LO SVILUPPO ECONOMICO CINESE E LA SUA APERTURA VERSO IL MERCATO ESTERO SINTESI Il 1 ottobre 1949 nacque la Repubblica Popolare Cinese. Il compito che attendeva Mao Tse-Tung e il Partito Comunista Cinese (PCC) fu arduo, si trattava, infatti, di modernizzare l’economia e la struttura sociale della Cina che si presentavano particolarmente arretrate. Vennero così avviate riforme in campo agricolo, industriale e commerciale, ispirate all’esperienza dell’Unione Sovietica. Il modello sovietico fu ben presto criticato per gli scarsi risultati ottenuti, Mao decise allora di impostare una via cinese allo sviluppo, attraverso il cosiddetto “Grande Balzo in Avanti”. Anche tale politica, però, fu piuttosto deludente, e generò contrasti all’interno del PCC, che si risolsero a favore di Mao nella cosiddetta Rivoluzione Culturale. Alla morte di Mao nel 1976 seguirono alcuni anni di transizione, caratterizzati dall’assenza di un vero leader. Nel dicembre del 1978, in occasione del Terzo Plenum dell’XI Congresso del PCC, Deng Xiaoping lanciò la politica della “porta aperta”, in netto contrasto con l’autarchia seguita nei trent’anni precedenti, con l’intento di trasformare la Cina in un paese industrializzato. Tale politica era ispirata ai principi del pragmatismo, Deng, infatti, sosteneva che lo sviluppo economico andava perseguito anche a costo di aprirsi a paesi ideologicamente distanti. Si trattava di usare il capitalismo per costruire il socialismo. La Cina si aprì al mondo attraverso la prima Legge sulle Joint Ventures (1979) e l’istituzione delle Zone Economiche Speciali (ZES), regioni all’interno delle quali gli investimenti stranieri erano incoraggiati e agevolati attraverso misure ad hoc. Progressi si registrarono anche in agricoltura e nell’industria rurale, ma la riforma industriale ebbe risultati poco soddisfacenti. Dalla metà degli ottanta l’accento fu quindi posto sulla riforma delle zone urbane accanto al progressivo, ma continuo, sviluppo del processo di apertura al mercato estero. Il risultato fu una crescita economica sostenuta, caratterizzata, però, da squilibri regionali e sociali che alimentarono il malcontento di larghe fasce della popolazione. Portavoce della protesta furono gli studenti e gli intellettuali, le cui ragioni furono soffocate nel sangue in Piazza Tianan Men (1989). Questo episodio determinò una battuta d’arresto, ma non la fine della corsa della Cina verso l’economia globale. Negli anni novanta, infatti, si assistette ad un incredibile sviluppo nell’afflusso degli Investimenti Diretti Esteri (IDE) e all’esplosione del numero di società straniere che costituivano Joint Ventures in Cina. Oltre a ciò, il Governo prese coscienza del problema dello squilibrio regionale, con misure volte ad assicurare la stabilità nelle zone rurali. Lo Stato andava sempre più perdendo peso nell’economia, a favore dei privati, tanto che Deng definì la Cina “un’economia socialista di mercato”. La crisi asiatica del 1997 convinse definitivamente la dirigenza cinese a completare l’apertura al commercio internazionale, e l’ingresso nel WTO rappresentò il passo decisivo ed ufficiale. Le trattative furono lunghe ed estenuanti, spesso conflittuali, soprattutto con gli USA, ma nel novembre del 2001 la Cina fu ammessa nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Questo comportava l’assunzione, da parte del Governo di Pechino, di una serie di impegni che non riguardavano solo il commercio, ma anche l’agricoltura, i servizi e la proprietà intellettuale. L’implementazione degli accordi WTO costituisce un’importante occasione di crescita per tutta la struttura economica cinese che si trova a confrontarsi con le economia più evolute del mondo. Il rischio è che l’eccessiva velocità di implementazione di tali regole possa danneggiare la sostenibilità della crescita, oltre a privare molti settori delle barriere che per anni li hanno protetti. Per il mondo, invece, si apre l’opportunità di vendere i propri prodotti in un mercato immenso, circa 1 miliardo e 300 milioni di persone, che in un prossimo futuro, con il livello di reddito pro capite in aumento, adotteranno modelli di consumo sempre più “occidentali”. Per contro, si assiste già oggi all’invasione dei prodotti cinesi con i quali, per varie ragioni (costo del lavoro, dumping monetario e sociale), le imprese dei paesi industrializzati non sono in grado di competere. L’economia cinese del XXI secolo presenta punti deboli (lo squilibrio regionale e nella distribuzione della ricchezza, la difficile riforma delle imprese statali (SOEs), la precarietà del sistema finanziario e la piaga della disoccupazione) e punti di forza (le risorse umane e la forza lavoro, l’istruzione, la tecnologia e il tasso di cambio dello yuan). La congiuntura economica estremamente favorevole dimostra che prevalgono i fattori positivi, ma se la Cina vorrà esercitare in futuro il ruolo di prima potenza economica del globo, dovrà riformare il proprio sistema economico per risolvere i principali problemi che minacciano seriamente di interrompere in maniera brusca il processo di sviluppo in atto. Omar Rizzi