propri investimenti acquisendo quote azionarie di grandi multinazionali statunitensi (Apple, Bank of America, Coca Cola, Motorola, Johnson&Johnson, Pfizer). Anche l’Italia è meta dello shopping cinese. Lo scorso ottobre, la CIC ha firmato un accordo con il Fondo strategico italiano della Cassa Depositi e Prestiti e detiene il 2% di Eni, Enel, Fiat-Chrysler Automobiles, Telecom Italia, Prysmian. La Shanghai Electric ha acquistato il 40% di Ansaldo Energia, mentre la Stae Grid Co. si è assicurata il 35% di Cdp Reti, un gruppo che controlla Snam e Terna. I settori energetico e minerario sono fondamentali per la CIC ma il fondo si espande anche nelle infrastrutture e nella produzione alimentare. Il CIC non è il solo Swf cinese, ce ne sono altri tre: Safe (State Administration of Foreign Exchange) preposto alla gestione delle riserve in valuta, e due fondi specializzati National Social Security Fund e China-Africa Development Fund (Cadf). Tutti e tre questi fondi sono preesistenti alla CIC e si occupano di investimenti strategici. 76 Di qui la costituzione del Cadf, il quale interviene attraverso gli Ide, con lo scopo di accelerare la cooperazione afrocinese in una prospettiva win-win, anche se non tutti i benefici degli Ide cinesi in Africa vanno a favore delle popolazioni africane. 77 L’acquisizione cinese del porto del Pireo è funzionale alla creazione di un grande hub di ingresso via mare per le merci cinesi dirette in Europa. 75 47 a controllo pubblico, negli ultimi tempi hanno cominciato a dominare la scena i grandi gruppi privati protagonisti delle privatizzazioni. Le acquisizioni cinesi all’estero continuano nonostante il rallentamento della crescita. Sul fronte dei consumi e dei servizi, l’economia cinese cresce78 e gli investimenti cinesi nel mondo, a luglio 2015, hanno fatto registrare livelli record79. Il suo impero economico è oggi estesissimo. La crisi delle sue borse valori pone qualche dubbio che si possa mantenere questo ritmo. Con le svalutazioni del renminbi le acquisizioni costeranno di più, ma le riserve cinesi sono denominate in dollari e quindi non intaccate dalla svalutazione. Per la prima volta, nel 2014, gli investimenti cinesi all’estero hanno superato quelli stranieri nel Paese. Nel 2015 la Cina è diventato il primo investitore estero del pianeta (110 miliardi di dollari). L’Africa è già in parte cinesizzata, ma gli ultimi programmi segnano un salto di qualità. L’opera simbolo è il canale “anti Panama”, in Nicaragua, per ridimensionare l’influenza statunitense sul commercio tra Atlantico e Pacifico. Prima meta l’Australia, poi l’Africa, l’America Latina, gli Stati Uniti e ora anche la periferia sud dell’Europa in saldo a causa della crisi di secondo livello. Gli obiettivi più vicini sono il controllo del Mediterraneo e la conquista del mercato continentale. Le priorità sono i PIIGS, alla ricerca di capitale per far riprendere produzione e occupazione80. La crescita della Cina rallenta ma Europa e Stati Uniti fanno a gara per conquistare gli spazi commerciali di Pechino. Nei primi 5 mesi del 2015 gli investimenti non finanziari delle aziende cinesi in Europa sono aumentati del 367,8% rispetto allo stesso periodo del 2014. Negli Stati Uniti la percentuale è di poco inferiore al 400%. Dopo aver tentato, per anni, di boicottare l’accordo TPP, i leader cinesi hanno segnalato, al World Economic Forum di Davos del 2015, l’interesse cinese a farne parte successivamente. Infatti la Cina ha visto nel Trattato, il corrispettivo di alleanze militari finalizzate a costruire un cordone sanitario attorno alla Cina e non vuole correre il rischio di isolarsi nel momento del rallentamento della sua crescita81. La Cina ha deciso di rompere l’accerchiamento della TPP concentrando la sua attenzione sull’Europa. Nei prossimi anni son stati programmati altri tre grandi eventi: la nuova “Via della Seta” 78 Il settore dei consumi ha fatto registrare un aumento del 10,3% delle vendite retail. Ciò rassicura in parte i produttori del lusso italiani che devono tuttavia confrontarsi con le imitazioni dei loro prodotti. 79 Dopo l’acquisizione della divisione computer dell’IBM da parte della Lenovo, nel 2005, la prima storica acquisizione di aziende all’estero, la Cina ha cominciato a collezionare brand e a sviluppare infrastrutture e opere ingegneristiche. 80 Nel 2014, l’Italia è stata la seconda destinazione degli investimenti cinesi nell’UE, poco meno di 6 miliardi rispetto ai 247 milioni del 2012. Lo shopping di Pechino non si è limitato ai gioielli di famiglia: Eni, Enel, Generali, Telecom, FiatChrysler, Mediobanca, Saipem, Prysmian, Terna, tutti partecipati al 2% dalla Banca Centrale. Anche il 35% della Cassa Depositi e Prestiti, le reti del gas e dell’elettricità (Ansaldo energia) e i marchi storici della moda e della nautica italiana (Krizia e Ferragamo, Ferretti), l’olio Sagra e Borio. 81 Il governo cinese teme che l’accordo faccia fuggire migliaia di multinazionali già in rotta verso Brunei, Myanmar e Vietnam. Gli economisti del governo hanno prima stimato i danni associati al TPP pari al 2,2% del trade e poi ridimensionato le ipotesi di perdita tra lo 0,14 e lo 0,50 %, sottolineando, inoltre, un altro fattore: l’alleanza commerciale Asia-Pacifico favorirà crescita e ripresa negli Stati-clienti della Cina, dando così un impulso indiretto alle sue esportazioni. 48 tra Cina e Russia ed Europa82, la piena convertibilità del renminbi e la NDB BRICS83, il nuovo fondo di sviluppo con sede a Shanghai, presentato come l’anti FMI. Pechino è pronta a mettere in campo riforme volte a una ricomposizione dei vari settori dell'economia: dunque un vero "cambiamento strutturale " secondo cui la priorità non va data alle industrie tradizionali (con capacità produttive in eccesso) ma ai consumi e ai servizi - con un aumento degli investimenti in campi quali il turismo, la salute, la scuola, l'ICT. Così, mentre da un lato la Cina riduce gli investimenti al suo interno e sposta l'epicentro verso i servizi e i consumi, prosegue con gli Ide non solo in aree sottosviluppate come l'Africa, ma anche in Paesi europei condizionati dall'iperfinanziarizzazione. La China Development Bank ha sostenuto le aziende più innovative di questi settori chiave con prestiti di diversi miliardi di dollari. Questa politica, sostenuta da un aumento esponenziale della spesa per la ricerca e lo sviluppo, nonché da un forte impulso alla domanda di nuove tecnologie attraverso il piano quinquennale, ha permesso al Paese di entrare nel novero delle nazioni più innovative84. 5.4 La finanza e il ruolo dei Sovereign wealth funds Al pari di altri fondamentali, come l’evoluzione demografica, la disponibilità di fonti energetiche, gli squilibri tra risparmi e investimenti, la finanza concorre a determinare il cambiamento. Mentre gli Stati Uniti si sono concentrati nel contenere gli indebitamenti dei privati dopo la crisi finanziaria, la Cina ha accompagnato la sua crescita economica con un’espansione importante della finanza i cui eccessi contribuiscono a spiegare il rallentamento della crescita cinese85. Infatti tutti i maggiori paesi del mondo, che hanno visto un rapido aumento del debito, hanno poi subito una crisi finanziaria o un rallentamento prolungato della crescita. Di conseguenza, la Cina potrebbe trovarsi presto trovarsi davanti un caso Lehman Brothers o una iportesi “giapponese”. Ma queste previsioni vslgono per 82 La rivoluzione principale riguarda le ferrovie, di gran lunga preferibili alle strade per il trasporto delle merci. La più importante è la Nuova Transiberiana che congiunge la città cinese di Chongqing alla città tedesca di Duisburg e consente, teoricamente in una settimana, il trasferimento di merci tra i due terminali (in pratica il tempo quasi raddoppia per i controlli doganali di diversi stati). Altri progetti ferroviari (tra i quali un collegamento ad alta velocità tra Pechino e Mosca) sono allo studio. Il finanziamento, fornito in gran parte dalla AIIB, a regime dovrebbe disporre di un capitale sociale di 100 miliardi di dollari. La Cina sta investendo anche in una futura ferrovia transcontinentale sudamericana che dal Brasile dovrebbe raggiungere Colombia, Perù e Cile. Iniziative ferroviarie cinesi stanno prendendo corpo anche nell’Africa orientale dove una nuova linea ferroviaria collegherà Uganda, Ruanda, Burundi e Sudan meridionale. Altri sviluppi ferroviari a opera dei cinesi sono in esecuzione in Colombia, allo scopo di collegare Pacifico e Atlantico evitando il canale di Panama. Si configura, in definitiva, una vera e propria “guerra dei canali e delle ferrovie” per orientare, verso certe rotte, il commercio mondiale con molti paesi emergenti (alla quale si potrebbe aggiungere una “guerra europea dei gasdotti”). In questa “guerra” solo la strategia cinese appare chiara: la cosiddetta “via della seta” si estende ormai a tutto il mondo con rami che si intrecciano, un po’ come facevano gli inglesi ai tempi dell’Impero Britannico (Deaglio, 2015). 83 Il suo capitale è di 50 miliardi di dollari (versati in parti eguali dai 5 paesi BRICS e da portare a 100 nel prossimo futuro). Al contrario della BM e del FMI questa banca prevede un voto per paese partecipante, slegato quindi dalle quote di capitale e nessuno ha diritto di veto. 84 Nell’impegno di Xi Jinping, nella sua visita negli Stati Uniti del settembre 2015, rientrano alcuni dei temi portanti della riforma dell’economia cinese: le infrastrutture digitali, la green economy e il ruolo del mercato in Cina. È lungo queste linee programmatiche che è stata presentata, nell’ottobre 2015, una prima bozza del 13.mo piano quinquennale, un documento che determinerà l’indirizzo economico cinese fino al 2020. 85 Venti anni fa il debito dei cinesi era quasi eguale a quello degli italiani, nel 2008 aveva raggiunto quello dei tedeschi, oggi, con oltre 25.000 miliardi di dollari, ha lo stesso ordine di grandezza di quello statunitense (30.000 miliardi di dollari), il doppio rispetto a quindici anni fa, quando la Cina ha aderito al WTO. In percentuale del Pil, la Cina (249%, secondo la Bank of International Settlements) segue la traiettoria delle grandi economie avanzate, come Stati Uniti (248%), Eurozona (270%) e Giappone (400%). Come in Giappone, anche in Cina il debito è nei portafogli dei residenti. 49 aree economiche con dilance commerciali deboli, alti deficit di bilancio e bassi tassi di risparmio. Questo non è il caso della Cina. Inoltre la battaglia contro il debito inesigibile viene condotta con l’adozione di due programmi distinti. Il primo, dotato inizialmente di 120 miliardi di dollari 86, prevede lo scambio di prestiti contro obbligazioni: le banche offrono crediti a breve alle imprese in difficoltà in cambio di obbligazioni a lungo termine. Il secondo programma, dotato di 152 miliardi di dollari, prevede uno swap tra debito e obbligazioni: le banche sono tenute a cancellare i crediti inesigibili in cambio di azioni di imprese finanziariamente instabili. Lo sviluppo dei mercati finanziari cinesi vede la crescita impetuosa delle banche cui si accompagna la battaglia del governo contro lo shadow banking (66 banche clandestine chiuse nel 2015). All’avanzata degli istituti cinesi ha corrisposto sia quella dei suoi investimenti che quella delle sue imprese. Il timore è che i soldi dei risparmiatori occidentali finiscano per finanziare proprio le aziende straniere che contribuiscono ad aggravare la crisi del suo stesso sistema produttivo, arricchendo banche e industrie cinesi al punto di rafforzare l’autoritarismo cinese che si contrappone alle democrazie occidentali. Consumata la “grande delocalizzazione” di lavoro e produzione, la Cina riesporta, seguendo il modello statunitense, i capitali giunti dall’estero (Stati Uniti, Europa e Giappone) per acquistare attività finanziarie, valute e le parti deboli dei sistemi industriali avanzati. Le autorità cinesi hanno capito che, per sostenere il trend di crescita, devono sviluppare un mercato dei capitali in renminbi capace di finanziare l’espansione delle imprese e del loro commercio internazionale, intermediare il risparmio cinese e attirare quello estero, isolando così il Paese dalle crisi internazionali. Per la Cina questo progetto è prioritario: per questo ha creato una banca di sviluppo regionale che copre il 30% del Pil mondiale, esteso linee di credito in renminbi alle banche centrali dei paesi dove i cinesi investono e dei suoi principali fornitori di materie prime, promosso il mercato di Hong Kong grazie alla migliore tutela del suo sistema giuridico e ottenuto dal FMI la facoltà di inserire il renminbi nel paniere dei DSP. L’apertura di accesso ai titoli cinesi ha consentito l’ingresso degli Ide nella Borsa cinese87. Il programma di connessione delle borse di Hong Kong e Shanghai, pensata per incrementare la liquidità in Cina e attrarre Ide a lungo termine, apre nuove opportunità d’investimento in quello che oggi è il secondo maggior mercato mondiale in termini di capitalizzazione. I grandi problemi cinesi da risolvere sono ora: l’aumento dell’indebitamento, l’eccesso di capacità produttiva e la crisi fiscale degli enti locali. Ma, in un futuro prossimo, Stati, mercati e investitori dovranno prepararsi a un mondo in cui valuta e banche cinesi occuperanno un posto importante. La Cina è il primo detentore di valuta estera e una politica ostile alle banche di Europa e Stati Uniti causerebbe il crollo del valore delle proprie riserve. Tuttavia, secondo il governatore della BPC, Zhou Xechouan, la realtà di consumatori occidentali che chiedono un mutuo a banche cinesi o aprono conti correnti in filiali di banche cinesi è inevitabile. Il FMI lancia l’allarme dello shopping cinese delle banche, ma osserva anche che l’internazionalizzazione del sistema di credito cinese e della sua valuta può convenire a tutti. La ragione è semplice, un renminbi pienamente convertibile, che comporta la libertà di circolazione dei capitali, e istituti bancari cinesi costretti a rispettare le regole del mercato, riducono per la Cina, i rischi legati al cambio negli investimenti e semplificano le operazioni di cassa per le All’inizio del 2016 questo programma è stato dotato di 100 miliardi di dollari aggiuntivi. Nel marzo 2015, è stato lanciato il fondo lussemburghese che potrà investire l’intero capitale in azioni di classe A cinesi quotate a Shanghai e a Shenzhen. Questa apertura costituisce un passo importante verso la liberalizzazione del mercato finanziario cinese. 86 87 50 imprese, mentre agli stranieri offrono prezzi scontati e un aumento di potenziali fornitori. Gli analisti avvertono che affinchè l’offensiva cinese non si traduca in una neo-colonizzazione delle nazioni emergenti e in un conflitto con quelle sviluppate, le condizioni sono strette. Uno sviluppo adeguato dei mercati finanziari costituisce la condizione necessaria (ma non sufficiente, come mostra il caso giapponese) per avviare il processo di trasformazione da economia nazionale a internazionale. Infatti, in assenza di mercati finanziari grandi e sviluppati, si riduce la capacità di assorbire eventuali shocks esterni; di conseguenza si disincentiva l’uso di quella moneta al di fuori dei confini nazionali. Inoltre la Cina non riesce a competere nel mercato delle agenzie di rating, giudici apparentemente neutri, che però riflettono la credibilità del paese di appartenenza e ne perseguono gli interessi geopolitici, anche se sono stati accusati di lesa maestà nel caso di Standard&Poor’s che nel 2011 osò declassare il debito statunitense perché giunto a poche ore dal default tecnico (Magazzino, 2016). Al contrario, valutazioni smaccatamente politiche impediscono alla Dagong Global, la più rilevante agenzia di rating cinese, di incidere sulle fortune di nazioni e soggetti privati. Caso significativo è il rating conferito dai cinesi al debito russo (A), che nonostante il crollo del rublo e la fuga dei capitali è ritenuto più sicuro di quello americano (A-). L’esperienza vissuta negli ultimi due decenni dal Giappone consente di comprendere le difficoltà e le resistenze che potrebbe incontrare un ampio processo di internazionalizzazione della moneta cinese. Per motivazioni in parte simili a quelle giapponesi e tedesche negli anni ’60, il modello di sviluppo cinese è stato caratterizzato da un cambio fisso con il dollaro su livelli competitivi per favorire la crescita trainata dall’export. Contestualmente si è mantenuto uno stretto controllo sul sistema bancario, attraverso le State-Owned Banks e, per consentire l’erogazione di credito ad alcuni settori strategici, le autorità cinesi mantengono, ancora oggi, il renminbi inconvertibile in conto capitale88. Ciò ne impedisce lo sviluppo come moneta internazionale. La convertibilità e un adeguato sviluppo dei mercati finanziari potrebbe consentirlo all’interno di un sistema internazionale multivalutario. Il veicolo principale degli investimenti cinesi nel mondo sono stati i Swf che, secondo China Daily, assorbono dal 10 al 20% delle riserve ufficiali cinesi in dollari. Come altri paesi detentori di riserve in dollari e stanchi di investire solamente in titoli di stato, la Cina ha creato i suoi fondi sovrani89 per diversificare la propria gamma di investimenti con l’acquisizione di partecipazioni in società quotate, le quali possano garantire un rendimento maggiore rispetto ai semplici buoni del tesoro statunitensi. Fino alla prima metà del 2008 gran parte dell’interesse della comunità finanziaria internazionale era concentrata sul tema dei Swf. Motivi di interesse e di preoccupazione sono stati la loro dimensione e il fatto che le loro operazioni sono svolte direttamente da, o per conto di, governi di Stati-Nazione in cui il regime democratico non costituisce la forma prevalente di organizzazione del consenso politico e in cui le relazioni di carattere commerciale, finanziario e anche politico, intrattenute con i paesi più 88 Dal 2013, lo è invece in conto corrente. I soggetti non residenti possono usare liberamente la valuta cinese solo per importare beni cinesi o per operazioni di import-export condotte nell’area Far East. 89 I fondi sovrani sono dei fondi di investimento di proprietà statale che effettuano operazioni, per lo più in attività finanziarie estere – opportunamente diversificate –, con obiettivi di lungo periodo. Il Kuwait fondò nel 1953 il primo fondo sovrano (Kuwait Investment Authority). Ai paesi produttori di materie prime – capaci di accumulare una notevole quantità di attività finanziarie estere, mediante l’esportazione di commodities -, si sono andati affiancando numerosi paesi emergenti – concentrati nella regione del Sud-Est asiatico – che traggono le risorse utilizzate per la costituzione dei fondi sovrani dai proventi dell’esportazione di beni manufatti. 51 avanzati, non sono sempre improntate a trasparenza e reciprocità. I timori sono stati generati dalla possibilità che i Swf acquisissero, attraverso le quote di società partecipate la proprietary knowledge nei settori strategici o sensibili per la sicurezza nazionale (informatica e militare) e fornire aiuti alle imprese di stato. Questi timori non si sono materializzati ma le preferenze dei Swf si sono orientate verso i settori high tech e i posti nei Consigli di Amministrazione. Tuttavia, la crisi ha determinato una decisa battuta di arresto del tasso di crescita delle risorse in gestione dei Swf ma soprattutto il passaggio dalla paura di acquisizioni strategiche ostili alla speranza di ricapitalizzazione delle economie in crisi. L’accordo relativo ai cosiddetti “Principi di Santiago” è contemporaneo al fallimento di Lehman Brothers e al salvataggio di Aig. Dopo lo scoppio della crisi, molti Swf hanno ridotto le operazioni di investimento nei paesi avanzati e aumentato quelle all’interno delle stesse nazioni in cui i fondi hanno la sede operativa privilegiando i settori capaci di garantire uno sviluppo sostenuto delle infrastrutture e della tecnologia anche a favore degli investitori stranieri90 (Lossani, 2013, 7-34). 5.5 Un nuovo modello di sviluppo e il rallentamento della crescita cinese Dal 2013, la Cina ha avviato il cambiamento del suo modello di sviluppo: da un’economia trainata dalle esportazioni e dagli investimenti91, ad un’economia trainata dai consumi privati e dai servizi. Le famiglie cinesi risparmiano molto per ragioni precauzionali. Se le assicurazioni e lo stato sociale riducessero l’onere degli eventi negativi, dividendolo con gli altri, i cinesi risparmierebbero di meno e quindi potrebbero consumare di più. Questo riguarda soprattutto le fasce più deboli. L’obiettivo politico di Pechino, che ha ormai raggiunto il Pil degli Stati Uniti in Ppa92, anche se con una popolazione 4 volte maggiore (1300/320), non è più (o non può essere più) la velocità della crescita93, ma la sua qualità e la sua sostenibilità. Il rallentamento della crescita, innescato da quelli dei consumi e delle importazioni dall’Occidente, risponde anche ad una scelta del partito-Stato, impegnato in una riforma epocale del sistema economico per consentire standard futuri di vita più alti: l’era della nuova “normalità” cinese inaugurata da Xi-Jinping94. I prezzi da pagare, secondo gli economisti cinesi, sono una crescita più lenta e una cessione di competitività alle tigri emergenti dell’Asia: l’India prima di tutte, ma anche l’Indonesia, la Malesia, il Vietnam, la Cambogia, la Thailandia e il resto del Sud-Est asiatico. La leadership cinese è convinta, tuttavia, che la Cina non possa permettersi una crisi come quella del Giappone o di Taiwan, costretti ad accumulare debito pur 90 I Swf possono, infine, accompagnare il definitivo decollo della finanza islamica, che per la sua impostazione reale può costituire un forte antidoto ai rischi connessi alla finanziarizzazione delle economie di Nord e di Ovest. La finanza islamica si differenzia da quella tradizionale perché si basa sul principio che la moneta non rappresenta un valore. Di conseguenza non si possono ottenere interessi sui prestiti in linea con quanto prescritto dal Corano. La ricchezza può essere generata solamente da produzione, commercio e investimenti in attività reali conformi al Corano. Un profitto è quindi riconosciuto come premio di rischio solo se legato a una qualche forma di investimento reale. 91 I progetti cinesi per il 2015 sono molto rilevanti e prevedono 115 miliardi di dollari per 21 mega opere, tra aeroporti, ferrovie ad alta velocità, tunnel e ponti. 92 Agli attuali tassi di cambio invece quello cinese è ancora di poco superiore alla metà (9/17). 93 Nell’ultimo decennio, il tasso di crescita dell’economia cinese si è dimezzato (dal 13,8% del 2007 al 6,8% del 2015) ma la quota del Pil cinese su quello mondiale è aumentata, nello stesso periodo, dall’ 11,5% al 18% (Dati ISPI, marzo 2016). 94 Si tratta dello xiaokang shehui, la società del benessere moderato. 52 di non modificare lo stile di vita. I modelli sono Corea del Sud e Singapore, paesi che nell’ultimo decennio sono riusciti a consolidarsi proprio grazie alla crescita altrui. Uno studio della BPC spiega che l’economia cinese può continuare ad espandersi solo a patto di “non svegliarsi sola”. La Cina si sta riformando, ma se il piano presentato nel 2015 verrà rispettato, l’indebitamento crescerà a livelli tali da frenare a lungo la crescita del Pil, infatti l’iniezione di capitali successiva alla crisi ha provocato diversi inconvenienti: la spesa pubblica si è rivelata in gran parte inefficiente e ciò ha fatto aumentare il rapporto debito totale /Pil oltre il 200% (Jang, 2015)95. Tuttavia, i leader cinesi sono convinti che investire in infrastrutture da primato contribuisca al salto di qualità nazionale in ricerca e tecnologia, da capitalizzare attraverso la produzione industriale e il commercio. Essi impiegano così risorse pubbliche consistenti96 ma, nel lungo periodo, fanno crescere generazioni di ingegneri, scienziati, lavoratori, capaci di assicurare al Paese appalti internazionali più ricchi e un’influenza globale nel credito. Persa una parte dei consumatori occidentali, la Cina va alla conquista dei loro marchi, per assorbire know how, brevetti, conoscenza, tecnologia, immagine. Da materie prime e agricoltura, i settori protagonisti del nuovo modello di sviluppo sono credito, industria, settore immobiliare, mercato secondario dei titoli. Per Pechino, la priorità è trovare un equilibrio tra il sostegno alla crescita, l’accelerazione delle riforme e l’apertura del mercato, cercando di attenuare il divario che separa le città costiere dai villaggi dell’interno. È il passaggio epocale, la transizione definitiva da nazione emergente a superpotenza economica. Il “crollo” dell’economia cinese è ormai un annuncio ricorrente nella letteratura economica e sui media, con periodicità triennale, a partire dal 2008 perché, in Occidente, il ritmo di questa crescita forte e duratura aveva portato ad immaginarlo eterno. Il recente rallentamento dell’economia cinese ha preoccupato il resto del mondo con riguardo alle sue prospettive di crescita di lungo periodo. In realtà, la Cina sta perdendo il monopolio della competitività sul lavoro a basso costo. Le aziende, colpite da aumenti di stipendi tra il 15 e il 38%, ridelocalizzano altrove e in massa e il rallentamento della crescita si abbatte sul mercato del lavoro cinese. Alcune fabbriche sono in crisi, il sistema produttivo soffre di eccesso di capacità produttiva e le metropoli industriali faticano a creare nuova occupazione. I gruppi più colpiti dalla riduzione di domanda estera e da quella interna insufficiente sono quelli medio-piccoli delle regioni interne. Il controesodo verso le campagne, più dell’altalena delle borse e della svalutazione dello renminbi, è un segnale della percezione diffusa che il trentennio d’oro della crescita cinese si stia esaurendo. Dal 2012, la RPC cresce a tassi inferiori a quelli medi degli ultimi trenta anni. La forte dinamica della crescita cinese era stata favorita da tre elementi concomitanti: 1. le politiche innovatrici di Deng Xiaoping del 1978, riassunte nella formula “riforme e apertura”; 2. la fine della guerra fredda che ha consentito l’espansione del commercio internazionale; 3. la crescita demografica che si è tradotta in 95 Nel 2015, in Cina, il debito del governo risulta pari soltanto al 55% del Pil, mentre il rapporto tra debito totale nazionale aggregato (incluso quello privato) e il Pil raggiunge il 282%, vicino a quello registrato dalla Grecia (320%) e dall’Italia (335%) nel 2013 (Dati Ameco). Pur trattandosi di un’economia in parte pianificata, questi valori, peraltro incerti, vanno considerati con attenzione, tanto più che tale rapporto, per la Cina, era pari al 170% nel 2008 e al 215% nel 2011. Se dovesse esserci una crisi del debito in Cina, sarà il governo a doversi far carico di pagare il conto degli ultimi sette anni di stimoli e investimenti non sempre produttivi (Geraci, 2015). 96 La Cina investe nell’istruzione solo il 4% del Pil, ma questa percentuale era solo pari al 2% dieci anni fa. 53 un aumento straordinario della forza lavoro. Ma queste condizioni si sono indebolite nel tempo 97. Sull’economia di Pechino incombe, perciò, un elemento sottovalutato: l’andamento demografico98. La perdita del dividendo demografico lascerà alla dinamica della produttività le prospettive della crescita ma nemmeno l’high-tech basterà a compensare il calo demografico perché la competitività oggi è direttamente proporzionale alle nascite. Per questo è stata annunciata la fine della pianificazione famigliare imposta da Deng Xiaoping con la rimozione recente del divieto di un solo figlio per coppia. In questo modo, la Cina spera che la sua popolazione torni a crescere e di evitare così la sorte del Giappone, debilitato proprio dall’invecchiamento della popolazione. Ma queste campane non suonano solo per la Cina. Frenata dalle crisi statunitense ed europea, che ha ridimensionato i suoi principali mercati di esportazione, assillata dai problemi demografici e alle prese con la richiesta di diritti di una classe media in ascesa, Pechino ha iniziato uno sforzo titanico volto a riorientare la propria economia dall’export al consumo interno. Questa politica economica mira a consolidare il consenso anche se, come ha argomentato Moore (1969), la classe media (da cui origina la borghesia) e la competizione sono elementi che favoriscono la nascita della democrazia. Una volta che questo gruppo sociale ha soddisfatto i suoi bisogni, avanzerà rivendicazioni in altri ambiti: ambiente, sicurezza del lavoro, libertà di espressione. Il capitalismo favorisce la nascita della borghesia e, nel tempo, alla libertà economica seguirà, in misura crescente quella politica. Così la Cina diventerà sempre meno rigida, sia internamente che in politica estera. Si tratta però di un processo lungo, incerto e reversibile verso ibridi, ed è difficile immaginare che il cinese medio, il cui reddito pro capite è meno di un quinto di quello statunitense e la cui visione del mondo è molto diversa, possa compiere questo passaggio nel breve-medio periodo. D’altra parte, tornare a tassi di crescita superiori al 10% è molto improbabile. Ora alcune cause di rallentamento possono essere di natura congiunturale ma nei prossimi venti anni, le sfide che la Cina deve affrontare per mantenere il ritmo di crescita riguardano fattori di offerta: il fatto che la popolazione in età di lavoro smetterà di crescere per poi diminuire, che la Cina possa continuare a investire il 50% del suo Pil mentre il tasso di rendimento del capitale tenderà a ridursi, che il tasso di attività tenderà a cadere man mano che la popolazione si inurba, che l’occupazione si sposterà verso il settore terziario che è meno produttivo di quello manifatturiero. I consumi nel 2014 hanno rappresentato solo un terzo del Pil. Gli investimenti nel cemento, sostenuti dallo Stato, nonostante il rischio di bolla immobiliare, equivalgono a metà del Pil. Un modello insostenibile che deve essere reindirizzato verso i consumi interni. Questo implica minore risparmio, salari più elevati, minore competitività, più mercato e meno corruzione e burocrazia, maggiore efficienza del sistema finanziario. La crescita futura della Cina dipende dalla sua capacità di mantenere unito il paese, nonostante le numerose fratture regionali che lo solcano. Il controllo del proprio territorio è la maggiore sfida sia Inoltre, l’accresciuta ricchezza e il miglioramento delle condizioni sanitarie fanno prevedere nei prossimi decenni un incremento esponenziale della popolazione sopra i 65 anni. L’invecchiamento della popolazione causerà in Cina non solo una diminuzione del tasso di attività, ma anche un aumento consistente delle spese sanitarie e previdenziali. 98 Secondo l’Accademia delle Scienze, nel 2025 la popolazione nazionale raggiungerà il tetto massimo 1,41 miliardi di persone, mentre i cinesi, nel 2050, saranno meno dei contemporanei. A fine 2014, la popolazione cinese era pari a 1,37 miliardi, superata da quella indiana. Le conseguenze della transizione demografica sono enormi. Fino al 2030, per mantenere la stabilità sociale e un tasso di crescita non troppo inferiore al 6%, Pechino dovrà creare tra 15 e 17 milioni di nuovi posti di lavoro l’anno. Per la prima volta, a contare non sarà più solo la quantità ma anche la qualità. Da 1 a 3 milioni di questi nuovi posti di lavoro saranno per laureati. 97 54 geopolitica che economica. La Cina ha avuto una crescita impetuosa: in pochi decenni ha colmato un divario di due secoli di rivoluzione industriale: trasporti, infrastrutture, comunicazioni, grandi urbanizzazioni99, ma anche la capacità di produrre quanto desiderato dal consumatore cinese, dalle auto ai telefonini. Lo ha fatto grazie a un enorme serbatoio di forza lavoro e alla compressione dei consumi interni, per avere il risparmio necessario a finanziare gli investimenti, non volendo utilizzare i capitali stranieri, memore della lezione della crisi del ’97-’98. La Cina ha mantenuto così un avanzo delle partite correnti con l’estero, cioè un surplus di risparmio. Avendo ora accumulato capitale e capacità produttiva sufficienti, può e deve spostare le risorse interne ai consumi: la crescita del Pil rallenterà, ma non è un problema per la Cina; anzi i suoi cittadini beneficeranno di un tenore di vita crescente. 5.5 Gli effetti della crisi cinese sull’economia reale mondiale La Cina è diventata un polo dell’economia mondiale e la crescita cinese è un fattore chiave per la ripresa della domanda globale perché la quota crescente del Pil cinese su quello mondiale implica che gli shocks generati dall’economia cinese colpiranno con intensità il resto del mondo e di conseguenza la dinamica produttiva e occupazionale e, infine, le politiche monetaria e fiscale. Lo si vede bene nell’attuale ciclo del dollaro. Le autorità cinesi hanno attutito, con misure di rilancio della domanda interna, gli effetti della crisi delle esportazioni ma, ai primi segni di ripresa dell’economia americana, hanno iniziato a svolgere un’azione decisa per modificare la struttura dell’economia cinese, innanzitutto permettendo la fine del boom dell’acciaio, indotto dalla politica di costruzione anticiclica di infrastrutture. Crollate le quotazioni sui mercati delle principali materie prime a causa del indebolimento della crescita cinese, sono infatti entrati in crisi profonda i paesi (Brasile, Argentina, Australia, esportatori di metalli e prodotti agricoli, ma anche i paesi africani dove i cinesi hanno favorito la crescita di miniere e di grandi aziende agricole), che negli anni precedenti si erano arricchiti esportando materie prime in Cina. La novità è questa crisi venuta da fuori, da quella che era considerata la periferia del sistema. Il peso economico relativo dell’Occidente è molto diminuito insieme alla sua capacità di stabilizzare l’economia mondiale. Si assiste perciò a un rovesciamento dei ruoli che accentua l’incertezza sui mercati. Negli ultimi vent’anni la crescita globale è stata trainata dai paesi emergenti, soprattutto la Cina ma non solo. Se il rallentamento riguarda tutti questi paesi, il mercato globale si riduce. Oggi i paesi emergenti rappresentano la metà del Pil mondiale e ci si chiede se il loro rallentamento possa portare a una crisi di terzo livello, dopo quella dei mutui sub prime del 2007-2009 e quella dei debiti sovrani (2010-2014) che ha colpito l’Eurozona. Una terza crisi interromperebbe la ripresa statunitense e renderebbe più ardue quella europea e quella giapponese. 99 In Cina i residenti nelle città hanno superato quelli nelle campagne e i consumi interni sostengono la crescita più delle esportazioni. I problemi posti dall’ urbanizzazione e dalle aspirazioni della classe media dipendono dal fatto che il nuovo modello non procede con rapidità sufficiente. Nelle metropoli industriali la carenza di giovani specializzati e l’aumento dei salari fa aumentare il costo del lavoro. Il rallentamento della crescita è dovuto a un eccesso di investimenti rispetto all’aumento della spesa. Rispetto al 2005, nel 2015 i consumi sono scesi dal 44 al 36% del Pil. Gli investimenti nel cemento hanno superato il 50% e la concentrazione degli investimenti negli immobili, piuttosto che nella produzione, ha fatto salire i timori di una svalutazione dei crediti (riproponendo una sub-prime crisis). Il governo è ora impegnato nell’aumento dei salari, nello stimolo della natalità e nella costruzione di sistemi di assistenza sociale e di previdenza che favoriscano una riduzione del risparmio. 55 In un mondo più “equilibrato” o paritetico, i problemi dei paesi emergenti possono infliggere un danno molto superiore a quelli avanzati attraverso il contagio. Questa considerazione aiuta anche a capire il pericolo della deflazione e cioè di una caduta generale dei prezzi. Al momento questa minaccia riguarda tutte le economie avanzate e i mercati delle materie prime, il petrolio è il più importante. Seguono quelli dei metalli, dei minerali e delle derrate agricole. A un’osservazione superficiale, dovrebbe essere un evento positivo, tutto costa meno, il costo della vita scende, il potere d’acquisto sale, i consumatori stanno meglio. Ma per ogni prezzo che scende c’è un reddito decurtato: quello dei produttori. Agricolture sudamericane e africane, industrie minerarie del Canada e dell’Oceania, più della metà del pianeta soffre la deflazione come un impoverimento netto e ciò può innescare un processo demoltiplicativo che ridurrebbe ulteriormente le importazioni da Stati Uniti ed Europa. Questi nuovi mercati di sbocco dove i produttori dei paesi avanzati avevano trovato un traino per compensare le deboli domande interne dei consumatori occidentali, ora s’inaridiscono per mancanza di risorse. Lo stesso meccanismo aiuta a capire l’aspetto perverso della svalutazione cinese lanciata l’11 agosto 2015 e non ancora finita. In una fase di deflazione, la Cina sta ricorrendo a una delle vie di fuga più antiche e dannose. Qualcosa di simile accadde negli anni trenta della Grande Depressione: ogni paese cercava di scaricare la sua crisi sui suoi vicini o svalutando la moneta o ricorrendo ad altre forme di protezionismo. Si trattava di riedizioni della nota politica “beggar thy neighbour”. Ma una svalutazione competitiva funziona bene quando la domanda globale cresce. Allora il paese che svaluta riesce ad esportare di più perché i suoi prodotti costano di meno sui mercati esteri che li domandano. Ma se la domanda globale si contrae, la svalutazione aggiunge un altro shock deflazionistico e aiuta poco anche il paese che la utilizza (anche se rende più competitive le sue esportazioni). La manovra cinese è stata preceduta da quelle delle monete dei BRICS: il real, il rublo, la lira turca e il rand sudafricano100. E la spirale della svalutazione si è allargata poi al dong vietnamita e al tenge kazaco. I benefici si elidono a vicenda e questo spiega l’oscillazione del giudizio del FMI nei confronti della Cina di cui aveva in un primo momento letto la svalutazione come un passo verso la liberalizzazione dei mercati. I gruppi industriali di Europa e Stati Uniti stanno ricollocando al loro interno le produzioni delocalizzate negli ultimi decenni favorendo così il reshoring, ovvero il ritorno del lavoro in Occidente dalla Cina, ma anche dall’Africa e dal Sud America 101. La crisi sta rendendo l’Occidente più competitivo mentre in Cina i costi del lavoro per unità di prodotto sono in aumento per una dinamica salariale crescente, come l’Occidente auspicava da anni102. Tuttavia la bolla finanziaria spaventa gli investitori. A favore di Cina, Corea del Sud, Giappone, Taiwan, e Sud-Est asiatico restano competenze e catene di forniture consolidate. È difficile riportare in Occidente elettronica, digitale e meccanica computerizzata, ma l’innovazione tecnologica e la metamorfosi del mercato del lavoro riequilibrano i rapporti per moda, arredamento, elettrodomestici, automobile, settore 100 Il rand è la valuta ufficiale del Sudafrica fin dalla sua indipendenza nel 1961 ed è usato anche come valuta comune nei paesi della Comunità di Paesi dell'Africa Meridionale. L’occupazione manifatturiera aveva perso un terzo negli Stati Uniti tra il 1996 e il 2013, ma negli ultimi 3 anni il trend si è invertito, nel 2015 aumenterà del 3, 2%, mentre in Europa toccherà il 4% nel 2016. In Cina il calo è invece stimato tra il 15 e il 20%. La ricomparsa delle industrie delocalizzate in Europa interessa in particolare i Balcani, la Bielorussia e gli ex paesi satelliti dell’URSS. Il vantaggio ulteriore del reshoring è dato dalla vicinanza del mercato di sbocco che taglia i tempi di consegna e i costi di spedizione. 102 In Asia, i costi per unità di prodotto aumentano ovunque e lo spettro della disoccupazione incombe anche sui simboli invecchiati della crescita: Giappone, Corea del Sud, Taiwan. 101 56 alimentare, farmaceutica. I distretti robotizzati in Europa e Stati Uniti favoriscono la competitività, ma le svalutazioni asiatiche che accompagnano quella del renminbi potrebbero tornare a rendere l’Oriente molto vantaggioso, e se la Cina continuerà ad invadere i mercati mondiali, l’effetto domino porterà le imprese europee e statunitensi a delocalizzarsi nuovamente. Le previsioni di crescita della Cina sono state riviste al ribasso. E lo stesso sta accadendo su tutti i mercati emergenti aprendo così un circolo vizioso di demoltiplicazione. Si teme che i problemi della Cina possano frenare la crescita mondiale. Ma non è tanto la Borsa di Shanghai a preoccupare gli Stati Uniti e l’Europa: quella piazza finanziaria è ancora piccola e gli stranieri vi investono relativamente poco. Il problema principale è costituito dalla contrazione degli investimenti cinesi. Il rallentamento costringe le industrie che vi avevano costruito le loro strategie e previsto i loro profitti a riconsiderarli. Le multinazionali dell’industria (Caterpillar, Smatphones, automobili) e delle materie prime sono le più preoccupate. Questi rallentamenti si riflettono sugli Stati Uniti103e sull’Europa, le cui esportazioni sono colpite negativamente. Tutto questo implica una riduzione di domanda aggregata futura a livello mondiale e, quindi, una riduzione dei prezzi di energia e materie prime: ciò, a sua volta, ha effetti negativi per le economie che ne sono ricche. In particolare, la crisi cinese prospetta il contagio per l’Europa. A soffrirne sarà soprattutto la Germania, prima esportatrice europea verso la Cina e unico paese avanzato a godere di una bilancia commerciale attiva con Pechino, quindi la più esposta a una crisi di quel mercato. Ma oltre ai prodotti dell’alta tecnologia tedesca anche il lusso made in Italy è stato tra i settori beneficiati dal boom cinese104. Ora questa domanda crescerà meno di quanto atteso mentre cresce la capacità di imitazione cinese in questo settore. In questo frangente, l’Europa, che ha bisogno di una moneta debole per riprendersi dalla crisi di secondo livello, si trova in una posizione difficile perché il deprezzamento dell’euro viene vanificato da quello delle valute dei paesi emergenti. E la fuga dei capitali dai BRICS, motivata dall’incertezza, rafforza le valute più solide, dollaro ed euro. Di fatto, oggi l'attenzione si concentra soprattutto sul deprezzamento della valuta cinese. In mancanza di una politica fiscale più espansiva, la misura che rimane per rilanciare l’economia è quella della svalutazione. Si tratta di una decisione strategica della Cina finalizzata anche a dare impulso alle esportazioni in una situazione economica di stagnazione della domanda mondiale. 6. La strategia cinese: il renminbi, nuova moneta internazionale 6.1 Lo scoppio della bolla finanziaria cinese e le manovre per contrastarla La bolla delle borse cinesi è stata generata da quantità elevate di liquidità immesse dal governo nel sistema economico, dopo il rallentamento dell’economia nella crisi del 2008, per sostenere la crescita del paese attraverso il finanziamento delle imprese. Di fatto le bolle sono difficili da identificare. In questo caso, il Price/Earning ratio era alto ma non è chiaro se il crollo delle Borse cinesi sia stato dovuto all’esplosione di una bolla speculativa o piuttosto al rallentamento strutturale in un processo Rallentando la crescita dei tassi d’interesse statunitensi, il rallentamento cinese frena il potere gravitazionale dei capitali da parte di quel mercato finanziario. 103 Tuttavia l’export italiano è fatto di beni a bassa elasticità di prezzo (lusso e meccanica iperspecializzata) e ciò ridurrà gli effetti negativi. 104 57 di crescita dei valori sostenuto da buone prospettive di redditività future. Il rischio sistemico di trasmissione della bolla all’estero è minimo in quanto la crescita dei prezzi delle attività finanziarie cinesi non è stato guidato da banche e altri operatori finanziari bensì dall’eccezionale attivismo di investitori individuali motivato dalla fiducia nella capacità del governo di controllare l’intera economia mista piano-mercato. Il 12 giugno 2015 è scoppiata la bolla e sono scattate le vendite da panico. Per sostenere i corsi azionari, i primi di luglio 2015 le autorità cinesi hanno rimosso tutti gli impedimenti al sostegno del mercato – sospendendo gli scambi di molti titoli azionari, vietando le vendite allo scoperto, spingendo gli investitori maggiori ad acquistare in Borsa, vietando agli azionisti di maggioranza delle società di cedere titoli per sei mesi e sospendendo per due giorni le nuove quotazioni. La BPC ha ridotto la riserva obbligatoria, tagliato i tassi portandoli al minimo storico e annunciato un’iniezione di moneta nel sistema finanziario. Le banche di stato e le compagnie di assicurazione, mobilitate d’imperio, hanno acquistano azioni per frenare la caduta ma il movimento al ribasso non si è arrestato. Il dirigismo finanziario del governo non solo non ha risolto il problema ma ha rischiato di nasconderlo impedendo ai prezzi di trovare velocemente un nuovo equilibrio oltre a stimolare azzardo morale. Ma in un mercato come quello cinese, popolato da 90 milioni di piccoli investitori poco esperti e forse mal consigliati non poteva servire. Le sofferenze sono aumentate al punto di rischiare l’implosione del sistema bancario. Negli Stati Uniti, durante la crisi, si diceva che le banche erano troppo grandi per lasciarle fallire, in Cina invece sono troppo grandi per salvarle. Dopo aver guadagnato il 150% in un anno, la perdita di valore in Borsa ha raggiunto il 43%, inducendo una aumento dei flussi di capitali verso l’estero105. A gennaio 2016, la Borsa di Shanghai ha perso un ulteriore 7% che ha fatto scattare, per la prima volta, il nuovo sistema automatico di sospensione delle contrattazioni che era stato introdotto per evitare nuovi crolli 106. Tagli dei tassi di sconto e liberalizzazione degli acquisti a debito dei titoli azionari, il cui valore è aumentato in pochi mesi da 60 a 390 miliardi, hanno accompagnato un mercato poco evoluto, mal regolamentato e molto opaco, innescando la bolla. Lo scoppio di una bolla quasi sempre si ripercuote sul livello di attività economica e si trasmette per contagio agli altri paesi. Ma il caso cinese è diverso perché l’effetto ricchezza negativo, cui si associano riduzioni di consumi e di investimenti, il dissesto delle istituzioni finanziarie e il credit crunch che amplifica l’effetto recessivo, in Cina sono ridotti sia dalla piccola frazione di cinesi che investe in Borsa sia dalla bassa percentuale dei consumi (37% del Pil, rispetto al 68% degli Stati Uniti e al 56% dell’Europa). La Cina continua ad esportare risparmi, l’avanzo delle partite correnti nel 2015 è pari al 2% del Pil, nonostante il rallentamento. Piuttosto che alla bolla, la fonte di contagio è associata al rallentamento della crescita. Il Paese non è ancora riuscito ad attivare il modello di sviluppo alternativo a partire dai consumi interni. Di conseguenza continua a generarsi un eccesso di risparmio e di liquidità che non trovano strumenti finanziari adeguati per investimenti redditizi. Inoltre, col duplice obiettivo di liberalizzare progressivamente il mercato finanziario (il più chiuso e regolamentato del paese) e di creare canali d’investimento alternativi a quello immobiliare, il governo a metà del 2014 aveva introdotto la possibilità di acquisti a leva, incentivando in tal modo gli investimenti in Borsa di molti piccoli e grandi risparmiatori e di imprese. Successivamente, la Cina ha adottato una politica di incoraggiamento dei prezzi azionari, Il flusso dei capitali tranfrontalieri era stato liberalizzato nell’aprile 2009 per consentire alle imprese, specialmente a quelle più grandi, di canalizzare i loro investimenti tra la Cina continentale ed Hong Kong. 106 L’ufficio nazionale di statistica di Pechino ha comunicato che nel 2015 i profitti industriali cinesi sono scesi del 4,7%. 105 58 combinando una campagna propagandistica per l’acquisto di azioni con attenuati requisiti al margine, rendendolo più facile con denaro preso a prestito. L’obbiettivo può essere stato quello di dare un sostegno a quelle imprese di proprietà statale che potevano ripagare il debito vendendo azioni. Questa situazione ha generato la sopravvalutazione dei prezzi dei titoli rispetto ai fondamentali dell’economia reale fino all’esplosione della bolla. Le autorità di Pechino in questi mesi sono di fronte a una contraddizione di fondo tra gli obiettivi economici di breve (mantenere uno stretto controllo del governo sulla crisi di Borsa per garantire la stabilità finanziaria interna) e di medio periodo (introdurre progressivamente le riforme di mercato all’interno del nuovo modello di sviluppo). Esse devono perseguire contemporaneamente obbiettivi diversi e conflittuali. In particolare, dovrebbero aumentare la liquidità per risollevare le Borse, ma questo spingerebbe ulteriormente il deprezzamento del cambio che però aumenterebbe ulteriormente la fuga dei capitali e renderebbe ancor più costose le importazioni degli input su cui si reggono molte delle filiere produttive nelle quali le imprese cinesi e a capitale misto svolgono le fasi a valle della catena del valore. Ancora, l’economia cinese è fortemente squilibrata, con una parte molto modesta del Pil rivolta ai consumi ed una parte molto elevata destinata agli investimenti. Ora che i rendimenti degli investimenti stanno calando velocemente, la soluzione è investire di meno e consumare di più. La dirigenza cinese può reagire alla caduta delle esportazioni (-8,3% nell’ultimo anno) con una redistribuzione a favore dei redditi dei lavoratori che può dare origine alla domanda necessaria per equilibrare l’offerta. Gli investitori cinesi stanno sperimentando le difficoltà di un paese che introduce progressivamente il meccanismo di mercato (una decisione economica), ma che non è certamente pronto e forse neppure intenzionato ad accettare l’esito di tale meccanismo in termini di allocazione delle risorse (una decisione politica). 6.2 I deprezzamenti del renminbi Il prolungato peg del renminbi col dollaro aveva invece portato lentamente a un apprezzamento della moneta cinese e quindi a una perdita della competitività di prezzo. Dopo 22 anni di peg sul dollaro107, la Cina ha deciso di lasciar deprezzare a sorpresa la sua moneta. A partire dall’11 agosto 2015 e nei due giorni successivi, vi sono stati tre deprezzamenti, rispettivamente del 1,90%, 1,62%, 1,1%, pari al 4,65% complessivo. Non è tanto se paragonato ai grandi riallineamenti valutari euro-dollaro che hanno visto variazioni superiori al 20%. Ma il fatto che essi saranno seguiti dai paesi vicini e dal altri paesi emergenti aggrava comunque i problemi delle economie occidentali 108. Per gli investitori, un renminbi deprezzato del 4,65%, dopo che in un anno si era apprezzato del 14% (18% inclusa l’inflazione), non è molto rilevante. Nel 1994 vi fu un crollo da primato, la svalutazione raggiunse il Da oltre vent’anni il renminbi può oscillare quotidianamente sul dollaro fino al 2% ma finora la media si era sempre assestata attorno allo 0,6%. 108 In 18 mesi il Giappone ha svalutato lo yen del 18% sul dollaro, l’Indonesia del 10%, la Malesia del 13%, e il Vietnam ha raddoppiato la banda di oscillazione del dong. La fine dell’era del renminbi forte apre scenari globali nuovi ed incerti: il made in China cerca di tornare low cost. 107 59 33% e fu il preludio a un ventennio formidabile di crescita del Pil. Capace perfino di arginare la crisi internazionale 2007-2009. Con riguardo alle recenti variazioni del cambio. si possono osservare tre cose: 1. l’Occidente è in imbarazzo perché non è facile accusare la Cina, visto che il renminbi sta seguendo la pressione dei mercati e le raccomandazioni del FMI di liberalizzare la sua valuta; 2. la Cina sta seguendo la lezione della Fed che, a suo tempo, non ha esitato a usare il deprezzamento competitivo per uscire dalla crisi; 3. la tempistica di questi deprezzamenti del renminbi è particolarmente sfortunata per l’Europa. Il FMI ha dato inizialmente un cauto placet alla manovra cinese definendola un “passo benvenuto” verso la piena liberalizzazione valutaria. I governi stranieri temono però una guerra delle valute dichiarata inaspettatamente dalla Cina. Secondo il FMI e le agenzie di rating, la manovra cinese è dolorosa, ma efficace, orientata da una riforma strutturale che tende a migliorare il mercato piuttosto che da intenti competitivi. Il deprezzamento del renminbi non ha aiutato a risollevare le Borse cinesi perché ha aumentato l’incentivo a spostare i capitali sul dollaro. Ha inoltre sollevato dubbi, poi risolti, sul possibile riconoscimento del renminbi come moneta internazionale, da parte del FMI a partire da ottobre 2016, perché questo implica una liberalizzazione dei movimenti di capitale di cui il risparmiatore cinese approfitterà per fare investimenti all’estero. Questa manovra, ancorché marginale, può essere motivata dalle difficoltà dell’economia cinese, per quelle imprese che non riescono a sopravvivere con un cambio stabile, e dal tentativo di trasferirle sugli altri esportando deflazione. In realtà, la Cina fa quello che Stati Uniti, Europa e FMI chiedevano da tempo: trasformare il renminbi in una moneta simile alle loro, meno manipolata dal governo. La Cina afferma che si tratta di un avvicinamento del renminbi ai valori di mercato, che risponde cioè agli equilibri tra domanda e offerta, piuttosto che a direttive politiche, un gesto in linea con quello che la comunità internazionale chiede da anni. Quindi non si tratterebbe di una svalutazione competitiva, ma nessuna Banca centrale ha mai confessato di volerla fare anche quando la ha fatta. La scelta del tempo non è casuale, essa avviene in un momento in cui il mercato spinge il renminbi al ribasso, dando luogo a un deprezzamento realizzato dal mercato. Le prime vittime di questo deprezzamento sono i paesi più vicini e simili alla Cina: Bangladesh, Filippine, Indonesia, Vietnam. Sono quelli che avevano goduto i benefici delle ultime ondate di delocalizzazione cinese spinta dagli aumenti salariali. A catena sono colpiti tutti: gli altri BRICS, l’Africa, l’America Latina, oltre a Canada e Australia. L’Europa stessa non ne è immune Ma, come si è detto, ancor più della variazione del cambio preoccupa il rallentamento dell’economia mondiale dovuto a quello cinese e degli altri paesi emergenti oltre che al rialzo dei tassi di interesse statunitensi. La svalutazione è un rimedio antico ma non sempre è efficace. L’economia mondiale è ora molto meno dinamica che nel passato. Le guerre delle valute sono micidiali perché comportano ritorsioni che compromettono la domanda mondiale generando una deflazione planetaria indotta dal rinvio di consumi e soprattutto di investimenti. Storicamente, svalutazioni competitive sono state associate in diversi paesi a guadagni di crescita ma, negli ultimi anni, la produzione si è frammentata internazionalmente, seguendo il modello di commercio intraindustriale, con flussi di beni intermedi tra paesi, organizzati prevalentemente dalle imprese multinazionali nell’ambito di catene globali del valore109. Ne consegue che l’esportazione “diretta” di beni e servizi sul mercato legata a un vantaggio di prezzo, ossia quella modalità di commercio cui le svalutazioni competitive danno beneficio e che L’Unctad stima che l’80 per cento del commercio globale (in termini di esportazioni lorde) sia oggi in qualche modo connesso a transazioni in cui almeno una delle controparti è un’impresa multinazionale che organizza una global value chain. 109 60 viene “storicamente” registrata dalla letteratura economica, è probabilmente molto meno importante di prima110. Anche se quella cinese non è una manovra competitiva, ma piuttosto il segno che la fuga dei capitali non si è arrestata, il deprezzamento del renminbi ha un forte impatto sul resto del mondo data la dimensione dell’economia cinese e il suo ruolo nel commercio planetario. Le reazioni dei mercati mondiali è stata corale, all’insegna della sfiducia. George Soros e il presidente della Fed di Richmond prevedono una ulteriore e forte decelerazione della crescita cinese nel 2016 111. La Cina continua così a tenere sotto scacco i mercati finanziari mondiali provocando gli effetti di una contrazione degli scambi sul tasso di crescita (Romagnoli, 1979). Con i paesi emergenti che seguono l’esempio della Cina, si accentuano le tendenze che spingono a una guerra delle valute. 6.2 Il renminbi: nuova valuta internazionale Per la maggior parte della sua breve storia, il renminbi112 ha avuto un peg con il dollaro (pari a 2,46:1), durante gli anni ’70 si rivalutò fino a raggiungere 1,50:1 nel 1980. Quando la Cina aprì i suoi mercati al commercio internazionale il renminbi fu svalutato al fine di migliorare la competitività delle esportazioni cinesi. Il cambio scese da 1,50:1 fino a raggiungere il suo minimo 8,62:1, nel 1994. Successivamente, il cambio si mantenne intorno a 8,27:1 fino al 2005. Ha raggiunto un nuovo massimo pari a 6,0395:1, il 14 gennaio 2014, per contenere le pressioni inflazionistiche, una politica fortemente auspicata dagli Stati Uniti per ridurre il loro deficit di conto corrente con la Cina. I tre deprezzamenti estivi del 2015 lo hanno portato a 6.37:1. Dall’ottobre 2015, la Cina ha annunciato che sarà il mercato a determinare il tasso di cambio. In realtà la manovra sul cambio ha motivazioni più complesse di una semplice politica competitiva: ci vuol ben altro del 4,65% per stimolare l’export che, nell’ultimo decennio, è aumentato rapidamente nonostante il renminbi si sia apprezzato di oltre il 30 per cento in termini sia nominali sia reali rispetto al dollaro, come mostra la figura 8. La revisione del meccanismo di adeguamento della parità centrale della banda di oscillazione all’interno della quale fluttua il renminbi, cioè di fatto la transizione da un cambio fisso a un cambio in regime di fluttuazione controllata, era da tempo suggerita anche dal FMI. Come si è detto, è una riforma che tende ad accrescere il peso del mercato nell’economia nazionale cinese. Il 30 novembre 2015, il FMI ha deciso di inserire il renminbi nel basket dei DSP a partire da ottobre 2016. Una settimana dopo, le autorità cinesi hanno annunciato che il cambio del renminbi sarà 110 I motivi che riportano i paesi e le regioni planetarie ai cambi fissi, nonostante la loro fragilità sia consolidata, sono molteplici. Si tratta sia di cause economiche (stabilità monetaria, eliminazione delle politiche valutarie corsare) sia di cause politiche interne (l’eredità antinflazionistica tedesca, la maggiore incisività delle crisi in termini di riforme indotte nei paesi periferici) ed esterne (il mantenimento della supremazia del dollaro). Secondo l’hedge fund del noto finanziere ungherese, che realizzò in breve tempo un miliardo di dollari speculando nel 1992 sul crollo della sterlina e della lira, la crisi globale innescata dal rallentamento della crescita cinese potrebbe provocare una crisi globale paragonabile a quella del 2007-2009. 112 Il renminbi ha due quotazioni diverse a seconda che sia scambiato all’interno del paese, Chinese Yuan onshore (CNY), o liberamente all’estero, dall’aprile 2009, Chinese Yuan offshore (CNH), soprattutto sul mercato di Hong Kong. L’arbitraggio sul tasso di cambio per gli importatori continentali e le multinazionali crea una pressione verso l’alto sul mercato del CNY ed una pressione verso il basso su quello del CNH. In un’economia con tassi d’interesse e tassi di cambio flessibili, l’arbitraggio elimina rapidamente il differenziale del tasso di cambio. Ma, dato che il tasso di cambio e il tasso d’interesse in Cina non sono flessibili, persiste il differenziale tra CNY e CNH. 111 61 misurato su un paniere di valute, non solo sul dollaro (che si sta rivalutando) e che in futuro il fixing sarà portato su livelli più vicini al tasso a pronti. In sostanza, la Cina si sta avvicinando alla libera Figura 8 – Tasso di cambio dollaro/renminbi (1981-2015) Fonte: Forex oscillazione della valuta: un altro importante passo avanti verso l’internazionalizzazione del renminbi. Di fatto, dopo l’ammissione del renminbi al basket dei DSP, la Cina sta lasciando indebolire il renminbi, ha sospeso il blocco automatico (circuit breaker) degli scambi e prorogato sine die i vincoli alla vendita di partecipazioni rilevanti delle società quotate. Tra il 7 e l’8 gennaio 2016, il cambio del renminbi ha registrato due ulteriori flessioni che hanno portato il suo valore a 0.152439 dollari (6,56:1). Per rassicurare i mercati, le autorità cinesi hanno annunciato di aver speso 108 miliardi di dollari delle riserve ufficiali (ora scese a 3330 miliardi di dollari) nel tentativo di sostenere la moneta113. Questa politica sembra confermare che la Cina non ritiene i vantaggi sull’export maggiori dei costi di un dollaro forte sui debiti e della fuga dei capitali. Ma in questa valutazione va inclusa anche la possibilità che la Cina anticipi i mercati per il timore che la domanda di renminbi associata alla sua internazionalizzazione possa farlo rivalutare eccessivamente. La moneta cinese è da poco diventata la quarta moneta più utilizzata nel pianeta. La valuta, utilizzata in patria da 1,4 miliardi di persone, ha superato ad agosto lo yen giapponese nelle transazioni finanziarie internazionali ed è ora preceduta solo da dollaro, euro e sterlina114. La forza del renminbi si vede anche dalla posizione che ha raggiunto nelle transazioni internazionali nell’Asia orientale dove l’uso della valuta cinese ha largamente sostituito il dollaro, come si vede nella tabella 2. 113 Il divario tra cambi ufficiali interni e quelli offshore ha ripreso ad ampliarsi. Ciò costringe la BPC a riacquistare consistenti quantità di renminbi all’estero, pagando con le sue riserve in dollari. Bloomberg ha stimato che nel 2015 i capitali in fuga dalla Cina hanno superato l’equivalente di mille miliardi di dollari. 114 La quota del renminbi nelle operazioni di pagamento nel mondo è aumentata ad agosto 2015 al 2,79% in valore contro il 2,76% dello yen. In tre anni, sempre secondo l'organizzazione delle transazioni internazionali SWIFT, il renminbi ha superato sette monete, occupando nel 2012 il settimo posto. "La moneta si è affermata come dominante negli scambi finanziari dopo il dollaro"secondo l'organizzazione. Ad agosto il dollaro occupava il primo posto (al 44,82%), seguito dall'euro (27,2%) e dalla sterlina (8,45%). A proiettare renminbi in testa ai mercati finanziari mondiali è stata l’ascesa dei centri mondiali off-shore in cui è già possibile la sua adozione. Nel 2014, la Cina ha sottoscritto otto nuovi accordi, i più importanti con Londra, Francoforte, Lussemburgo, Kuala Lumpur, e Bangkok. Ora le piazze straniere in cui è possibile pagare in renminbi sono 14. A fine gennaio 2015, si è aggiunta anche Zurigo, mercato simbolo della finanza europea, dove il franco è la sesta valuta più scambiata nel mondo. 62 Tab. 2-Renminbi usage surges in Asia-Pacific Currency Jan-Apr 2012 Jan-Apr 2015 AUD 12% 12.1% USD 21.7% 12.3% HKD 21.8% 16% JPY 28% 23% RMB 7% 31% Source: Swift Perché una valuta possa essere inclusa nel paniere dei DSP, secondo quanto stabilito dal FMI, devono essere rispettate due condizioni115: 1. il Paese emittente moneta deve possedere grande capacità di esportazione; 2. la moneta di riferimento deve essere liberamente utilizzabile116. La decisione del FMI, basata almeno formalmente su un’analisi tecnica, è il sigillo di buona condotta valutaria che i cinesi desideravano, come era nell’Ottocento l’ingresso nel club delle monete convertibili in oro che, contrariamente al Giappone, il Celeste Impero non aveva voluto o potuto realizzare. La decisione del Fondo corona il percorso - iniziato con l’ammissione al Wto nel 2001 - dell’inclusione della Cina tra i partner importanti del governo multipolare del mondo e sanziona la “nuova normalità” della Cina anche per quanto riguarda i mercati finanziari. Sul piano economico, il riconoscimento dell’importanza sistemica della valuta cinese scongiura il rischio della risposta al rallentamento della crescita con una politica valutaria corsara del renminbi. Il comportamento responsabile delle autorità monetarie cinesi è stato sinora poco riconosciuto, trascurando il fatto che dall’inizio della Grande Recessione al luglio 2015, è stato lasciato che il renminbi si apprezzasse di circa il 27 per cento rispetto all’euro, aiutando non poco le esportazioni tedesche. Infine, la decisione del FMI, assecondata implicitamente dagli Stati Uniti, rende più probabile un atteggiamento di prudenza e cooperazione delle autorità monetarie cinesi accrescendo il loro interesse per la stabilità del s.m.i.. La maturazione dei mercati finanziari cinesi ha costituito uno dei prerequisiti fondamentali, unitamente alla progressiva liberalizzazione dei flussi finanziari con il resto del mondo e al mantenimento di un quadro macroeconomico stabile, per lo sviluppo del renminbi come moneta internazionale. Il peso di una valuta all’interno del paniere del FMI misura anche la sua capacità di attrazione e quindi di stabilizzazione del suo valore. Nel caso del renminbi, la sua domanda mondiale come valuta di riserva117 potrà compensare eventuali flussi di valuta in uscita dalla Cina da parte dei privati. Ciò renderà più prevedibili anche le scelte della BPC in termini di tassi d’interesse. Il renminbi peserà il 10,9% nel paniere, dietro al dollaro (sceso da 41,90 a 41,75%) e all’euro (da 37,40 a 30,93%), ma davanti allo yen (da 9,40 a 8,33%) e alla sterlina (da 11.30 a 8,09%). La figura 9 mostra chiaramente Di fatto, a queste due condizioni principali se ne affiancano altre minori, come l’utilizzo della valuta nei titoli di debito internazionali, nelle passività bancarie, e nel turnover dei mercati valutari a pronti. Il renminbi ha fatto grossi passi anche su questi aspetti, sebbene mantenga ancora alcune restrizioni sui flussi di capitali. 115 116 Si osserva però che il libero uso di una moneta non implica la sua convertibilità. 117 Già nel 2014, la BPC dichiarava che 30 banche centrali avevano riserve in renminbi. 63 che è stato l’euro a pagare il prezzo maggiore dell’entrata del renminbi con il 6,5%, mentre yen e sterlina hanno contribuito entrambi con il 4,2% e infine il dollaro solo marginalmente con lo 0,2%. Ora il peso dell’euro nel paniere è inferiore a quello della sua istituzione118. Ciò indica che la crisi di secondo livello che ha seguito quella globale del 2007-2009 ha indebolito il ruolo dell’Eurozona nel ridisegno del s.m.i.. Anche la composizione percentuale delle riserve in euro, che era pari al 17,9% nel 1999, è scesa al 21% nel 2015 dopo aver raggiunto un massimo di 27,6 nel 2009, mentre quelle in dollari, che erano pari al 70,9% nel 1999, sono risalite al 63% nel 2015, dopo aver raggiunto un minimo pari a 61,8% nel 2010 (Romagnoli, 2013; IMF/FMI, 2015b). Il secondo punto chiave della decisione del FMI è la modifica della metodologia per il calcolo del peso delle valute incluse. Fig. 9 - Variazione della composizione del paniere dei DSP dopo l’introduzione del renminbi. Precedentemente, i pesi relativi erano principalmente derivati dai dati sulle esportazioni e sulle riserve in valuta estera. L’ovvia limitazione era che le bilance commerciali determinano in buona parte la composizione delle riserve in valuta estera, e quindi i criteri erano, in parte, ridondanti. Nel 2015, il FMI ha scelto una nuova formula nella quale le variabili relative alle esportazioni, alle riserve in valuta estera e ai dati finanziari (Forex turnover, passività e titoli di debito internazionali) hanno lo stesso peso, e la copertura dell’indicatore finanziario è stata estesa per catturare meglio diverse transazioni finanziarie. Al di là del prestigio associato all’inserimento del renminbi nel basket dei DSP, il beneficio per la Cina è dato dal fatto che le banche centrali aumenteranno le loro riserve denominate nella sua moneta, anche se questo signoraggio darà luogo a pressioni per una sua rivalutazione. Apre comunque una via al confronto diretto con il dollaro a livello mondiale (Kenen, 2009; Ocampo, 2010), anche se il ruolo maggiore nelle decisioni del FMI costringerà la Cina ad adottare politiche monetarie e valutarie in linea con i mercati valutari internazionali 119. Tuttavia 118 Vedi, a questo riguardo la tabella 3 a p. 102. Una conseguenza diretta dell’ascesa internazionale del renminbi sarà l’opportunità del governo di Pechino, ma anche di quelli stranieri, di emettere debito offshore anche in questa valuta. 119 64 questo successo non risolve il problema cinese di affrancarsi dal dollaro. La Cina con un sistema finanziario ancora poco sviluppato, appesantito dai debiti dei governi locali, che hanno costruito infrastrutture e abitazioni al di là del necessario, e dove le banche, per sopravvivere, applicano spread tra prestiti e depositi del 5% e oltre, non accetterà facilmente l’idea di diventare un debitore netto. La crisi del 1997-98 e quella del 2007-2009 hanno mostrato la potenza distruttiva della finanza. Anche se avallasse l’apprezzamento della divisa nazionale e accettase un deficit della bilancia commerciale, il governo cinese né dispone di una forza militare confrontabile con quella statunitense120, né della stabilità e della trasparenza richieste dagli investitori stranieri. Oggi la divisa cinese non è più legata soltanto al dollaro, ma anche una semplice espansione del suo uso trascina le sorti del dollaro, sostenendolo nei fatti. 6.4 Le sfide mondiali cinesi Meno di due secoli fa, la Cina era di gran lunga la maggiore economia del mondo. Secondo le stime di Angus Maddison, nel 1820, il suo Pil era pari al 30% di quello mondiale. Questa quota si è ridotta nel corso del XIX secolo mentre la rivoluzione industriale spingeva l’Europa e l’America cresceva. Il XX secolo fu ancora meno favorevole per la Cina lacerata da invasioni e guerre civili. Oggi, dopo 35 anni intensi di avvicinamento al mercato, la Cina rivendica il suo ruolo di seconda economia mondiale. L’ascesa cinese dipende da cinque cose: la propria crescita, la crescita statunitense, la dinamica dei prezzi nei due paesi, il tasso di cambio renminbi-dollaro. Il presidente Hu Jintao aveva dichiarato al XVIII Congresso del PC, nel novembre 2012, che la Cina avrebbe continuato a perseguire una ”ascesa pacifica”. Ma questa dichiarazione è stata però presto contraddetta dalla dirigenza cinese sulla questione del Mare Cinese Meridionale che contrappone, dal 2012, la Cina a diversi paesi minori. La tensione crescente, da allora, tra Cina e Stati Uniti potrebbe innescare una nuova guerra fredda che però danneggerebbe anche l’economia cinese. Molti cinesi pensano che dietro le resistenze di potenze minori come Vietnam o le Filippine ci sia il governo degli Stati Uniti con il suo “Pivot to Asia” che, mimando la politica inglese del XIX secolo, mirerebbe a formare una “coalizione di volenterosi” contro la Cina. Tuttavia essa non può perdere di vista il suo obiettivo principale che è dato dallo sviluppo economico. Per Pechino difendere il mare suum è una questione di potere regionale, per gli Stati Uniti il coinvolgimento serve a mantenere la supremazia in Oriente e a costringere la Cina a uniformarsi al diritto commerciale internazionale. Quiao Ling (2015) ha annunciato il nuovo pensiero strategico nazionale cinese e definisce di natura economica, non geopolitica, la principale sfida all’ascesa della RPC. Egli sostiene che nel corso degli anni, l’obiettivo ultimo di Washington è stato soltanto accumulare profitti. La superpotenza sarebbe sempre riuscita – anche dopo le disastrose campagne militari realizzate nella Corea del Nord, e soprattutto in Vietnam - a speculare nelle crisi regionali attraverso il ciclo del dollaro: un intervallo monetario della durata di 16 anni: 10 anni di debolezza (1971-1980, 1987-1997, 2005-2015) e 6 anni di forza (1980-1986, 1997-2003, 2016-2022). Il periodo di rafforzamento coincide puntualmente con Tuttavia le recenti parate militari cinesi, sottolineate dall’assenza degli Stati Uniti e dell’Europa (ad eccezione della Repubblica Ceca) sono un segno significativo della volontà di aumentare la forza militare del Paese. La Cina continuerà ad evitare il rischio di un’azione militare contro gli Stati Uniti, molto superiori per capacità, equipaggiamento e raggio d’azione. Ma la rapida modernizzazione, in corso, della forza navale cinese è chiaramente finalizzata a contenere, in prospettiva, la superiorità americana nelle acque territoriali dell’Asia. 120 65 il deflagrare di una crisi regionale che indebolisce le economie dei paesi emergenti e dei pvs. Unica eccezione nel 2012, quando la Cina non è caduta nella trappola statunitense (come era invece capitato a Saddam Hussein nella prima guerra irachena) che l’avrebbe voluta trascinare in un conflitto con il Giappone e le Filippine per il controllo delle isole del Mar Cinese Meridionale121. Gli incidenti del 2012 hanno però fatto sì che il trattato North East Asia Free Trade Area122, su cui c’era un’intesa preliminare arrivata vicina alla conclusione, si interrompesse e iniziasse lo sforzo americano per il TPP che riguarda a un’area con 40.000 miliardi di dollari di trade. Ciò ha evitato che il renminbi divenisse la valuta più utilizzata nelle transazioni di quel potenziale mercato comune. Quiao spiega che il suo paese non intende muovere guerra agli Stati Uniti poiché un conflitto armato nuocerebbe all’interesse nazionale. L’abbandono della cautela cinese su questo profilo parte anche dal presupposto che nel lungo periodo gli interessi della Cina e degli Stati Uniti in Asia orientale sono destinati a collidere. Ma per inibire il militarismo statunitense, Pechino deve internazionalizzare la sua moneta e riformare la propria economia (Sisci, 2015). In parallelo avanza anche l’uso del renminbi sui mercati finanziari. Crescono le emissioni di bond in valuta cinese soprattutto sulla piazza londinese123. Entro il 2016, è prevista la piena convertibilità della moneta ancora soggetta ad alcune restrizioni ai movimenti con l’estero finalizzati ad isolare l’economia cinese dagli shocks internazionali. Ora il riconoscimento internazionale del renminbi avviene in una fase in cui la Cina mira a un ruolo maggiore come potenza finanziatrice degli investimenti interni ed esteri di non residenti. Per questo ha creato la AIIB, accogliendo al suo interno anche Stati europei come azionisti (Inghilterra Germania, Francia e Italia), che ha il compito di finanziare la costruzione di grandi opere e infrastrutture in Asia. Si tratta di un passo significativo verso un’architettura finanziaria alternativa rispetto alla BM. Gli Stati Uniti, che avevano fatto pressioni sui loro alleati perché ne stessero lontani hanno subito un duro smacco: la stessa Gran Bretagna, seguita da Francia, Italia e Germania, ovvero le quattro maggiori potenze economiche europee, tutte appartenenti al G7, hanno deciso di aderire all’AIIB dandole credibilità e prospettiva. Anche l’Australia, alleato fedele degli Stati Uniti, che però da anni è legata anche alla Cina, ha aderito all’AIIB. D’altro canto, la Cina sta cercando di sviluppare una strategia di collaborazione con i suoi vicini, con i principali paesi emergenti e con i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa (MENA countries)124. Qui l’approccio tradizionale è stato capovolto: l’alleanza politica non è più una conseguenza possibile, ma la condizione indispensabile per lo sviluppo economico. Oltre alla AIIB, un altro Certamente, con la “Nine-Dash-Line”, Pechino ha deciso unilateralmente che più del 90% del Mar Cinese Meridionale è parte del territorio cinese, rendendo così irrilevanti de facto le rivendicazioni territoriali degli altri Stati (Filippine, Indonesia, Malysia, Taiwan, Vietnam, Brunei) su acque e isole di questo mare. 122 Questo accordo tra Cina, Giappone e Corea del Sud (con un trade di 20.000 miliardi di dollari), che insieme a Hong Kong, Macao e Taiwan poteva arrivare a 30.000, inglobando l’area di libero scambio del Sud-est asiatico, e a 50.000, se avesse incluso anche l’India e le 5 repubbliche dell’Asia centrale avrebbe costituito un’area maggiore dell’UE e del NAFTA messi insieme. 123 Inoltre, il governo britannico, rompendo due vecchi tabù, consentirà anche che i loro rendimenti vengano detenuti come riserve della Banca d’Inghilterra. Michael Blomberg starebbe lavorando a un progetto per portare il trading del renminbi sulla piazza di New York. 124 Si tratta dei paesi del Golfo Persico e della sponda sud del Mediterraneo (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Quata, Abu Dhabi, Iran, Egitto). Questa area interessa la Cina per motivi di stabilità economica e politica interne. Energia, vie di comunicazione, trasporti, infrastrutture e mercati del mondo arabo sono importanti per attenuare il rallentamento della crescita cinese. 121 66 elemento chiave è la già citata NDB BRICS creata nel 2014 dai cinque paesi BRICS, con sede a Shanghai. Queste iniziative nascono in concorrenza della BM e del FMI creando potenti blocchi alternativi. Inoltre, la Cina intende creare una zona di libero scambio con la neonata Unione Economica Euroasiatica125. Per sottrarsi al giudizio delle tre agenzie di rating americane, Cina e Russia hanno deciso di crearne una nuova, la Universal Credit Rating Group con sede a Shanghai. La nuova agenzia, insieme a quella cinese Dagong, può rappresentare una sfida rilevante all’attuale monopolio statunitense. Dopo oltre 70 anni da Bretton Woods, l’ordine monetario americano– centrico si trova dinanzi, dopo l’introduzione dell’euro, una nuova sfida che viene dalla Cina, che è un concorrente-antagonista degli Stati Uniti a tutti i livelli: commerciale, tecnologico, politico, militare. L’economia mondiale è un network i cui links permettono l’espansione dei flussi commerciali di beni e di servizi, capitali e informazioni. Anche la Cina sente la concorrenza degli altri blocchi mondiali e, dopo essere diventata un punto di riferimento importante per le economie circostanti che hanno un grado inferiore di sviluppo, il suo obbiettivo è quello di investire anche su nuovi links e diventare un catalizzatore di crescita e sviluppo mondiali. In particolare, Jack Ma, il fondatore del gigante cinese dell’e-commerce Alibaba, vuole lanciare una WTO elettronica che serva 2 miliardi di consumatori di tutti i continenti. L’obiettivo è quello di sostituirsi sia ai centri commerciali che alle compagnie di trasporto, fornendo anche servizi bancari e assicurativi on line, per rilanciare la ripresa globale rivoluzionando il sistema economico. Attraverso la e-economy, Jack Ma tenta di aggirare l’arena dominata dal dollaro, con la rapida ascesa degli strumenti di shopping on line, e il suo sistema di pagamento diretto in renminbi Alipay126. In questa inziativa, Alibaba si confronta con altre piattaforme come JD.com che gestisce le vendite direttamente ed è in grado di combattere la contraffazione, al contrario dei 10 milioni di negozi indipendenti che vendono online attraverso Alibaba. La Cina ha finora usato le sue consistenti riserve anche per difendere i paesi vicini, suoi alleati, dalla volatilità dei flussi internazionali dei capitali. Ora va oltre. Della strategia economica della Cina fanno parte investimenti in tutta l’Asia, nell’Est Europeo, in Africa, nonché gli accordi bilaterali (ormai più di 30) con paesi vicini e lontani oltre all’obiettivo, ormai conseguito, di promuovere l’internazionalizzazione del renminbi. Certamente la capacità di attrazione della Cina è molto forte, ma queste reazioni fanno pensare anche a due altre cose, in qualche modo collegate: una reazione cinese alla sua esclusione dai paesi fondatori della TPP e una strategia europea mirata a guadagnare potere contrattuale nei confronti degli Stati Uniti nella trattativa sulla Trans Atlantic Trade and Investment partnership (TTIP). Tuttavia si osserva che mentre il presidente Obama sta spingendo per concludere i trattati TPP e TTIP, negli Stati Uniti cresce la spinta protezionista. Tanto più che il dollaro si è rafforzato megli ultimi mesi contro tutte le altre monete. Nel luglio del 2016, si attende un’altra decisione cruciale, questa volta da parte del WTO, su un tema fortemente controverso e delicato, quello di concedere alla Cina il riconoscimento di “economia di mercato”. Infatti, nell’accordo per l’ingresso nel WTO del 2001, la clausola che permetteva ai suoi Si tratta di un’unione tra Federazione Russa, Bielorussia e Kazakistan, nata nel 2011, cui si è unita l’Armenia nel 2014 e il Kirghizistan nel 2015. 126 Alipay è una piattaforma di pagamento online lanciata nel 2004 in Cina da Alibaba Group. Secondo Credit Suisse il valore totale delle transazioni operate da Alipay in Cina è stato di 4 bilioni di renminbi nel 2012. È attualmente utilizzata da 400 milioni di consumatori di tutti i continenti. 125 67 partner commerciali di trattare la Cina come non-market economy scade nel 2016. Un tale passo renderebbe più difficile colpirla con misure di difesa anti-dumping, come l’Europa fa attualmente. L’Economic Policy Insitute ha stimato recentemente che, nel periodo di 3-5 anni, questo nuovo status della Cina comprometterebbe 3,5 milioni di posti di lavoro in Europa e 400.000 solo in Italia in conseguenza di un aumento tra il 20 e il 50% delle esportazioni cinesi in Europa 127. In assenza di certezza della volontà di Pechino di introdurre meccanismi di gestione più trasparenti e vere logiche di mercato, genera perplessità la decisione di accordare alla Cina lo status di economia di mercato anche se essa ora pretende di meritare quello status di diritto, a prescindere dalle riforme realizzate in tal senso. Anche se tale clausola ha rilevanza soltanto in merito alle azioni anti-dumping, per la Cina questo ulteriore riconoscimento sarebbe un elemento di prestigio internazionale, e per Xi Jinping di forza politica interna. L’economia cinese è dotata di ampi strumenti di controllo ed è abbastanza isolata dalle interferenze esterne grazie al fatto che il renminbi non è ancora una divisa convertibile. Ma i cinesi non possono disinteressarsi delle crisi finanziarie e, secondo il generale Qiao (2015), la diffusione all’estero del dollaro permette tuttora agli Stati Uniti di mantenere sotto controllo il tasso d’inflazione, che altrimenti, con la possiblità di creare moneta in quantità illimitata, raggiungerebbe livelli pericolosi 128. Dopo la dichiarazione di inconvertibilità del 1971, gli Stati Uniti hanno abbandonato gradualmente l’economia reale in favore di quella virtuale. Nel frattempo il Pil statunitense ha raggiunto i 18.000 miliardi di dollari, ma la componente reale non supera i 5000 miliardi. Con l’emissione di bond, un enorme volume di dollari circolante all’estero torna nei tre cruciali mercati statunitensi: quello azionario, quello dei futures e quello del debito. Il flusso di moneta in entrata (per la vendita di bond) e in uscita (per il loro riacquisto) produce profitti e fa dell’America un impero valutario, oltre che il centro del sistema finanziario globale. La dipendenza assoluta degli Stati Uniti dai flussi internazionali dei capitali risiede nell’abbandono, avvenuto con il crollo di Bretton Woods e la demonetizzazione dell’oro, della produzione manifatturiera e dell’economia reale. Gli Stati Uniti hanno bisogno di assorbire grandi quantità di capitale per sorreggere l’economia nazionale e mantenere il livello di benessere dei cittadini. Pertanto, chiunque cerchi di interrompere questo flusso è da considerarsi un nemico strategico. L’internazionalizzazione del renminbi non ha, quindi, solo un significato monetario. Esso rappresenta anche il volano delle “Vie della seta” che condurrebbe alla L’Italia è il paese in maggiore concorrenza con la Cina. Su 52 categorie di prodotti cinesi attualmente colpiti dai dazi europei 30 sono italiani o prevalentemente tali. A rischiare il tracollo sarebbe soprattutto la siderurgia attualmente colpita da 20 procedure anti dumping, ma anche altri settori sarebbero colpiti come meccanica, chimica, bulloneria, calzature biciclette, pannelli solari, carta vetro, ceramica. Per questi motivi, l’Italia, insieme alla periferia sud dell’UE e alla Confindustria tedesca, e ora anche il Parlamento Europeo si sono finora opposti a questo riconoscimento visto invece con favore da alcuni paesi del Nord Europa. L’argomentazione contraria al riconoscimento è che esso era vincolato a diverse condizioni: la cessazione di influenza governativa sulle imprese e degli aiuti di Stato, trasparenza sul diritto di proprietà, esistenza di un settore finanziario indipendente. Invece, perdurano il dirigismo e i prezzi amministrati oltre al regime di fluttuazione amministrata del renminbi. Anche gli Stati Uniti temono l’apertura dell’Europa alla Cina perché la futura TTIP potrebbe vederli invasi, attraverso la triangolazione, da merci cinesi a basso costo entrate in Europa. 128 In cento anni, dal 1913 al 2013, la Fed ha stampato solo 10.000 miliardi di dollari per limitarne il deprezzamento. A partire dal 1954, da quando ha coniato la nuova divisa, la BPC ha stampato 120.000 miliardi di renminbi che, se convertiti in dollari al tasso di 6,2:1, equivalgono a 20.000 miliardi di dollari. Pechino acquisisce, dai suoi surplus del conto corrente, un volume consistente di dollari che, a causa dei controlli sul mercato valutario, non possono circolare sul territorio nazionale. Per questo è costretta a stampare una somma di renminbi corrispondente a quella della divisa estera incamerata. In futuro, però, dopo aver conseguito il profitto desiderato, gli investimenti stranieri potrebbero volatilizzarsi, lasciando in circolazione una quantità eccessiva di renminbi. Già adesso, Pechino ammette che sul territorio nazionale è presente gran parte dei 120.000 miliardi di renminbi emessi. Ciò spiega l’insistenza cinese per l’internazionalizzazione della sua moneta. 127 68 tripartizione tra dollaro, euro e renminbi, alla divisione del mondo in tre blocchi commerciali e alla fine del primato valutario globale del dollaro129. Infatti, se il dollaro coprisse solo un terzo degli scambi globali non potrebbe mantenere la supremazia monetaria non avendo una economia reale rilevante. Il pragmatismo, o meglio una logica economica a prova di interferenze, domina l’asse in via di costruzione tra Cina, Russia e Germania: le tre potenze non accettano di vivere in un mondo in cui gli Stati Uniti hanno l’ultima parola. Quello di Quiao è stato un avvertimento che ha avuto negli Stati Uniti lo stesso effetto allarmante della previsione di Portes (1999; Portes, Rey, 2008) sull’affermazione dell’euro sul dollaro o di Zhou (2009) sulla opportunità di riforma del s.m.i., ed ha avuto ripercussioni anche sul FMI, anche perché la nuova tripartizione potrebbe preludere a una divisione del potere in cui potrebbe essere la Cina ad avere l’ultima parola. 6.5 La risposta americana: il TPP e il TTIP La veloce ascesa della Cina ha impressionato il mondo ed ha imposto un dazio geopolitico a Pechino. Ma non è la vera Cina, tangibile, un paese con punti di debolezza e di forza come tutti gli altri, che gli Stati Uniti temono. Piuttosto è la nuova era multipolare di cui la Cina è divenuta sinonimo e la cui ascesa economica precede quella di altre potenze regionali: Indonesia, Turchia, gli altri BRICS, paesi con popolazioni numerose, ambiziosi, con governi che hanno pian piano imparato a governare. Il renminbi si è andato apprezzando sul dollaro e dopo il fallimento di Lehman Brothers, quando l’ordine economico mondiale sembrava appeso a un filo, la Cina venne rapidamente e risolutamente in soccorso degli Stati Uniti, acquistando dollari e immettendo moneta nell’economia mondiale, al pari dei suoi interlocutori di Washington, per evitare il collasso generale. I cinesi lo hanno fatto non perché condividono i valori occidentali o ne sostengono gli obiettivi, bensì nel proprio interesse. La versione economica di distruzione reciproca assicurata, di sovietica memoria, rappresenta il maggiore incentivo alla cooperazione pacifica tra la principale potenza economica del mondo e il suo maggior rivale. Tuttavia, sotto la calma apparente dell’interdipendenza si cela un profondo contrasto geopolitico. Il dilemma è tra un ascesa economica cinese che favorirà il pluralismo politico e una potenza incoercibile e intrinsecamente espansionista. Il sistema di garanzie incrociate fra americani e cinesi è in crisi perché ha toccato il suo limite. I cinesi, esportando più di quanto importano, hanno accumulato riserve valutarie consistenti investite in obbligazioni statunitensi. Queste, lasciate nelle banche statunitensi, proteggono gli ingenti investimenti in impianti fatti in Cina da molti paesi. Infatti, gli investimenti statunitensi sono solo una parte di quelli esteri fatti in Cina. I crediti cinesi a fronte degli investimenti esteri sono il fondamento L’operazione One Belt One Road (OBOR), l’iniziativa più importante di espansione diplomatica intrapresa dalla Cina per connetterla all’Europa, non si concentra soltanto sul finanziamento di progetti infrastrutturali, in particolare ferrovie nel Sud-Est europeo e porti nel Mediterraneo. Essa prevede anche relazioni finanziarie tra la BPC e le banche centrali europee attraverso swaps in valuta e stanze di compensazione in renminbi (offshore renminbi hubs) con lo scopo di ridurre i costi di transazione degli investimenti cinesi e favorire l’uso del renminbi. Ai vantaggi e alle opportunità economiche dell’OBOR si associano anche sfide politiche rilevanti che vanno valutate attentamente. C’è, infatti, il rischio che questa operazione possa dividere ulteriormente i paesi membri dell’UE e rendere difficile per Bruxelles trovare una posizione comune nei riguardi della Cina, oltre a inasprire i rapporti con gli Stati Uniti (Casarini, 2015). 129 69 del sistema di mutua distruzione assicurata130. Senza il sistema di reciproca rovina potenziale nessuno avrebbe investito in Cina, un paese con partito unico e un esercito potente. Senza un’industria dotata di mezzi adeguati, la crescita cinese non sarebbe mai decollata. Americani e giapponesi, anticipando una durata non breve del tempo del cambiamento in atto all’interno della Cina, hanno cercato di accumulare vantaggi di posizione nei suoi confronti, come quelli consentiti dal TPP, che nasce per contenere la crescente potenza cinese, oltre a quella russa. Come si è detto, i paesi che hanno investito in Cina contano sugli Stati Uniti come garante dei loro diritti. Questo fatto, insieme ai motivi di sicurezza, concorre a spiegare l’accettazione del TPP da parte dei paesi del Pacifico e la disponibilità a trattare per la TTIP da parte dell’UE. Il confronto tra Stati Uniti e Cina avviene nel Pacifico. Gli Stati Uniti ritengono che sia giunto il momento di assumere un ruolo più attivo in Asia così da costruire un’architettura politica che promuova stabilità e prosperità. Un approccio di tipo olistico agli affari continentali da sovrapporre alle relazioni bilaterali, con la convinzione che la Cina è allo stesso tempo un partner e un avversario, e con l’intenzione, a pochi anni dalla crisi finanziaria, di proporre anche alle nazioni vicine, su cui la Cina esercita il suo ascendente attraverso il suo soft power131, il modello statunitense di progresso per vigilare sulla sua avanzata. Un rapporto ambiguo, quello sino-americano: per metà dipendenza reciproca, per metà competizione antagonista. La TPP, l’area di libero scambio tra le economie del Pacifico, esclude dal patto commerciale alcune super-potenze economiche dell’Estremo Oriente oltre che alcune economie emergenti: tra tutte la Cina (compresa Hong Kong), Corea del Sud, India, Cambogia e Indonesia. Escludendo la Cina, a causa del ruolo che essa ha nei confronti della quasi totalità degli altri paesi di quell’area, inclusi i due principali architetti dell’accordo, Stati Uniti e Giappone, sta per essere discusso dal Congresso 132. L’International Emergency Economic Power Act del 1977 dà facoltà al presidente degli Stati Uniti di congelare le attività estere da essi controllate, quando egli vedesse un rischio straordinario per la sicurezza nazionale, la politica estera, l’economia: “Se tu mi nazionalizzi gli impianti, io ti sequestro i T-Bills, se tu non fai niente, io non faccio niente.” 131 Con soft power, su cui in questa fase gli Stati Uniti non possono gareggiare, si intende la capacità che possiede uno Stato di persuadere, o attrarre, un altro o più Stati facendo uso di tutti gli strumenti collegati alla sua storia, alla sua cultura, alle espressioni intellettuali e ai valori che da queste emanano. Fa da contrappeso all’hard power riferito a tutte le azioni nei settori economico, finanziario e militare che vengono utilizzati dai paesi per ottenere dagli altri un comportamento vantaggioso nei propri confronti. 132 Lunedì 5 ottobre 2015 la TPP, tra gli Stati Uniti e 11 paesi del Pacifico, è stata firmata ma deve essere ratificata dal Congresso degli Stati Uniti dove alcuni democratici (Hillary Clinton e Bernie Sanders che cercano il consenso dei sindacati protezionisti) e alcuni repubblicani (Donald Trump) temono effetti negativi sull’occupazione. I paesi che fanno parte della TPP sono: Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti. Il trattato avrà una open architecture e quindi consentirà ad altri paesi di unirsi, se lo desiderano, in un secondo tempo. Per la TPP, che si prevede porti a un aumento del Pil globale di 300 miliardi di dollari, il presidente Obama ha ottenuto dal Congresso il “fast track”, grazie ai voti dei repubblicani. Si tratta della corsia parlamentare privilegiata e veloce che consente un’approvazione rapida perché i parlamentari possono solo approvarlo o disapprovarlo in toto, senza emendamenti sui singoli aspetti. Esso prevede i più forti impegni sindacali e le più ampie tutele dell’ambiente della storia del commercio mondiale. Una volta ratificato l’accordo, il Vietnam, che ne è partecipe, sarà tenuto ad autorizzare la nascita di sindacati liberi. In prospettiva, il TPP è un modo per prefigurare dei negoziati con cui l’Occidente tenterà di ottenere gli stessi diritti per i lavoratori cinesi. La TPP è il più grande accordo dalla nascita della WTO che ha visto arenarsi i tentativi per accordi mondiali, come il Doha Round. In negativo, al primo posto c’è la clausola “Investor-State Settlement” che consentirà ai privati di fare causa agli Stati, se ritengono che questi ultimi ledono i loro diritti. Sindacati, associazioni di consumatori, ambientalisti di molte nazioni accusano questa clausola di assegnare uno strumento formidabile di pressione alle imprese multinazionali: queste potranno fare ricorso contro nazionalizzazioni o altre regolamentazioni che tutelino l’interesse pubblico a scapito del loro profitto privato. L’Australia ha ottenuto che questo principio non valga per l’industria del tabacco. Un altro tema rilevante sul quale il TPP potrà avere un’applicazione futura nei confronti della Cina, è il principio che impedisce discriminazioni a favore delle aziende di stato. Di conseguenza, per tutti i BRICS sarà molto più difficile continuare a indulgere in pratiche protezionistiche e di dumping. I primi a beneficiare 130 70 Stati Uniti e Giappone anticipano quello che avverrà nel futuro prossimo, ovvero la volontà di Pechino di cambiare modello di sviluppo e pensano di poter fare a meno, almeno in parte, della domanda cinese dei propri beni di consumo e di investimento. Su questa ipotesi hanno pensato di ridisegnare la mappa degli scambi in Estremo Oriente mettendo la Cina in una posizione defilata rispetto alle sue ambizioni, escludendola dal TPP e cercando, così, di limitarne l’impatto sulla propria politica di potenza. Lo scopo dichiarato dell’iniziativa del presidente Obama è quella di scrivere regole che proteggano i lavoratori, tutelino l’ambiente, i consumatori, la salute, i diritti umani secondo alcuni principii che i paesi emergenti, e tra essi la Cina, siano costretti ad applicare in futuro. L’alternativa è che queste regole le scrivano i cinesi con priorità diverse. Per questo la TPP vede impegnati paesi abbastanza simili per livelli di reddito e difesa dei diritti (Stati Uniti e Giappone) al fine di isolare i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) che ne sono stati esclusi, almeno nel momento fondativo. Si potrebbe vedere però un ulteriore significato in questa politica nippoamericana: mettere in rilievo la minaccia cinese per giustificare la costruzione di un settore superavanzato della difesa statunitense e giapponese al fine di sostituire, almeno in parte, il ruolo svolto tradizionalmente dagli investimenti fissi e dai consumi nell’assorbimento della loro offerta globale (Fabbri, 2012). La politica asiatica di Washington ha circondato la Cina, prevenendo i suoi tentativi autoritari di diluire il sistema americano-centrico. E ha trovato molti alleati in Estremo Oriente perché l’America appare di gran lunga preferibile alla Cina, come deus ex machina dell’ordine regionale. Tale equilibrio, che è il successo della politica, continuerà a funzionare finché un declino accentuato degli Stati Uniti o un’accelerazione dell’ascesa cinese non lo romperà. Nonostante l’enfasi sulla strategia del Pivot to East Asia (che qualcuno vede come una riedizione della guerra fredda), gli Stati Uniti si sono tenuti ai margini delle dispute nel Mar Cinese Meridionale 133. Tuttavia, se fossero assenti, si potrebbe diffondere il timore di un monopolio della Cina sulle rotte vitali per molti paesi perché l’enfasi sul suo apparato militare resta come pure la sua ascesa economica. La vocazione imperiale degli Stati Uniti presuppone una selezione severa delle guerre da combattere. L’obiettivo è di acquisire influenza in un’area dove transita il 40% delle merci internazionali per indurre, attraverso l’offerta della sicurezza militare, le potenze minori della regione a non cedere al mix di lusinghe economiche e intimidazioni somministrato da Pechino. L’interessata liberalità cinese, vista in Occidente come neocolonialismo, rischia però di minare questo accordo. Le potenze minori della TPP dovrebbero essere i consumatori che vedranno i prezzi abbassarsi (anche se difficilmente rispetto a quelli cinesi). Il Pivot to Asia, lanciato nel 2011 dall’amministrazione Obama, sembra essere rimasto sulla carta, quantomeno sul piano militare. Meno attenzione al Medio Oriente, più risorse verso il Sud-est asiatico: questo avrebbe dovuto essere il nuovo asse della politica estera americana, con un occhio rivolto alle mosse della Cina. E, invece, secondo una ricerca pubblicata dal Council on Foreign Relations (2016), l’assistenza alla regione in materia di sicurezza è diminuita di 34,5 milioni di dollari, ossia del 19%, dal 2010 al 2015. Tra le dieci nazioni del Sud-est asiatico, solo Laos, Myanmar e Vietnam hanno ricevuto fondi più ingenti negli ultimi cinque anni, e soltanto ad Hanoi, nemesi storica, gli aiuti hanno coinvolto in maniera specifica l’esercito e il suo potenziamento (il sostegno al Laos ha riguardato soprattutto la campagna per lo sminamento, come in Myanmar, dove gli americani hanno finanziato anche le operazioni anti-droga). Rispetto al 2010, l’assistenza militare alla Thailandia è crollata (-79,9%), così come quella a Singapore (-71,4%). Anche Indonesia e Malesia hanno ottenuti molti meno fondi che in passato (rispettivamente, -51,7 e -58,2 per cento). Gli aiuti a Cambogia e Brunei sono rimasti sostanzialmente irrilevanti. Più volte l’amministrazione Obama ha dichiarato la volontà di difendere la sicurezza dei mari e la libertà di navigazione, ma solo nel 2015 gli Stati Uniti hanno avviato un rafforzamento del sostegno al sud-est asiatico in questo campo. 133 71 dell’Estremo Oriente hanno aderito, nel novembre 2012, alla Regional Comprehensive Economic Partenrship (Rcep) l’unione di libero scambio ideata dalla Cina, che esclude gli Stati Uniti. I contrasti degli Stati Uniti con la Cina non riguardano solo la sfera geopolitica, ma anche l’ambito monetario e quello dei diritti umani. Nella battaglia per l’apprezzamento del renminbi, gli Stati Uniti hanno ottenuto risultati innegabili. Essi hanno bisogno che la divisa cinese si mantenga abbastanza debole da garantire ai propri consumatori l’acquisto sul mercato interno di prodotti a basso costo, ma non tanto da impedire alle industire americane di vendere le loro merci in Cina134. Inoltre, la svolta sulla TPP ha rimesso in movimento la TTIP, ovvero i negoziati per il trattato di liberalizzazione degli scambi con l’UE che vede nel mercato statunitense uno sbocco cruciale per l’export, tanto più in questo momento di euro debole. Nessuno può permettersi di rinunciare agli sbocchi che offre il mercato statunitense anche se il suo tasso di crescita è intorno al 2%. Ma questo secondo accordo non avrà un percorso breve, sebbene miri a ridurre le barriere tariffarie e non tariffarie, che frenano lo sviluppo e dietro alle quali si celano interessi corporativi, ambizioni nazionali, differenze culturali e inquietudini sociali. Queste, tuttavia, non saranno facili da accantonare perché le liberalizzazioni portano a cambiamenti profondi in termini di delocalizzazione delle imprese e dell’occupazione. Infatti, contro la TTIP, cresce, soprattutto in Europa, la rivolta dei consumatori che temono l’invasione dei prodotti Ogm e il potere delle multinazionali. I due trattati hanno in comune la prima revisione generale delle regole della globalizzazione stabilite, nel 1999, dal WTO, cui nel 2001, l’anno della Conferenza di Doha, aderì la Cina. Ma nonostante i fallimenti del Doha Round dovuti alla disattenzione alle diseguaglianze nelle varie aree del pianeta, anche questa “globalizzazione 2” è guidata solo dalla ricerca di efficienza e non da motivi di equità. E questa speranza rimane debole finché i paesi ricchi non riconosceranno parità di diritti, a partire da quello della vita ma anche dell’accesso all’acqua, alle medicine e all’alimentazione, da parte degli abitanti dei paesi poveri. Il dialogo presuppone l’incontro di soggettività diverse e rispettate. Il metodo del dialogo presuppone però una parità di strumenti e di opportunità, altrimenti esso maschera un confronto e uno scontro in cui si impone il più forte dando luogo a un colonialismo sotto falso nome (Romagnoli, 2013b). Per questi motivi, i due trattati non vanno valutati solo in base ai benefici economici ad essi associati ma anche in relazione ai vantaggi in termini di giustizia sociale e di sicurezza nazionale. Perciò è importante che la coalizione delle democrazie di mercato e Stati in via di democratizzazione unisca le forze e stabilisca le regole migliori per l’integrazione globale del XXI secolo. Regole che dovranno includere criteri uniformi in materie di scambio ma che dovrebbero tener conto delle diseguaglianze di opportunità e di reddito che segnano le aree del pianeta, la cui disattenzione ha fatto fallire il Doha Round. Ora gli Stati Uniti contano di superare, attraverso i due steps del TTP e del TTIP, sia questo impasse, sia il rafforzamento delle attuali regioni planetarie. Non si può certo negare che gli Stati Uniti siano al centro del sistema finanziario internazionale. Il dollaro è la principale valuta di riserva globale e il mezzo con cui avviene la maggioranza degli scambi commerciali internazionali, nonché la valuta maggiormente usata per la compravendita di petrolio. La diffusione del dollaro e la dimensione dell’economia statunitense conferiscono portata 134 Per questo il Dipartimento del Tesoro ha sempre evitato di additare pubblicamente il regime cinese come manipolatore della valuta, preferendo premere diplomaticamente perché si arrivasse a una rivalutazione della moneta. Le insistenze hanno avuto successo: in due anni, tra il 2010 e il 2012, il valore del renminbi è aumentato del 6,6% e, contestualmente, le importazioni statunitensi verso la Cina sono cresciute del 14,2%. 72 universale alle azioni della Fed. Ma, secondo Baker (2015), anche la Cina pensa solo a se stessa. Pechino può mascherare la sua politica estera con la cooperazione regionale e internazionale, tuttavia è evidente che il fine ultimo del governo cinese è accrescere la propria influenza internazionale e garantire la sicurezza della nazione. Tuttavia si potrebbe auspicare una generalizzazione di questa politica cinese anche da parte dei paesi ricchi, sarebbe un modo per diffondere lo sviluppo dove esso è carente oltre a rivitalizzare la domanda mondiale. Un dato emerge chiaramente dalla analisi di Quiao (2015): il potere di una nazione non deriva solo dalla forza militare, ma anche dalla forza economica. La capacità di controllare il commercio globale, non solo come consumatore o produttore diretto, ma anche tramite l’emissione della valuta globale, fornisce a Washington un’influenza superiore ai mezzi delle proprie forze armate. Quiao ne è perfettamente consapevole quando spiega che se Pechino vuole alterare lo status quo incentrato sugli Stati Uniti dovrà perseguire tale obiettivo puntando sia sulla crescita del Pil, sull’espansione militare e su un accrescimento della propria proiezione economica, sia attraverso le “Vie della seta” che pongono la Cina al centro della rete commerciale globale, sia tramite l’internazionalizzazione del renminbi, che pone il Paese al centro del sistema valutario. Gli Stati Uniti hanno accettato di divenire il volano della crescita dell’Asia senza chiedere in cambio la sua democratizzazione. La crescita da riorganizzazione delle risorse produttive ha esaurito la propria propulsione in Nord America, Europa e Giappone. La mobilità dei fattori produttivi e la rete sono i nuovi motori della crescita. La crescita per invenzioni, quella dei paesi ricchi, richiede imprenditori che possano beneficiare di facile accesso e basso costo del capitale, protezione della proprietà intellettuale, individualismo, certezza del diritto, accettazione della diseguaglianza distributiva, la libertà di fallire in caso di insuccesso. Le imprese dei paesi ricchi vogliono produrre con “qualità europea” e “costi cinesi”, questo spiega la delocalizzazione di parti importanti delle produzioni. Ma la crescita “per invenzioni” potrebbe arrivare alla Cina e agli altri paesi emergenti attraverso le imprese globali. Non è necessario, perciò, che la popolazione cinese sia libera e certa dei propri diritti. La Cina è diventata “opificio” del mondo senza diventare una democrazia, ciò spiega i negoziati per i trattati TPP e TTIP (Arfaras, 2010). La prospettiva di un declino degli Stati Uniti rispetto alla Cina rende ancora più crucilale la questione del debito statunitense detenuto dai cinesi. Se gli Stati Uniti che sono stati “cicale” diventassero “formiche” e il contrario accadesse in Cina, il debito con la Cina verrebbe ripagato nel tempo. Ma questo “vincolo intertemporale” non è molto credibile. Se gli Stati Uniti lo rifiutano, potrebbero far capire ai cinesi che non pagheranno il loro debito ma i cinesi, nel frattempo diventati grande potenza, potrebbero chiedere, come soluzione di primo ottimo, di trasformare i titoli di Stato statunitensi in beni e servizi prodotti negli Stati Uniti. Quella di secondo ottimo sarebbe di mantenere come rendita perpetua il rendimento dei titoli statunitensi. L’alternativa a questa soluzione è la guerra delle valute. Infatti, se i cinesi tentassero la strada di nazionalizzare le imprese estere che si trovano nel loro paese, perderebbero la loro credibilità a livello mondiale e gli Stati Uniti potrebbero consolidare il loro debito con la Cina. L’unica scelta che resta ai cinesi è quella di rallentare l’accumulazione di debito pubblico statunitense fino a cessarla ma, in questo caso, dovrebbero rivalutare il renminbi e gli Stati Uniti sarebbero costretti ad innalzare i rendimenti sui loro titoli. L’Eurozona si troverebbe costretta a lasciar svalutare l’euro e a soddisfare una domanda sempre più trainata dalle esportazioni per poter pagare un onere crescente sul proprio debito. 73 6.6 Il ruolo degli altri BRICS Anche le economie degli altri BRICS sono cresciute in modo sostenuto dalla fine degli anni ’90 al 2014135, esse hanno risentito positivamente della crescita dei paesi avanzati e negativamente delle restrizioni del finanziamento esterno. Un decennio di aumenti dei prezzi delle commodities, che ha portato ad una crescita dei ricavi dell’export a parità di volumi, ha dato notevole impulso alla domanda interna e alla crescita delle importazioni. Lo sviluppo dei mercati finanziari all’interno delle economie emergenti – a partire da quello dei titoli del debito pubblico – faciliterebbe la soluzione di molti dei vincoli finanziari che ancora oggi sussistono all’interno di queste regioni. Ciò ne consoliderebbe la crescita e limiterebbe la creazione di squilibri globali in quanto favorirebbe l’assorbimento interno di gran parte del risparmio netto altrimenti impiegato nell’acquisizione di attività finanziarie estere136. Questa inadeguatezza è stata vista anche come concausa della grande crisi (Caballero, Farhi, Gourinchas, 2008a). Infatti, il basso tasso d’interesse reale negli Stati Uniti è indotto dall’eccesso di domanda per attività finanziarie denominate in dollari da parte delle economie emergenti e il deficit di parte corrente degli Stati Uniti si coniuga al consistente avanzo in conto capitale registrato dalle economie emergenti, tra cui spiccano la Cina e le economie dell’ASEAN. La loro bassa domanda interna si riflette su un aumento di quella di attività in dollari che innalza i corsi dei titoli statunitensi e mantiene bassi i tassi di interesse, facilitando il servizio del debito statunitense. Le condizioni che consentiranno alle monete dei paesi emergenti di diventare internazionali sono legate allo sviluppo dei mercati finanziari, alla stabilità macroeconomica e alla flessibilità del regime di cambio di questi paesi. Frankel (2009) sostiene che il ricorso a più valute di riserva è una soluzione inefficiente come lo è il baratto, ma il mondo sta conoscendo spostamenti epocali delle capacità di produzione e di risparmio che si concentra nei paesi emergenti. La crescita di numero e consistenza dei Swf è la conseguenza di una maggiore capacità da parte delle economie emergenti di produrre risparmio e di attirare capacità produttiva. (Lossani, 2013). Il ventaglio dei tassi di crescita e delle condizioni di stabilità macroeconomica tra i paesi emergenti di spicco si è allargato. Il 2015 ha visto un allargamento delle fessure all’interno dei Brics che nei primi anni della crisi finanziaria iniziata nel 2008 si erano staccati, come un gruppo compatto, con elevati tassi di crescita, valute forti rispetto a quelle dei paesi del nord Atlantico, e richiesta di maggiore voce nelle decisioni di politica economica internazionale. Nel 2015, la crescita economica in alcuni di questi paesi, secondo le stime del FMI, è rimasta superiore alla media dei paesi avanzati (2%). Tuttavia, a un’India fortemente dinamica (+7,3%) e a una Cina che cresce a ritmi più contenuti che in passato, ma comunque elevati (6,8%), si contrappongono il significativo rallentamento del Sudafrica (1,4%), e cali della produzione in Brasile (-3%) e Russia (-3,8%), nonostante l’attuazione di politiche fiscali essenzialmente espansive. Dall’estate del 2014 la valuta brasiliana è calata del 42%, il rublo del 46%, il rand sudafricano del 22%, e dal luglio del 2015 anche il renminbi si è svalutato. Come conseguenza del rafforzamento del dollaro e dell’aumento annunciato dei tassi d'interesse da parte della Fed, il 2015 è stato il primo anno, dai lontani anni ’80, in cui il saldo complessivo dei movimenti di capitale è diventato negativo per i paesi emergenti. Le valute di questi Nel primo decennio di questo secolo, la Cina è cresciuta in media del 10,7 %, (7,7 % l’India, 5% la Turchia, 4,8 % la Russia), contro l’1,1 % dell’Europa. 136 Tuttavia l’arretratezza dei mercati finanziari dei paesi emergenti è ancora evidente. L’indice di Goldsmith, dato dalla somma di depositi, azioni e obbligazioni/Pil, vede un 165% medio nei paesi emergenti rispetto al 250% di quelli avanzati (Lossani, 2013). 135 74 paesi sono scese in modo rilevante parallelamente alla drastica riduzione del proprio surplus: dal +5% sul Pil al pareggio137. Approfittando del QE statunitense, che ha portato i tassi d’interesse vicini allo zero, le imprese private e i governi in particolare dei BRICS e dei pvs hanno preso a prestito grandi quantità di dollari mediante l’emissione di obbligazioni collocate sul mercato americano. Questo movimento è divenuto una valanga nel 2014, quando si è cominciata a prevedere una stretta monetaria da parte della Fed. I debitori, soprattutto quelli asiatici, si sono affrettati a vendere i loro titoli a Wall Street per approfittare dei tassi ancora bassi. Ma non hanno fatto molto caso, né sembra che lo abbiano notato quelli che hanno sottoscritto le loro emissioni, al dollaro in ascesa, che rende più problematica la restituzione dei prestiti e perciò più bassa la quotazione dei loro titoli. Si potrebbe ripetere ancora una volta sia ciò che è accaduto all’inizio degli anni ‘80 ai pvs indebitati per la scelta del modello di import substitution, da cui nacque il dramma del debito estero sia, nella seconda metà degli anni ’90, alle Tigri Asiatiche. A innescare la crisi delle monete dei paesi emergenti sono state le prime avvisaglie del tapering statunitense, ossia della lenta riduzione del piano di immissione di liquidità da parte della Fed nei mercati finanziari138. I tassi prossimi allo zero sul dollaro a breve avevano provocato ondate di “moneta calda” nei paesi emergenti che emettono monete convertibili. Quando le banche centrali di questi paesi intervengono per impedire l’apprezzamento delle loro valute, perdono il controllo della quantità di moneta, generano inflazione e di conseguenza aumentano i prezzi internazionali dei beni primari. Queste bolle scoppiano in caso di problemi interni, come una crisi bancaria, dando luogo a una fuga dei capitali verso i paesi di origine appena le banche chiudono i prestiti agli speculatori sui cambi. Allora i prezzi mondiali delle commodities crollano. Per queste ragioni i tassi di crescita dei BRICS, ad eccezione di India e Cina, stanno scendendo agli ultimi posti dell’economia mondiale. Di conseguenza si allontanano le loro ambizioni di poter rendersi autonomi dal dollaro e dall’instabilità ad esso associata, oltre che di poter avere maggior peso nelle decisioni del FMI e della BM, e di condizionare così il ridisegno del s.m.i.. Tuttavia questi paesi hanno compreso e apprezzato il modello di integrazione monetaria regionale realizzato dall’euro e su questa strada dovrebbero muoversi gradualmente man mano che si realizzazno le condizioni per far nascere una moneta comune (Romagnoli, 2013). Negli anni scorsi, la domanda aggiuntiva di materie prime energetiche dei paesi emergenti asiatici si è confrontata con un’offerta limitata e il prezzo del petrolio ha iniziato una lunga fase ascendente, dalla fine degli anni ’90 a metà del 2014, per poi scendere verticalmente a causa della politica dumping saudita in connessione con alcuni eventi geopolitici, come il processo di eliminazione delle sanzioni iraniane, l’imposizione di sanzioni alla Federazione Russa e l’aumento della estrazione da fracking statunitense. L’ascesa del dollaro è stata rapida e accompagnata dal crollo del prezzo del 137 Tra i BRICS solo la Cina è rimasta in surplus. Gli altri paesi mostrano una dipendenza sempre maggiore dagli investitori stranieri per sostenere la propria economia e, per renderla competitiva, svalutano la propria moneta in modo da favorire la redditività degli investitori stranieri. 138 Se la politica monetaria statunitense diventa restrittiva introduce elementi di crisi nei paesi cosiddetti "fragile five": Sudafrica, India, Indonesia, Turchia e Brasile. 75 petrolio, sotto i 40 dollari al barile, promosso dall’Arabia Saudita nel 2014139. Ciò giova ai grandi consumatori India ed Europa, colpendo duramente i paesi che di petrolio vivono, in particolare la Russia, ma anche il Venezuela140, l’Iran e i produttori di shale oil statunitensi141. I protagonisti sono sempre gli stessi, a partire dalla Russia, che ha già visto il crollo della moneta per il rimpatrio accelerato dei prestiti che aveva ricevuto dai mercati internazionali. Le enormi quantità di riserve accumulate negli anni recenti, quando il petrolio continuava a salire, ammorbidiscono la caduta evitando effetti più traumatici. Ma anche le riserve più ampie si esauriscono e la velocità della loro riduzione è seguita con interesse dalla speculazione internazionale, favorendo strategie pericolose. L’effetto più vistoso del crollo dei prezzi delle materie prime si è avvertito in Sud-Africa, la più forte delle economie del continente. Sia i mercati finanziari che quelli dei beni hanno subito un forte contraccolpo. La crisi ha finito per ripercuotersi sui consumi interni e la svalutazione della moneta ha prodotto in Sud-Africa, come negli altri paesi legati alla Cina, effetti negativi sul potere di acquisto dei salari. La Cina con le sue profferte di scambi commerciali, di infrastrutture da realizzare, di aiuti in campo sanitario e scolastico ha compiuto un’invasione silenziosa, senza eccessi o inutili clamori. Dopo che l’Europa ha liberato i territori africani conquistati secoli prima, Pechino ha occupato gli spazi lasciati vuoti realizzando opere pratiche e razionali. Nell’ultimo decennio del secolo scorso, l’Africa intera è stata punteggiata da decine di migliaia di cantieri cinesi che hanno costruito strade, ponti, case, ospedali, scuole, fabbriche. La Cina aveva bisogno di materie prime e per questo si era rivolta a quei paesi il cui sottosuolo era ricco di rame, ferro, alluminio, carbone, coltan 142, bauxite, zinco, piombo. Tra il desiderio di riscatto e il nuovo orgoglio nazionalista che infiammava l’Africa, la Cina ha saputo cogliere il giusto equilibrio e si è imposto come il Grande Paese che manteneva le promesse. Un partner affidabile che non offriva denaro, come avevano fatto molti altri paesi per decenni. La corruzione era troppo diffusa perciò la Cina ha scelto di offrire ciò che mancava in cambio di generosi contratti a lungo termine per le estrazioni dei minerali. Questo meccanismo ha funzionato per anni e ha portato lo sviluppo sul territorio, al contrario della politica dell’Occidente, che insiste molto sui diritti umani universali e poi lascia che la globalizzazione esasperi gli squilibri distributivi che sono aumentati tra paesi e all’interno di essi. Ora però che la Cina è stata avvolta dalla sua bolla produttiva e finanziaria si è creato un effetto domino sulle economie dei paesi emergenti e dei paesi africani ad essa legati. Giovandosi del fatto che i suoi costi di estrazione sono i più bassi del mondo, l’Arabia Saudita, che non vuole perdere quote di mercato, ha aumentato la sua offerta, nonostante la stagnazione della domanda di greggio, facendo cadere i prezzi del petrolio e mettendo in difficoltà i paesi che hanno il petrolio come principale componente delle esportazioni. La resistenza saudita al contenimento dell’offerta, all’interno dell’Opec potrebbe innescare una crisi mondiale delle relazioni internazionali il cui corollario sarebbe un aumento consistente dei prezzi del petrolio. 140 Il rublo scende più o meno nella stessa misura in cui scende il petrolio. Lo stesso vale per il disastrato Venezuela. La rupia indiana dovrebbe invece avvantaggiarsi del declino del prezzo del petrolio, ma la sua crescita risente del rialzo del dollaro. 141 La produzione è scesa a 8,8 milioni di barili al giorno dopo aver sfiorato i 9,7 nell’aprile 2015. Il numero degli impianti di perforazione attivi è crollato dal picco di 1600 a meno di 400. Questo aspetto è acuito dal fallimento di molte società dello shale oil anche se queste ultime rappresentano per lo più imprese marginali. La diminuzione dei prezzi del petrolio ha portato invece a una rapida evoluzione della tecnologia di estrazione e alla conseguente caduta dei costi di produzione fino al 40%. Tuttavia, se il processo non si inverte, anche l’esplosione della bolla degli idrocarburi da scisti potrebbe provocare una nuova recessione. Ma recentemente la domanda di greggio è cresciuta trainata soprattutto da India e Cina e ciò ha provocato un’inversione dei prezzi del barile. 142 Si tratta della sabbia nera del Congo usata in metallurgia per elevare la temperatura di fusione e difendere la lega metallica dalla corrosione. 139 76 In Brasile, l’aumento dei tassi d’interesse interni che avevano già raggiunto l’11,75% a dicembre 2014, ha dato seguito agli esiti previsti dal modello di crisi finanziaria di Obstfeld e, a settembre 2015, Standard & Poor’s ha declassato i titoli del debito pubblico brasiliano a livello junk, spazzatura. Il real è crollato ulteriormente dopo mesi che perdeva quota143. Questo fenomeno che può estendersi anche agli altri paesi emergenti, spiega l’allarme della BM e del FMI sugli effetti del possibile rialzo dei tassi d’interesse da parte della Fed. Infatti, a prolungare il ciclo dei boom delle economie emergenti era stato il QE statunitense, insieme alla crescita cinese. Una parte di quella moneta era andata ad alimentare la crescita dell’economia reale statunitense, ma parte di quella liquidità si era diretta fuori degli Stati Uniti e i paesi emergenti erano una destinazione interessante perché offrivano buoni rendimenti al contrario di quelli interni sui titoli. Una parte dei capitali fuoriuscita dagli Stati Uniti aveva finanziato progetti industriali ma una grossa parte era andata a gonfiare bolle speculative. Il Brasile era stato una delle mete preferite di quei capitali. Il rialzo dei tassi d’interesse statunitensi interromperà il meccanismo e farà scoppiare le bolle. Per questo i capitali hanno iniziato a ritirarsi. La tempesta brasiliana cancella certezze sulla prima potenza dell’America Latina colpita da un declino politico, etico ed economico sempre più ingovernabile. Il Pil del Brasile del 2015 chiude in forte recessione (-3,2%), con la disoccupazione in aumento (9%), la moneta svalutata (-35% in un anno). Tutto è iniziato con la diminuzione dei prezzi delle materie prime (ferro, petrolio, soia) associata alla contrazione della domanda cinese, ma la situazione si è aggravata con gli scandali di corruzione – Petrobras su tutti. Così il Brasile è passato dalla formidabile crescita dell’inizio del nuovo secolo, che lo aveva sospinto tra le prime 7 economie mondiali, alla grave crisi attuale. Le maggiori agenzie di rating si preparano a sanzionare ancora il Brasile togliendo punti al suo debito, come hanno già fatto nel corso del 2015. Se si è dubitato a lungo che la Cina fosse matura per esprimere una moneta di riserva, questa ambizione non esiste per il rublo. L’economia russa è monodimensionale, centrata sull’estrazione di materie prime, e ciò la rende succube delle fluttuazioni valutarie connesse all’andamento delle commodities, come mostra il recente crollo del greggio nell’ambito della guerra dei prezzi condotta dall’Arabia Saudita144. A ciò si aggiungono due ulteriori fattori negativi: uno congiunturale, le sanzioni occidentali, e uno strutturale, il regresso demografico. Ne risulta che Mosca, almeno sul fronte valutario, non è un concorrente credibile. Ciò tuttavia non toglie influenza alla dirigenza russa che mantiene la possibilità di far ricorso alla perdurante eccellenza relativa della sua industria bellica. Dal settembre 2014, il rublo è stato colpito da due battute di arresto contemporanee, le sanzioni dell’Occidente e la caduta del prezzo del petrolio, da oltre 100 a 40 dollari a barile. In precedenza, c’era stata un’altra caduta repentina del prezzo dei carburanti iniziata in concomitanza del fallimento di Lehman Brothers e durata fino all’inizio della ripresa statunitense alla fine del 2009. I momenti di 143 Il real è la valuta ufficiale del Brasile dal 1º luglio 1994. Esso è stato introdotto nel 1994 nell'ambito del "Plano Real", un consistente pacchetto di riforma monetaria finalizzato a porre fine a tre decenni di inflazione galoppante. Al momento fu concepito per avere un tasso di cambio che fosse circa alla pari con il dollaro statunitense. Ha subito un'improvvisa svalutazione fino a raggiungere un cambio di 2:1 nel 1999, ha quasi raggiunto il livello di 4:1 nel 2002, per poi recuperare parzialmente e stabilizzarsi, intorno a quel valore, a partire dal 2006. Nel maggio 2008, per la prima volta dal 1999, il cambio del real superò il valore di 1,50: 1— nonostante la banca centrale, preoccupata degli effetti sull'economia brasiliana, avesse provato a mantenerlo al di sotto di tale soglia simbolica. 144 Ciò che rende diversi molti paesi islamici da Stati che pure, coma la Russia, l’Iran, il Venezuela, basano le loro economie sulla rendita petrolifera, è la struttura politica e demografica. Si tratta sostanzialmente di monarchie senza società. 77 queste forti oscillazioni, hanno fatto pensare che esse non siano state casuali e magari dominate dall’Arabia Saudita, il maggiore e più economico produttore del mondo. Oltre alla guerra, le sanzioni internazionali e il crollo del prezzo del petrolio, in Russia, le aziende e le banche si trovano oggi ad affrontare un ulteriore problema, il crollo del rublo, ma la situazione delle partite correnti russa è decisamente migliore di quella di paesi come il Sudafrica o il Brasile. Di fronte alle sanzioni imposte dopo l’annessione della Crimea e i disordini dell’Est Ucraina, il presidente Putin si è rivolto alla Cina per fare un importante accordo sul gas (stipulato alle condizioni di Pechino) che vale a Mosca da assicurazione contro le misure occidentali. L’economia cinese, tutt’ora in forte crescita, ha consentito ai due paesi di aggirare gli sforzi europei e statunitensi volti a far retrocedere la posizione internazionale di Putin. Ma l’accordo sul gas va molto al di là degli idrocarburi. Potenzialmente, esso può infatti dar vita a un fronte contro gli Stati Uniti145. La Cina, più che a una strategia di sovvertimento del primato occidentale, si è limitata a cogliere un’opportunità preziosa sia per accrescere il suo peso internazionale sia per risolvere il problema derivante dalla sua scarsità di idrocarburi. La crisi ucraina ha comportato una svolta importante nelle relazioni sino-russe. E la Cina necessitava di un miglioramento qualitativo del rapporto con la Russia la quale rimane un attore geopolitico ed economico di peso. I cinesi hanno promesso a Mosca, che ha annesso la Crimea, pieno sostegno economico e morale, magari auspicando di replicare con Taiwan. I cinesi non vogliono la sconfitta russa che rafforzerebbe gli Stati Uniti, ma cercano anche di evitare lo scontro economicostrategico a tutto campo tra Mosca e Washington perché preoccupati che i russi possano vendere in massa gli asset statunitensi per destabilizzarne l’economia. Pechino si aspetta che il conflitto con l’Europa e gli Stati Uniti accentui la svolta asiatica della Russia, ovviamente a condizioni vantaggiose. Cina e Russia sono così sempre più vicine e uniscono le loro forze per neutralizzare le sanzioni economiche e i boicottaggi politici da parte dell’Occidente. Il confine tra autoritarismo e democrazia non divide più solo i governi, ma anche la comunità globale degli affari. Dopo l’accordo record del gas, Xi Jinping e Putin allargano la cooperazione dall’energia alla produzione, creando un mercato nuovo e quasi protetto con l’obiettivo di rallentare la frenata delle loro economie. Per questo hanno concordato il lancio di 14 nuove aree di sviluppo economico comune con attenzione all’estremo oriente siberiano e alle zone di confine. L’India, nonostante i problemi infrastrutturali e quelli sociali legati alle caste, ha superato, dopo oltre trenta anni, la Cina nella velocità della crescita ed è diventata la potenza economica con la crescita più rapida del mondo. Tuttavia, l’economia cinese ha una dimensione quattro volte maggiore di quella indiana e, anche con una crescita inferiore, si espande di più. Il “sorpasso” indiano nella crescita, che segna un cambiamento nello scacchiere internazionale, viene salutato come un successo di Pechino che trova in esso la sua locomotiva. Questo disegno preoccupa l’Occidente che vede, nella Cina e nella Russia, potenze ostili guidate da logiche espansioniste. Per questa ragione, l’India, un alleato storico di Mosca, anche se appartenente ai “paesi non allineati”, è considerato l’unico baluardo democratico in Asia, anche per il suo dinamismo demografico che, secondo Thomas Piketty (nei suoi studi sul capitalismo del 2014), e secondo Larry Summers (nelle sue ricerche sulle stagnazioni secolari del 2014), è il presupposto del suo dinamismo economico. Un altro aspetto che favorisce l’India è dato dalla politica protezionistica della Cina che sta colpendo alcune multinazionali occidentali che producono in Cina, come la General Motors. Tuttavia l’India è per ora in fondo alla 145 Si tratta della prima vera sfida geostrategica congiunta della Federazione Russa e della Cina agli Stati Uniti in più di una generazione e, forse, la chiusura del trattato TTP si è giovato di questa opportunità colta dalla Cina per uscire dalla sua condizione insulare, togliendo peraltro i dubbi restanti ai diversi paesi dell’ASEAN. 78 classifica dei paesi “accoglienti” per gli investimenti esteri (149.ma su 189 paesi della BM). Ma l’India ha altri punti di forza perfino nelle sue debolezze. La sua economia orientata soprattutto a soddisfare i consumi interni e la sua relativa chiusura all’esterno le hanno dato una particolare resilienza agli shocks esterni della congiuntura internazionale e, in particolare, alla crisi del 20072009. PARTE III 7. Bretton Woods 2 e i suoi rischi 7.1 Le tesi dell’insostenibilità dell’attuale s.m.i. Bretton Woods 2 è un’espressione informale per indicare il sistema di relazioni valutarie che si è sviluppato a partire dalla fine del secolo scorso. Il concetto della "ripresa del sistema Bretton Woods" è stato introdotto nel 2003 da un articolo di Dooley, Folkerts-Landau e Garber (2003), nel quale viene descritto il progressivo riaffermarsi di questo meccanismo dopo la fine della guerra fredda. In questo percorso, esso diventa determinante grazie alla scelta di paesi, principalmente in Asia, che hanno scelto di applicare la stessa strategia periferica di Europa e Giappone nel secondo dopoguerra146, svalutando la propria moneta, gestendo una discreta quantità di interventi nell'ambito del commercio estero, imponendo controlli, accumulando riserve e incoraggiando una crescita trainata dalle esportazioni grazie alla vendita di beni ai paesi avanzati. Le preoccupazioni espresse una decina di anni fa da Eichengreen (2004) sul s.m.i. chiamato Bretton Woods 2 erano le seguenti: 1. i paesi dell’Asia orientale hanno un livello di coesione minore di quelli europei e giapponese; 2. dall’inizio di questo secolo, sui mercati finanziari ci sono assets denominati in euro che sono in competizione con quelle denominate in dollari; 3. i deficit correnti degli Stati Uniti sono, in proporzione, molto maggiori di quelli della fine degli anni ’60 del secolo scorso; 4. la liberalizzazione completa dei mercati dei capitali rende molto diffficile il controllo degli aggiustamenti effettuati dai privati; 5. la deregolazione dei mercati finanziari fa sì che la crescita della liquidità possa dar luogo a inflazione e formazione di bolle; 6. le economie dell’Asia si accingono a cambiare i loro modelli di sviluppo sostituendo la domanda di esportazioni con quella di consumi interni. Nel 2005, Roubini e Setser avevano argomentato che tale sistema era insostenibile147: 146 Nel sistema classico di Bretton Woods, gli Stati Uniti finanziavano il proprio deficit della bilancia dei pagamenti attirando risorse dalla periferia del sistema, che negli anni Sessanta era rappresentata principalmente dai paesi europei, Germania Ovest in primis e Giappone, i quali presentavano un cronico surplus della bilancia dei pagamenti e con i quali gli Stati Uniti mantenevano un cambio fisso a una parità prestabilita. 147 Roubini (2006) affermava, inoltre, che c'era una seria possibilità che il sistema di Bretton Woods 2 sarebbe potuto crollare entro il 2008. 79 “Se gli Stati Uniti non prenderanno iniziative per ridurre il loro bisogno di finanziamenti esterni, prima che questo processo esaurisca la disponibilità delle banche centrali a continuare ad accumulare riserve in dollari – e se il resto del mondo non prenderà provvedimenti per sostenere la propria crescita riducendo la sua dipendenza da un'espansione insostenibile della domanda interna statunitense – il rischio di un collasso degli Stati Uniti e dell'economia globale continuerà a crescere. Gli aspetti fondamentali di questa caduta sono facili da immaginare: una rapida discesa del valore del dollaro statunitense, un rapido aumento dei tassi di interesse a lungo termine e un forte calo del prezzo di un ventaglio di asset di rischio tra i quali il settore azionario e quello immobiliare. L'assestamento dei prezzi di tali asset porterebbe poi a un significativo rallentamento negli Stati Uniti, mentre la caduta delle importazioni negli Stati Uniti, correlata al rallentamento americano assieme alla caduta del dollaro, porterebbero a un significativo rallentamento globale, se non addirittura a un'immediata recessione”. Il s.m.i. attuale replica quello di Bretton Woods e il dollaro mantiene la sua posizione dominante come valuta di riserva. Gli Stati Uniti esportano liquidità denominata in dollari attraverso i loro deficit correnti e la periferia del mondo (soprattutto i paesi dell’Asia orientale) accumula ingenti quantità di riserve. Siccome il mercato finanziario statunitense è quello più liquido, integrato, diversificato ed esteso, i paesi periferici non trovano di meglio che reinvestire i loro dollari in attività statunitensi. Pertanto i deficit correnti statunitensi sono compensati da surplus del conto finanziario e gli Stati Uniti, che dagli anni ‘80 sono diventati il maggiore debitore del mondo, non sentono il bisogno di riequilibrare la loro economia. Tuttavia ciò spinge il valore del dollaro a deprezzarsi, nel lungo periodo, rispetto alle valute forti ma, in questo caso, il suo derioramento fisiologico comporterebbe perdite consistenti per i paesi che li detengono. Pertanto la stabilità e la sostenibilità dell’attuale s.m.i. dipende dalla volontà dei paesi della periferia di continuare ad acquistare dollari per impedirne il deprezzamento. Essi mantengono così la loro competitività, essenziale per i loro modelli export-led propri di una strategia neo mercantilista, ma accrescono il loro rischio associato a un possibile crollo del dollaro. Se questi paesi smettono di acquistare dollari o addirittura vendono quelli in loro possesso, il s.m.i. Bretton Woods 2 può crollare inducendo un forte apprezzamento delle loro valute, un deprezzamento altrettanto forte del dollaro, un aumento dei tassi a lunga e una crisi nell’economia statunitense. La minaccia di sicurezza sui titoli pubblici statunitensi poteva indurre a diversificare i dollari in euro dando luogo a una crisi economica negli Stati Uniti. Ma l’attuale s.m.i. non ha mai avuto due gambe equipollenti e il dollaro è tuttora la moneta dominante. Per motivi diversi, l’euro non ha una forza assimilabile a quella del dollaro. Greenwald e Stiglitz (2010) hanno segnalato che gli squilibri globali non sono l’unico difetto dell’attuale s.m.i., ad esso se ne aggiungono altri: il fatto che i risparmi rilevanti effettuati dai mercati emergenti e dai pvs tendono a indebolire la domanda mondiale, l’inefficienza e l’iniquità associate al fatto che paesi poveri prestano fondi ai paesi ricchi a bassi tassi d’interesse e prendono a prestito a tassi più alti, la volatilità dei tassi di cambio, dei tassi d’interesse e dei movimenti di capitali. A questi aspetti si deve aggiunge ancora l’asimmetria degli aggiustamenti della bilancia dei pagamenti che vede i paesi in deficit farsi carico di questa responsabilità. Ciò non vale invece per gli Stati Uniti, a causa del loro privilegio esorbitante. Vi sono due riforme principali possibili dell’attuale s.m.i.: la prima è quella di creare una valuta sovranazionale, magari attraverso l’uso dei DSP, che diverrebbero la moneta di riserva; l’altra è data da una moneta multivaluta basata su dollaro euro e renminbi. Ma Greenwald e Stiglitz temono che nemmeno questa seconda riforma possa dar luogo a una soluzione 80 stabile anche se, in questo caso, il Dilemma di Triffin sarebbe condiviso da tre valute forti (OteroIglesias, 2012). Per venti anni, le autorità cinesi hanno mantenuto quasi fisso il cambio del renminbi con il dollaro148. Ma il sistema Bretton Woods 2 si è rivelato molto instabile. Anche se lo scenario di una fuga precipitosa dal dollaro sembra piuttosto remoto, la portata degli eventuali aggiustamenti conseguenti suggerirebbe di adottare una strategia efficace in grado, quanto meno, di garantire un graduale riassorbimento degli squilibri nei conti con l'estero attuali. Per questo motivo, la proposta di creare una moneta sovranazionale, sull'idea del bancor keynesiano, sta riscuotendo consensi tra gli economisti. Essa rappresenta infatti una soluzione possibile per evitare, in futuro, squilibri troppo elevati nei conti con l'estero di un paese anche se questo è il leader del sistema (Alessandrini, Fratianni, 2009a). Il s.m.i. attuale si basa, inoltre, su cambi flessibili tra gli Stati Uniti ed i paesi che corrispondono a quelli della vecchia periferia, i quali di fatto non partecipano al finanziamento esterno degli Stati Uniti. Al contrario i paesi asiatici, che li hanno sostituiti, e che costituiscono la “nuova periferia”, hanno deciso di adottare un tasso di cambio fisso con il dollaro in alcuni casi de iure come la Cina, in altri de facto come nel caso del Giappone149, riproponendo sostanzialmente il medesimo schema di funzionamento del vecchio sistema di Bretton Woods. Gli Stati Uniti, in deficit nei confronti del mondo, sono rimasti il centro del sistema e i paesi asiatici hanno svolto il ruolo di finanziatori di questo deficit150. Le politiche di cambio fisso dei paesi asiatici hanno permesso dunque agli Stati Uniti di avere un vincolo esterno morbido. Ed è questo che verrebbe meno con l’eventuale abbandono del peg da parte della Cina. Inoltre, il fatto che il dollaro sia ancora la principale valuta di riferimento internazionale ha fatto sì che i paesi asiatici, almeno fino al 2009, si siano dimostrati desiderosi di accumulare ingenti quantità di dollari nelle proprie banche centrali. Gli Stati Uniti importano più di quanto esportano e quindi hanno disavanzi correnti con l’estero. Se i cambi fossero flessibili, il dollaro cadrebbe fino a far diventare le esportazioni statunitensi competitive rispetto a quelle asiatiche. A quel punto il disavanzo si ridurrebbe, fino a scomparire. Invece i paesi industriali asiatici hanno cerato finora di tenere il loro cambio fisso con il dollaro e le loro banche centrali hanno acquistato attività finanziarie in dollari per evitare che si deprezzasse. Lo hanno fatto per far crescere il loro settore esportatore che ha modernizzato le loro economie. Gli Stati Uniti hanno quindi una quota crescente delle proprie attività finanziarie che sono proprietà di soggetti esteri in prevalenza autocratici. 148 Il 1995 è l'anno in cui le autorità monetarie cinesi hanno svalutato il renminbi e deciso di legarlo al dollaro, al tasso di 1 dollaro per 8,62 renminbi, dando il via al sistema monetario noto come Bretton Woods 2 che ha spostato l’attenzione mondiale dall’Atlantico al Pacifico a causa della crescita eccezionale dell’economia cinese. Ma, negli ultimi 10 anni, il renminbi si è rivalutato di oltre il 30%, come mostra la figura 8 a p.61. 149 Il Giappone faceva parte anche dei paesi finanziatori degli Stati Uniti nel vecchio sistema di Bretton Woods e può essere considerato dunque “vecchia periferia”. Secondo le stime della BIS (2015), la Cina avrebbe avuto in dollari l’80% del totale dei crediti in valuta ottenuti, pari a circa 682 miliardi di dollari a fine giugno 2014. Ma tale fenomeno ha riguardato anche altri grandi economie emergenti, come Brasile e India, seguite da Messico, Corea del Sud, Filippine, Perù e Cambogia. Alla stessa data, i crediti denominati in dollari degli enti finanziari non bancari fuori dagli Stati Uniti hanno raggiunto il 13% del Pil mondiale, ben oltre i crediti denominati in euro e quelli denominati in yen. 150 81 Venti anni fa, le Tigri asiatiche avevano accumulato un debito estero crescente in dollari. Quando il rendimento atteso sugli investimenti finanziari e reali di questi paesi fu giudicato inferiore al costo del debito, i capitali furono ritirati improvvisamente e le loro monete crollarono. Ma erano troppo piccoli per mettere in crisi l’economia mondiale. Invece, una crisi degli Stati Uniti metterebbe in crisi il mondo intero. In conclusione, senza il sistema di garanzie sino-statunitensi (impianti contro obbligazioni) la tumultuosa crescita cinese non ci sarebbe stata. Le garanzie hanno ruotato intorno alla potenza politica e militare statunitense che è quindi diventata un “bene quasi pubblico”, il garante della proprietà di tutti i paesi che hanno investito in Cina. In altre parole, i cinesi ha fatto quello che sanno far meglio: produrre beni, gli americani hanno prodotto beni finanziari complessi governando il mondo della finanza. Questo sistema che dura da decenni, oggi si scontra con il proprio limite. I cinesi hanno troppe attività statunitensi. Gli americani hanno venduto troppe attività finanziarie. Emerge dunque la vera differenza tra il sistema Bretton Wods II e tutti i sistemi monetari che l’hanno preceduto: là dove i sistemi monetari in passato, sia il gold standard che il gold-exchange standard, erano stati concepiti per preservare la stabilità delle valute e dei prezzi e favorire dunque il più possibile i commerci internazionali. Oggi, al contrario, ve ne è uno, adottato unilateralmente senza alcun accordo di tipo internazionale a ratificarne la validità, basato su una politica di cambio quasi fisso renminbi/dollaro studiata per avvantaggiare sensibilmente le esportazioni cinesi e, in generale, del Sud Est asiatico. Il sistema in questione, che pure ha servito egregiamente le finalità di molti paesi emergenti, i quali hanno conosciuto uno sviluppo senza precedenti, ha però posto seri interrogativi sul futuro del s.m.i.: dalle potenziali perdite dei paesi detentori di riserve in dollari, connessi ad una loro svalutazione per riequilibrare i conti statunitensi con l'estero, all'incontrollato aumento della liquidità internazionale. Gli economisti si chiedono se il sistema di Bretton Woods 2 possa durare oppure se esso sia destinato prima o poi a crollare come tutti i sistemi a cambi fissi che si sono succeduti dal gold standard a Bretton Woods 2. Alcuni studiosi ritengono (Bernanke, 2005) che l'attuale deficit di conto corrente americano sia una risposta endogena del sistema ad un aumento esogeno del tasso di risparmio delle nuove economie emergenti non adeguatamente compensato da un equivalente aumento della spesa interna, sia pubblica che privata. È il cosiddetto problema del saving glut. Secondo questo filone di pensiero, gli Stati Uniti, con il loro mercato finanziario liquido e sviluppato, hanno offerto finora un naturale canale di sbocco per i capitali provenienti dai paesi emergenti e dai pvs, i quali solitamente non hanno mercati finanziari adeguati per collocare una tale massa di investimenti. Sulla strumentalità di questa tesi c’è molto da dire. Questo scenario ricorda molto da vicino la politica di benign neglect che ha portato alla fine del sistema di Bretton Woods. Nella rivisitazione moderna, gli Stati Uniti non si curano affatto dei propri conti con l'estero, contando sul fatto che questo comportamento è stato finora ben gradito dai paesi asiatici i quali hanno continuato a perseguire una politica di cambio fisso con il dollaro e accumulare riserve in dollari con le quali auto-assicurarsi contro fughe di capitali impreviste e finanziare il deficit di partite correnti staunitense. Per entrare più nello specifico, anche il ruolo degli Stati Uniti è cambiato rispetto a quello avuto nel sistema di Bretton Woods. Da “banchiere del mondo” (Despres, Kindleberger e Salant 1966), il quale semplicemente si indebitava a breve sull'estero a tassi d'interesse bassi e poi reinvestiva a lunga scadenza con tassi più elevati, essi sono diventati il venture capitalist del mondo. Si indebitano sempre a breve nei confronti del mondo ma poi finanziano gli investimenti esteri diretti (IDE) nelle nuove economie emergenti proprio come una normale banca d'affari. Analizzando la bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti, si può vedere 82 come il flusso di IDE in uscita dagli Stati Uniti, in questi anni, non sia mai diminuito nonostante il persistente deficit di conto corrente suggerisce che questi capitali avrebbero dovuto essere impiegati dagli Stati Uniti per finanziarie la propria domanda interna di capitali. Dalla fine degli anni ’90 al tapering del 2014, Bretton Woods 2, ha permesso ai paesi emergenti di svilupparsi senza precedenti e agli Stati Uniti sia di poter ammorbidire il proprio vincolo di bilancio esterno, sia di finanziare una parte consistente della propria crescita tramite il ricorso al debito contratto da parte delle famiglie, delle imprese e dell'amministrazione pubblica. Ammettendo che la situazione non sia ovviamente prorogabile all'infinito, i sostenitori della tesi secondo la quale il deficit di conto corrente statunitense è una risposta endogena ad uno shock esogeno si attendono che tali squilibri si riaggiusteranno automaticamente e senza traumi negli anni a venire. Tali esponenti, che potremmo definire “gli ottimisti”, in virtù delle loro posizioni concilianti verso tale scenario, prevedono dunque che ad un certo punto, in Cina, l'inevitabile aumento dei salari porterà ad un incremento dei prezzi dei beni prodotti. Questo fatto, coniugato con le possibile pressioni inflattive dovute alla grandi quantità di circolante immessa sul mercato in questi anni, farà sì che le merci cinesi diventeranno meno competitive sui mercati internazionali riducendo lentamente la posizione di surplus nei confronti dell'estero. Gli Stati Uniti diminuiranno le importazioni dalla Cina mentre la Cina aumenterà i propri consumi interni. Questi due fatti, uniti, potrebbero riequilibrare i conti con l'estero di entrambi i paesi senza dover passare per aggiustamenti repentini dei conti con l'estero o dei tassi di cambio. Se invece, gli Stati Uniti sostituiranno le importazioni cinesi con quelle di altri paesi emergenti più competitivi della Cina, saranno questi ultimi a finanziare i consumi delle famiglie americane, gli investimenti delle imprese e la spesa pubblica, lasciando irrisolti i problemi collegati ai twin deficit statunitensi. Tuttavia, secondo i pessimisti, una parte del mondo si sta però preoccupando che questo scenario non solo non sia sostenibile nel lungo periodo ma che esso possa portare ad un aggiustamento repentino in seguito al verificarsi di uno shock esterno imprevisto. Come si è detto, Roubini e Setser (2004 e 2005), Obstfeld e Rogoff (2006), Alessandrini e Fratianni (2008), in una serie di articoli influenti, hanno messo in guardia sui vari fattori di rischio insiti nel sistema di Bretton Woods 2, che pongono una spada di Damocle sulla tenuta dell'intera struttura. Per quanto essi stessi ammettano che il sistema vigente abbia garantito indubbiamente un certo grado di benessere a tutti i partecipanti coinvolti, essi sottolineano che i rischi e le fragilità che stanno emergendo dovrebbero destare una preoccupazione decisamente maggiore, quanto meno tale da giustificare un intervento regolatore. Paradossalmente, il paese che si sta assumendo i rischi maggiori, pur essendo quello che ha tratto maggior beneficio dalla politica di cambio fisso, è la Cina. I principali problemi che le autorità cinesi si troveranno ad affrontare nel prossimo futuro sono due: l'aumento dell'inflazione dovuto all'aumento della base monetaria in circolazione e le perdite in conto capitale che il paese potrebbe subire sulle sue riserve in dollari nel caso di un loro pesante deprezzamento. Il primo problema è strettamente legato alla politica di cambio fisso attuata dalle autorità monetarie di Pechino. Per mantenere il tasso di cambio prefissato, la BPC deve essere pronta ad acquistare con operazioni di mercato aperto tutti i dollari in eccesso sul mercato per prevenirne il deprezzamento nei confronti del renminbi151. Per far ciò, però, Per questo motivo, lo scarto della Svizzera, che ha abbandonato il peg con l’euro, diviene un esempio pericoloso, anche se in questo momento l’euro si sta indebolendo mentre il dollaro si sta rafforzando. Laddove il peg risultasse eccessivamente vincolante (o inelegante a vedersi) altri paesi hanno deciso di adottare un currency floor al di sotto del quale non intendono far scendere il loro tasso di cambio, prevenendo così l’eccessiva rivalutazione della propria valuta. 151 83 l'istituto centrale cinese deve continuare ad immettere valuta locale sul mercato aumentando così la base monetaria e, secondo la teoria quantitativa della moneta, le aspettative di inflazione futura. Per contrastare questa creazione incontrollata di base monetaria, le autorità centrali hanno applicato, da una parte, delle strategie indirette in modo da non penalizzare il boom economico, dall’altra, esse hanno provveduto ad attuare operazioni di sterilizzazione della base monetaria interna, vendendo titoli cinesi sul mercato e ritirando valuta nazionale. Questa operazione non riesce però a controbilanciare totalmente la quantità di renminbi immessa in circolazione. Roubini e Setser (2005) hanno calcolato che solamente il 50% dell'incremento di base monetaria dovuta alle politiche di tasso di cambio fisso è stata poi sterilizzata dalla BPC. Contemporaneamente, per prevenire questa espansione monetaria, la BPC ha agito anche sul moltiplicatore monetario, sia con incrementi dei tassi di sconto della banca centrale152 e del coefficiente di riserva obbligatoria, sia con misure quantitative, come il massimale sugli impieghi e sul credito che le banche possono concedere a propri clienti. Il fine è stato quello di limitare l'immissione di credito nel sistema e controlli capillari sui capitali, soprattutto in entrata. Questa politica monetaria è stata però invertita recentemente per frenare il crollo delle Borse cinesi. Tuttavia, come si è osservato, il vero punto debole del sistema, che lo può rendere potenzialmente instabile sotto molti punti di vista, è che la politica di cambio fisso ha permesso alla Cina di accumulare sino ad ora ingenti riserve in dollari e ciò espone la Cina ad ingenti perdite in conto capitale legate ad un possibile deprezzamento del dollaro. La Cina e l'estremo oriente non sono certo i soli paesi che finanziano il deficit estero americano. A questi paesi si devono infatti aggiungere i paesi esportatori di petrolio, in particolar modo l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi, dopo il disimpegno russo. La loro quota di finanziamento, sebbene non raggiunga i livelli dei paesi asiatici, è tutt'altro che marginale. Roubini e Setser (2005) hanno affermato che il via ad una eventuale fuga dal dollaro potrà arrivare più da questi paesi che da quelli asiatici, visto che le economie dei primi sarebbero meno danneggiate dall'apprezzamento delle proprie valute, data la bassa elasticità della loro domanda di esportazioni rispetto al prezzo. Paesi come la Cina, infatti, potranno diversificare le proprie riserve in valuta solamente al costo di un apprezzamento delle proprie divise nazionali sul dollaro, danneggiando così le proprie produzioni industriali e manifatturiere che contano ancora sulla competitività di prezzo, oltre che ad esporsi a L’esempio di floor per eccellenza, recentemente abbandonato, è stato appunto quello del franco svizzero istituito nel 2011, per evitare che il franco si rafforzasse contro l’euro. Il motivo era semplice: durante la crisi di secondo livello iniziato nel 2010, grandi flussi di capitale si erano mosse dall’euro verso valute considerate rifugio, di cui il franco svizzero era emblema. Salvaguardare la parità del cambio significava per la Banca centrale svizzera (Bcs) vendere attività denominate in franchi per acquistare attività finanziarie denominate in altre valute estere diverse dal franco; in tal modo esercitava una pressione al ribasso per il franco, e quindi compensava la spinta al suo apprezzamento derivante dai flussi di capitale. Questa strategia era diventata sempre più costosa alla luce della crisi russa degli ultimi mesi: massicci flussi di capitale cercavano una fuga dal rublo verso investimenti più sicuri. Era evidente, però, che la Bcs non avrebbe potuto sostenere la parità troppo a lungo. L’imminenza della decisione della BCE sul QE ha fatto rompere gli indugi il 15 gennaio 2015. Il franco a 1,20:1 aveva comportato nel tempo un tale accumulo di riserve valutarie, da parte della Bcs, da divenire insostenibile per tre motivi: 1. la svalutazione dell’euro iniziava a produrre perdite ingenti in conto capitale; 2. il referendum fallito del novembre 2014 sulle riserve d’oro (dal 7 al 20%) della Bcs mostrava le prime crepe nel consenso della popolazione alla continua accumulazione di riserve in assets finanziari denominati in valuta straniera; 3. un’eccessiva esposizione delle autorità monetarie svizzere verso l’euro iniziava a far perdere al franco svizzero quella caratteristica di incorrelazione verso le altre valute che da sempre lo rende bene rifugio. La decisione di abbandonare il floor da parte degli svizzeri ha avuto ripercussioni in vari paesi, inclusi quelli, come l’Ungheria, Polonia, ecc. i cui sistemi bancari avevano generosamente elargito mutui immobiliari denominati in franchi svizzeri in quanto caratterizzati da tassi d’interesse più vantaggiosi. Tassi di sconto maggiori limitano non solo la domanda di credito ma anche la sua offerta a causa dell’effetto lock-in (Romagnoli, 2015, 279). 152 84 gravi perdite sulle riserve accumulate in dollari. Questo è comunque un problema condiviso con gli altri paesi che sono invece essenzialmente produttori di commodities (Brasile) e di prodotti petroliferi (Arabia Saudita). Essendo la domanda di questi beni essenzialmente inelastica ad aumenti di prezzo è lecito pensare che questi paesi verrebbero danneggiati in maniera minore dalla sostituzione del dollaro con un'altra valuta di riserva (Alessandrini, Fratianni 2008a). 8.3 Le debolezze di Bretton Woods 2 La debolezza principale del s.m.i. attuale rimane quella messa in evidenza da Keynes nel dibattito a Bretton Woods (1942-43) che pone, cioè, l’onere dell’aggiustamento degli squilibri della bilancia dei pagamenti sui paesi in deficit generando effetti recessivi. Da qui, il nome di bias antikeynesiano, che peraltro è stato presente anche in tutti i s.m.i. precedenti, e che è stato sperimentato durante la crisi di secondo livello negli aggiustamenti opposti di Germania da una parte e Grecia, Irlanda e Spagna dall’altra. Il problema nasce dal fatto che, durante le crisi, ritorna la vecchia politica mercantilistica del “beggar thy neighbour”. Un secondo problema deriva dall’uso di una valuta nazionale come moneta dominante, altrimenti conosciuto come “dilemma di Triffin”. La produzione di liquidità internazionale diventa ostaggio erratico e capriccioso della bilancia dei pagamenti del paese che la emette. Come si è visto, dopo la dichiarazione di inconvertibilità del 1971, ciò è equivalso alla possibilità, ancora attuale, di stampare moneta sostanzialmente senza limiti, attraverso deficit della bilancia dei pagamenti, nei periodi di boom, dando luogo così a un bias inflazionistico, come lo si è percepito nel boom degli anni precedenti la crisi (2003-2007). In generale, l’economia mondiale è soggetta a cicli di fiducia nella principale valuta di riserva, un fenomeno che ha dato luogo sia a forti oscillazioni del valore reale del dollaro negli ultimi quaranta anni, sia a variazioni importanti nel saldo corrente della bilancia dei pagamenti statunitense. Dato che le autorità statunitensi si sono mostrate indisponibli a smorzare queste fluttuazioni, il risultato è stato che alla moneta dominante è mancato il fattore sostanziale di una valuta di riserva al centro del sistema: un valore stabile. La terza debolezza è data dall’ingiustizia tendenziale che caratterizza il sistema. Dato che le riserve in valuta estera dei paesi emergenti e dei pvs vengono investite in attività finanziarie emesse dai paesi avanzati e, in particolare dagli Stati Uniti, l’accumulazione delle loro riserve non è altro che un prestito ai paesi ricchi a bassi tassi d’interesse. Questo problema è stato aggravato condiderevolmente dal comportamento prociclico dei flussi di capitale verso questi paesi che è diventata un carattere distintivo della globalizzazione finanziaria negli ultimi due decenni. A fronte di crisi delle bilance dei pagamenti delle loro economie generate da un’inversione dei flussi di capitale durante le crisi, questi paesi hanno reagito accumulando riserve valutarie internazionali153, soprattutto dopo la crisi delle Tigri asiatiche (Ocampo, 2010a). Questa politica di “auto assicurazione” contempera non solo un’accumulazione di riserve mirata ad affrontare un’interruzione improvvisa di finanziamento esterno ma anche ad assorbire, attraverso l’accumulazione di riserve, la gran parte dei flussi di capitale che questi paesi ritengono eccessiva. La logica sottostante a questo comportamento è di evitare grossi deficit di parte corrente negli anni di boom dei flussi di capitale, dato che, come hanno indicato le crisi, questi deficit sono anticipatori di forti recessioni durante il deflusso di capitali dai loro conti finanziari della bilancia dei pagamenti, Fino agli anni ‘80, le riserve di questi paesi erano pari a circa il 3% del Pil, come quelle dei paesi avanzati. Nel 2007, i paesi a basso e medio reddito, esclusa la Cina, avevano accumulato riserve pari al 20,6 e al 16,2% dei rispettivi Pil, mentre la Cina ne aveva per circa il 46,7%. 153 85 come è stato confermato anche dall’ultima crisi. Inoltre, ciò consente di evitare eccessivi apprezzamenti del loro tasso di cambio. Un disallineamento percepito dà spesso l’innesco a molti interventi sui mercati valutari e, di conseguenza, il modo in cui questi paesi identificano un eccesso di capitali in entrata. In senso lato, l’autoassicurazione è nient’altro che una politica macroeconomica prudenziale o anticiclica mirata a moderare gli effetti interni di flussi di capitale prociclici. Politiche simili inducono i paesi che sperimentano miglioramenti delle ragioni di scambio ad assorbire parte degli effetti ricchezza attraverso l’accumulazione di riserve in valuta estera o di gettiti fiscali nei Swf, una politica che è sempre stata condiderata come parte di una gestione macroeconomica adeguata. Tuttavia c’è una fallacia di composizione importante in queste politiche di reazione: se la maggioranza di questi paesi, e soprattutto i maggiori, agiscono in questo modo, contribuiscono alla formazione di squilibri globali. In altre parole, c’è una catena che lega l’ingiustizia all’instabilità. Una riforma adeguata del s.m.i. dovrebbe affrontare tutte e tre queste debolezze. Nessun sistema è in grado di farlo completamente ma uno basato sui DSP fa compiere molta della strada in questo senso. Molti economisti hanno indicato, soprattutto a partire del 2009, la necessità di una riforma del s.m.i.. Prima della crisi, erano state segnalate preoccupazioni per la stabilità finanziaria globale in accesi dibattiti sulle implicazioni degli squilibri globali e soprattutto dell’aumento delle passività nette degli Stati Uniti rispetto al resto del mondo. Pochi, invece, hanno visto che c’era un grosso problema nello stesso s.m.i. che aveva dato luogo al sistema Bretton Woods 2 (Dooley et al., 2003). I richiami recenti al cambiamento dipendono dalla presenza di alcune debolezze fondamentali del sistema, fondato sulla fiducia nel dollaro, che vanno corrette. Altre monete competono in regime di cambi flessibili nel s.m.i. attuale, ma l’80% delle transazioni internazionali è denominato in dollari e circa due terzi delle riserve ufficiali mondiali sono detenute o gestite in dollari. Ciò è dovuto alle esternalità di rete nell’uso della moneta e al fatto che gli Stati Uniti hanno il mercato più grande per titoli pubblici liquidi. I problemi fondamentali sono dovuti alla presenza sia di instabilità che di ingiustizia di questi accordi. Dal punto di vista della stabilità macroeconomica globale, il sistema attuale tende a generare pressioni inflazionistiche e recessive nelle diverse fasi del ciclo economico internazionale che è protagonista di questi anni. Per quanto riguarda il secondo aspetto, il sistema genera ingiustizie crescenti associate al fatto che, per affrontare l’instabilità macroeconomica globale e la mancanza di un sistema assicurativo collettivo contro le crisi della bilancia dei pagamenti, i paesi emergenti e i pvs sono stati indotti ad accumulare riserve cospicue come auto-assicurazione. Ora, sebbene queste riserve abbiano mostrato la loro utilità per sostenere la resistenza di questi paesi nel corso della crisi mondiale recente, la loro formazione ha contribuito alla formazione degli squilibri globali. In sintesi, le ingiustizie e le inefficienze connesse all’attuale s.m.i. danno luogo a instabilità in un circuito perverso. 7.3 Le tensioni geopolitiche e valutarie attuali La breve analisi geopolitica, che segue, si giustifica con il fatto che i cambi sono influenzati anche da avvenimenti politici e strategici di primaria importanza. L’affermazione di un nuovo s.m.i. sarà un processo difficile, accidentato e forse non pacifico. È difficile immaginare una potenza egemone che rinunci al suo ruolo senza opporre resistenza. Negli anni ‘90, il crollo dell’impero sovietico ha fatto sì che una parte consistente del mondo, prima esclusa dall’economia capitalistica, entrasse a far parte del sistema commerciale e produttivo 86 mondiale dominato dagli Stati Uniti. La globalizzazione, nuovo complesso fenomeno di produzione e distribuzione su scala mondiale propiziato dal “Neofederalismo reaganiano”, ha consentito agli Stati Uniti di superare la grave crisi economica emersa alla fine degli anni ‘70. La crisi finanziaria europea del 1992, che mise in crisi lo SME, e quella asiatica del 1997 hanno sottolineato la centralità del dollaro e della WTO che doveva fornire l’infrastruttura legale per il nuovo ordine economico mondiale. L’ingresso della Cina nella WTO nel dicembre del 2001 sembrava il coronamento di questo successo. In realtà, nel decennio successivo lo scenario è cambiato. Da un lato, la Cina, contando sulla sua grande potenza economica, ha beneficiato più del previsto dalla WTO, dall’altro gli Stati Uniti, investiti da una doppia crisi, hanno frustrato il sogno di un progresso continuo per la classe media statunitense, incrinando un pilastro centrale del patto sociale (mantenuto durante i lunghi anni del conflitto mediorientale soprattutto attraverso l’espansione monetaria). All’esterno, le guerre dell’Afghanistan e dell’Iraq dovevano servire a riacquistare la fiducia dei mercati dopo la crisi, e gli Stati Uniti hanno raggiunto questo obiettivo, ma hanno conseguito solo in parte i ritorni strategici ed economici attesi (di fatto quello più rilevante è stata la permanenza del dollaro come moneta di scambio del petrolio iracheno), mentre hanno appesantito il bilancio federale di centinania di miliardi di dollari e aumentato il numero dei critici della politica economica internazionale statunitense. La speranza che Medio Oriente e Asia Centrale venissero integrati nel sistema statunitense è stata in parte frustrata, come mostra la politica ribassista del prezzo del petrolio condotta dall’Arabia Saudita. Lo scoppio della bolla immobiliare-creditizia statunitense del 2008 e la recessione mondiale spiegano l’andamento successivo del cambio del dollaro influenzato dal sostegno cinese, che ha alternato fasi di rialzo e ribasso e dalla lunga parentesi delle politiche monetarie non convenzionali. Nemmeno la caduta verticale del prezzo del petrolio ha ridotto la sua forza, esso continuerà a rafforzarsi, in una situazione internazionale in deterioramento, finché rappresenterà un “porto sicuro”. Negli ultimi 15 anni, la Cina ha quadruplicato il suo Pil, aumentando ancor più il suo contributo al commercio mondiale. In tal modo è diventata un creditore più grande di quanto l’America è debitore. I legami finanziari e commerciali tra Stati Uniti e Cina sono ormai talmente profondi che una loro repentina rottura avrebbe effetti devastanti a livello bilaterale e mondiale. Tuttavia la Cina esibisce un atteggiamento antagonista nei riguardi degli Stati Uniti. I risultati incerti della politica estera e degli interventi militari statunitensi in Medio Oriente e in Asia Centrale, oltre alla diminuzione relativa del peso commerciale e finanziario degli Stati Uniti rispetto alla Cina, stanno da tempo spostando il baricentro economico mondiale a favore di quest’ultima. Inoltre, gli Stati Uniti devono tener conto del fatto che la Cina ha risorse finanziarie da investire all’estero e che offre ai produttori di tutti i paesi la possibilità di entrare in uno dei mercati più ampi dell’Asia e a maggior crescita nel mondo154. Pechino si è ormai affermata come il polo principale della crescita dell’Asia: la sua economia si irradia per tutto il continente, che ospita il 60% della popolazione mondiale, e ha iniziato a darsi strutture finanziarie più efficienti. La Cina sta diventando il lender of last resort dei paesi non allineati economicamente e politicamente con le tesi del Washington Consensus155. Gli scenari drammatici dedicati all’Asia Meridionale, e in particolare all’India, di Gunnar Myrdal, alla fine degli anni ’60, sono ormai lontani (Myrdal, 1968). 155 In questo ambito, la Cina ha intenzione di estendere il credito swap di 24 miliardi di dollari accordato alla Russia per aiutarla a superare l’attuale crisi finanziaria. Inoltre, ha accordato al Venezuela un prestito di 4 miliardi di dollari e all’Argentina fondi per 2,3 miliardi di dollari come parte di un più ampio currency swap. Sono segnali evidenti di come Pechino venga in aiuto di paesi esclusi dai mercati finanziari internazionali e che in qualche modo si oppongono alla politica estera americana. 154 87 Ciò ha una grande importanza per il dollaro ma ne ha ancora di più per l’euro, moneta senza una direzione politica univoca, alla mercé delle fluttuazioni geopolitiche ed economiche mondiali. La Cina è chiaramente principale attore di tale processo, mentre l’Europa, pur con una moneta seconda per importanza solo al dollaro, non presta molta attenzione a quello che sta avvenendo nel continente euroasiatico. Con delusione degli Stati Uniti, l’Europa ha deciso di far parte dell’AIIB, ma ammesso che l’eurocrisi trovi infine uno sbocco positivo, si pone la questione di come reagirà la moneta unica ai sussulti del nuovo ordine economico mondiale, soggetto alla doppia spinta dell’ascesa cinese e delle nuove rivoluzioni tecnologiche. La tara europea rappresenta un rischio politico e strategico per tutti. La eterortodossia monetaria europea è stata frenata dall’opposizione dei paesi del Nord Europa contro l’espansione monetaria che la congiuntura europea richiedeva di fronte alla speculazione e alle tensioni geopolitiche e valutarie. Ma l’andamento dell’Eurozona, che stenta a riprendersi, nonostante la svalutazione dell’euro, anche a causa della crisi ucraina, è differente da quello degli Stati Uniti, dove il riassorbimento della disoccupazione ha dato inizio alle controverse manovre restrittive della Fed per tornare a metodi ortodossi della gestione della politica monetaria. Il dollaro forte favorisce le spese statunitensi all’estero e scoraggia le esportazioni dagli Stati Uniti. Allo stesso tempo, un euro debole incoraggia le esportazioni europee verso gli Stati Uniti e rende meno pressanti le richieste di chi vuole interventi ancora più espansivi della BCE. Attorno al cambio euro-dollaro si pongono, nell’anno che si apre, anche i dilemmi dei cambi dei paesi come la Gran Bretagna, il Giappone e la Cina (Mele, 2016). Nella parte più esterna del cerchio al cui centro è il cambio euro-dollaro, ci sono infine le valute dei paesi emergenti, fortemente influenzate dai movimenti dei capitali a breve che provengono dai paesi finanziariamente più importanti. Una coppia cruciale di monete è, poi, quella costituita da renminbi e yen. Il cambiamento del modello di sviluppo cinese, insieme al rallentamento della sua economia, hanno causato la riduzione delle importazioni cinesi di materie prime e di beni di investimento. Ciò spiega la debolezza delle valute dei paesi che le producono e la contrazione della crescita dei paesi che forniscono beni industriali e investimenti privati alla Cina: il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan. La diminuzione della domanda cinese spiega anche la forte svalutazione dello yen voluta dal Primo Ministro giapponese Shinzō Abe nel 2014, in corrispondenza al raddoppio della base monetaria giapponese. In tempi di ritorno alla guerra fredda, di sanzioni crescenti e di continua pressione del mondo occidentale sulla Russia, si discute molto, nel mondo dei BRICS, della necessità di ridurre il ruolo del dollaro come moneta di riserva e di fatturazione degli scambi internazionali, in un auspicato processo generalizzato di de-dollarizzazione156. Comunque il sistema economico mondiale sembra aprirsi a cambiamenti senza precedenti. La crescita delle economie asiatiche, dall’India all’Indonesia, lascia intravedere l’emergere di nuove monete che forse vorranno legarsi allo yen giapponese, per compensare lo strapotere regionale del renminbi e del dollaro. Queste dinamiche trascendono l’ascesa della Cina ma, insieme ad essa, sottolineano come l’ordine finanziario mondiale incentrato sul dollaro e sulle istituzioni economiche internazionali di Bretton Woods sia ormai anacronistico. Negli ultimi 15 anni si è assistito a una totale inerzia nella riforma delle organizzazioni fondamentali del s.m.i.: FMI e BM157. Il paradosso è che i BRICS, hanno solo il 12% dei diritti di voto nel complesso, di cui il 4,01% sono della Cina, nonostante rappresentino il 25,4% del Pil mondiale, di cui il 16,5% prodotto 156 Vedi, a questo riguardo, il paragrafo 3.2 in questa ricerca. Il rifiuto del Congresso statunitense di ratificare le riforme proposte dal FMI sul sistema di governo mondiale delle relazioni monetarie e della modalità di nomina dei direttori del FMI e della BM ha bloccato il processo. 157 88 dalla Cina. Di fronte a questa disattenzione, come si è già detto, i BRICS hanno deciso, nel luglio del 2014, di creare proprie istituzioni economiche internazionali alternative, tra cui la NDB BRICS, allo scopo di finanziare progetti infrastrutturali158. Dalla Cina è partita l’iniziativa volta a creare istituzioni alternative alla BM e al FMI. La Export and Import Bank cinese ha prestato, in due anni, 670 miliardi di dollari a tassi convenienti, eclissando tutti i prestiti, garanzie e assicurazioni fornite dalla EximBank statunitense negli 80 anni precedenti. La Russia è stata una forte sostenitrice della creazione di queste nuove istituzioni poiché la dipendenza dai mercati finanziari dominati dal dollaro è sempre stata considerata da Vladimir Putin un limite alla sovranità del Paese. Questa dipendenza è rappresentata soprattutto dall’indebitamento statale finanziato sui mercati esteri159. Ma il debito è un fattore di debolezza per tutti ad eccezione degli Stati Uniti che emettono moneta di riserva. Nella crisi russa attuale, il problema si è ripresentato in tutta la sua gravità e questa volta viene affrontato all’interno di una strategia di più ampio respiro che ha come scopo quello di ridurre al minimo il dollaro nella economia russa (Ponomarenko, Solovyeva, Vassilieva, 2011). Va tenuto presente che Mosca è il maggior esportatore mondiale di gas e il secondo di petrolio. Se il dollaro diminuisse nella fatturazione delle transazioni energetiche mondiali, ne sarebbe intaccata la sua funzione di moneta veicolo degli scambi internazionali. Altra misura russa è la diminuzione della quantità di dollari nelle riserve, con il contemporaneo aumento della quantità di oro detenuto dalla Banca centrale e dal Ministero del Tesoro 160. Con l’attuale svalutazione del rublo, Mosca tenta una politica di sostituzione delle importazioni (necessaria se si vuole una re-industrializzazione del paese), complementare alla de-dollarizzazione. Quella della Russia è una reazione difensiva alla pressione economica, politica e militare occidentale. Le sue scelte però mirano anche a un cambiamento radicale delle relazioni economiche e monetarie internazionali, se analizzate insieme alle strategie cinesi di espansione dell’uso dello renminbi nelle transazioni economiche tra paesi e dell’uso dei dollari delle proprie riserve ufficiali per finanziare Stati in difficoltà finanziarie. L’intero progetto BRICS di de-dollarizzazione, al quale la Russia ha dato notevole impulso con l’aggravarsi della crisi ucraina, può riuscire solo a due condizioni, che riguardano principalmente la Cina: la prima è la piena convertibilità del renminbi, che probabilmente avverrà nel futuro prossimo; la seconda, di più lungo periodo, è la formazione di un grande mercato finanziario con titoli in moneta cinese che possa rivaleggiare con quello dei titoli in dollari. Tuttavia il mercato del debito americano vale circa 30 miliardi di dollari e il Tesoro statunitense emette mille miliardi di dollari ogni anno, la Cina non ha per ora un mercato del debito paragonabile e ci vorrà molto tempo perché possa formarsi. Nessuna moneta che oggi aspiri a prendere il posto del dollaro ha un mercato finanziario così grande e liquido come quello statunitense. È noto, inoltre, che le storiche monete di riserva, sterlina e dollaro, sono protagoniste di processi dependent path, cioè durano molto tempo anche dopo che il loro ruolo si è indebolito a causa di cambiamenti nei rapporti economici reali (Eichengreen, Arnaud, Chitu, 2014). L’ultima sostituzione di una moneta di riserva con un’altra (dalla sterlina al dollaro), ha 158 I BRICS hanno creato anche il Contingency Reserve Arrangement (CRA), costituito dal 100 miliardi di dollari di monete di riserva (versato per il 41% dalla Cina, per il 18% da Brasile, India e Russia e per il 5% dal SudAfrica), il cui uso è previsto in caso di crisi valutarie e problemi di bilancia dei pagamenti, con una funzione simile a quella del FMI. 159 In realtà, la prima amministrazione Putin (2000-2004) ha ripagato tutto il debito estero ma, successivamente, durante il periodo di grande crescita, è stato il settore privato ad indebitarsi sui mercati internazionali. Tale indebitamento ha manifestato tutta la sua pericolosità nella crisi del 2008, ma il problema della restituzione dei prestiti esteri è stato risolto dai prestiti in valuta da parte della Federazione russa, grazie alle sue riserve in valuta estera. 160 Un’ulteriore misura adottata da Mosca è l’esclusione di imprese straniere dalle aste pubbliche. 89 impiegato trent’anni per realizzarsi, con due guerre mondiali e la caduta dell’impero britannico. Il processo di de-dollarizzazione, se avverrà, richiederà molto tempo, ma questo non scoraggia la dirigenza cinese e quella russa impegnate in una lunga e paziente marcia tesa a indebolire progressivamente il ruolo egemone del dollaro. Il processo potrebbe essere accelerato da nuove crisi finanziarie, come quella del 2008-2009, tutt’altro che improbabili dal momento che non sono venute meno le circostanze che hanno dato origine alla crisi finanziaria ed economica più grave del dopoguerra. 7.3 Una nuova guerra delle valute Nel 2015 si è ampliata la guerra delle valute. Dopo il dollaro, la sterlina e lo yen, l’euro si è svalutato rispetto al dollaro e ora la Cina accenna a seguire, mentre il rublo e le valute degli altri paesi emergenti crollano. Chi può cerca di guadagnare capacità competitiva verso l’unico mercato avanzato che cresce, quello statunitense. La recente, anche se tardiva, decisione della BCE di usare il QE indica la volontà di partecipare attivamente all “guerra delle valute” con l’intenzione di cambiare il destino dell’euro come moneta volutamente destinata alla sconfitta. Questa guerra, combattuta su tutte le piazze finanziarie e monetarie del mondo, in particolare dalle banche centrali, ma anche da operatori privati, ha prodotto danni considerevoli all’economia reale dei paesi coinvolti, talvolta più gravi di quelli che avrebbe creato un vero conflitto armato. Soprattutto, va ricordato che in passato alla guerra delle valute è spesso seguita la guerra guerreggiata. Infatti la guerra delle valute non è un fenomeno nuovo. Basti pensare a cosa accadde negli anni ’20 del secolo scorso quando venne abbandonato il gold standard appena riadottato dopo la parentesi bellica, al fine di consentire svalutazioni competitive della moneta (beggar thy neighbour policy). Le conseguenti adozioni di misure protezionistiche gettarono i paesi perdenti in una spirale di svalutazione e inflazione che avrebbe portato quegli Stati, al contempo afflitti dalla necessità di ripagare i debiti di guerra, sull’orlo della bancarotta generando fenomeni di iperinflazione, come nel caso della Repubblica di Weimar, dalla cui crisi nacque l’ascesa al potere di Hitler e, nel giro di pochi anni, la seconda guerra mondiale. Memori di questi eventi nefasti, i principali leader mondiali si sono ripromessi di non commettere gli stessi errori all’indomani del crollo di Lehman Brothers nel settembre 2008. Una crisi che aveva portato una parte dell’economia mondiale al collasso, con cadute di Pil che, in alcuni casi, superavano il 6-7% in un solo anno (2009). Nel G20 di Londra di quell’anno, i capi delle grandi potenze avevano firmato la seguente dichiarazione: “Condurremo tutte le nostre politiche economiche in modo cooperativo e responsabile riguardo all’impatto su altri paesi e ci asterremo dalla svalutazione competitiva delle nostre monete mentre promuoveremo un sistema monetario internazionale stabile e benfunzionante.” Non si è fatto nulla di tutto ciò. Infatti una pericolosa postilla, aggiunta nei mesi successivi, riapriva la guerra delle valute: se le politiche monetarie espansive (lo strumento attraverso il quale si combatte questa guerra) erano mirate al rinvigorimento delle economie nazionali, ed erano quindi condotte per fini interni, e non per “impoverire il vicino”, allora tali manovre erano consentite. E quand’anche 90 l’effetto collaterale fosse stato quello dell’indebolimento della valuta nazionale, tali politiche non sarebbero state sanzionate dal G20 e dai suoi bracci operativi, come il FMI. Durante la guerra fredda, si erano combattute le proxi wars quando i due blocchi contendenti, guidati da Stati Uniti e Unione Sovietica tendevano ad evitare l’escalation che avrebbe portato alla guerra calda (in quel caso al conflitto atomico). I conflitti avvenivano su terreni di battaglia diversi, tali da evitare lo scontro diretto tra le superpotenze: Guerra di Corea (1950-53), del Congo (1960-65), dell’Afghanistan (1979-89), ecc. Ebbene, con le currency wars vietate dagli accordi del G20, molti dei paesi membri hanno combattutto proxi currency wars su terreni diversi. Lo strumento scelto per queste battaglie è stato l’espansione del bilancio delle rispettive banche centrali (Stati Uniti, Regno Unito, Cina, Giappone e da ultima l’Eurozona). Infatti, quando il taglio dei tassi d’interesse giunge a livello zero, il loro limite inferiore, la Banca Centrale può procedere all’acquisto di attività tramite operazioni di mercato aperto con un duplice scopo: 1. sollevare i bilanci delle banche da attività in sofferenza che assorbono capitale e non consentono l’erogazione di nuovi crediti; 2. ridurre il rendimento dei titoli a lunga scadenza facendone aumentare i corsi, che sono inversamente correlati. Per finanziare questi acquisti massicci di attività su larga scala, la banca centrale deve stampare moneta in misura equivalente, i modo che i due lati del suo bilancio aumentino nella stessa misura. Ma stampare moneta, facendo crescere l’inflazione interna equivale a ridurne il potere d’acquisto e, in regime di cambi flessibili, a svalutare la moneta rispetto alle altre. L’espansione del bilancio della banca centrale diventa perciò strumento di svalutazione del cambio ed equivale a una proxi currency war (ammessa dal G20). Essa si combatte al posto della vera e propria currency war che è invece illegittima. I primi ad usare il QE, nel dicembre 2008, furono gli Stati Uniti, seguiti dalla Banca d’Inghilterra, che espansero il bilancio delle loro banche centrali portando alla svalutazione delle rispettive monete. Nel caso degli Stati Uniti, ciò ha consentito il rilancio dell’economia senza ricorrere (per il fatto di essere moneta di riserva) a quelle misure di austerità che invece hanno depresso soprattutto quelle della periferia sud dell’Europa continentale161. Qui la differenza è stata dovuta al fatto cruciale che Stati Uniti e Regno Unito hanno conservato, al contrario dei paesi membri dell’UEM, la sovranità monetaria. Sebbene fosse stato il Giappone, il primo ad avvalersi del QE contro la crisi dei primi anni ’90, questa volta, dopo la crisi 2007-2009, è giunto in ritardo alla guerra delle valute e ciò ha fatto rivalutare lo yen e accelerato la deflazione interna. A quel punto, nel 2013, i giapponesi hanno inaugurato il QqE (Quantitative and qualitative Easing), che è consistito in acquisti illimitati (open ended) di attività private e pubbliche, nell’ambito di un’ampia strategia di politica economica e finanziaria, nota come Abenomics. Questa ha condotto alla svalutazione dello yen e, per compensazione, ad altre forme di espansione monetaria da parte di altri paesi. La decisione di procedere con gli acquisti open ended ha definitivamente spinto i tedeschi ad accettare di coinvolgere l’Europa nella guerra delle valute anche perché la svalutazione dello yen aveva iniziato a minare la competitività delle esportazioni tedesche nei settori produttivi giapponesi. Va, tuttavia, considerato che la posizione cauta della Bundesbank era dovuta alla situazione finanziaria debole dei PIIGS sotto attacco speculativo e alla necessità di evitare il loro moral hazard162. L’economia inglese non ha, però, sperimentato lo stesso successo di quella statunitense. Il ribilanciamento dell’economia atteso dalla svalutazione non si è manifestato a favore delle esportazioni ma ha favorito l’inflazione e contenuto la crescita. Sicchè il Regno Unito è stato costretto a sospendere l’acquisto di titoli pubblici. Ne è conseguita una rivalutazione della sterlina che ha portato prima a un contenimento dell’inflazione e poi alla ripresa della crescita. 162 Nel 2014 l’Eurozona ha accumulato 320 miliardi di avanzo esterno, equivalente all’eccesso di risparmio esportato (280 miliardi la sola Germania), quasi quanto il Giappone e la Cina messi insieme. 161 91 Nella guerra delle valute, per lungo tempo, l’Eurozona ha avuto il ruolo della sconfitta e si è adattata, per tre motivi (è difficile dire se con scelta autonoma od obbligata), a svolgere il ruolo di moneta forte, agevolando così il compito dei suoi concorrenti (Stati Uniti, Regno Unito e Giappone): 1. il meccanismo di aggiustamento adottato dai paesi dell’Eurozona più colpiti dalla crisi, i cosiddetti PIIGS, era basato sulla svalutazione interna e sul contenimento della spesa pubblica. Questi paesi si sono ritrovati al centro della crisi di secondo livello, quella dell’euro (2010-2014), a causa del loro alto debito pubblico e privato e di forti deficit delle partite correnti, che avevano consentito uno sviluppo dei consumi superiore alle loro disponibilità, a scapito delle loro esportazioni; queste misure di austerity hanno riequilibrato le loro economie, con diversi gradi di intensità e di successo, portandole quasi tutte a posizioni di avanzo commerciale, ma le ha penalizzate particolarmente nei loro sistemi di welfare; 2. il differenziale di espansione della politica monetaria europea, condizionata dal possibile moral hazard dei PIIGS, che ha rafforzato l’euro; 3. l’errore concettuale che lega la forza di un’economia a quella della sua valuta. Ma si deve considerare che, al tempo della crisi 20072009, l’euro era diventato solo parzialmente moneta di riserva, non godeva ancora di un signoraggio paragonabile a quello del dollaro e, in assenza di una forza militare adeguata, la sua stabilità era rimasta la sua unica speranza di sussistere e forse di raggiungerlo. La comparsa della deflazione e la minaccia di una spirale che avrebbe minacciato anche la Germania, ha finalmente consentito anche alla BCE di cambiare strategia. L’euro ha così iniziato a deprezzarsi verso le altre valute dal maggio 2014 (30% in un anno rispetto al dollaro) e il 22 gennaio 2015 la BCE ha messo, con il QE, il sigillo al suo ingresso nella guerra delle valute. I Big Four si sono dovuti attenere alle regole concordate nel G20, in quanto una violazione da parte loro, chiaramente visibile agli occhi di tutti, avrebbe condotto in poco tempo a ben altro tipo di guerre. I paesi più piccoli invece non hanno esitato sia perché non appartenenti al G20, sia perché hanno il peg con una valuta potente, sia perché riescono a convincere gli altri che l’intervento diretto sul mercato dei cambi è il modo più efficace di perseguire gli obiettivi di politica economica interna. In questo contesto vanno intese le varie forme di intervento diretto sul mercato dei cambi che hanno caratterizzato un gran numero dei paesi del mondo, inclusa la Cina (Rosa, 2015). La svalutazione del renminbi è stata vista anche come un modo di rianimare l’export cinese (anche se aumentano i costi delle materie prime che riducono l’aumento dei consumi interni) e di accrescere così i capitali da investire all’estero. Ma ai motivi già espressi sulla inconsistenza di questa tesi si aggiunge che questa manovra può diventare un boomerang che induce svalutazioni competitive in tutte le economie dell’Asia di cui la Cina teme la concorrenza. Il messaggio che, più probabilmente, la Cina sta inviando al mondo del business è che la lunga stagione dei cambi fissi (il peg con il dollaro) è finita e che nel suo futuro non ci sarà un percorso di rialzo obbligato. Per Europa e Stati Uniti, il rischio è invece un altro stop nel recupero di produzione e dunque di creazione di nuovi posti di lavoro. Vi sono due possibilità. O la Cina, che sta effettivamente sperimentando un rallentamento della crescita cerca di frenarlo svalutando il renminbi (ma le svalutazioni marginali finora assecondate non rendono convincente questa lettura), oppure essa sta utilizzando questa leva, ritenendo di poter controllare il dissenso interno, per indebolire ulteriormente l’Occidente di cui vuole prendere il posto nella guida del pianeta. Possiede infatti strumenti di politica economica internazionale (popolazione, economia ancora in forte crescita, una grossa parte del debito statunitense, una valuta internazionale) che l’Unione Sovietica non aveva. Come l’Unione Sovietica poteva costringere la sua popolazione a 92 rinunce di benessere individuale163, la Cina ha imposto sacrifici eguali e maggiori alla sua popolazione per combattere contro l’Occidente una guerra economica per la supremazia che, in assenza di una riforma del s.m.i., verrà vinta da uno dei due contendenti. In Occidente si pensa che la crisi cinese possa sfociare in una crisi politica e non al fatto che i riflessi del rallentamento della crescita e della svalutazione cinesi possano creare problemi significativi di consenso per i governi delle democrazie che sono più vulnerabili dei sistemi autoritari. Che in Occidente si parli di una guerra valutaria cinese dopo le svalutazioni del 30% di euro e yen è fuori luogo. Tuttavia, come all’inizio degli anni ’70, quando crollò il sistema di Bretton Woods, si è riaperto, tra gli studiosi, il dibattito sull’egemonia del dollaro che allora aveva come protagonista la Francia di Charles De Gaulle, critico dell’esorbitante privilegio del dollaro. Recentemente questo ruolo è stato ripreso da Zhao Xechouan, governatore della BPC, che ha messo in evidenza le ragioni di instabilità legate all’uso egemone di una valuta internazionale e quindi l’opportunità di sostituirla con una paniere di valute rappresentate dai DSP. Oggi l’Europa non è più minacciata dall’Unione Sovietica, anche se la crisi dei debiti sovrani l’ha indebolita, ma la Cina, nuova protagonista dell’economia mondiale, non è alleata bensì avversaria degli Stati Uniti con mire egemoniche non limitate all’ Asia orientale. Ciò ha mutato gli equilibri di potere sul s.m.i.. La Cina, insieme agli altri BRICS, accusa gli Stati Uniti di aver manipolato il valore del dollaro dopo la grande crisi attraverso il QE e non accetterebbe un accordo del Plaza per la rivalutazione del renminbi, come invece fece il Giappone con lo yen nel 1985. In questo contesto di guerra delle valute potrebbe riemergere il protezionismo. Quando si è voluto incoraggiare la Cina ad abbandonare la sua politica di tasso fisso con il dollaro e di permettere un rivalutazione della sua moneta, senza per questo danneggiare le proprie esportazioni, si è ricordato che, nel periodo successivo al 1961, quando la Germania rivalutò il marco, la sua posizione nei confronti con l'estero non mutò e le sue esportazioni non ne furono danneggiate in maniera sensibile (Obstfeld, 2007). Ma la forza delle valute può avere come riferimento due diverse forme di competitività: di prezzo e tecnologica. Quella tedesca degli anni ’60 era basata sulla tecnologia, quella cinese attuale ancora sui bassi salari. La svalutazione del renminbi, l’incertezza del FMI sull’ingresso del renminbi tra le valute di riserva, quella della Fed sul rialzo dei suoi tassi d'interesse, alla luce del rallentamento cinese e della crisi che ha colpito gli altri paesi emergenti164, sono state tre facce di uno stesso problema: le maggiori tensioni economiche globali oggi ruotano attorno alle difficoltà associate alla transizione dell’economia cinese dalla seconda alla terza rivoluzione industriale. La sindrome cinese chiude un’era per tutti e preoccupa la Fed. La Cina ha dimostrato di avere un tale peso nell'economia mondiale da condizionare la politica monetaria degli Stati Uniti per il timore di innescare una nuova recessione. Il rallentamento cinese infatti sta contagiando vaste aree dell'economia mondiale. Il pericolo è una fuga crescente dei fondi dai paesi emergenti che può scatenare una tempesta finanziaria attraverso una crisi del sistema Ma in quel caso i sacrifici di benessere della popolazione servivano ad accumulare risorse da investire, nell’industria pesante prima e poi nell’armamento nucleare, per una guerra che fortunatamente non è mai scoppiata in modo conclamato e che difficilmente avrebbe visto vincitori. 163 164 Quasi mille miliardi di dollari di capitali hanno abbandonato i paesi emergenti nel corso del 2015. Si riaffaccia all'orizzonte lo spettro di default sovrani, tanto più che le riserve valutarie accumulate dai paesi emergenti si stanno assottigliando. 93 creditizio mondiale165. Gli Stati Uniti stanno importando deflazione dall’estero, attraverso la continua discesa del prezzo del petrolio, che penalizza i paesi produttori, e la riduzione dei prezzi delle importazioni per effetto diretto del rafforzamento del dollaro. Contemporaneamente la ripresa in Europa e in Giappone è ancora insufficiente, soprattutto per risolvere i problemi interni del debito pubblico e della disoccupazione. Alla fine, il rialzo dei tassi, anche se rinviato di un trimestre, ha avuto luogo comunque perché gli Stati Uniti hanno voluto mantenere la credibilità dei loro annunci e mostrare di non essere condizionati dai cicli economici dei BRICS. La rivalutazione delle divise del Regno Unito e degli Stati Uniti è stata intensa e potrebbe continuare (ad eccezione della sterlina in caso di Brexit) insieme ad ulteriori rialzi dei tassi d’interesse statunitensi. In un’economia globale così debole, il rafforzamento del dollaro penalizza l’export statunitense, ponendo un’ipoteca anche sull’attuale ripresa. Per questo gli investitori sono ancora alla ricerca di sicurezza. Il dato eclatante è che sulla scena mondiale i governi latitano, ad eccezione di quello cinese che ha usato tre strumenti classici della politica monetaria: svalutazione del cambio, riduzione dei tassi d’interesse, aumento della liquidità attraverso l’abbassamento del coefficiente di riserva obbligatoria. Per gli altri paesi ci sono solo i banchieri centrali a svolgere un ruolo di supplenza. La Public Choice direbbe, con grande sconforto della democrazia, perché non sono eletti. Comunque, la decisione della Fed per l’aumento dei tassi si pone per la prima volta, dopo molti anni, su un percorso divergente con la BCE che annuncia ulteriori politiche monetarie espansive in Europa. Questa divergenza dovrebbe indebolire ulteriormente l’euro favorendo le esportazioni europee, anche se le monete dei paesi emergenti continuano a deprezzarsi e la Cina, dopo l’ingresso nelle top five, potrebbe decidere di continuare a tagliare i tassi e a svalutare il renminbi, mentre il Giappone annuncia un ulteriore round di QE. Infine, nel contesto della guerra delle valute una speciale attenzione merita la fluttuazione sporca adottata dalla Russia verso un paniere di monete, ma che tutti misurano tramite il tasso di cambio dollaro-rublo. Il crollo del prezzo del petrolio, su cui si basa l’economia russa, e le sanzioni comminate dall’Occidente per l’annessione della Crimea e per la crisi ucraina hanno condotto la Russia a una combinazione rischiosa di contrazione economica e alta inflazione che ha portato il rublo a svalutarsi. Questo non è né un segnale positivo, né un obiettivo di politica economica, ma è un fattore geopolitico determinante. Il caso russo ricorda da vicino quanto labile sia il confine tra le guerre delle valute combattute sui mercati valutari e quelle reali ingaggiate sui campi di battaglia. Il problema è che se questa guerra viene combattuta da tutti è arduo prevedere chi possa vincerla. 8. Le ipotesi di riforma del sistema monetario internazionale nel contesto della stagnazione secolare 165 Solo nel primo trimestre 2015, fondi per 109 miliardi di dollari hanno abbandonato la Cina. Era dal 1988 che i paesi emergenti non subivano una fuga dei capitali come quella che sta avvenendo. Nell’ultimo decennio erano stati loro a salvare l’economia mondiale, trainando la crescita. Adesso il FMI stima che nel corso del 2015 mille miliardi di dollari hanno lasciato le economie emergenti per tornare verso istituzioni più stabili, se non più sicure. Un segnale di di questa paura è venuta dal tasso zero sui Treasury Bond statunitensi a tre mesi. Ed è sconcertante che ciò sia avvenuto nell’imminenza di un rialzo dei tassi d’interesse che si trasmetterà agli altri titoli emessi in dollari e che potrebbe comportare perdite in conto capitale. 94 8.4 Le alternative di riforma La crisi finanziaria nata negli Stati Uniti ha dato un serio colpo al sistema Bretton Woods 2, ma non ha prodotto una nuova architettura dei mercati finanziari con la fine annunciata della liberalizzazione dei mercati dei capitali o quella della cartolarizzazione dei titoli di debito. Inoltre, negli anni successivi, alla crisi di secondo livello, che ha colpito l’euro dopo il 2010, si è ora aggiunta quella dei BRICS indebolendo sempre di più il loro ruolo nel ridisegno possibile del s.m.i.. Ciò non vale per la Cina, ma ha consentito agli Stati Uniti di procedere con il consueto modello di sviluppo basato sull’innovazione finanziaria e tecnologica e sul libero mercato. Queste caratteristiche ne fanno un’economia innovativa che si pone al centro del mondo ma, dopo la crisi finanziaria, si può dubitare che essa possa continuare ad essere una locomotiva dello sviluppo mondiale. Gli eccessi finanziari interni ed esterni hanno messo in discussione la reputazione degli Stati Uniti. E questo può mettere fine al loro rinvio sine die di politiche di aggiustamento con i costi ad esse associate: dolorosi riequilibri dei conti pubblici e della bilancia commerciale e contrazioni del credito. In questo senso, Bretton Woods 2, che vede gli Stati Uniti indebitati nel ruolo di “consumatori di ultima istanza” delle esportazioni del resto del mondo potrebbe volgere al termine. Ciò pone con forza l’esigenza urgente di riformare il FMI e il s.m.i. (Otero-Iglesias, 2012). I difetti principali sinora attribuiti al FMI sono i seguenti: 1. la mancanza di meccanismi adeguati a superare gli squilibri globali; 2. gli eccessi finanziari di alcuni paesi e la creazione di flussi di movimenti di capitali destabilizzanti (un chiaro addebito alla politica monetaria statunitense); 3. eccessive fluttuazioni dei tassi di cambio manipolati dalla speculazione indipendentemente dai fondamentali (la principale critica manifestata dalla Cina); 4. eccessivo accumulo di riserve accompagnato al caos connesso a una eventuale svalutazione del dollaro. Le soluzioni corrispondenti proposte sono state finora le seguenti: 1. rafforzare i meccanismi di riequilibrio e sorveglianza degli squilibri; 2. adottare valori soglia, basati sui fondamentali, al fine di evitare instabilità e disallineamenti dei tassi di cambio; 3. prevedere controlli dei movimenti di capitali nei casi in cui i flussi in entrata si rivelano destabilizzanti; 4. utilizzare, anche da parte dei privati, i DSP come moneta globale alternativa anche al fine di creare un mercato di assets denominati in DSP. Se ciò accadrà dipenderà molto dagli Stati Uniti che hanno da perdere da queste riforme Lo status di unica superpotenza militare, il fatto di controllare uno dei mercati più grandi del mondo e di emettere la valuta maggiormente usata a livello internazionale consente agli Stati Uniti di porre un veto alla riforma del s.m.i. che è rimasto sostanzialmente simile a quello di venti anni fa. Tuttavia, gli Stati Uniti potrebbero aver interesse a partecipare a una soluzione multilaterale degli squilibri globali creati da Bretton Woods 2166. I mercati finanziari europei si sono nel frattempo rafforzati e integrati, ma il rifiuto della Germania di emettere Eurobonds per timore del moral hazard lascia intatto lo spazio per i Treasury Bills statunitensi. La crisi della globalizzazione indebolisce tuttavia il ruolo degli Stati Uniti e il loro riferimento a una unica moneta mondiale in un s.m.i. lasciato completamente alle forze di mercato. Con questa prospettiva, la Cina ha spostato una parte delle sue riserve fuori dal dollaro 166 Dopo la Francia, che ha cercato accordi con la Cina per riformare il s.m.i. nel 2011, anche la Germania sembra avvicinarsi a questa posizione dopo aver definito insensata, nelle parole di Wolfgang Schäuble, la politica monetaria statunitense. 95 nell’eventualità di un suo crollo. Questa politica invocata da Zhang Ming (2009) in nome di un market led adjustment è l’equivalente di un’opzione nucleare. Per ridurre gli squilibri globali ci sono due soluzioni associate ad altrettanti processi di riforma del s.m.i.. Il primo, che è di tipo inerziale, vede l’evoluzione del s.m.i. verso un accordo multivalutario. Il secondo, migliore, consiste nel soddisfare le aspirazioni di trasformare i DSP sia nella valuta dominante in cui sono detenute le riserve ufficiali mondiali che nello strumento del FMI per finanziare i paesi nei casi di emergenza durante le crisi. La riforma va poi completata con altre misure: rafforzamento nell’uso dei DSP, creazione di un conto di sostituzione, creazione di pool di riserve regionali (a scopo assicurativo) e una riforma ambiziosa della governance e delle quote del FMI. L’interesse del G-20 per la cooperazione internazionale dovrebbe perseguire gli obiettivi di questa agenda. Ci sono, ovviamente, delle alternative possibili che possono consistere nella International Clearing Union di Keynes, in una Banca Globale delle riserve ufficiali (la proposta di Stiglitz), ma la negoziazione per la nascita di una nuova istituzione internazionale sarebbe abbastanza ardua (Ocampo, 2010). Infine c’è sempre una minoranza che ripropone di rimettere l’oro al centro del sistema, ma tornare a questo “barbaro reperto storico”, come lo chiamava Keynes, vorrebbe dire andare contro la storia. Vi sono due altri modi di ridurre gli attuali squilibri globali. Il primo consiste nella capacità degli Stati Uniti di imporre rivalutazioni ai paesi in surplus, ma questa politica non sembra produrre effetti, a partire dalla Cina. Il secondo è quello di creare meccanismi cooperativi incentivanti di una redistribuzione dei costi di aggiustamento al fine di attenuarli. Secondo Susan Strange (1994) ricorrere ai DSP è il miglior modo di risolvere questo enigma perché eliminerebbe alla base il “dilemma di Triffin”, costringendo i paesi, attraverso un meccanismo competitivo, a non eccedere nella crezione di moneta167. La recente crisi finanziaria internazionale ha mostrato un difetto intrinseco del s.m.i. attuale, che fa dipendere dal deficit corrente degli Stati Uniti l’offerta di liquidità globale. Con questo sistema i paesi della periferia devono tollerare un periodico deterioramento del dollaro. Questo scenario rimarrà immutato fino a quando durerà la sua dominanza e ciò costituisce un incentivo comune per Europa e Cina a riformare, in modo cooperativo, il s.m.i.. Entrambe sono sostanzialmente a favore dei cambi fissi e cercano di contenere la disattenzione macroeconomica statunitense attraverso una disciplina condivisa. Gli Stati Uniti hanno mostrato la loro capacità di uscire dalla crisi mondiale con politiche monetarie e fiscali espansive non convenzionali. Se l’Europa e la Cina condividono la deflazione per uscire dalle crisi, altrettanto non vale per gli Stati Uniti, che emettono la principale moneta di riserva e preferiscono aumentare il loro debito per poi trasferire i costi di aggiustamento su altri paesi. La Cina ha bisogno dell’Eurozona per modificare lo status del dollaro ma non è chiaro se l’Europa ha questo potere né se lo vuole usare. Mentre è noto a tutti che i cinesi abbiano, con i loro acquisti, sostenuto il dollaro negli anni di crisi per non incorrere in enormi perdite in conto capitale, è meno noto ciò che afferma White (2010) e cioè che i cinesi hanno acquistato assets in euro negli anni 167 Alcuni anni fa, anche gli Stati Uniti, con la proposta di Tim Geithner, condivisa da Bernanke, di limitare al 4% i surplus delle bilance dei pagamenti, hanno fatto spazio, per la prima volta, a una “mano pubblica visibile” nel contesto del s.m.i., ovviamente, accanto alla richiesta di rivalutazione del renminbi (che invece si sta svalutando, mentre il dollaro si sta rivalutando). 96 successivi quando gli hedge funds americani speculavano sul suo deprezzamento. Nonostante la riluttanza a salvare incondizionatamente un’area planetaria più ricca in termini di reddito pro capite, i leader cinesi hanno espresso chiaramente l’intenzione di sostenere la moneta unica europea. Hanno così manifestato, oltre all’interesse già citato di diversificare una parte delle loro riserve in dollari, l’intenzione di cercare nell’Eurozona un alleato, se non un mediatore tra una potenza in declino e una in ascesa, per riformare il s.m.i. secondo un approccio realmente multivalutario. Davanti a un dollaro che poteva svalutarsi, l’euro era l’unica alternativa disponibile per diversificare gradualmente le riserve cinesi. Il forte deprezzamento dell’euro (20%), dopo la crisi di secondo livello ha deluso le autorità cinesi (Otero-Iglesias, 2014.). Pechino ha operato in una prospettiva di lungo periodo, volta alla sostituzione del dollaro al centro del sistema monetario e finanziario internazionale. Con prudenza e determinazione, i cinesi sono riusciti ad affiancare il renminbi al dollaro come moneta di transazione e di riserva. Nel 2011, la Francia si era fatta promotrice di una riforma del s.m.i. con questo obiettivo. Ma non era chiaro ai cinesi se la Francia volesse riformare il s.m.i. attraverso una sistema maggiormente controllato dei tassi di cambio oppure includere la Cina nel G7 e il renminbi tra le valute del basket dei DSP allo scopo di renderlo completamente convertibile e farlo fluttuare liberamente sui mercati valutari. D’altra parte, un coordinamento valutario globale che includa il renminbi implica la libera fluttuazione di quest’ultimo dopo aver abbandonato il peg sul dollaro (Otero-Iglesias, 2014). Comunque, dopo il fallimento francese al G20 di Cannes del 2011 sulla proposta di riforma del s.m.i., la Cina ha deciso di operare in modo unilaterale. Come si è già detto, due teorie sono state avanzate per spiegare la crisi finanziaria. La prima, centrata sul saving glut di Bernanke, sottolinea che l’espansione del deficit corrente americano è stato un modo di riciclare il risparmio dei paesi emergenti e soprattutto della Cina in strumenti di debito credibili (anche se nel tempo passati dalla tripla alla doppia A) con l’importante effetto collaterale di consentire agli Stati Uniti di indebitarsi a tassi vicini allo zero e, di conseguenza, la possibilità di consumare e di indebitarsi eccessivamente. Al fine di trovare un freno a questo meccanismo perverso è stato chiesto alla Cina di lasciar fluttuare liberamente il renminbi e innescare così un riequilibrio globale attraverso i mercati valutari. La seconda teoria, quella del “dilemma di Triffin”, sostenuta da Zhou, Bini Smaghi, Padoa Schioppa, sostiene che la crisi è derivata dalla contraddizione strutturale insita in un s.m.i. dominato da una valuta nazionale. Infatti il dilemma non vale solo per una valuta legata all’oro, infatti esiste un limite anche per la liquidità prodotta da una moneta che fluttua, come nel sistema Bretton Woods 2. In questo modo, gli squilibri interni (fiscali) ed esterni (saldo corrente) hanno minato la credibilità del sistema di riserva globale di riserva basato sul dollaro che domina mercati finanziari liberi da ogni condizionamento (Otero-Iglesias, Zhang Ming, 2012). 8.5 Un vero sistema multivalutario Di fatto il s.m.i. attuale è già multivalutario, ma le alternative al dollaro sono deboli per cui questo continua ad avere un ruolo dominante. La crisi ha mostrato chiaramente che al momento non ci sono alternative al mercato finanziario americano dei titoli sia per la sua liquidità che per la sua profondità. Peraltro la mancanza di un vero mercato finanziario dell’euro e la percezione che questa moneta ha dietro un gruppo eterogeneo di paesi in termini di forza lo ha fatto diventare un sostituto inadeguato 97 del dollaro. Il vantaggio principale di un accordo multivalutario è quello di consentire ai detentori di riserve di diversificare al loro composizione e contrastare, in questo modo, l’instabilità che caratterizza tutte le singole valute del sistema. Ma a parte questo, nessun’altra debolezza verrebbe eliminata. In particolare i benefici dello status di monete di riserva verrebbero ancora acquisiti dai paesi industrializzati, il sistema conserverebbe l’ingiustizia di cui si è parlato, non si eliminerebbe il bias antikeynesiano, né diminuirebbe la domanda di autoassicurazione da parte dei paesi emergenti e dei pvs. Paradossalmente, la flessibilità dei tassi di cambio tra le molte di riserva alternative darebbe luogo sia a un vantaggio che a un costo potenziale. Il fatto di evitare le parità dei cambi fissi sarebbe senz’altro un vantaggio, visto che è stata questa loro fragilità a far crollare sia il bimetallismo del XIX secolo che il legame oro-dollaro degli accordi di Bretton Woods. Comunque, se le banche centrali sostituiscono attivamente le valute per beneficiare della diversificazione rispetto al dollaro, questo potrebbe far aumentare la volatilità dei cambi tra le valute principali al punto di dover tornare ai cambi fissi, una prassi molto ardua in presenza di ampia mobilità dei capitali. E ciò finirebbe per vanificare la flessibilità del sistema. Un s.m.i. multivalutario sarebbe l’unico a contemperare tre obiettivi: 1. da un lato contenere i rischi che derivano dalla possibilità che il paese leader usi la sua condizione di preminenza per produrre inflazione o accumulare una quantità insostenibile di debito che crea una profonda asimmetria tra gli Stati; 2. dall’altro riconoscere un nuovo, più importante ruolo alle economie emergenti, soprattutto alla Cina; 3. infine, offrire la soluzione del gioco di fiducia tra paese emittente e i suoi utilizzatori, in altre parole, scongiurare la possibilità che un processo di aggiustamento, connesso al deprezzamento della moneta di riserva, determini ingenti perdite in conto capitale nei portafogli di chi ha sottoscritto attività denominate in quella valuta. Si tratta di una riproposizione, in chiave moderna, del “dilemma di Triffin” secondo cui un sistema di riserva internazionale fondato su di una moneta nazionale è intrinsecamente instabile. La condizione di valuta di riserva per eccellenza potrebbe così essere messa in discussione con la prospettiva di un passaggio verso un sistema basato sull’utilizzo di più valute di riserva regionali. Di qui l’imperativo statunitense di frenare la crescita internazionale di altre monete, in particolare dell’euro e del renminbi. Per questo è stata data molta attenzione alle proposte del governatore della BPC (Zhou, 2009) e di Joseph Stiglitz, presidente della commissione di esperti nominata dall’ONU nel 2009. Tuttavia sia l’operazione di uscita dal dollaro tout court, sia quella di diversificazione delle riserve ufficiali – di cui solo il 40% al momento sono in divise diverse dal dollaro - costituiscono operazioni non prive di costi e di rischi. Qualora la Cina e altre economie emergenti – che hanno avuto finora un cambio sostanzialmente fisso nei confronti del dollarodecidessero di interrompere gli interventi condotti sui mercati valutari per sostenerlo, si avrebbe un apprezzamento immediato di queste valute da cui deriverebbero perdite ingenti in conto capitale. Se invece si attuasse una diversificazione delle riserve, il dollaro si deprezzerebbe rispetto a euro e yen e le reazioni delle rispettive banche centrali non tarderebbero a manifestarsi. Ciò non costituiva un problema fino a qualche anno fa, quando la dimensione dell’economia statunitense era relativamente grande rispetto a quella dei paesi emergenti. Ma nel corso degli ultimi anni la situazione è cambiata radicalmente. Non rimane quindi che una terza possibilità per evitare perdite in conto capitale indotto dal deprezzamento del dollaro e le reazioni ad esso legate: effettuare la conversione dei dollari esistenti in DSP. 8.3 Nuovi DSP per una riforma del sistema monetario internazionale 98 Scopo precipuo dei DSP, quando furono creati, era rimpiazzare l'oro nelle transazioni internazionali: per questo i DSP sono stati definiti anche paper gold. Si trattava di diritti potenziali di prelievo da esercitare sulle valute depositate presso il FMI dai paesi membri, cui venivano assegnati in base alle loro rispettive quote di capitale del Fondo168. I DSP, come il bancor, sono quindi una moneta contabile di costo nullo e slegata da ogni forma di riserva, che può essere scambiata soltanto tra banche e altre istituzioni pubbliche. Questi mezzi di pagamento internazionali sono accettati da tutti i governi membri del FMI. Quello dei DSP poteva rappresentare una terza via, rispetto all’oro e al dollaro convertibile, per ovviare al crescente fabbisogno di riserve internazionali. Ciò avrebbe trasformato il FMI in una vera Banca Centrale Mondiale sottraendo agli Stati Uniti il potere di creare la moneta mondiale e i vantaggi derivanti dal signoraggio, oltre al potere d'influire sull'inflazione e sui tassi d’interesse, e quindi sulla congiuntura mondiale. Si capisce allora perché i molteplici tentativi d'imboccare questa terza via, iniziati da Keynes stesso, come capo della delegazione inglese alla Conferenza di Bretton Woods, e ripresi poi da altri economisti, a partire da Triffin negli anni ‘60, non portarono a grandi risultati. Dopo il crollo del sistema di Bretton Woods, i DSP sono stati ridefiniti rispetto a un basket di quattro valute la cui composizione viene rivista ogni cinque anni e, in queste occasioni, il peso delle singole valute può subire variazioni, come mostra la tabella 3169. Il 30 novembre 2015, il FMI ha deciso di includere nel paniere anche il renminbi, con decorrenza 1 ottobre 2016. I DSP rappresentano, per definizione, un tasso di cambio più stabile di quello delle valute costituenti. Pertanto, essi potrebbero consentire – meglio del dollaro, dell’euro e di qualsiasi altra singola valuta – di far fronte a problemi di volatilità dei tassi di cambio. I DSP sono rimasti uno strumento di riserva marginale, nonostante si siano susseguite varie loro ''allocazioni'' da parte del FMI. La loro importanza iniziò a declinare dalla fine degli anni ’70 con la crescita progressiva dei flussi di capitale privati. Le emissioni di titoli in DSP apparse all’inizio degli anni ’80 non hanno avuto successo sui mercati finanziari. Ora, con l’inclusione del renminbi nel basket che li compone, potrebbero tornare al centro dell’attenzione per una riforma del s.m.i. verso un sistema realmente multipolare nelle sue dimensioni politica, economica, commerciale e, quindi, anche monetaria. Tabella 3 – Composizione di 1 DSP Periodo 1981– 1985 USD 0.540 (42%) DEM 0.460 (19%) FRF 0.740 (13%) JPY 34.0 (13%) GBP 0.0710 (13%) Le assegnazioni sono sottoposte all’approvazione (prima con la maggioranza qualificata dell’85%, ora ridotta al 70%) da parte del Dipartimento del FMI in cui sono rappresentati tutti i paesi membri e il cui voto è pari alla quota rispettiva. Nel 2011, le quote principali erano possedute dagli Stati Uniti (17.7%), Giappone (6,6%), Germania (6,1%), Francia (4,5%), Regno Unito (4,5%), Cina (4,01%), Italia (3,4%), Federazione Russa (2,50%), India (2,45%), Brasile (1,8%). 168 All’inizio, il valore di un DSP fu stabilito pari 0.888671 grammi di oro fino che a quel tempo corrispondeva a 1 dollaro. Fino al 1999 (anno di introduzione dell'euro come unità di conto), le valute che costituivano il paniere erano cinque: dollaro statunitense, marco tedesco, franco francese, sterlina britannica e yen giapponese. Dal 1999, l'euro ha sostituito il marco ed il franco (oggi il valore approssimativo di 1 euro è pari a 0,76 DSP). Alla fine di novembre 2015 risultano emessi ed assegnati ai paesi membri 204,1 miliardi di DSP equivalenti a 285 miliardi di dollari. 169 99 1986– 1990 0.452 1991– 1995 0.572 1996– 1998 0.582 Periodo 1999– 2000 (42%) (40%) (39%) USD 0.5820 (39%) 0.527 (19%) 1.020 (12%) 33.4 0.453 (21%) 0.800 (11%) 31.8 0.446 (21%) 0.813 (11%) 27.2 EUR 0.2280 (21%) (15%) (17%) (18%) JPY 0.1239 (11%) 27.2 (18%) 0.0893 (12%) 0.0812 (11%) 0.1050 (11%) GBP 0.1050 (11%) = 0.3519 (32%) 2001– 2005 0.5770 (45%) 0.4260 21.0 (29%) (15%) 2006– 2010 0.6320 (44%) 0.4100 18.4 (34%) (11%) 0.0903 (11%) 2011– 2015 0.6600 (41.9%) 0.4230 12.1000 (9.4%) 0.1110 (11.3%) (37.4%) 0.0984 (11%) Fonte: The University of British Columbia – Sauder School of Business- Pacific Exchange Rate Service Sebbene, in passato, l’inclusione del renminbi nel basket avrebbe avuto un impatto marginale sulla sua volatilità, a causa del suo ruolo limitato, ora la situazione è cambiata e questa estensione nella composizione del basket potrebbe rafforzare l’attrazione per l’uso dei DSP sia come unità di conto che come deposito di valore. La sua maggiore stabilità potrebbe incoraggiare le banche e le società di capitali di tutto il mondo ad emettere titoli in DSP, visto che il tasso di cambio della valuta cinese è divenuto più flessibile nel breve-medio periodo (Benassy, Quéré, 2015). Per rendere possibile la conversione delle riserve in DSP senza creare tensioni sui tassi di cambio, è stata riproposta, da Kenen (1980, 2009, 2010) e da Bergsten (2007) la costituzione di un fondo di sostituzione presso il FMI. In tal modo la diversificazione delle riserve detenute dai paesi emergenti e dai loro Swf avverrebbe senza effettuare transazioni sul mercato dei cambi, che eserciterebbero pressioni su di essi, bensì attraverso l’iscrizione di poste contabili all’interno del conto suddetto. Il vero punto cruciale, a quel punto, diventa il sistema di ripartizione dei costi potenziali associati a 100 questo meccanismo170. Nel caso di svalutazione del dollaro, questo meccanismo deve prevedere chi deve sopportare il rischio di cambio. In assenza di una condivisione, da parte degli Stati Uniti, il costo della svalutazione verrebbe traslato interamente sul FMI che emette i DSP. È lo stesso problema che aveva bloccato la riforma trenta anni fa. Una volta in funzione, il conto di sostituzione diverrebbe uno contenitore di attività di riserva globale e sarebbe inoltre un baluardo della scelta di un sistema di riserve multivalutario che potrebbe essere molto instabile (Kenen, 2010, 3). Questa procedura assicurerebbe, infatti, stabilità all’attuale sistema monetario attraverso un meccanismo di transizione essenziale di un ambizioso sforzo di riforma (Kenen, 2010b). Un’alternativa vantaggiosa è quella di disegnare un’architettura basata su un’attività di riserva veramente globale, come era stato previsto dagli accordi che portarono alla creazione del FMI (art. VIII, Section 7, and art. XXII). L’aggiustamento del saldo di parte corrente statunitense potrebbe ridurre in futuro l’offerta netta di dollari al resto del mondo, ma tra i principali problemi attuali non c’è quello di una provvista inadeguata di liquidità, come era invece nel secondo dopoguerra. Il mondo ha bisogno di un sistema meno erratico e capriccioso di offrire riserve globali, e soprattutto che non sia ostaggio della bilancia dei pagamenti americana o delle sue politiche macroeconomiche. Questo, insieme alla stabilità della moneta di riserva globale, basato sui DSP, è proprio ciò che è stato richiesto dalla Cina (Zhou, 2012): “An international reserve currency should be first be anchored to a stable benchmark and issued according to a clear set of rules, therefore to ensure orderly supply; second, its supply be flexible enough to allow timely adjustment according to the changing demand; third, such adjustment should be disconnected from economic conditions and sovereign interests of any single country”. L’assegnazione dei DSP può seguire due approcci: il migliore sarebbe quello di emetterli in modo anticiclico. Altrimenti, potrebbero essere allocati in modo regolare, tenendo conto dell’aumento della domanda mondiale di riserve. Ma i due approcci possono essere complementari: i DSP potrebbero essere distribuiti regolarmente ed essere ritirati durante le fasi alte del ciclo fino a quando c’è una svolta, seguendo criteri predefiniti. Questa soluzione è auspicabile perché darebbe luogo a un sistema ordinato, correggerebbe, almeno in parte, il “dilemma di Triffin” e l’ingiustizia attuale del sistema e, se si scegliesse l’approccio anticiclico, contribuirebbe anche a contrastare il bias antikeynesiano. Tuttavia, alcuni di questi benefici potrebbero essere rafforzati se il sistema si dotasse di ulteriori caratteristiche che facesseo aumentare l’uso dei DSP nel s.m.i., o anche utilizzarli come unico meccanismo di finanziamento da parte del FMI e, infine adottare regole di assegnazione che tengano conto delle diverse domande di riserve espresse dai pvs rispetto ai paesi avanzati. Si potrebbe prevedere che, anche se i DSP, rimangono solo attività di riserva, i paesi aumentino gradualmente le loro quote di riserve in DSP. Oppure, seguendo il suggerimento di Kenen (1983), si autorizzasse l’uso dei DSP negli scambi tra privati. Questo li trasformerebbe in un vero strumento di liquidità internazionale. Una versione semplice della riforma potrebbe consistere nel consentire che i depositi delle istituzioni finanziarie nelle banche centrali vengano denominati in DSP. Un loro uso sempre più ampio può rendere la transizione molto costosa per gli Stati Uniti, che quindi farebbero resistenza.Al fine di superarla, mentre ci si concentra sulla riforma del sistema globale di riserve, si potrebbe continuare 170 Dalle simulazioni effettuate da Kenen (2010), con riferimento ai dati 1995-2007, risulta che questi costi non sarebbero stati rilevanti durante quel periodo. 101 ad usare il dollaro come moneta dominante. L’emissione di DSP si dovrebbe concentrare durante le crisi in modo da ridurre le pressioni recessive asimmetriche degli aggiustamenti. In questo modo si raggiungono due scopi, si riduce il bias antikeynesiano e si aumenta l’assicurazione colletiva procurata dal FMI. Una volta che l’intero prestito del FMI si attua in DSP, si risolvono anche i due problemi delle quote e degli accordi di prestito. Questo è stato il metodo scelto dal G-20 nell’ultima crisi, ma questi accordi danno poteri aggiuntivi ai paesi che forniscono i fondi e ciò contraddice il carattere multilaterale dell’istituzione. Le quote implicano una diversificazione di valute, molte delle quali non possono essere usate per finanziare i programmi del Fondo. Ci sono due modi alternativi per concepire un sistema di prestiti da parte del FMI interamente finanziato con DSP. Uno è quello anticiclico suggerito da Polak (2005): i DSP vengono emessi durante le crisi e poi distrutti. L’altro modo è di utilizzare i DSP depositati presso il FMI (o ad esso prestati) per finanziare i paesi che ne hanno bisogno171. Perché queste soluzione siano efficaci nel ridurre le pressioni asimmetriche degli aggiustamenti e la necessità di autoproteggersi con l’accumulazione di riserve, è necessario superare i problemi della dimensione delle linee di credito, la loro condizionalità, lo stigma associato al fatto di prendere a prestito da questa istituzione. Una riforma più ambiziosa sarebbe quella di adottare, almeno in parte, il piano originale di Keynes per gli accordi del dopoguerra: la creazione di una possibilità di overdraft limitato da usare incondizionatamente da parte di tutti i membri del FMI per un periodo di tempo predeterminato. Ciò renderebbe il sistema più simmetrico negli aggiustamenti e consentirebbe di superare il bias antikeynesiano. Si potrebbero prevedere anche sanzioni, in termini di sospensione dei diritti di ricevere assegnazioni di DSP, per i paesi in surplus strutturale o con riserve eccessive (tenendo conto delle esigenze eccezionali dei pvs) se si vuole eliminare l’ingiustizia del sistema e il legame tra ingiustizia e instabilità associata all’autoassicurazione. Quindi una riforma ambiziosa del s.m.i. che miri ad emettere DSP in modo da soddisfare la domanda di riserve deve includere un “development link” nelle assegnazioni dei DSP. La soluzione migliore è quella di tener conto della domanda di riserve come criterio di base. A questo riguardo Williamson (2010) ha suggerito di allocare una percentuale (80%) dei DSP ai pvs e poi assegnare le percentuali tra pvs e paesi industrializzati con riferimento alle quote detenute nel Fondo. Altre formule possono includere variabili economiche proprie di ciascun paese (reddito pro capite, ecc.). Anche accordi monetari regionali potrebbero svolgere un utile ruolo complementare. Il FMI del futuro dovrebbe essere concepito come il vertice di una rete di fondi di riserva regionali (appartenenti a unioni monetarie regionali), come già fa la BM. Essi possono servire anche come linea di difesa collettiva contro l’attacco di qualunque dei suoi membri (Ocampo, 2010). In conclusione, tra tutte le proposte di soluzione si dà la preferenza a quella basata sui DSP con un chiaro obiettivo anticiclico. Entrambe queste proposte implicano l’eliminazione della divisione tra General Resources Account e gli altri conti presso il FMI. Le risorse del Fondo sono distribuite in tre conti: il General Resources Account, lo Special Disbursement Account e l’Investment Account. Il conto delle General Resources è costituito dal pool di valute e attività di riserva accumulate dai paesi membri del FMI, come capitale di sottoscrizione delle singole quote di partecipazione al capitale. Lo Special Disbursement Account concede prestiti a paesi membri che hanno difficoltà di bilancia dei pagamenti. Infine, l’Investment Account, creato nel 2006 con un trasferimento dal General Resources Account, genera le risorse necessarie alla gestione del FMI. 171 102 8.3 Dal piano Keynes alla New international clearing union. La soluzione proposta nel 1944 da John Maynard Keynes per il nuovo s.m.i, ipotizzava la creazione di una nuova unità di conto, il bancor, una moneta di riserva puramente convenzionale, non slegata dall'oro (banque-or, oro di banca), per evitare che il mondo continuasse a compiere tutte le transazioni economiche in dollari. Sarebbe stata una buona soluzione per la comunità internazionale e anche per gli Stati Uniti172. Ma Harry Dexter White, il rappresentante statunitense alla Conferenza di Bretton Woods, bocciò la proposta di Keynes perché, se una valuta di un paese è la più importante del mondo, questo status può consentirle di accumulare deficit consitenti della bilancia commerciale, cosa che non può fare un paese piccolo con una valuta secondaria. Il progetto di Keynes prevedeva anche la costituzione di una stanza di compensazione (International Clearing Union) all'interno della quale i paesi membri, che avrebbero partecipato con quote rapportate al volume del loro commercio internazionale in base alla media dell'ultimo triennio, avrebbero accumulato saldi attivi (riserve) o passivi (indebitamenti) in ragione dei saldi di bilancia dei pagamenti. Attività e passività presso la stanza di compensazione sarebbero state denominate in bancor da emettere sul presupposto di un saldo attivo a favore del Paese creditore. Il piano comprendeva limiti e penalizzazioni sull’accumulo sia di riserve sia di debiti, rendendo cosi il sistema simmetrico e scoraggiando l’insorgere di squilibri esterni nei Paesi partecipanti (a quell’epoca, principalmente gli Stati Uniti titolari di surplus correnti). Secondo il piano di Keynes, la International Clearing Union avrebbe funzionato come una banca centrale, il cui compito sarebbe stato quello di regolare il commercio internazionale tra i paesi, con facoltà di espandere l’offerta di bancor in rapporto alle necessità dell’economia internazionale e con lo scopo di compensare crediti e debiti associati agli scambi. Il bancor avrebbe avuto un cambio fisso con le diverse valute, misurando così i diversi saldi correnti. Le merci esportate sarebbero state accreditate in bancor e le importazioni ne sarebbero state addebitate. I paesi sarebbero stati incentivati ad avere un saldo nullo in bancor. Ai paesi in surplus ne sarebbe stata sottratta una percentuale da versare al fondo della stanza di compensazione col risultato di spingere questi paesi ad importare. Al contrario, i paesi in deficit avrebbero avuto le loro valute svalutate rispetto al bancor e ciò avrebbe sia incoraggiato gli altri paesi ad importare i loro prodotti, sia a rendere più costose le importazioni dei paesi in deficit. L’oro e le valute sarebbero state eliminate dai pagamenti internazionali né si sarebbero spostate tra i paesi. Il meccanismo proposto da Keynes avrebbe dato un peso maggiore ai pvs nel processo decisionale, anche se queste economie erano ancora poco aperte agli scambi nell’immediato secondo dopoguerra. Il progetto di White, che nelle grandi linee fu poi accolto nella realizzazione del FMI, prevedeva che esso avrebbe funzionato come una banca, in cui ogni Paese figurava come "correntista" utilizzando divise monetarie tradizionali (oro e rispettiva moneta). Il progetto presentava quindi dei limiti di incremento della massa monetaria che non poteva essere proporzionata al bisogno di moneta, cioè all'incremento dello sviluppo economico, ma alla quantità di riserva. Esso dava la parvenza di una maggiore affidabilità, perché era basato su una garanzia aurea, ma in effetti, non dava alcun serio affidamento che non vi sarebbero stati eccessi arbitrari nella emissione di moneta, come dovevano mostrare i successivi sviluppi della politica monetaria. Le differenze fra il progetto britannico esposto “Non utopia ma eutopia”. Questa era stata la proposta di Keynes per una moneta internazionale che potesse conciliare gli interessi dei popoli. 172 103 da Keynes (1943) e quello statunitense rappresentato da Harry Dexter White (1943) riflettevano anche una fondamentale divergenza di interessi. Il Regno Unito era preoccupato della forte disoccupazione sperimentata negli anni venti e trenta e dal forte indebitamento dovuto a massicce importazioni dei paesi del blocco della sterlina durante la guerra. Gli Stati Uniti, invece, potevano vantare grossi crediti e gran parte delle riserve auree allora esistenti (Eichengreen, 1989). Alessandrini e Fratianni (2008) hanno proposto di riesumare la vecchia idea keynesiana e di riadattarla al sistema monetario moderno con la creazione di una New International Clearance Union (NICU). L'idea è stata ripresa dal governatore della BPC, Zhou Xiaochuan che, nel 2009, ha lanciato la proposta di utilizzare i DSP come valuta sovranazionale stabile per gestire i pagamenti internazionali. Le parole del governatore cinese, il quale rappresenta il maggior finanziatore degli Stati Uniti ed il maggior acquirente di dollari del globo, sono suonate alle orecchie dei mercati internazionali come un campanello di allarme per la tenuta del dollaro e per il suo futuro come valuta di riferimento del sistema (Zhou Xiaochuan, 2009). La riforma del s.m.i. deve partire da dove il sistema di Bretton Woods aveva fallito, ovvero dalla mancanza di accordi vincolanti che regolassero le azioni dei vari partecipanti al nuovo sistema. Il primo passo in questa direzione dovrebbe prevedere un accordo tra le tre aree che di fatto dominano la scena valutaria. Ma, mentre appare scontata la partecipazione a questo accordo da parte della UEM e della Cina, altrettanto non si può dire da parte degli Stati Uniti 173. La quantità di riserve ufficiali accumulate da questi tre paesi è tale che qualsiasi tentativo di riformare il sistema e di stabilizzarlo senza il loro consenso appare pura utopia. Il passo successivo da parte delle banche centrali sarebbe quello di cedere parte dei propri attivi presso il conto della NICU e ricevere in cambio una quantità prestabilita della nuova moneta sovranazionale (DSP). Naturalmente per poter far ciò esse devono perseguire nel medio-lungo termine un tasso d'inflazione non dissimile e ciò vale anche per i tassi d'interesse (De Grawe, 2013). Questa temporanea espansione della base monetaria internazionale deve permettere ai paesi di attuare, anche se con gradualità, le necessarie politiche di rientro. Nel lungo termine, se nel sistema prevale l'inflazione sarà il paese in deficit a dover sopportare il peso dell'aggiustamento, riducendo la base monetaria ed innalzando i tassi d'interesse. Se prevale la disoccupazione dovrà essere il paese in surplus ad usare le proprie riserve per innalzare la crescita globale. 8.5 La “stagnazione secolare” L’economia mondiale rallenta. Si teme un periodo di crescita inferiore al trend storico e un cambiamento che trasforma l’intero sistema di sviluppo mondiale 174. La globalizzazione, che venti anni fa era il modello unico e irreversibile ha rallentato il suo ritmo. Il commercio mondiale non cresce a causa del rallentamento della crescita cinese e della crisi economica in molti degli altri paesi emergenti. Il web muta la sua natura aperta ed è sempre meno universale175. Ciò rischia di dare inizio 173 Al momento non sarebbe invece opportuno, per le ragioni esposte nei paragrafi 4.2.e 4.3 e nel paragrafo 6.5, ampliare questo accordo né allo yen e alla sterlina né alle valute delle altre economie emergenti, India, Russia, Brasile, o ai paesi esportatori di prodotti petroliferi. 174 A dare l'annuncio, nell’ottobre 2015, al vertice G20 di Lima, è stata la direttrice del FMI, Christine Lagarde. La crescita globale nel 2015 sarà più debole del 2014“con una modesta accelerazione nel 2016”. 175 Internet si sta trasformando lentamente in tanti Intranet suddivisi per aree geografiche. Questo processo è iniziato nei paesi autoritari come Cina, Russia e Iran, ma ora gli ostacoli allo scambio di informazioni aumentano anche tra Europa e 104 a un periodo di stagnazione secolare mondiale colpendo soprattutto le economie che hanno scelto il modello di crescita export led. Il protrarsi della crisi economica ha indotto alcuni noti economisti a ipotizzare che sia in atto un cambiamento fondamentale nei meccanismi di funzionamento delle economie avanzate. I modelli di sviluppo cambiano anche per la transizione dalla produzione di beni a quella di servizi invisibili: istruzione, sanità, finanza, turismo che ovviamente consumano meno materie prime e quindi riducono le importazioni. Anche a questo processo, oltre che alle guerre civili, sono dovuti gli spostamenti migratori eccezionali da Sud verso Nord e da Est ad Ovest. La TPP denuncia il cambiamento dal modello universale di globalizzazione della WTO a favore degli accordi regionali che consentono di difendere valori identitari e possono essere usati contro qualcuno attraverso conventio ad escludendum (contro la Cina ad esempio che è stata esclusa dal TPP o contro gli Stati Uniti esclusi dall’AIIB e dalla Export and Import Bank). Si tratta di club cui si accede dietro invito. Dal flat world di Thomas Friedman (2005), si scivola verso un mondo dove si stanno ricostituendo barriere invisibili attraverso il digital divide e che trovano una spiegazione convincente nella difesa delle identità culturali minacciate dalla globalizzazione (Romagnoli, 2014). Le prospettive di medio termine per la crescita globale sono più deboli, la stabilità finanziaria è ancora un miraggio e sulla ripresa economica pesano la bassa produttività, l'indebitamento degli stati sovrani, l'invecchiamento della popolazione, il rallentamento della Cina, le turbolenze sui mercati finanziari e i rischi elevati nei paesi emergenti. Per alcuni analisti, la situazione appare simile a quella della crisi del 2008: una forte crescita degli investimenti finanziari a fronte di un rallentamento dell'economia reale. Gli economisti la definiscono “stagnazione secolare”. Larry Summers la annunciò ai primi di novembre del 2013, in occasione dell’Forum economico del FMI. Lo studioso era preoccupato dal fatto che, al di là dello scoppio della bolla finanziaria-immobiliare e della successiva crisi economica, fosse in atto una tendenza verso una semi-stagnazione prolungata, con crescita debole e disoccupazione alta. L’economista che aveva coniato il termine era stato Alvin Hansen, il più importante diffusore, negli Stati Uniti, delle idee formulate da Keynes nella Teoria Generale. Dopo un iniziale scetticismo, Hansen maturò una comprensione profonda del mutamento di paradigma introdotto da Keynes in contrasto con la posizione teorica di Say e dei suoi eredi, influenzando molti giovani economisti, tra cui Paul Samuelson e James Tobin. La paura di una tendenza strutturale alla stagnazione era dovuta alla preoccupazione di una dinamica insufficiente della domanda di consumi e di investimenti che avrebbe causato una fase depressiva, una volta finita la seconda guerra mondiale e la formidabile mobilitazione della capacità produttiva che essa aveva comportato. La preoccupazione di Hansen si dimostrò infondata, e il termine stesso di stagnazione scomparve nel mainstream economico, ripreso solo da studiosi marxisti (à la Luxemburg) come Paul Sweezy che osservava un saggio di aumento del consumo tendenzialmente inferiore a quello dei mezzi di produzione. Tuttavia in Europa alcuni economisti cercarono di superare l’aspetto debole dell’impostazione di Hansen, spostando l’accento dalla caduta della propensione al consumo al rallentamento degli investimenti, dovuti al comportamento delle grandi imprese oligopolistiche. Joseph Schumpeter, Michal Kalecki, Josef Steindl e Paolo Sylos Labini svilupparono analisi molto Stati Uniti, e al loro interno. L’involuzione è stata accelerata dalle rivelazioni di Julian Assange e di Edward Snowden, e di fatto sta cambiando la natura della Rete. 105 rilevanti a questo riguardo, che non riscossero molta attenzione, anche perché gli anni del dopoguerra furono anni di crescita alta e sostenuta. Le analisi di questi economisti avevano una caratteristica comune: si concentravano sul settore reale dell’economia, la distribuzione del reddito, la struttura oligopolistica della produzione. Nei loro modelli mancavano però la moneta e il credito, i tassi d’interesse e le banche. Anche prescindendo dalla recente crisi finanziaria, se guardiamo al ventennio “perduto” del Giappone, si vede che i debiti delle banche, l’esitazione a far scendere sotto zero i tassi d’interesse e la deflazione che fa aumentare i tassi reali, sono stati fenomeni fondamentali nel determinare la lunga stagnazione nipponica. Dal lato monetario, le spiegazioni della difficoltà di uscire dalla stagnazione per i paesi dell’OCSE, nonostante le operazioni non convenzionali di politica monetaria (QE e ora i tassi d’interesse negativi, che in parte ne sono la conseguenza), non sono mancate nella letteratura: basti pensare alla trappola della liquidità di Keynes. Un’altra spiegazione era stata elaborata da Don Patinkin, che aveva ripreso la distinzione di Kurt Wicksell tra tasso di interesse naturale e tasso monetario 176. A questa impostazione hanno fatto riferimento sia Krugman che Summers nel dibattito sulla stagnazione secolare. Ora che è stato rimosso il floor (zero) per i tassi d’interesse177, l’applicazione di tassi monetari negativi serve a bilanciare i tassi naturali negativi che si sono manifestati negli ultimi anni, come mostra la figura 10. Questa politica risponde a diversi scopi: a) favorire l’eguaglianza tra risparmi previsti e investimenti pianificati; b) stimolare i consumi e la velocità di circolazione della moneta; c) difendere le monete nazionali dalle svalutazioni competitive; d) dare efficacia alle manovre espansive, anch’esse non convenzionali, delle banche centrali 178. Tuttavia i tassi monetari negativi hanno anche dei costi: a) scoraggiano il risparmio; b) consentono il finanziamento di investimenti improduttivi; c) espongono i paesi che li adottano alla possibilità di una crescita antieconomica, ovvero una crescita che costa più di quanto rende. Queste considerazioni mostrano che per un’analisi completa delle tendenze stagnazioniste sarebbe stato necessario tener conto sia dell’economia reale che della moneta. Ciò è spesso mancato anche nelle analisi critiche dell’austerità fiscale europea, sebbene ogni buon rimedio vada somministrato con misura e lungimiranza. È stato osservato che sotto la leadership tedesca, la direzione della correlazione tra la crisi finanziaria e la crescita dei debiti pubblici nell’Eurozona è stato capovolto. Di fatto la lettura della direzione di questa correlazione tra i due mali, muta a seconda del momento in cui viene effettuata. La crisi finanziaria ha dato luogo a una crisi bancaria e la decisione da parte degli Stati di salvare le banche ha fatto crescere i debiti sovrani minando la loro credibilità e propiziandone, a sua volta, la crisi. Ma questo non è un paradosso non keynesiano favorito dalle L’economista svedese aveva distinto il tasso d’interesse naturale, ovvero il tasso d’interesse che sarebbe determinato dall’offerta e dalla domanda se i beni capitali reali venissero prestati in natura, dal tasso d’interesse monetario, ovvero il tasso d’interesse domandato e pagato per i prestiti in moneta. Il tasso d’interesse monetario, se lasciato libero di variare, tende a quello naturale che mette in equilibrio risparmi e investimenti. 177 Si osserva che l’interesse per obbligazioni con tassi di interesse negativi si spiega con i guadagni attesi in conto capitale da parte di investitori che prevedono ulteriori cali dei rendimenti. 178 I tassi d’interesse monetari negativi rappresentano una tassa sul risparmio ma finora invece hanno spostato le risorse monetarie degli investitori verso investimenti “sicuri” nei titoli del debito pubblico a lungo termine. Da marzo 2015 a febbraio 2016 i titoli di Stato emessi nel mondo con tassi d’interesse negativi è aumentato da 3,85 migliaia di miliardi di dollari a 8,7. Si osserva che i tassi d’interesse negativi, che in periodi di deflazione possono comunque dar luogo a tassi d’interesse reale positivi espongono a forti rischi i paesi molto indebitati e con invecchiamento rapido della popolazione, come l’Italia e il Giappone. 176 106 agenzie di rating con i loro downgrading consecutivi dei debiti sovrani. Fa pensare piuttosto a un episodio della guerra delle valute, in questo caso tra dollaro ed euro. Figura 10. Il declino del tasso d’interesse naturale 1961-2014 Fonte: Laubach T., Williams J. C. (2003) e aggiornamenti. Per l’uscita dalla recessione, vi sono strategie diverse che non possono prescindere dalle situazioni dei singoli paesi. Quella tedesca di ridurre i deficit pubblici, in particolare nei PIIGS ha portato alla deflazione e questa, al contrario dell’inflazione, penalizza i debiti sovrani. In un saggio recente, Kaushik Basu e Joseph Stiglitz (2013) hanno mostrato come la scelta cooperativa nella gestione di un debito sia conveniente sia al soggetto che si indebita che al suo partner, cioè ad un altro soggetto legato al primo da rapporti economici di vario tipo (tra cui avere una moneta comune). Il lavoro in questione è teorico, ma il riferimento all’euro e alla Germania è esplicito. Ma per l’Eurozona, una scelta diversa da quella tedesca, mirata alla sottrazione dalla speculazione internazionale dei PIIGS, avrebbe portato alla dissoluzione dell’euro per le ragioni esposte in precedenza che sono alla base dell’integrazione monetaria europea179. Di fatto, congetture pessimistiche sono state formulate in passato dopo tutte le recessioni più profonde. Tali congetture si sono poi dimostrate fallaci non perché costruite sulla base di teorie erronee o dati incompleti, né per le difficoltà di prevedere l’introduzione di nuove tecnologie, ma perché avevano sottovalutato le potenzialità delle tecnologie già esistenti, in primis quelle dell’industria militare. L’economia mondiale è in una fase molto diversa rispetto al periodo successivo alla seconda guerra mondiale, in cui la fine del protezionismo, l'apertura delle frontiere, l'entrata delle donne nel mondo del lavoro, l'innalzamento del livello d'istruzione, l'espansione dell'indebitamento delle famiglie, lo sviluppo tecnologico e la fiducia nel futuro sono state leve fondamentali per la crescita economica dei paesi avanzati in quegli anni. Oggi, invece, le sfide sono poste da un importante rallentamento di due fattori chiave: quello demografico, che comprime i 179 Vedi la conclusione del paragrafo 4.1. 107 consumi, e quello tecnologico, che comprime gli investimenti e l’occupazione. A questi si accompagnano la stagnazione dei salari, l'indebitamento dei governi, la deflazione e una crisi di fiducia collettiva che danno vita al circolo vizioso della crisi economica, in una spirale negativa che si autoalimenta. Secondo Keynes, all'origine di ogni crisi economica c'è una carenza di domanda. E proprio la depressione della domanda globale, la sovrapproduzione, il crollo dei prezzi delle materie prime esportate dai paesi emergenti colpiti duramente dal rallentamento dell'economia cinese, la deflazione sono alla base della stagnazione secolare che stiamo vivendo. Per affrontare una crisi da domanda bisogna ripartire dai consumi e dagli investimenti. Ma al tempo di Keynes, alla fine del periodo della finanza neutrale, i debiti sovrani erano marginali e la politica di bilancio aveva possibilità ben diverse da quelle odierne. Con questa consapevolezza, una strategia lungimirante deve far conto su una politica industriale efficace senza dimenticare l'importanza di una più equa distribuzione della ricchezza sociale, che consenta appunto di rilanciare sia i consumi che gli investimenti (Romagnoli, 2014). Il pensiero neo-keynesiano di Larry Summers e Paul Krugman invita a guardare il mondo in modo diverso. Non c’è un eccesso di liquidità in senso assoluto ma relativo: cioè solo se commisurato alle opportunità di investimento. Questo è uno degli aspetti della stagnazione secolare che si manifesta con una crescita mondiale modesta. Di conseguenza molte capacità produttive restano inutilizzate: anzitutto il capitale umano. L’eccesso di risparmio e di liquidità dovrebbe essere assorbito da investimenti produttivi. Un esempio da seguire per impiegare questa capacità inutilizzata e dare opportunità di lavoro è quello della politica cinese in Africa e in America Latina. Invece alcuni paesi stanno pensando di farlo producendo armamenti, richiamando così le infauste esperienze europee del secolo scorso: durante la crisi 1907-1913 che precedette la Prima Guerra mondiale e durante la crisi 1929-1933, che venne realmente superata anche con le spese per le armi al di qua e al di là dell’Atlantico solo all’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Secondo Summers e Stiglitz, i responsabili veri di questo eccesso di risparmio sono Germania, Cina e Giappone che continuano ad accumulare surplus di bilancia dei pagamenti. Raccogliendo una nota convinzione di Keynes, alla radice ci sarebbe uno squilibrio (la sobrietà dei consumi), non una virtù. Chi esporta troppo e importa troppo poco segue un modello economico di basso investimento rispetto alle potenzialità. E invece, alla base della stagnazione secolare, c’è un mondo ricco che si gira dall’altra parte davanti a quello povero. Una determinante importante della stagnazione secolare è data dalla dimensione dei debiti sovrani180. I paesi con i maggiori debiti pubblici in rapporto al PIL sono, in linea di massima, i paesi più ricchi (Stati Uniti, Giappone, Canada, i paesi dell'Europa occidentale), per cui si può affermare che parte del loro sviluppo economico e del loro benessere è finanziata dal resto del mondo181. Dal G20 di Lima 180 Il debito pubblico del mondo, ovvero la somma del debito pubblico dei singoli paesi, espresso in dollari, si aggirava già su 150.000 miliardi di dollari nel 2011. 181 Il debito pubblico statunitense, al 28 febbraio 2011 ammontava a 14.194,76 miliardi di dollari, massimo storico assoluto, essendo aumentato, nei tre anni precedenti, al ritmo di 1.000 miliardi di dollari ogni sette mesi circa. Ha raggiunto (e superato, nonostante politiche di bilancio restrittive) i 14.000 miliardi nel dicembre 2010 e i 15.000 miliardi nel marzo 2013. Uno studio a lungo termine del debito pubblico USA da parte dell'Ufficio Bilancio del Congresso prevede 108 di ottobre 2015 è emerso che i paesi emergenti hanno debiti per 3000 miliardi di dollari. A differenza delle due ultime ondate di default, quelle degli anni ‘80 in America Latina e degli anni ‘90 nel SudEst asiatico, ora l’iperindebitamento riguarda soprattutto il settore privato, ma non per questo è meno preoccupante. Se falliscono le grandi conglomerate private nei paesi emergenti, vi saranno ripercussioni ovunque, a cominciare dalle finanze pubbliche di quei paesi. Nella sola Cina, il 25% dei debiti delle grandi aziende è a rischio. Altrettanto accade in Brasile, in Russia e così via. I loro eventuali default influenzerebbero prima i deficit pubblici di questi paesi e poi le nostre Borse. Infatti, molti fondi comuni d’investimento statunitensi ed europei si sono esposti con titoli derivati nelle piazze finanziarie esotiche. La secular stagnation di cui parla Summers (2014b) potrebbe non essere solo una congiuntura negativa, ma diventare lo stato normale dell'economia mondiale. In sintesi la crescita è bassa e ha bisogno di essere drogata finanziariamente, con la certezza di alimentare bolle speculative (Teulings, Baldwin, 2014). Si tratta di un processo decisivo per i paesi a capitalismo maturo dagli anni ‘80 in poi. La cosiddetta “finanziarizzazione” ha avuto una triplice funzione: 1. mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi dei lavoratori; 2. allontanare nel tempo lo scoppio della crisi da sovrapproduzione nell’industria; 3. fornire al capitale, in crisi di valorizzazione nel settore industriale, alternative d’investimento a elevata redditività. In questo modo essa ha rallentato – e per alcuni anni invertito – la tendenza alla caduta dei profitti. Oggi, con la crescita mondiale in fase di decelerazione, potrebbe prospettarsi una stagnazione secolare che, tuttavia, i paesi avanzati potrebbero evitare se volessero guardare alla disoccupazione e alla domanda inespressa del resto del mondo in via di sviluppo che stenta a raggiungere standard di vita dignitosi nel rispetto dei diritti economici e del lavoro delle persone previsti dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948. Ma si preferisce non affrontare il problema della domanda nozionale di beni e servizi di molti paesi dell’Africa e dell’America Latina. In conclusione si osserva che da anni gli economisti dell’ambiente paventano l’esplosione dei consumi globali, che tendono a generalizzarsi sui modelli occidentali. Ma guardare alla stagnazione secolare come un modo per scongiurare tale pericolo trascura la necessità di soddifare la domanda di basic needs da parte di una quota consistente della popolazione mondiale e quindi di una redistribuzione del reddito mondiale tra i paesi avanzati, quelli emergenti e soprattutto quelli in via di sviluppo. Una visione alternativa al paradigma della crescita (Romagnoli, 2015a) prevede un dimensionamento ottimale della macroeconomia. La realizzazione della giustizia sociale sul piano mondiale è premessa e condizione per uno sviluppo qualitativo e sostenibile per tutti, ai fini di una stabile pace sociale, oggi molto compromessa da vistose sperequazioni tra ricchi e poveri. Queste motivazioni indicano l’importanza che il nuovo s.m.i. sia disegnato in modo realmente multivalutario. per i prossimi anni una crescita così ampia che si può arrivare a parlare di pericolo di bancarotta per gli Stati Uniti. Da notare che le cifre sopramenzionate si riferiscono al solo debito federale, con l'esclusione dell'ingente debito locale (municipale, contee e singoli stati). Il debito pubblico del Giappone, che è già il secondo del mondo, raggiunge il 200% del Pil, ed è previsto in crescita fino a un nuovo livello record di 13.500 miliardi di dollari, a causa degli sforzi per la ricostruzione post-terremoto. Il debito delle amministrazioni provinciali cinesi è stato stimato pari a 2.300 miliardi di dollari, nel 2010, al terzo posto dopo gli Stati Uniti e il Giappone. 109 8.6 Le misure adottate per contrastarla L’ambiente economico statunitense e mondiale è cambiato nel corso della crisi e ciò emerge dalle misure prese per contrastarla. Ben Bernanke ha ridotto il tasso d’interesse della Fed a zero. Lo ha tenuto a quel livello, e la nuova presidente della Fed, Janet Yellen, ha persistito nella nuova politica monetaria. L’economia statunitense ha mostrato di saper reagire a uno stimolo tanto drastico, portando il suo livello di crescita a una ripresa soddisfacente. Il QE statunitense è riuscito a muovere i prezzi, ma essi hanno mostrato una particolare riluttanza ad accelerare. Secondo molti esperti, la “curva di Phillips” è tra le vittime illustri della drastica congiuntura interna e internazionale. L’inflazione è in qualche misura tornata negli Stati Uniti, ma non sembra essere ancora correlata con la caduta della disoccupazione, come vorrebbe la teoria. L’ultima volta che la Fed alzò i tassi, nel giugno 2006, l’inflazione si aggirava intorno al 4%, il doppio della velocità desiderata. Se i prezzi oggi non salgono, il motivo principale è nei postumi della crisi dei mutui sub-prime. Inondando gli Stati Uniti e il resto del mondo di liquidità e tenendo il costo del credito a livelli eccezionalmente bassi, la Fed ha cercato piuttosto di stimolare l’inflazione. Ma questa tarda a manifestarsi anche per altre ragioni: l’effetto deflattivo del rallentamento cinese e degli altri BRICS, i cambiamenti strutturali che possono prefigurare una “stagnazione secolare”. La disoccupazione ufficiale scesa al 5% negli Stati Uniti è un buon risultato, soprattutto se si paragona a quello europeo. Tuttavia esso non tiene conto di una fascia di popolazione che ha smesso di cercare lavoro o che deve accontentarsi di impieghi part-time con cui non guadagna abbastanza. Infine c’è il mistero dei salari che salgono poco perfino in questa situazione di pieno impiego mentre i rapporti di forza capitale-lavoro e i livelli di sindacalizzazione della manodopera sono ai minimi storici. Per questo gli economisti keynesiani avevano chiesto il rinvio del rialzo dei tassi d’interesse statunitensi finchè i lavoratori non avessero recuperato potere negoziale. Anche negli Stati Uniti, dove la crescita è più elevata di quella europea, il Pil rimane al di sotto del reddito potenziale, come mostra la figura 11. La spiegazione della contrazione della sua crescita, nonostante che il paese è sia stato sulla frontiera tecnologica dall’inizio del secolo scorso, centra l’attenzione sui cambiamenti demografici e tecnologici in atto. In particolare, Robert Gordon (2015) ha sottolineato il ritorno della produttività totale dei fattori a tassi di crescita pre-1930, la stagnazione demografica, l’aumento dell’aspettativa di vita e il completamento del processo di istruzione di massa. Stanley Fischer ha affermato che la curva di Phillips tornerà in auge, ma nella Fed si confrontano due visioni. Fischer difende la versione neoclassica che cerca di far convivere la nuova economia keynesiana con la teoria basata sulla scarsità. Lo stimolo monetario riesce a far aumentare la domanda di lavoro ma non mette in moto la spirale inflattiva. Janet Yellen attende che lo stimolo monetario muova il mercato del lavoro modificato da due decenni di rivoluzioni tecnologiche. In realtà, negli Figura 11. Pil potenziale e reale negli Stati Uniti, 1980-2015 110 Valori concatentati 2009. Fonte: FRED, Federal Reserve Bank of St. Louis, 2015. Stati Uniti l’offerta di manodopera femminile è aumentata e la tecnologia ha messo a disposizione delle imprese la possibilità di creare domanda senza impegnare lavoratori a tempo pieno. Ciò ha generato una grande espansione di lavori a mezzo tempo, pagati molto meno rispetto ai “good jobs” che offrono copertura sanitaria e pensione. Negli ultimi venti anni la crescita dei paesi emergenti come fornitori di beni a prezzi competitivi ha continuato a desertificare interi settori dell’economia statunitense e i lavori di buona qualità che essi offrivano. Di fronte a queste modifiche strutturali, la presidente della Fed avrebbe dovuto mantenere il costo del denaro il più basso possibile mentre, a livello internazionale, la domanda di fondi prestabili resta bassa. L’assenza della curva di Phillips di breve periodo l’ha spinta, fino al gennaio 2016, a rinviare il rialzo dei tassi. Tuttavia, mentre negli anni in cui l’economia statunitense è rimasta stagnante, nessuno ha osato rilanciare le ricette neoclassiche, esse sono rimaste il riferimento prevalente delle economie europee depresse da una domanda interna debole e spinte a crescere solo mediante le esportazioni per difendersi dalla speculazione sui mercati finanziari. Inariditesi queste, con il rallentamento della Cina e delle economie emergenti legate ad essa, si è messa in evidenza l’incapacità di generare una domanda globale sufficiente. Tuttavia la rinnovata fiducia sull’efficacia della politica economica che aveva portato al salvataggio delle banche non ha scalfito le prassi dei mercati finanziari che avevano portato alla crisi. Confrontando i modelli statunitense ed europeo emerge che il primo crea domanda di lavoro, nonostante la rivoluzione tecnologica occorsa e l’invasione delle merci prodotte nei paesi a salari bassi. Se questo processo si interrompe, la Fed, che emette moneta di riserva, può invertire la sua politica appena intrapresa del rialzo dei tassi d’interesse. Anche la BCE si è mossa per spingere finalmente verso il basso i tassi d’interesse e il tasso di cambio dell’euro, offrendo liquidità ai mercati. 111 Ha potuto farlo, nonostante le regole del Trattato europeo, per la minore resistenza di banchieri ed economisti tedeschi alle politiche espansive proposte da Mario Draghi. Ma, come egli ha spesso ripetuto, la politica monetaria non può fa riprendere la crescita in mancanza delle riforme necessarie a riacquistare la competitività di prezzo ora che gli spazi di quella tecnologica si sono ridotti. La crescente globalizzazione del mercato del lavoro ha indebolito le forze che motivavano la curva di Phillips di breve periodo ponendo le economie avanzate, soprattutto quelle che hanno perso la sovranità monetaria, dinanzi alle tesi del ciclo puro dell’economia in cui le uniche politiche efficaci sono appunto quelle indirizzate al mercato del lavoro. Il problema della disoccupazione è sempre meno sensibile alle politiche monetarie e fiscali perché ha una forte componente strutturale. Questa considerazione riporta alle conclusioni delle recenti conferenze di Boston e di Londra già ricordate e fa comprendere la necessità e l’importanza della ripresa della crescita della produttività in Europa. Il rischio è che essa invece venga influenzata negativamente da diversi fattori, tra i quali: i rendimenti decrescenti nell’attività di ricerca, un più basso contributo delle ore lavorate (a causa del pensionamento dei baby boomers), la stagnazione del capitale umano (se gli anni di formazione e di esperienza di lavoro rimangono costanti a causa del costo crescente dell’istruzione universitaria), l’indebolimento della dinamica endogena del progresso tecnico. Queste osservazioni hanno condotto gli studi recenti ad ipotizzare che l’economia statunitense possa tornare a una fase di stagnazione secolare. Al fatto che essa è incapace di espandere anche il suo reddito potenziale pro-capite, una misura riferita alla famiglia media, si aggiunge che il reddito sta già stagnando da quasi 30 anni per il 99% delle famiglie americane (quelle il cui reddito è inferiore al 99.mo percentile nella distribuzione del reddito) e potrà crescere in futuro solo dello 0.6% (Byrne et al., 2013). Un nuovo dato rafforza la teoria della stagnazione secolare. Lo ha fornito recentemente il Conference Board (2016): la produttività statunitense, dopo anni di stallo, è in calo nel 2016 dello 0,2%. È un segnale negativo che viene al termine di 6 anni consecutivi di crescita, durante i quali sono stati creati 14,6 milioni di posti di lavoro e contribuisce a spiegare la mancata crescita dei salari. I due fenomeni sono ovviamente legati: aumentando in modo consistente la forza di lavoro occupata, è naturale che siano tornati in attività anche i lavoratori meno produttivi 182. In presenza di un rallentamento della crescita del progresso tecnologico, dell’innovazione e della popolazione che sono motori importanti della crescita della produzione, si apre lo scenario della stagnazione secolare. Infine, un contributo importante alla stagnazione viene dall’aumento della diseguaglianza che impedisce a vasti strati della popolazione di sostenere la domanda, fa aumentare il tasso di risparmio e mantiene bassi i tassi d’interesse. La crescita dell’Eurozona negli ultimi anni è stata molto bassa e non se ne prevede una rapida accelerazione. Il motivo, secondo Summers (2014a), è che già ben prima della crisi 2007-2009 il modello di crescita dei paesi dell’OCSE era insostenibile, in quanto basato sulla finanza e sul debito: “purtroppo, è chiaro che la difficoltà emersa negli ultimi anni quanto al raggiungimento di una crescita adeguata era già presente da molto tempo, ma era stata occultata da una finanziarizzazione insostenibile”. 182 A meno di un aumento della produzione maggiore di quello delle ore lavorate, il loro aumento riduce la produttività del lavoro per definizione. 112 Successivamente, Stiglitz (2014), che ha sostenuto la stessa tesi ha osservato: “Il punto che sollevai mezzo secolo fa era che fondamentalmente l’economia americana era malata già prima della crisi: è stata solo una bolla immobiliare, creata attraverso una regolamentazione lassista e bassi tassi di interesse, a far sembrare l’economia robusta. Sotto la superficie si nascondevano numerosi problemi: una crescente disuguaglianza, un’evidente necessità di riforme strutturali (per passare da un’economia basata sul manifatturiero ai servizi e per adattarsi ai nuovi vantaggi comparativi globali), squilibri globali persistenti e un sistema finanziario più concentrato a speculare che a fare investimenti finalizzati a creare posti di lavoro, aumentare la produttività e reimpiegare i surplus per massimizzare i rendimenti sociali”. L'economia dei paesi ricchi presentava inequivocabili sintomi di malessere, perché cresceva solo grazie a grandi stimoli monetari, all'indebitamento pubblico e privato e al gonfiarsi di bolle speculative. E le conclusioni del G20 di Shanghai del febbraio 2016 mostrano che questi problemi rimangono irrisolti183. Il rallentamento economico cinese ha innescato il timore di un contagio non solo nei paesi produttori di materie prime, ma in tutte le economie avanzate. I nuovi posti di lavoro inferiori alle attese negli Stati Uniti, l’aumento del QE europeo, la deflazione in Giappone, rafforzano i timori di una stagnazione. Il problema è noto come saving glut: un eccesso di risparmio nel mondo, indice di una persistente carenza di consumi che fa temere un periodo di crescita inferiore al trend storico. La sua soluzione, a differenza di quanto fatto finora, non va però trovata in un’ulteriore finanziarizzazione dell’economia mondiale bensì in investimenti mirati a soddisfare i bisogni fondamentali delle popolazioni in via di sviluppo. Finora questa è stata la politica economica internazionale della Cina, anche se finalizzata in primis alle proprie necessità. Ciò vale soprattutto per i paesi che hanno fatto conto sull’export cinese nell’illusione che il suo ritmo elevato di crescita fosse eterno: non solo i produttori di materie prime, come l’Australia o molti paesi dell’Africa e del Sud-America, ma anche le numerose nazioni asiatiche che hanno sacrificato i consumi alle esportazioni, ripercorrendo i modelli tedesco e giapponese del secondo dopoguerra: Corea del Sud, Taiwan, Malesia, Singapore. Questa strategia potrebbe essere d'aiuto nella lotta globale contro la deflazione, anche se trasmette incertezza a tutte le economie emergenti che competono o commerciano sugli stessi mercati dei produttori cinesi man mano che cresce la divergenza tra le politiche monetarie delle diverse aree del mondo. È possibile tuttavia che gli investitori interpretino nel modo sbagliato gli obiettivi delle autorità cinesi. L'interesse di Pechino può essere semplicemente quello della trasformazione dell'economia cinese da fabbrica globale a struttura più bilanciata sui servizi. Il fatto che di recente il FMI abbia incluso il renminbi nel paniere dei DSP è un riconoscimento alla ricerca di maggiore stabilità economica e finanziaria da parte di Pechino. Naturalmente non c'è garanzia che la razionalità del disegno politico prevalga sulla paura dei mercati. Ma, se la Cina ha creato i presupposti per la riconversione nel tempo la sua domanda globale da investimenti ed export ai consumi interni, gli altri paesi sono impreparati a questo cambiamento di 183 Questa tesi del ministro delle finanze tedesco Wolgang Schauble è stata fatta propria da Christine Lagarde, direttore del FMI. 113 modello, non potendo riconvertire in tempi brevi la loro struttura produttiva finalizzandola appunto ai consumi interni (Romagnoli, 1979): ne sono prova i provvedimenti eccezionali, quanto inefficaci del governo Abe (che però si confronta con la crisi demografica) o la crisi sociale in Brasile che però esporta materie prime. Gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno affrontato questo problema appena si è presentato, e hanno aumentato la spesa pubblica per compensare il calo dei consumi lasciando che i loro deficit pubblici raggiungessero livelli record (il 12,8% del Pil nel 2009 negli Stati Uniti). Le loro banche centrali e le Agenzie governative hanno prima azzerato i tassi d’interesse e poi acquistato i mutui dei cittadini, evitando che lo scoppio della bolla immobiliare li travolgesse. Contrariamente al resto del mondo, hanno poi importato il risparmio estero per evitare di comprimere i consumi interni e finanziare la spesa pubblica, sfruttando, a proprio vantaggio, il saving glut mondiale. Negli ultimi 12 mesi il deficit commerciale degli Stati Uniti e del Regno Unito (580 miliardi di dollari), ha assorbito quasi per intero l’avanzo di tutta l’Asia, Cina e Giappone compresi. L’Asia ha così risparmiato per finanziare i consumatori statunitensi e britannici. Si osserva, tuttavia, che se i paesi privi di sovranità monetaria seguissero l’esempio statunitense i mercati finanziari potrebbero innalzare in modo esponenziale gli spread sui rendimenti dei loro titoli di debito. Anche per questo, i PIIGS, spinti dall’Eurozona a guida tedesca, hanno seguito un modello simile a quello asiatico (compressione dei consumi interni e taglio della spesa pubblica per aumentare l’export). Solo la BCE ha varato recentemente una politica monetaria espansiva, ma con sensibile ritardo rispetto alla Fed. Da prima della crisi, l’Eurozona-12 è cresciuta cumulativamente di appena lo 0,5%, ma il contributo alla crescita della domanda esterna è stata, nel periodo, di 2,8%; con la sola domanda interna l’Eurozona sarebbe ancora 2,3% sotto il Pil di sette anni fa. Il problema della mancata crescita della domanda mondiale non è quindi dato soltanto dal rallentamento cinese ma anche dalla stagnazione dell’Eurozona. Nelle conclusioni di Summers e di Stiglitz si può leggere l’invito, eticamente discutibile, all’Europa affinchè segua l’esempio degli Stati Uniti che rimediano al saving glut. In questo senso, l’Europa potrebbe decidere di intraprendere una politica economica concentrata su tagli coordinati delle imposte per spingere i consumi interni, cofinanziandoli importando una parte dell’eccesso di risparmio del resto del mondo tramite un deficit esterno. Tuttavia, essa si esporrebbe così alle critiche già rilevate per la politica economica internazionale degli Stati Uniti. Seppure si vuole prescindere dal fatto che l’euro in crisi non può considerarsi un’alternativa al dollaro come moneta di riserva, si ricorda che da questa politica si sono generate le masse speculative in cerca di occasioni, a volte finite in Grecia (dove nacque la bolla Euro-Sud dopo la creazione della moneta unica), altre volte in piazze più esotiche come il Brasile. Per la Cina, la strategia è aperta. Il governo sembra deciso ad affrontare i tre principali aspetti che ostacolano il mantenimento dei ritmi di crescita: 1. l’andamento demografico, con il superamento della politica del figlio unico; 2. la globalizzazione, con l’intento programmatico di aprirsi a un movimento dei capitali più liberalizzato e di gestirlo attraverso l’AIIB, il NDB BRICS, la Export and Import Bank e l’e-commerce; 3. le riforme, con le promesse di maggiori coperture pubbliche dei rischi della salute e della vecchiaia. Va osservato infine che il rallentamento della crescita cinese contribuisce a portare il resto del mondo alla stagnazione secolare mentre la posizione della Cina, la cui economia continua nondimeno a crescere a ritmi elevati, è destinata ad aumentare la sua distanza dal resto del mondo, ad eccezione dell’India, a partire dal suo antagonista planetario, ovvero gli Stati Uniti. Per gli altri paesi emergenti, nell’immediato, oltre alla riduzione delle importazioni cinesi, agiscono a contenerne la crescita: la riduzione dei prezzi delle materie prime esportate, incluso il 114 petrolio, che riduce i loro redditi e la prospettata normalizzazione della politica monetaria americana, che aumenta gli oneri dei debiti (sia in valuta, per la rivalutazione del dollaro, che per il rialzo dei tassi d’interesse). L’espressione “New Mediocre”, usata dal FMI per il futuro, lascia trapelare quale sia la visione degli economisti che vi lavorano, e i rischi annunciati sono verso il basso. Per scongiurare la stagnazione secolare, la Fed dovrebbe interrompere i rialzi dei tassi, la BCE potenziare il suo QE e altrettanto la BoJ. Ma ciò sarebbe insufficiente se l’eccesso di risparmio non viene impiegato in investimenti produttivi mirati a soddisfare i bisogni fondamentali di una quota elevata della popolazione mondiale. Per questo l’applicazione di tassi monetari negativi può contribuire a scongiurare la stagnazione secolare. Forse non si è ancora in una situazione simile al 2008, quando il detonatore furono i mutui sub prime, ma ora potrebbe bastare la catena di fallimenti delle società che producono shale oil negli Stati Uniti, messe in larga parte fuori mercato dai bassi prezzi del greggio e dalla sovrapproduzione dei paesi dell’Opec mirata ad indebolire i paesi produttori meno efficienti di petrolio e di gas. 9. Conclusioni La dominanza del dollaro, come era avvenuto in precedenza per la sterlina, mostra che la forza militare dà origine a una moneta dominante cui si accompagna la internazionalizzazione e la crescita dell’uso. L’inseguimento interrotto dell’euro nel 2010 mostra le difficoltà di seguire una strada diversa. La crisi finanziaria mondiale ha mostrato che il dollaro rimane la moneta dominante nel s.m.i. nonostante lo il collasso sfiorato del sistema finanziario statunitense durante la crisi 2007-2009, la retrocessione della credibilità del suo debito da parte di Standard&Poors e l’emersione del renminbi come moneta internazionale concorrente accanto all’euro. Il dollaro supera di molto tutte le altre monete sia in termini di valuta usata per gli scambi che nelle riserve delle banche centrali, perciò nessun cambio di leadership probabilmente avverrà nel breve termine. Di conseguenza nessuno è immune da ripercussioni, quando la politica monetaria statunitense cambia di segno. A dicembre 2015, si è aperta una fase nuova, dopo sette anni di tassi vicini allo zero, con prospettive di rendimenti crescenti sui titoli in dollari. Ora sono i paesi emergenti i primi a rimanere scoperti e a soffrire fughe di capitali diretti verso gli Stati Uniti. L’Eurozona viene colta, ancora una volta, in controtendenza, dopo le crisi di primo e di secondo livello. I primi segni positivi della svalutazione dell’euro hanno appena iniziato a manifestarsi in Europa, ma la ripresa è ancora fragile e la disoccupazione elevata. La politica economica europea si basa su una politica monetaria espansiva che si coniuga con una politica fiscale ancora restrittiva a causa della crisi dei debiti sovrani. Tra le turbolenze cinesi e il nuovo corso della Fed, il rischio è che l’Europa continui a subire. Nel sistema di Bretton Woods 2, i maggiori finanziatori degli Stati Uniti sono stati, ad eccezione del Giappone, paesi emergenti che in qualche modo si appoggiano agli Stati Uniti per la propria difesa. Non è questo il caso della Cina e ciò prospetta uno scenario inedito sullo scacchiere mondiale. Il FMI, con il consenso implicito degli Stati Uniti, ha accettato il renminbi tra le monete chiave del s.m.i.. Tuttavia, nelle settimane successive, si è assistito alla reintroduzione dei controlli dei capitali da parte della Cina e ad ulteriori svalutazioni del renminbi. Fino a quando il tasso di crescita dell’economia cinese era rimasto quello dell’ultimo decennio tutti facevano a gara per prestare risorse alle aziende cinesi, in specie a quelle finanziarie. Poi il clima è cambiato. L’annuncio, da parte della dirigenza della Fed, a metà del 2014, che si rendeva necessario frenare l’economia statunitense, visto il 115 dimezzarsi della disoccupazione intorno al 5%, è restato tale a lungo, sperando di potersi esimere dal passare ai fatti. Fischer, vice presidente della Fed, ha dichiarato al convegno di Jackson Hole di fine agosto 2015, di essere ben cosciente di avere creato grosse difficoltà alla dirigenza cinese e di altri paesi emergenti, ma di considerare il proprio compito quello favorire innanzitutto l’economia e i cittadini statunitensi. Per comprendere la situazione in cui versa la Cina e le sue prospettive di crescita, si può confrontare l’esperienza di quest’ultima con quelle di alcune storie note di sviluppo economico degli ultimi 50 anni: il Giappone che raggiunse l’attuale reddito procapite della Cina all’inizio degli anni ‘70, Taiwan che varcò questa soglia negli anni ‘80 e la Corea del Sud che lo fece intorno al 1990. La Cina ha avviato, dal 2013, un piano di trasformazione dell‘economia finalizzato alla stabilità politica, alla crescita economica e al raggiungimento delle proprie ambizioni planetarie. I cinesi hanno compreso che gli squilibri globali sono funzionali all’economia statunitense e se la Cina riduce i suoi surplus di conto corrente acquisterà meno debito statunitense indebolendo così il meccanismo che consente agli Stati Uniti di consumare con risorse prestate dall’estero. Dopo l’ammissione del renminbi al basket dei DSP, le ambizioni planetarie della Cina continuano a manifestarsi incalzanti attraverso la creazione di un sistema di alleanze, anche inedite, che ha dato luogo a istituzioni economiche internazionali in concorrenza con quelle di Bretton Woods. Queste considerazioni mostrano che il problema geopolitico più importante dei nostri tempi è il rapporto tra la superpotenza emergente e la superpotenza che resiste. Entrambe non sono più in grado di trainare, da sole, la crescita mondiale. Al di là della necessità di evitare una guerra in Asia nei prossimi anni, il cambiamento del clima dell’economia mondiale non potrà essere affrontato e gestito senza una stretta collaborazione sino-americana. Il sistema economico internazionale è sempre più frammentato, nuovamente diviso in sfere di influenza, tentato dal rafforzamento dei confini, attraversato da forti correnti di disintegrazione o di rinazionalizzazione della sicurezza. Ma è soprattutto un sistema sempre più in difficoltà nella ricerca di soluzioni concertate alle principali crisi, come evidenziato attualmente per i casi della guerra civile siriana, degli attentati dell’Isis e della crisi migratoria in Europa. È paradossale che nell’attuale scontro tra Arabia Saudita e Iran, sia la V Flotta, simbolo di una leadership “unipolare”, a garantire i rifornimenti petroliferi di Cina e Giappone dal Medio Oriente, che pure ha perso la sua centralità energetica globale. Per queste ragioni, la riflessione sulla riforma necessaria del s.m.i., che è oggetto di questo lavoro non ha potuto prescindere dall’analisi geopolitica. L’affermazione di un nuovo s.m.i. sarà un processo difficile, accidentato e probabilmente non pacifico. È difficile immaginare una potenza egemone che rinunci al suo ruolo senza opporre resistenza. Tramite la Cina, l’effetto delle politiche statunitensi si spande su tutto l’universo dei produttori di materie prime, sul Brasile, sull’Argentina, sui paesi dell’Africa. Tale effetto è in pieno svolgimento anche sulla domanda di beni di investimento, e i loro grandi produttori, Corea, Giappone e Germania, ne risentono. Ne sono colpiti anche i produttori dei beni di consumo di lusso, come la Francia e l’Italia. Di fronte alle iniziative della dirigenza cinese, a partire dall’annuncio del tapering da parte dalla Fed, non sono pochi coloro che sono incerti sugli scopi dei dirigenti cinesi. Intanto, gli Stati Uniti hanno visto riannodare i legami tra Russia e Cina, il neo-irrigidimento nei loro confronti, il riarmo esibito. E, a Pechino, pensano che i creditori occidentali sappiano che gli enormi capitali prestati potranno essere recuperati solo se i debitori cinesi lo vorranno. 116 Capitali in fuga e materie prime che crollano sono le conseguenze destabilizzanti del rallentamento della crescita cinese in tutto l’arco che va dal Sud America all’Africa al Medio Oriente. Il mondo contemporaneo ha conosciuto altre crisi finanziarie e valutarie. Quella attuale ha un’incognita in più. Il paragone con la crisi giapponese degli anni ‘80 è utile ma quella crisi fu gestita all’interno del G7, un club di alleati. Questa volta è coinvolta la Cina il cui rapporto con l’Occidente è più complicato. L’imprevedibilità delle crisi finanziarie è stata spesso interpretata con le teorie del caos. Una farfalla battendo le ali provoca un uragano dall’altra parte dell’oceano. La farfalla era l’America, gli altri subivano l’amplificarsi della sua crisi. Oggi c’è anche una farfalla cinese e il paradosso è che i paesi relativamente meno vulnerabili sono quelli meno aperti agli scambi. Gli Stati Uniti e l’India sono meno globalizzate dell’Europa. Questa considerazione potrebbe portare a ripensamenti o a modifiche dei trattati di libero scambio, in particolare del TTIP. Il crollo delle quotazioni del petrolio costringe ora molti fondi sovrani a vendere le azioni accumulate. Nel complesso, gli effetti positivi del basso prezzo del petrolio compenseranno quelli negativi solo se determineranno un aumento sufficiente di consumi e investimenti nei paesi industrializzati. Altrimenti prevarranno quelli negativi della instabilità politica nei paesi produttori e della deflazione. Le sue matrici (il crollo dei prezzi delle materie prime, la svalutazione del renminbi, la globalizzazione dei mercati, l’e-commerce legato alla digitalizzazione) sono difficili da rimuovere in mancanza di una crescita dei consumi, anche per le politiche monetarie espansive. La deflazione non scomparirà se non aumenta il reddito disponibile dei cittadini, soprattutto nei paesi emergenti e nei pvs. Si intravedono i rischi di una stagnazione secolare e per questo, l’Occidente si trova davanti a un’alternativa: rivedere verso il basso le proprie aspettative o mutare radicalmente le sue relazioni economiche internazionali, utilizzando le risorse rese disponibili dal saving glut per finanziare investimenti mirati a soddisfare i bisogni fondamentali delle popolazioni in via di sviluppo. Questa nuova situazione è doppiamente difficile per l’Italia che, dopo un ventennio di sostanziale stagnazione seguita alla firma dell’accordo di Maastricht184, ha perduto gli anni positivi della crescita mondiale post crisi. La perdita del 25% del Pil, a partire dal 2008, che ha indebolito le entrate tributarie, il rapporto debito pubblico /Pil in aumento, la bassa inflazione e la stagnazione economica prospettano il peggiore dei mondi possibili. Ora sperimenta una ripresa fragile. La crescita del commercio internazionale è ormai, da qualche tempo, inferiore alla crescita del Pil mondiale (quindi il grado di apertura generale dell’economia mondiale si sta riducendo). In una fase conclusiva della globalizzazione veloce, Shinzo Abe avvia in Giappone la sostituzione del settore del commercio con quello degli armamenti, facendo notare l’appropriatezza della fase storica in cui il Giappone deve temere una politica militare di potenza attiva da parte della Cina. Nello stesso modo, è possibile che anche la Cina percorra la stessa strada (come ai suoi tempi l’URSS) al fine di ravvivare il suo tasso di crescita. Tuttavia questo potrebbe rivelarsi un prezzo troppo alto da pagare se si rammenta due cose. La prima è che la Prima Guerra Mondiale è seguita alla corsa agli armamenti della Germania cui, durante la crisi 1907-1913, venne ostacolata l’esportazione della sua produzione Negli ultimi 25 anni, l’Italia ha vissuto un caso simile a un ritorno al gold standard vissuto all’indomani della sua unificazione politica e dopo il ritorno alla parità aurea, prima e dopo la prima guerra mondiale. Gli investimenti produttivi sono crollati, in presenza di un cambio forte dell’euro, a favore di quelli finanziari. La struttura industriale del Paese, già indebolita con la perdita delle industrie di stato, in parte privatizzate e poi svendute a stranieri, si è ridotta alla sopravvivenza attraverso il debito bancario. Il rapporto debito pubblico/Pil è aumentato perfino negli anni in cui la sua gestione ha beneficiato dei bassi tassi consentiti dall’unione monetaria. 184 117 negli Stati Uniti. La seconda è che si sta affermando la convinzione che la Grande Depressione del ’29 non sia venuta meno nel 1933 bensì nel 1940 durante la Seconda Guerra Mondiale Il primo rialzo dei tassi statunitensi è stato effettuato a dicembre 2015, indicando che il colpo di freno già inferto con il tapering e con le dichiarazioni di Yellen e Fisher non era stato sufficiente. Ciò è avvenuto nonostante gli effetti già prodotti sui mercati finanziari dei paesi emergenti le cui autorità monetarie hanno frenato, a loro volta, le rispettive economie. Esse non hanno avuto scelta di fronte all’esodo dei capitali stranieri e nazionali i cui proprietari si aspettavano non solo la fine della moneta facile ma anche l’introduzione dei controlli dei movimenti di capitale. Nonostante le preoccupazioni manifestate da molti noti economisti, la Fed sembra non aver considerato appieno la catena di ripercussioni delle dichiarazioni dei suoi vertici, ad esempio sui prezzi del petrolio e delle altre materie prime, delle quali il primo consumatore è l’economia cinese, e sulla domanda di buoni del tesoro statunitensi assorbiti dai cinesi come investitori delle riserve ufficiali che continuano ad accumulare. Non va dimenticato che la depressione del 2008 generò, tra l’altro, le primavere arabe. Tuttavia, è strano che in Occidente si pensi solo ai possibili rivolgimenti interni che possono derivare per il consenso cinese dal rallentamento di quella economia e non alle ripercussioni politiche che si potrebbero avere in Occidente, tenuto conto del minore controllo politico esercitato dalle democrazie rispetto ai sistemi politici autoritari. In media le nazioni autocratiche crescono più rapidamente delle democrazie almeno fino al punto raggiunto attualmente dalla Cina (in termini di reddito pro capite misurato in PPA) quando ci si aspetta che al posto del potere totalitario subentra la democrazia. Questa era anche la teoria di Alberto Breglia con cui Sylos Labini spiegava la caduta del franchismo in Spagna. Secondo la logica occidentale, non dovrebbe esistere più alcun legame storico tra il passato dinasticoimperiale cinese e la sua moderna forma statuale, a pena di una sua delegittimazione. Ma se l’Occidente può rivendicare, anche attraverso le alleanze commerciali, la difesa dei diritti dell’uomo, non può fare altrettanto per l’economicizzazione della realtà e della politica sia al proprio interno che nei confronti del resto del mondo. I compiti dell’uomo moderno (ripresa della guerra fredda, nascita di movimenti religiosi fondamentalistici, crisi finanziarie ricorrenti negli Stati Uniti e in Europa) sono tutt’altro che risolti dal pensiero scientista. Ora, mentre l’ascesa della Cina continua sotto il segno della crisi finanziaria, anche l’Occidente è costretto a riflettere sulle carenze intrinseche al proprio sistema e rinasce la possibilità di una risposta identitaria cinese al modello occidentale (Hu, 2012). Sembra profilarsi, così, l’utilità di una regionalizzazione politica planetaria che negozi economicamente su un mercato mondiale unico senza distruggere i grandi poli culturali dell’umanità. In un’economia futura regionalizzata, con un numero di valute pari alle principali aree valutarie, le transazioni extra area, che a quel punto sarebbero fortemente ridotte una volta che fossero costituite le unioni monetarie per ogni area valutaria, similmente a quelle di un’economia di baratto, sarebbero comunque esposte ai costi del cambio, del rischio ad esso associato, dell’informazione. Questi possono essere ridotti qualora si detengano e si utilizzino come intermediari degli scambi gli strumenti più ampiamente domandati a tale fine come l’oro, un paniere di valute, o una valuta internazionale che il mercato riterrà la meno costosa come i DSP. Gli accordi regionali potranno avere forme diverse – linee swap, pool di riserve, banche centrali comuni, accordi di pagamento – ed essere dotati di diversi gradi di multilateralizzazione (Ocampo, 2015). Si osserva che alcune unioni monetarie probabilmente potranno nascere solo al termine di un lungo processo di integrazione 118 commerciale, oggi spesso mancante, come è avvenuto per l’UEM. Soprattutto l’esistenza di quadri istituzionali inadeguati rende remote le prospettive di unione monetaria per molte delle aree valutarie del pianeta (Romagnoli, 2013). Per queste ragioni, le aree suddette che oggi hanno come riferimento, oltre al dollaro e all’euro, anche il renminbi potrebbero optare per un nuovo s.m.i. più efficiente e soprattutto meno ingiusto che interrompa la guerra delle monete. Opere citate Acemoglu D. (2009), Introduction to Modern economic Growth, Princeton University Press, Princeton N.J. Alesina A., Ardagna S., Galasso V. (2008), The Euro and Structural reforms, NBER Working Paper, No. 14479, November. Alessandrini P., Fratianni M. (2009a), Dominant Currencies, Special Drawing Rights and supernational money”, World Economics, 10 (4), October–December 45–67. 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