ontologia sociale

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LEZIONE
“ONTOLOGIA SOCIALE”
PROF. DANIELE SANTORO
Università Telematica Pegaso
Ontologia sociale
Indice
ONTOLOGIA SOCIALE E INTENZIONALITÀ COLLETTIVA --------------------------------------------------------- 3
PREMESSA ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 3
1
INTENZIONALITÀ COLLETTIVA, IMPOSIZIONE DI FUNZIONE E REGOLE COSTITUTIVE: IL
COSTRUTTIVISMO SOCIALE DI JOHN SEARLE ------------------------------------------------------------------------- 4
1.1.
1.2.
1.3.
L‟INTENZIONALITÀ COLLETTIVA -------------------------------------------------------------------------------------------- 5
L‟ASSEGNAZIONE DI FUNZIONE --------------------------------------------------------------------------------------------- 6
LE REGOLE COSTITUTIVE ----------------------------------------------------------------------------------------------------- 7
2
IL REALISMO QUALIFICATO ALLA PROVA DEI FATTI. ANALISI E FENOMENOLOGIA DEL
POTERE DEONTICO --------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 8
2.1
2.2
3
DEFINIZIONE DI POTERE DEONTICO--------------------------------------------------------------------------------------------- 8
ALCUNE OBIEZIONI ALLA DEFINIZIONE DI POTERE DEONTICO ------------------------------------------------------------ 10
LINGUAGGIO E INTENZIONALITÀ----------------------------------------------------------------------------------- 13
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 16
ONTOLOGIA E OGGETTI SOCIALI (1) -------------------------------------------------------------------------------------- 17
4
“UNA IMMENSA ONTOLOGIA INVISIBILE” ----------------------------------------------------------------------- 19
5
IDOLA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 20
6
SPIRITO OGGETTIVO ----------------------------------------------------------------------------------------------------- 24
6.1
6.2
7
ATTI SOCIALI ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 27
7.1
7.2
7.3
7.4
8
REALISMO. ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------REID. -----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------AUSTIN. --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------SEARLE. --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
27
27
28
29
OGGETTI SOCIALI --------------------------------------------------------------------------------------------------------- 32
8.1
8.2
9
HEIDEGGER E L‟ONTOLOGIA STORICA. --------------------------------------------------------------------------------------- 25
POSTMODERNO: LA STORIA ENTRA NELLA NATURA.----------------------------------------------------------------------- 25
HARTMANN, LESNIEWSKI, SCHELER. ---------------------------------------------------------------------------------------- 32
REINACH. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 33
APRIORI MATERIALE----------------------------------------------------------------------------------------------------- 35
9.1
9.2
9.3
9.4
9.5
IL PARADIGMA DELL‟OGGETTO (SMITH [1993]). --------------------------------------------------------------------------INEMENDABILITÀ. --------------------------------------------------------------------------------------------------------------ONTOLOGIA. --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------CHIMICA GENERALIZZATA. ---------------------------------------------------------------------------------------------------ECOLOGIA. -----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
35
36
37
38
39
10
ONTOLOGIA FORMALE ------------------------------------------------------------------------------------------------- 41
11
CONCLUSIONI --------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 43
12
SCHEDA BIBLIOGRAFICA ----------------------------------------------------------------------------------------------- 44
13
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ---------------------------------------------------------------------------------------- 45
NOTE ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 53
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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Ontologia sociale
Ontologia sociale e intenzionalità collettiva
Daniele Santoro*
Tratto da: Carlo Tatasciore, Pierluigi Graziani, Giorgio Grimaldi (curr), Prospettive filosofiche: il realismo,
Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 2007, pp. 181-192.
Premessa
In questo saggio mi occuperò di alcune questioni connesse alla natura di ciò che,
comunemente, consideriamo eventi o fatti appartenenti alla realtà sociale. Prenderò in esame una tra
le diverse teorie esplicative presenti in questo dibattito, il costruttivismo sociale di John Searle. In
un testo ormai classico del dibattito sull‟ontologia sociale (Searle 1995), Searle stabilisce alcune
condizioni necessarie e sufficienti per stabilire l‟esistenza di fatti istituzionali. In questo saggio
presento alcune obiezioni al costruttivismo di John Searle, sebbene creda che il punto generale sia
valido per anche per altri modelli di spiegazione dei fatti sociali che impiegano il concetto di
intenzionalità collettiva come nozione primitiva1. Il mio scopo è di mostrare che le istituzioni
sociali, piuttosto che basarsi su una nozione irriducibile di intenzionalità collettiva, presuppongono
i concetti normativi che il modello di intenzionalità collettiva intende spiegare.
*
Università Luiss-Guido Carli di Roma, email: [email protected].
1
Si veda, ad esempio, Tuomela (2002). Si veda anche Gilbert (1990;1996) per un approccio alternativo.
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1 Intenzionalità collettiva, imposizione di funzione
e regole costitutive: il costruttivismo sociale di
John Searle
Nell‟ambito dell‟ontologia sociale, vi è un ampio accordo sulla tesi, nota con il nome di
realismo qualificato (o condizionale2), secondo cui i termini istituzionali si riferiscono a entità,
oggetti o proprietà che esistono se e solo se sono soddisfatte alcune condizioni dipendenti dalle
credenze e dalle intenzioni di agenti umani. Il realismo qualificato costituisce il quadro entro cui
sono stabilite le condizioni di esistenza di fatti e istituzioni sociali. In termini generali, possiamo
caratterizzare il realismo qualificato come una forma di costruttivismo sociale che: (a) rispetta il
requisito per cui i fatti istituzionali sono dipendenti dalla mente umana (la cosiddetta condizione di
mind-dependence), (b) sebbene tali fatti non dipendano dalle credenze e dalle azioni di un singolo
soggetto, né (c) dalla presenza di un atteggiamento doxastico in actu.
Il modello costruttivista di John Searle è una elaborazione delle condizioni necessarie e
sufficienti richieste dalla tesi sul realismo qualificato. Secondo Searle, il problema è come siano
possibili i fatti istituzionali all‟interno di una realtà che sembra essere costituita di soli fatti e
proprietà naturali3. A questa domanda, Searle risponde mostrando in che cosa consista l‟ontologia
fondamentale della realtà sociale e la struttura ad essa correlata. La struttura definisce i
«componenti elementari» dei fatti istituzionali, l‟ontologia determina quale porzione della realtà
questi componenti occupino, come essi siano connessi tra loro, e in che rapporto sono con
l‟ontologia della natura fisica. Una spiegazione della realtà sociale in termini di condizioni
necessarie e sufficienti dei fatti istituzionali deve contenere una descrizione dell‟ontologia
fondamentale e della sua struttura interna: un mero insieme di azioni, fatti e oggetti, senza una
struttura intenzionale sarebbe inintelligibile, poiché mancherebbe la caratteristica specifica della
socialità umana, l‟auto-consapevolezza (self-awareness). Secondo Searle, tre sono le condizioni che
devono essere soddisfatte per l‟esistenza di un fatto istituzionale: l‟intenzionalità collettiva,
l‟assegnazione di funzione, e le regole costitutive.
2
Il termine realismo qualificato (qualified realism) e la relativa discussione di questa tesi, sono in Lagerspetz
(2006)
3
Searle (1996, trad. it. p. 8).
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1.1.
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L’intenzionalità collettiva
L‟intenzionalità collettiva è quella proprietà di alcune intenzioni tale che esse devono poter
essere condivise da più individui perché causino l‟azione. Avere l‟intenzione di giocare a scacchi,
ad esempio, conta come una intenzione individuale, ma non ancora collettiva. Per poter giocare
realmente a scacchi, e non averne solo l‟intenzione, deve essere presente una intenzione collettiva,
ossia una intenzione comune ad almeno due giocatori, di giocare a scacchi assieme. Più in generale,
sono collettive tutte quelle intenzioni il cui contenuto rappresentazionale è accessibile ai soggetti
soltanto se altri soggetti posso contestulmente accedervi, ossia intenzioni o rappresentazioni che
possono essere sensatamente pensate soltanto nel contesto in cui altri soggetti le pensano.
Le intenzioni collettive dipendono dalle intenzioni dei singoli agenti? Ossia, è possibile
spiegare l‟intenzionalità collettiva in termini di parti costituenti o, piuttosto, è essa stessa un
fenomeno primitivo? La risposta a questa domanda è decisamente negativa. Scrive Searle:
L‟intenzionalità collettiva è un fenomeno biologicamente primitivo che non può essere
ridotto o eliminato in favore di qualcos‟altro. Ogni tentativo che abbia visto di ridurre
l‟«intenzionalità del noi» all‟«intenzionalità dell‟io» è soggetto a contro-esempi. 4
La caratteristica fondamentale dei fenomeni intenzionali collettivi è pertanto la loro
irriducibilità all‟intenzionalità individuale. Non vi è modo di ridurre la prima alla seconda senza
con ciò dare avvio ad un regresso all‟infinito nell‟attribuzione di intenzioni. Dal punto di vista
fenomenologico, possiamo non accorgerci di questa differenza, poiché ciò che pensiamo è sempre
in prima persona. La chiave per comprendere questa struttura sta nel fatto che l‟uso dell‟indessicale
(la prima persona plurale) vincola il contenuto intenzionale. Ciò significa che alcune
rappresentazioni non sono accessibili dalla prospettiva in prima persona, nel senso che non
possiamo propriamente concepirle se non come rappresentazioni le cui condizioni di soddisfazione
richiedono il contributo cognitivo di altri individui. E‟ solo perché so che noi stiamo giocando a
scacchi insieme, che so che io sto giocando a scacchi. Il vincolo logico sul contenuto intenzionale
determina i contenuti delle credenze individuali, ma non viceversa. In questo senso, l‟intenzionalità
collettiva è descritta da Searle come una condizione necessaria per comprendere la realtà sociale.
4
Searle (1995, trad. it. pp. 33-34), corsivo mio.
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Essa va necessariamente presupposta per spiegare che tipo di intenzionalità è coinvolta in
rappresentazioni e azioni collettive.
L’assegnazione di funzione
1.2.
Per spiegare il concetto di «assegnazione di funzione», occorre notare che gli esseri umani, e
perfino di alcuni primati, sono esseri capaci di assegnare funzioni a individui, oppure ad oggetti,
siano essi artefatti, oppure oggetti appartenenti alla realtà fisica 5. Le funzioni di status sono
rappresentazioni di tali funzioni assegnate ad oggetti. I fatti istituzionali sono creati attraverso
l‟assegnazione di una funzione ad un oggetto o individuo per mezzo di un riconoscimento collettivo
del loro status simbolico. Tale riconoscimento deve essere mutualmente vincolante per tutti gli
individui coinvolti. Ad esempio, non vi è nulla nelle proprietà fisiche di un muro crollato che
impedisca ad un gruppo di persone di scavalcarlo. Tuttavia, quel gruppo può accettare che le rovine
del muro rappresentino il limite della necropoli del villaggio e decidere pertanto, essendo quel
luogo sacro, di definire il limite della necropoli seguendo il perimetro del muro crollato, limite che
non andrà valicato se non in occasioni particolari.
Possiamo a questo punto, enunciare la formula che esprime la struttura logica dei fatti
istituzionali:
[1] Noi accettiamo (X conta come Y nel contesto C) 6
La formulazione contiene tutti gli elementi che ho appena descritto. L‟elemento Y è una
funzione di status assegnata all‟elemento X, e l‟elemento X può essere un oggetto fisico o un‟altra
funzione di status precedentemente creata. Searle nota che la funzione di status vale sempre
relativamente ad un contesto, quello di un gruppo sociale o comunità, che definisce l‟insieme di
individui coinvolti (attualmente o potenzialmente) nel processo di accettazione collettiva.
Le funzioni simboliche devono essere oggetto di una accettazione collettiva stabile nel
tempo e tale stabilità è ciò che permette l‟istituzione di procedure normativa, l‟attribuzione di poteri
o la regolazione di comportamenti sociali. Tuttavia, per spiegare come tale stabilità sia possibile,
non è sufficiente introdurre le funzioni simboliche, ma occorre introdurre il terzo elemento della
5
6
Searle (1995, trad. it. p. 21).
Searle (1995, trad. it. p.38).
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struttura logica descritta da Searle, le regole costitutive.
1.3.
Le regole costitutive
La terza condizione necessaria per rispondere alla domanda come siano possibili i fatti
istituzionali, è data dalla regola costitutiva espressa dalla relazione «conta come» nella formula [1].
La formula «X conta come Y» è esattamente la formula che descrive l‟imposizione su un oggetto o
persona in una relazione di tipo non-causale, espressa da una regola costitutiva. Le regole
costitutive stabiliscono una relazione tra funzione e oggetto della funzione nello stesso modo in cui
le regole semantiche stabiliscono una relazione tra un segno e un significante. In questo modo,
contribuiscono a creare i fatti istituzionali come fatti stabili nel tempo e indipendenti dalle
convinzioni di singoli agenti sociali.
Se non vi fosse un elemento costitutivo vincolante nella struttura dei fatti istituzionali,
occorrerebbe una ratifica continua da parte della comunità per ogni atto che comporta l‟esercizio di
un‟autorità o il rispetto di una norma. L‟importanza delle regole costitutive, sta, pertanto nel fatto
che esse valgono come regole non in quanto regolano un comportamento precedentemente esistente
- come nel caso delle regole regolative-, ma piuttosto perché creano la possibilità stessa di un fatto
istituzionale7.
7
Si veda Searle (1995, trad. it. pp. 36-39).
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2 Il realismo qualificato alla prova dei fatti. Analisi
e fenomenologia del potere deontico
2.1
Definizione di potere deontico
Le regole costitutive creano e trasmettono relazioni di potere. Si potrebbe definire
grossomodo così in che cosa consista una relazione di potere: per un individuo A avere potere su B
rispetto ad un‟azione C, significa che A possiede capacità (intenzionale) di far sì che B compia o
subisca un‟azione , eventualmente attraverso un atto di coercizione. Pertanto, una definizione
generale di potere include l‟elemento dell‟intenzionalità del soggetto di potere e il carattere
coercitivo degli atti di potere nei confronti del destinatario dell‟atto, indipendentemente dal fatto
che il destinatario voglia o non voglia compiere l‟azione in questione8.
Le relazioni di potere incassate nella struttura dei fatti istituzionali sono poteri deontici,
riconosciuti attraverso una convenzione implicita o resa esplicita nella forma di un accordo o
contratto. Tali relazioni possono essere dunque oggetto di una attribuzione collettiva di una
funzione di status. In linea di principio infatti, anche un potere deontico è un tipo di funzione di
status che regola relazioni tra individui.
La nozione di potere deontico cattura pertanto gli elementi della concezione generale del
potere ed è connessa alla struttura della funzione di status: attribuire una funzione ad una persona è
attribuirle l‟insieme di poteri connessi con quella funzione. Nel caso di alcuni poteri, come ad
esempio, quelli associati a particolari cariche militari o di pubblica sicurezza, tale attribuzione
conferisce alla persona la capacità di impiegare l‟uso della forza. I poteri deontici assumono
pertanto la forma di un fatto istituzionale. La formula [2], che descrive la struttura logica di poteri
deontici, riproduce infatti la struttura di un fatto istituzionale.
[2] Noi accettiamo (S
(X
ha potere
«conta come»
[S compie φ]) 9
Y )
8
Una definizione del concetto di potere è ricavabile dall‟analisi dei casi che Searle fornisce in Searle (1995,
trad. it. p. 115-117; 2003, pp. 35, 37), il cui elenco comprende esempi come doveri, obblighi, impegni, autorizzazini,
requisiti, permessi, privilegi, etc., i quali che presuppongono appunto le caratteristiche dell‟intenzionalità e della
coercizione. Tuttavia, Searle definisce formalmente soltanto la nozione di potere deontico. Il carattere coercitivo e
intenzionale del concetto generale di potere è però discusso esplicitamente da Searle in alcune note del seminario di
dottorato su «ontologia sociale e potere politico», tenuto a Berkeley nella primavera del 2003.
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La formula [2] esprime la struttura base attraverso cui vengono creati, per iterazione, la
maggior parte di tutti gli altri fatti istituzionali. Essa è essenziale per per spiegare, nell‟ottica
dell‟ontologia sociale, cosa siano i diritti, le responsabilità, le obbligazioni, i doveri, i privilegi, le
sanzioni, le autorizzazioni, e altri tipi di fenomeni deontici.
Essenziale ad ogni tipo di potere deontico è l‟essere il contenuto di una rappresentazione
intenzionale, ossia di essere oggetto di una credenza. Infatti, soltanto colui che può, in linea di
principio, comprendere un fenomeno deontico (ad es.: riconoscere una determinata persona come
presidente, capo di stato, etc.), può essere soggetto di diritti e obblighi. In questo senso, le
rappresentazioni deontiche non sono riducibili a qualcosa di più semplice e primitivo (come le
disposizioni, le paure, i desideri, etc.).
Il concetto di potere deontico può essere precisato elaborando il contenuto della definizione
fornita in [2] in modo da includere la definizione di relazioni di potere abbozzata precedentemente:
[3] Noi accettiamo [(S possiede la capacità di far sì che B compia o subisca
l‟azione φ indipendentemente dal fatto se B voglia o accetti di subire φ )]
Occorre notare che, in questa formulazione, la componente performativa “Noi accettiamo”
che conferisce potere ad S conta come una capacità rappresentazionale, ossia la capacità di
rappresentarsi, rispettivamente: la regola costitutiva che statuisce il potere, e il contenuto di tale
intenzione. In secondo luogo, abbiamo un esplicito riferimento, all‟interno della formula [3] ad una
capacità intenzionale da parte di S di far sì che B compia una azione.
Tale formulazione espone l‟analisi searliana del concetto di potere deontico ad alcune
obiezioni che mostrano come la struttura logica proposta da Searle non catturi alcuni fenomeni
normativi rilevanti dal punto di vista dell‟ontologia sociale. Secondo Searle, infatti, non ogni
relazione di potere è può essere tradotta in un potere deontico. Al contrario, le minacce, le
persuasioni, l‟induzione a compiere certe azioni, sono sì forme di potere, ma non di potere deontico,
poiché quest‟ultimo esige una forma di riconoscimento collettivo.
Secondo Searle, le relazioni di potere sono un fenomeno più ampio dei poteri deontici,
9
Searle (1995, trad. it. p. 120). Si veda anche la discussione del concetto di potere deontico in Searle (2003, p.
37-44).
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poiché questi ultimi richiedono una struttura istituzionale effettiva e un atto intenzionale di
riconoscimento dell‟attribuzione di una funzione. Tuttavia, è possibile che alcune relazioni di
potere, sebbene non richiedano l‟ascrizione di credenze o intenzioni, rappresentino una forma di
potere effettivo, ossia un potere in grado di produrre atti e comportamenti che hanno una rilevanza
ontologica. Presenterò di seguito alcune obiezioni tese a mostrare la plausibilità di questa posizione.
Se le obiezioni saranno convincenti, una importante conseguenza che ne risulterà è che
l‟intenzionalità collettiva non è una condizione necessaria per l‟ontologia sociale.
2.2
Alcune obiezioni alla definizione di potere deontico
Si consideri il seguente caso: ai soldati di fanteria francesi era comandato di uscire dalle
trincee e lanciarsi all‟arma bianca contro le truppe tedesche sul fronte della Marna durante la prima
guerra mondiale. I soldati in questione erano sotto coercizione nel senso che, se si fossero rifiutati,
sarebbero stati sottoposti alla legge marziale. L‟esempio ricade sotto la definizione di potere
deontico descritta in [3]. Infatti, al generale che ordina gli assalti è stato conferito il comando delle
azioni sul campo. Si supponga, inoltre, che un soldato di trincea abbia l‟opportunità di disertare.
Tuttavia, egli teme le conseguenze di questo atto, poiché se fosse scoperto, sarebbe assai
probabilmente processato e condannato a morte. Si supponga, inoltre, che il generale non sappia che
il soldato potrebbe disertare e assume che le sue truppe obbediranno ai suoi comandi. Il soldato
decide alla fine di non fuggire e il giorno successivo partecipa all‟attacco.
Il caso getta luce su una caratteristica dell‟attribuzione di credenze e intenzioni nelle
descrizioni di soggetti coinvolti all‟interno di relazioni di potere. Si consideri che la formulazione di
cosa conti come potere deontico richiede che colui che detiene il potere abbia la capacità
intenzionale di far sì che colui che è il destinatario dell‟ordine compia un certo atto. Tuttavia, egli
non è a conoscenza del fatto che uno o alcuni soldati abbiano l‟intenzione di fuggire. La
formulazione di potere deontico non distingue tra due casi rilevanti: casi di potere deontico in cui le
intenzioni e le credenze del soggetto di potere convergono con le intenzioni del destinatario di
potere, e casi in cui tali intenzioni divergono. Nel caso in questione, le due intenzioni divergono
poiché la ragione per la quale il soldato decide di battersi all‟arma bianca non consiste nell‟«essere
desideroso di combattere», ma piuttosto nell‟anticipazione di una intenzione ipotetica. L‟intenzione
che il soldato anticipa è quella che il generale eserciterebbe il suo potere di condannare il soldato in
corte marziale se egli tentasse di fuggire. Tuttavia, l‟anticipazione controfattuale di una intenzione
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non coincide con l‟avere una intenzione. L‟esercizio di un potere deontico può essere descritto da
parte di un osservatore esterno attribuendo ai soggetti coinvolti intenzioni ad agire che divergono da
quelle reali degli agenti, senza che questo confligga con il comportamento manifesto che segue
all‟esercizio di tale potere. Il caso mostra pertanto che, già ad una prima approssimazione, la
ragione del soldato (e l‟intenzione connessa) ad agire non consiste nell‟intenzione attuale di colui
che detiene il potere, quanto piuttosto nel suo essere soggetto ad una relazione di potere, laddove
questa relazione, sebbene effettiva, non è catturata dalla formulazione di potere deontico che
abbiamo offerto. Infatti, il generale (il soggetto di potere) non è una fonte di potere per il soldato nel
senso richiesto da [3], che risulta una formulazione troppo forte per catturare casi più sfumati di tali
relazioni. Persuasioni, minacce, istigazioni a compiere determinate azioni, etc., spesso hanno luogo
all‟interno di una cornice istituzionale, o sono possibili grazie ad essa. Una fenomenologia più
complessa di relazioni di potere è pertanto presente anche nei casi dei poteri deontici.
E‟ possibile formulare un‟obiezione più forte al requisito di intenzionalità proposto da
Searle. L‟obiezione mostra che alcune relazioni di potere possono violare il requisito di
intenzionalità espresso nella formula [3], ossia che i soggetti di potere possono non avere alcuna
rappresentazione, e dunque a fortiori, non sono in grado di formulare alcuna intenzione riguardo ad
un soggetto ad essi sottoposto. Sebbene il caso che mostrerò non è formalizzabile nella struttura del
potere deontico, esso mostra che alcune relazioni di potere non deontico sono effettive e, in quanto
producono comportamenti manifesti, hanno una rilevanza ontologica.
Si consideri il caso di una ragazza che decide di abortire poiché sa che i suoi genitori,
persone molto conservatrici, non accetterebbero l‟onta che la propria figlia diventi una ragazza
madre. La ragazza subisce il potere esercitato dai suoi genitori senza che tuttavia i genitori
esercitino questo potere intenzionalmente. I genitori infatti, non sanno che la ragazza è incinta.
Tuttavia, ciò non esclude che i suoi genitori esercitino su di lei altre forme, più complesse e
strutturali, di potere, controllando vari aspetti della vita privata della ragazza, inducendola pertanto
ad aver timore delle conseguenze di una gravidanza fuori dal matrimonio fino al punto di abortire. I
suoi genitori esercitano pertanto un potere effettivo sul comportamento della ragazza, che è tuttavia
non-intenzionale, dato che essi non sono a conoscenza del fatto che la ragazza sia incinta.
Dall‟analisi dei casi appena discussi possiamo concludere che spesso, le relazioni di potere
possono rimanere nascoste in comportamenti, atteggiamenti e disposizioni ad agire e violare così il
requisito di intenzionalità della definizione di potere deontico proposta da Searle. Tuttavia, a queste
relazioni va riconosciuto uno status ontologico, poiché esse possiedono una efficacia causale che si
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traduce nella coercizione del comportamento dei destinatari. Dobbiamo a questo punto stabilire (a)
se l‟effettività della coercizione sia una condizione sufficiente per attribuire uno status ontologico a
tali relazioni, dovendo così rinunciare al requisito di intenzionalità o riformularlo in una versione
più debole; oppure se (b) dovremmo scegliere la strategia searliana, e stabilire che questi fenomeni
non rappresentano fatti istituzionali. A mio avviso, la posizione di Searle è eccessivamente
revisionista e credo vi siano buone ragioni per poter accogliere una versione più debole
dell‟intenzionalità collettiva che renda giustizia dei casi appena descritti come fatti sociali in senso
proprio e non come fenomeni rilevanti per la sola psicologia.
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3 Linguaggio e intenzionalità
La possibilità di rivedere il requisito di intenzionalità dei fatti istituzionali in una
formulazione più «accogliente» ci è data dal ruolo del linguaggio. Occorre notare a questo riguardo
che le regole costitutive sono connesse alla struttura linguistica dei fatti istituzionali: il linguaggio,
infatti, garantisce il carattere pubblico delle istituzioni, in quanto veicola la comunicazione di
rappresentazioni e intenzioni collettive.
Il carattere costitutivo delle regole e la loro dimensione linguistica valgono ovviamente
anche nel caso dei poteri deontici. Tuttavia, sebbene Searle ribadisca la grande importanza del
linguaggio nella struttura logica dei fatti istituzionali, non prende seriamente in considerazione
l‟idea che il linguaggio sia una condizione di possibilità per il concetto stesso di agente
intenzionale. Searle considera piuttosto il linguaggio come uno strumento per l‟ascrizione di
contenuti intenzionali, i quali tuttavia sarebbero già costituiti nella mente anche se un linguaggio
non vi fosse (ad esempio, l‟intenzionalità collettiva avvenisse attraverso forme di telepatia!).
Notoriamente, Ludwig Wittgenstein attaccò la validità di questa ipotesi nelle Ricerche filosofiche:
Questo è appunto ciò che vi è di singolare nell‟intenzione, nel processo psichico: che ad essi
non è necessaria l‟esistenza di un‟abitudine, di una tecnica. Che è possibile pensare, per esempio,
che due persone giochino una partita a scacchi in un mondo in cui altrimenti non si giuoca affatto e
anzi, comincino a giocare - e vengano poi interrotte.
Ma il giuoco degli scacchi non è definito dalle sue regole? E in che modo queste regole sono
presenti nella mente di colui che intende giocare a scacchi? 10
Seguendo Wittgenstein, possiamo sostenere che l‟intenzionalità, laddove venga interpretata
nella forma di un processo psichico, non è essenziale alla spiegazione delle istituzioni sociali, né è
connessa in modo concettualmente necessario con il linguaggio. In quanto processo psichico, essa
infatti non potrebbe garantire l‟oggettività dei fatti istituzionali e il carattere vincolante delle regole
costitutive. Ciò non significa tuttavia scartare l‟intenzionalità tout court dal regno del linguaggio.
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Piuttosto, abbiamo bisogno di una concezione modificata dell‟intenzionalità che renda possibile il
riconoscimento dei fatti istituzionali come oggettivi. Perché questo sia possibile, occorre però
sganciare il concetto di intenzionalità da interpretazioni psicologistiche e concepirla come un
fenomeno che emerge ed è reso possibile dalla capacità di parlare una lingua. Le relazioni di potere
si rivelano, in questa prospettiva, come aspetti di prassi sociali e linguistiche che spiegano la
formazione di intenzioni e rappresentazioni collettive, e non viceversa. Questa strategia esplicativa
nega che il concetto di intenzionalità collettiva sia un fenomeno biologico primario e mira piuttosto
a spiegare come la formazione delle nostre intenzioni siano il prodotto di una realtà sociale già
strutturata. Una ontologia sociale fondata sulla priorità concettuale della prassi, ricava lo status
ontologico dei fatti istituzionali dall‟osservazione del comportamento degli agenti e definisce
l‟intenzionalità in modo derivato. Un modo per rendere plausibile questa ontologia proviene dalla
tradizione pragmatista.
Secondo alcuni autori, tra cui Robert Brandom (1994, 2000), il linguaggio è una prassi
sociale regolata da norme. Tali norme sono implicite nelle prassi linguistiche e possono essere rese
esplicite nel discorso, che Brandom interpreta come il gioco linguistico per eccellenza, ossia il
gioco linguistico del dare e chiedere ragioni. Un aspetto rilevante del pragmatismo normativo è che
esso spiega la normatività semantica in termini pragmatici. Non mi occuperò qui del modello
proposto da Brandom, ma piuttosto utilizzerò uno dei suoi concetti chiave: il concetto di impegno
(commitment). Secondo il pragmatismo normativo, nel proferire un atto linguistico, un parlante si
impegna alla verità o correttezza di quanto dice, ossia a dare e fornire ragioni per le sue
affermazioni (claims). Gli impegni, in questo senso, non devono essere necessariamente espliciti e
trasparenti alla coscienza del parlante, né tantomeno richiedono la previa formulazione di intenzioni
esplicite. Infatti, secondo il modello pragmatico di Brandom, è nella prassi stessa del linguaggio che
i parlanti si assumono implicitamente degli impegni verso la verità o la correttezza delle loro
affermazioni. La nozione di impegno può fornirci uno strumento utile per spiegare in cosa consista
una forma più debole di intenzionalità. Così come il pragmatismo normativo spiega la normatività
semantica a partire dalle norme implicitamente assunte nella prassi del parlare una lingua, così noi
possiamo analizzare le istituzioni sociali a partire dalle norme sociali a cui gli agenti implicitamente
si impegnano e si adeguano nel contesto d‟azione di una società. All‟interno dei contesti sociali
d‟azione, norme e istituzioni vigono nella misura in cui gli agenti le trattano come tali. Trattare
qualcosa come un fatto istituzionale significa impegnarsi implicitamente a riconoscerne le funzioni
10
Wittgenstein (1954, §205)
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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e i poteri deontici ad esso associati. Tuttavia, tale impegno non è ancora nella forma esplicita di un
riconoscimento o accettazione collettiva, la quale invece richiede un contesto discorsivo adeguato in
cui essere resa esplicita ed eventualmente ratificata. Al contrario, l‟impegno a trattare una
istituzione come una fonte di autorità e di potere non è un atto necessariamente conscio (nello stesso
modo in cui, il parlare correttamente una lingua non presuppone che si abbia presente la grammatica
di una lingua), né tantomeno presuppone forme di intenzionalità collettiva. E‟ certamente una
capacità intenzionale, ma in un senso diverso: la capacità di agire secondo regole ed essere in grado
di distinguere tra applicazioni corrette e scorrette di una norma.
In conclusione: se rileggiamo l‟intenzionalità come una capacità di adeguarsi a norme
piuttosto che come un fenomeno di natura psichica, possiamo restituire alle relazioni di potere uno
status ontologico coerente con la struttura logica proposta da Searle: colui che è soggetto ad una
relazione di potere esercita una capacità intenzionale (a volte inconscia) già nell‟adeguarsi alle
istanze del potere. Questa forma di implicita accettazione di una condizione di soggezione non è
però un destino ineluttabile. Gli individui possono eventualmente riconoscere le propria condizione
di soggezione o minorità acquisendo consapevolezza delle forme di potere a cui sono soggetti,
attraverso l‟esercizio del pensiero critico e nel faticoso percorso verso l‟emancipazione. Ma una tale
consapevolezza di sé, forse necessaria per cambiare la realtà sociale, è troppo onerosa per stabilirne
l‟esistenza. Quanto ho cercato di mostrare in queste pagine è che potrebbe bastare molto meno.
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Anscombe G.E.M., 1957, Intention, Oxford, UK, Basil Blackwell
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Uehling, Jr., and H.K. Wettstein, University of Notre Dame Press; pp. 1-14.
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Gilbert M., 1996, Living Together: Rationality, Sociality, and Obligation, Lehman, MD,
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Lagerspetz E., «Institutional facts, performativity and false beliefs», in Cognitive System
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Searle J.R., 1995, The Construction of Social reality, New York, Free Press (La costruzione
della realtà sociale, trad. it. di Andrea Bosco, Edizioni di Comunità, Milano, 2000)
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Searle J.R., 2003, «Ontologia sociale e potere politico», in Ontologia sociale, potere
deontico e regole costitutive, a cura di Paolo di Lucia, Quodlibet, Macerata, pp. 27-44.
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Tuomela R., 2002, The Philosophy of Social Practice, Cambridge, UK, Cambridge
University Press
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Wittgenstein L., 1954, Philosophical Investigations, London, Basil Blackwell (Ricerche
filosofiche, trad. it. a cura di Mario Trinchero, Torino, Einaudi, 1995)
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Ontologia e oggetti sociali (1)
Linee di Ricerca
Maurizio Ferraris
Versione 1.0
SWIF - Sito Web Italiano per la Filosofia
Rivista elettronica di filosofia - Registrazione n. ISSN 1126-4780
Linee di Ricerca – SWIF
Coordinamento Editoriale: Gian Maria Greco
Supervisione Tecnica: Fabrizio Martina
Supervisione: Luciano Floridi
Redazione: Eva Franchino, Federica Scali.
LdR è un e-book, inteso come numero speciale della rivista SWIF. È edito da Luciano
Floridi con il coordinamento editoriale di Gian Maria Greco e la supervisione tecnica di Fabrizio
Martina.
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filosofico. LdR è un e-book in progress, in cui ciascun testo è un capitolo autonomo. In esso l'autore
o l'autrice, presupponendo solo un minimo di conoscenze di base, fornisce una visione panoramica
e critica dei temi principali, dei problemi più importanti, delle teorie più significative e degli autori
più influenti, nell'ambito di una specifica area di ricerca della filosofia contemporanea attualmente
in discussione e di notevole importanza. Il fine è quello di fornire al pubblico italiano un'idea
generale su quali sono gli argomenti di ricerca di maggior interesse nei vari settori della filosofia
contemporanea oggi, con uno stile non-storico, accessibile ad un pubblico di filosofi non esperti
nello specifico settore ma interessati ad essere aggiornati. Tutti i testi di Linee di Ricerca sono di
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AUTORE, Titolo, in L. Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2003, ISSN 1126-4780,
p. X, www.swif.it/biblioteca/lr.
AUTORE
 Maurizio Ferraris [[email protected]]Maurizio Ferraris è professore ordinario di
Filosofia teoretica nella
 Facoltà di Lettere e Filosofia della Università di Torino, dove dirige il Centro
Interuniversitario di Ontologia Teorica
 e Applicata. È direttore di programma al Collège International de Philosophie
(Parigi); collabora al supplemento
 culturale de "Il Sole-24 ore" e de "Il Manifesto", e dirige la "Rivista di estetica".
Pubblicazioni recenti: Experimentelle
 Ästhetik (Vienna, Turia und Kant 2001), L'altra estetica (con altri autori, Torino,
Einaudi
1), Una ikea di università
 (Milano, Cortina 2001), Il mondo esterno (Milano, Bompiani 2001), A taste for the
Secret (con Jacques Derrida,
 London, Blackwell 2001), Ontologia (Napoli, Guida 2003) e Introduzione a Derrida
(Roma-Bari, Laterza 2003).
 La revisione editoriale di questo saggio è a cura di Eva Franchino.
 M. Ferraris, Oggetti sociali, V. 1.0, in L. Floridi (a c. di), Linee di Ricerca, SWIF,
2003, pp. 269-309.
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4 “Una immensa ontologia invisibile”
Leggi, istituzioni, obblighi, promesse, contratti non sono né costruzioni puramente
individuali, come per esempio un ricordo o un giudizio, né oggetti fisici come alberi e sedie, né
oggetti ideali come numeri o teoremi. Di che cosa sono fatti? E, soprattutto, esistono? Molti idoli,
nel senso di Bacone, cioè molti abbagli o pregiudizi, tendono a rendere poco evidente questa classe
di oggetti (Smith [1997], Gilbert [1989] e [1993], Johansson [1989]), che viene a costituire, come
ha scritto John Searle [1995] “una immensa ontologia invisibile”: quella che, d‟accordo con
l‟esempio di Searle, si nasconde nel semplice atto di sedersi al tavolino di un caffè, ordinare una
birra, pagarla; vediamo tavoli, sedie, birre, soldi e forse anche pensiamo a numeri (per esempio, alla
gradazione alcolica o al prezzo), ma non consideriamo il reticolo di leggi e di norme implicite e
implicite che stanno dietro a un atto così semplice.
Visto che l‟ontologia ha scopi completamente differenti dalla fisica, giacché la prima serve a
spiegare individuando nessi causali, mentre la seconda serve a classificare e a esplicitare i caratteri
di ciò che classifica, questa invisibilità non può essere ricondotta alla debolezza predittiva delle
scienze sociali (come per lo più si è sostenuto), bensì a una cecità cognitiva condivisa, e rafforzata
da pregiudizi culturali. Vorrei dapprima esaminare gli idola che nascondono gli oggetti sociali, poi
delineare in breve le tappe della loro scoperta, e infine esporre lo stato dell‟arte.
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5 Idola
Idola tribus. Incominciamo con gli idola tribus, quelli della tribù a cui apparteniamo. Come
accennavo un momento fa, ammettiamo senza difficoltà che esistano degli oggetti fisici (un tavolo);
siamo disposti a concedere una qualche esistenza anche a oggetti fenomenici, come l‟arcobaleno, i
riflessi, il triangolo di Kanizsa; e anche chi sostiene che i numeri non esistono né come i tavoli né
come gli arcobaleni ammette che sono degli oggetti. Ci è invece difficile considerare anche
semplicemente come “oggetti” i gradi militari, il comune di Pisa, il divieto di calpestare le aiuole. In
taluni casi, siamo tentati di classificarli o come oggetti fisici, o come oggetti ideali. Eppure, la
differenza di queste entità sia rispetto agli oggetti fisici (che esistono indipendentemente da
soggetti) sia rispetto agli oggetti ideali (che possono esistere anche solo per un soggetto) è
abbastanza chiara. In particolare, gli oggetti sociali si manifestano attraverso atti sociali che
riguardano almeno due persone. Se gli atti sociali sono promesse, elezioni, obbligazioni, gli oggetti
sociali che ne seguono sono cariche, titoli, distinzioni; confini, entità politiche e amministrative
(città, regioni, super-regioni, stati, quasi-stati, imperi) e altri oggetti creati in un „fiat‟ come i
possessi fondiari; entità e intenzionalità collettive come partiti politici, squadre di calcio,
battaglioni, orchestre, cortei; oggetti legali, e altri oggetti che dipendono da decisioni legali, come i
software, le frequenze radio, i corridoi aerei, i biotipi, le armi nucleari, gli organismi geneticamente
modificati; oggetti di status e collettivi come le opere d‟arte e altri tipi di artefatti (i segnali stradali,
per esempio) che, oltre ad essere oggetti fisici, posseggono anche delle caratteristiche che
dipendono dalla sfera sociale (per un uomo solo al mondo tavoli e segnali sarebbero solo oggetti
fisici).
Visto che per la nostra mente il paradigma di oggetto è offerto dall‟oggetto fisico, concreto,
la nostra vista sembra appannarsi di colpo di fronte a questo mondo del resto così popoloso, e che
peraltro non può essere maneggiato adeguatamente servendosi semplicemente del riferimento agli
oggetti fisici.
Idola specus. E ora veniamo agli idola specus, cioè della caverna, che vengono
dall‟educazione e soprattutto dai casi fortuiti in cui ciascuno di noi viene a trovarsi. Inevitabilmente,
tutte le volte che abbiamo avuto a che fare con oggetti sociali, li abbiamo incontrati in compagnia di
altri oggetti, e questo perché sono oggetti dipendenti. Invece di esaminare le dipendenze,
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solitamente preferiamo andare subito a ciò da cui sono dipendenti. Cerchiamo adesso di esplicitare
queste forme di dipendenza.
Anzitutto, come ho già accennato, gli oggetti sociali sono dipendenti, per la loro espressione,
da atti sociali, cioè da atti che riguardano soggetti; sono oggetti che si manifestano solo se esistono
soggetti. La dipendenza dai soggetti ha potuto generare la falsa convinzione che, essendo soggettodipendenti, siano anche soggettivi, o puramente convenzionali, vanificando l‟ipotesi di una
ontologia degli oggetti sociali.
Una seconda dipendenza degli oggetti sociali riguarda il loro contenuto. Una promessa è tale
se promette qualcosa, e così un obbligo. “Prometto che”, “scommetto che” ecc. non sono promesse
né scommesse, ma frasi incomplete; è necessario dire “prometto che x”, “scommetto che x” ecc.
Questo aspetto ci rinvia a una terza dipendenza, che riguarda il contesto. “Voglio sposarmi”
e “Voglio sposare XY” sono la manifestazione di una intenzione; “Voglio sposarti” è una promessa
priva di valore legale, ma è già un atto sociale; “Sì” detto in risposta alla domanda di un
rappresentante legale “Vuoi tu prendere in moglie XY?” è un atto sociale dotato di valore legale; la
stessa risposta data sul palco di un teatro o al cinema è la simulazione di un atto legale reale, ma è
un atto sociale in quanto rientra tra le funzioni sociali dell‟arte.
Una quarta dipendenza riguarda il supporto fisico dell‟oggetto sociale. L‟atto richiede una
espressione e una registrazione (immaginiamo un matrimonio in cui tutti gli astanti fossero incapaci
di intendere e di volere e in cui non ci fossero registri). Ma da questo non si deve concludere che si
tratta di un oggetto che si risolve interamente nella espressione e nella registrazione. Esattamente
come gli oggetti ideali (che per esistere nel mondo richiedono una espressione e una registrazione),
gli oggetti sociali sono dotati di un valore indipendente (2).
Idola fori. Veniamo agli idola fori, ossia agli equivoci generati dal linguaggio, che è
abbastanza riottoso a classificare gli oggetti sociali come “oggetti”, se non altro perché sono spesso,
anche se non sempre, accompagnati da una espressione. A questo punto, le vie preferite sono due, o
puntare semplicemente sulla risoluzione degli oggetti sociali in atti sociali intesi come atti
linguistici, oppure concedere agli oggetti sociali una esistenza umbratile, quella dei segni.
In questo quadro, gli oggetti sociali sono stati considerati come delle “pratiche” (ne parlava
Foucault [1969], richiamandosi ad Austin, e la prospettiva verrà recuperata da Habermas [1981] nel
quadro di una teoria dell‟agire comunicativo), cioè come degli atti, a cui però non corrispondono
degli oggetti. L‟idea di fondo è che gli oggetti fisici, e in parte gli oggetti ideali, intesi in questa
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versione come “teorie”, siano immersi in un fluido fatto di interessi, procedure tecniche e modi di
fare. Sono per l‟appunto le “pratiche” (interpretare, ordinare, vietare, sorvegliare), che sarebbero i
verbi di una struttura sintattica in cui gli unici sostantivi vengono per l‟appunto forniti dal mondo
fisico e, in subordine, dalla sfera delle idee.
In alternativa, gli oggetti sociali sono considerati come dei segni. Ci sono cose fisiche o
ideali (per esempio, il fuoco o il pensiero di qualcuno) e poi altre cose (il fumo o una espressione
orale o scritta) che rinviano ad esse; quando sono considerate nella loro funzione di rimando, queste
cose che fungono da segni cessano di essere oggetti per diventare semplici indizi di qualcos‟altro.
Tutta la sfera della azione sociale, supponendo l‟interazione fra persone, viene intesa come una
sfera di rimandi, e dunque nella società non ci sarebbero oggetti ma soltanto segni. Da questo punto
di vista, la fioritura della semiotica nella seconda parte del Novecento si presenta come una maniera
per portare a tema gli oggetti sociali, che però ha il limite onerosissimo di negarli come oggetti.
A questo problema se ne aggiunge un altro, più tradizionale, e cioè che la nozione di
“segno” è troppo comprensiva, e include ogni genere di rimando. Nella Antropologia di Kant si
mescolano segni naturali e artificiali, e al loro interno ci sono per esempio i marchi di infamia o le
livree, che propriamente sono degli oggetti sociali, ma che Kant non distingue in modo specifico.
Anche in questo caso, non esiste né una specificità dell‟oggetto sociale –inteso per l‟appunto come
rimando a
oggetti ideali o naturali- né una sua consistenza autonoma.
Nel caso delle pratiche come in quello dei segni abbiamo a che fare con una strategia
uniforme: rinviare all‟oggetto fisico o ideale più vicino, perdendo nel frattempo il valore e l‟essenza
dell‟oggetto sociale, oppure rimandare a un contesto psicologico individuale, come per l‟appunto
quando si considera la promessa come la manifestazione di una volontà.
Idola theatri. Veniamo così ai pregiudizi filosofici, che contribuiscono a far svanire gli
oggetti sociali di fronte ai più rispettabili (o consistenti) oggetti fisici e oggetti ideali.
Il primo è quello avviato da Aristotele, che nel quarto capitolo del De Interpretatione
afferma che ogni discorso che non sia capace di dire il vero o il falso, come per esempio la
preghiera, rientra nella retorica e nella poetica. Visto che gli oggetti sociali dipendono da atti sociali
che non descrivono eventi, ma li producono, allora non esistono, e sono l‟effetto del variare dei
costumi e del sedimentarsi della storia.
Il secondo è quello dell‟uso troppo generoso del rasoio di Ockham diffuso nella tradizione
filosofica. L‟aspirazione del filosofo è pervenire a strutture semplici e a realtà atomiche. Come
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risultato, le due sfere della natura e della storia sono più che sufficienti, così come l‟oggetto e il
soggetto, e strutture complesse e intersoggettive appaiono ridondanti rispetto a queste polarità di
base.
Il terzo pregiudizio è la prospettiva cartesiana, per cui tutto ciò che non rientra nella
episteme (che per Cartesio è essenzialmente la fisica) va ascritto immediatamente alla doxa, cioè
alla opinione e alla interpretazione. L‟atteggiamento di Cartesio nei confronti dell‟arte e del gusto,
come fatti puramente soggettivi, è la spia del più generale atteggiamento nei confronti degli oggetti
sociali, che sarebbero privi di qualsiasi razionalità.
Il quarto, infine, è l‟assunto kantiano secondo cui l‟ambito delle azioni e delle motivazioni
rientra in una sfera della soggettività come mondo puramente intelligibile, che risulta interamente
separato dal mondo sensibile, e non ha nulla a che fare con l‟oggettività, dipendendo per intero da
un atteggiamento soggettivo.
Criptotipi. Rispetto a questa sfera di problemi, una buona strategia, per rendere conto della
ontologia degli oggetti sociali è considerarli, d‟accordo con gli studi del giurista Rodolfo Sacco
(Sacco,Gambaro [1996]), come criptotipi, ossia come tipologie nascoste ma oggettive. La proposta
ha il merito di indicare che ci sono delle basi nascoste, ma consistenti, che non rinviano ad altro,
come un segno o una pratica, ma hanno una autonomia di oggetto. Le pagine che seguiranno
raccontano le alterne vicende della loro scoperta.
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6 Spirito oggettivo
Con una opzione di gran lunga prevalente, si è deciso, dal Settecento in avanti, di affidare
alla storia la gestione degli oggetti sociali. L‟idea è che siano manifestazione di una libertà priva di
vincoli oggettivi, che si manifesta attraverso il tempo, ed è fatta di spirito, il quale può solidificarsi
in istituzioni. In questo quadro, gli oggetti risultano totalmente convenzionali e modificabili a
piacere. In altri termini, se c‟è una ontologia degli oggetti sociali, allora è una ontologia storica; ma
una ontologia storica non è una ontologia (Hacking [2002]), perché –come vedremo- comporta un
relativismo talmente forte da impedire qualsiasi classificazione.
Storicismo e spirito oggettivo (Ferraris [1988]). La formulazione standard dello storicismo
è data da Giambattista Vico [1744]: nozze, tribunali e are sono costitutivi della società e della
storia. Ma non sono propriamente “oggetti”; sono, per l‟appunto, istituzioni, la solidificazione di
uno spirito, il che ne fa dei costrutti generati dalla fantasia e sottoposti all‟opinione.
Caratteristicamente, la valorizzazione storica delle istituzioni sociali coincide in Vico proprio con
una valorizzazione della poetica e della retorica, cioè con una assunzione del pregiudizio
aristotelico e cartesiano di cui si è detto più sopra.
La posizione storicista ha trovato la sua formulazione più influente in Hegel [1821]. Lo
spirito ha tre manifestazioni: è spirito soggettivo come atto individuale, oggettivo in quanto si
solidifica in una istituzione, assoluto in quanto (come arte, religione e filosofia) riesce a portarsi al
di là della storia. In questo modo, le istituzioni vengono riconosciute come intersoggettive, ma sono
fatte dipendere interamente dalla storia.
Sulla scia di Hegel, Dilthey [1905-1910], formula una teoria generale delle scienze dello
spirito (che contrappone alle scienze della natura, tertium non datur), e colloca la stessa arte,
religione e filosofia nel quadro dello spirito oggettivo storicamente determinato. Il solo rapporto
possibile con le istituzioni dello spirito oggettivo è quello di una interpretazione storica, chiamata a
far rivivere il senso di decisioni prese nel passato, e di motivarne le ragioni genetiche, risalendo
all‟atto psicologico da cui sono scaturite. Dilthey interpreta questa trasformazione nei termini di una
critica della ragione storica. Se la rivoluzione copernicana di Kant insegna a chiedersi non come
siano le cose in sé stesse, ma come debbano essere fatte per venire conosciute da noi, si tratta di
compiere una seconda mossa, e di mostrare che le categorie con cui conosciamo non sono cadute
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dal cielo, ma hanno a loro volta una origine storica e riflettono interessi sociali. A questo punto, la
relativizzazione delle istituzioni è interamente compiuta.
6.1
Heidegger e l’ontologia storica.
All‟interno di questa tradizione, Martin Heidegger [19 7] ha fornito qualche spunto per una
ontologia sociale sulla base della analisi del soggetto individuale, chiamandola “analitica
esistenziale”, “ermeneutica della effettività” e con altri nomi, e intendendo l‟ontologia non come
una teoria degli oggetti, bensì come la ricerca di un essere che trascende gli oggetti ma è dipendente
dalle decisioni storiche dei soggetti.
Gran parte della indagine di Heidegger è rivolta alla determinazione di atteggiamenti
individuali, siano essi condizioni esistenziali (la noia, l‟angoscia) o atteggiamenti nei confronti di
oggetti (cose e strumenti), e la sfera della ontologia sociale è definita complessivamente come
“inautentica”. Tuttavia, l‟idea che il sostrato ontologico non coincida con gli oggetti viene fatta
valere anche in questo ambito.
In riferimento specifico agli oggetti sociali, Heidegger [1935], si chiede, per esempio , dove
sia l‟essere dello Stato, e osserva che non sta né nelle operazioni di polizia, né nelle macchine per
scrivere della segreteria, né nelle comunicazioni del capo di Stato a un ambasciatore. Tuttavia
conclude che un simile essere non solo trascende le sue componenti, ma ha una natura mistica che
può essere parzialmente descritta solo da un punto di vista storico e genetico (d‟accordo con la
tradizione delle scienze dello spirito).
6.2
Postmoderno: la storia entra nella natura.
Con l‟ermeneutica di matrice heideggeriana e con il postmoderno che ne radicalizza la
componente relativistica, l‟atteggiamento storico esce dalla sfera delle scienze dello spirito ed entra
nelle scienze della natura. Tutto è costituito socialmente; ogni oggettività è soggetto-dipendente;
dunque, tutto è infinitamente interpretabile e storicizzabile. Non solo gli oggetti sociali, ma anche
quelli fisici e ideali risultano determinati dalla storia (da teorie e schemi concettuali storicamente
determinati).
Il postmodernismo come teoria filosofica è stato proposto da Jean-François Lyotard [1979],
ma è stato sviluppato nelle sue implicazioni soprattutto da Richard Rorty [1979 e 1987], la cui tesi è
che, venuto meno il progetto di una filosofia come rispecchiamento oggettivo della natura, la
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missione fondamentale della filosofia consiste nel promuovere un dialogo sociale in cui si manifesta
un prevalere della solidarietà e della democrazia rispetto alla oggettività. Queste intuizioni vengono
a collegarsi per l‟appunto con l‟ermeneutica di origine heideggeriana e con il radicalismo filosofico
di ispirazione nietzschiana, accomunati dalla critica nei confronti della oggettività.
E‟ in questo senso che il postmodernismo ha potuto recuperare la prospettiva di Hans Georg
Gadamer [1960], che aveva sviluppato una completa teoria degli oggetti sociali, determinati dal
modello dell‟arte, della storia e del linguaggio, in netta antitesi nei confronti della oggettività
identificata esclusivamente con il procedere delle scienze naturali. Per parte sua, Michel Foucault
[1996], aveva elaborato, partendo dalle intuizioni di Nietzsche secondo cui ogni atteggiamento
oggettivo è in realtà la manifestazione di una volontà di potenza soggettiva, una teoria scettica
secondo cui ogni oggetto naturale è mediato da schemi concettuali soggettivamente e storicamente
determinati, cosicché la malattia, la follia, e ovviamente la legge, sono oggetti sociali di carattere
puramente convenzionale.
Questa impostazione urta frontalmente con le nostre intuizioni di fondo, non solo
relativamente alla realtà fisica. Da una parte, tende a ricondurre a una genesi sociale entità di natura
apertamente fisica, dall‟altra si rivela incapace di rendere conto del funzionamento degli oggetti
sociali, che sono visti come la manifestazione di uno spirito impalpabile, oppure di una volontà di
potenza che d‟altra parte agirebbe anche al livello degli oggetti ideali. Nel far questo, non rende
conto del fatto che noi abbiamo spontaneamente delle intuizioni morali, che possono (anche se non
necessariamente devono) avere la stessa evidenza delle intuizioni sensibili, che possono risultare
erronee, di nuovo in analogia con le intuizioni sensibili, ma che molto difficilmente possono venire
ricondotte all‟agire di un condizionamento storico.
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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7 Atti sociali
Possiamo considerare l‟approccio storicistico come una falsa pista. L‟ipotesi per cui tutto,
dai fatti alle emozioni, dalla malattia alla natura, dai colori alle proprietà degli oggetti, sia
socialmente e storicamente costruito, porta indubbiamente dei vantaggi, per esempio quello di farci
capire che non c‟è un solo modo di concepire le cose, ma poi rischia di fermarsi lì, o, peggio, di far
credere che ci siano infiniti modi in cui possono andare le cose, quando chiaramente non è così.
Una ontologia degli oggetti sociali deve appoggiarsi, allora, a una storia completamente diversa, che
parte dalla scoperta di atti sociali che non dipendono dalla storia, perviene a determinare la natura di
oggetti sociali, e ne riconosce il carattere non interamente soggetto-dipendente.
7.1
Realismo.
Il requisito minimale per la costituzione di una ontologia degli oggetti sociali è l‟adozione di
un realismo di sfondo (proprio quello che viene negato dalla ontologia storica). Il realismo, qui, non
è una teoria scientifica che sarebbe confortata dalla fisica, ma piuttosto l‟ovvio presupposto di una
indagine che si può sviluppare sia nella direzione di una indagine della natura, sia in quella di una
indagine del mondo sociale, che costituiscono un unico mondo e non due entità distinte
(come nella dicotomia tra scienze dello spirito e scienze della natura) e che non sono riducibili l‟uno
all‟altro (rispettivamente, la natura alla storia come nel postmoderno e la storia alla natura come nel
fisicalismo).
Il mondo degli oggetti sociali va riconosciuto come un mondo di oggetti solidi e consistenti
tanto quanto gli oggetti ideali. La tesi di fondo, qui, è che non tutto è costituito socialmente, ma che
anche ciò che lo è, e che risulta soggetto-dipendente (come le feste, i matrimoni, i titoli onorifici, le
obbligazioni e le promesse) non per questo è soggettivo. La prima tappa di questa storia è fornita
dalla scoperta degli atti sociali.
7.2
Reid.
Il filosofo scozzese Thomas Reid ( Reid [1764] e [1785]; su Reid, cfr. Schulthess [1983] e
Schumann e Smith [1990]), aveva riconosciuto la specificità di atti o di operazioni sociali che,
diversamente dai giudizi, non sono individuali, e comportano l‟intervento di almeno due persone
(come nell‟obbligazione o nella promessa) che costituiscono quella che Reid considera una società
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in miniatura. Il caso della promessa, valorizzato da Reid, risulta particolarmente significativo,
perché la sua interpretazione tradizionale –riproposta, ai tempi di Reid, da David Hume - consisteva
nel considerare la promessa come la semplice manifestazione di una volontà (soggettiva), che
invece, secondo Reid, risulta nella costruzione di un atto sociale oggettivo, consistente come un
oggetto fisico o come una proposizione matematica, sebbene non riducibile a un mero costrutto
ideale o a una realtà materiale.
Questo approccio ha il vantaggio definire gli atti sociali senza far riferimento alla storia e
allo spirito, e di differenziarli da atti che si riferiscono a oggetti ideali (che sembrerebbero essere i
candidati più prossimi alla assimilazione). Inoltre, la proposta di Reid soddisfa il requisito
ontologico del realismo di sfondo. Contro l‟empirismo di Hume e di George Berkeley , che risolve
il mondo esterno nell‟io e poi riduce lo stesso io a un mero fascio di sensazioni privo di vera
consistenza, Reid propugna un “realismo naturale”. Esiste una realtà fisica bruta, non intaccata da
fatti sociali o istituzionali, e se la sensazione non può essere separata da un atto psicologico, la
percezione (diversamente che in Hume) si riferisce a un oggetto distinto dall‟atto che lo percepisce
(3). Su questa realtà indipendente si sovrappone un mondo di operazioni sociali che non ha alcun
ruolo costitutivo rispetto alla realtà fisica, diversamente da ciò che, come abbiamo visto, avverrà
nella ipotesi dello spirito oggettivo amplificata dal postmoderno.
7.3
Austin.
John L. Austin ( Austin [1962a]; cfr.Burckhardt (a cura di), [1990], ha sviluppato
autonomamente il problema degli atti sociali parlando di “atti linguistici”.
L‟idea di Austin attacca frontalmente uno degli idola theatri elencati più sopra, e
precisamente l‟assunto di Aristotele secondo cui i discorsi che, come la preghiera, non dicono né il
vero né il falso, vanno rinviati alla retorica e alla poetica; e lo fa sotto l‟influenza della tesi,
enunciata da Ludwig Wittgenstein [1953], secondo cui il riferirsi a qualcosa è solo una delle
funzioni del linguaggio.
Nella fattispecie, Austin vuol dare piena dignità filosofica a enunciati che non asseriscono o
descrivono qualcosa, ma la eseguono, come per esempio la scommessa, la promessa, il battesimo e
il matrimonio, e che Austin chiama “performativi”. Con questo, risulta chiaro che gli atti sociali non
si riferiscono a oggetti materiali, e anzi costituiscono, a loro volta e autonomamente, degli oggetti di
tipo peculiare.
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Come Reid, d‟altra parte, Austin si appella a un realismo ontologico di sfondo, che si
qualifica esplicitamente come richiamo a una filosofia del senso comune e del linguaggio ordinario,
in cui si sedimenterebbero usi e atteggiamenti nei confronti del mondo collaudati da un gran
numero di generazioni. Questo atteggiamento realistico, che sta alla base della analisi della
percezione sviluppata da Austin [1962b], non giunge sino alla esplicita formulazione di una
“metafisica descrittiva”, come sarà invece in Peter F. Strawson ( [1959]: 11), interessato alla
definizione di quel “nucleo centrale” del pensiero umano che, diversamente da ciò che avviene nella
“periferia specialistica”, non cambia, o cambia pochissimo. Tuttavia, in Austin, come in Reid e in
Strawson, viene esclusa l‟idea che –come viceversa sostiene lo storicismo – il senso comune in cui
si radicano gli atti sociali possa essere soggetto a trasformazioni dettate da scelte e decisioni rapide
e deliberate; e, implicitamente, la stabilità del senso comune viene assicurata da un riferimento di
fondo alla realtà percettiva. L‟analisi del performativo e degli atti linguistici in generale andrà
incontro a difficoltà di varia natura per ciò che attiene alla filosofia del linguaggio, e verrà
abbandonata negli anni Settanta. Quanto al problema che ci interessa in questa sede, si tratta di un
contributo necessario ma non sufficiente. La formulazione degli atti sociali in Austin, non
diversamente da quella di Reid, è centrata sulla espressione linguistica(4). Inoltre, Austin era
interessato essenzialmente alla costituzione di una geografia concettuale come analisi linguistica del
senso comune (Austin [1979] indicava gli strumenti di analisi fondamentale nel Dizionario, nella
Legge e nella Psicologia), e non aveva di mira la formalizzazione di categorie. In terzo luogo, la
doppia circostanza del riferimento al linguaggio ordinario e del carattere rapsodico dell‟analisi
esponeva questa prospettiva all‟ovvia obiezione che il linguaggio ordinario è pieno di confusioni e
di incoerenze, e che non costituisce una autorità sacrosanta (al che Austin rispondeva che si trattava
di un punto di partenza, non di un punto di arrivo: salvo non spiegare quale dovesse essere quel
punto di arrivo e attraverso quali vie lo si dovesse raggiungere.) Infine, e soprattutto, gli atti sociali
descritti da Austin dipendono da contesti e da istituzioni (se non ci fosse una istituzione come il
matrimonio, il performativo “sì” non avrebbe senso), dunque risultano in ultima istanza compatibili
con una spiegazione storicistica della genesi delle istituzioni.
7.4
Searle.
Sviluppando la teoria degli atti linguistici di Austin, negli anni Novanta del secolo scorso,
John Searle ha proposto una ontologia sociale di impianto realistico, che vede negli oggetti sociali
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la trasformazione di oggetti fisici attraverso procedure convenzionali. Rispetto ad Austin, di cui era
stato allievo a Oxford negli anni Cinquanta, Searle compie un passaggio, decisivo per la definizione
degli oggetti sociali, dallo studio degli atti linguistici allo studio della realtà sociale (Smith [2003]).
Tralasciando le opere di Searle ( [1969] e [1983]), più direttamente legate alla teorizzazione (e al
tentativo di formalizzazione) degli atti linguistici e a uno studio della intenzionalità, i lavori che
segnano il suo passaggio allo studio della realtà sociale si caratterizzano per quattro assunzioni di
fondo ( Searle [1995], [1999], [2000]).
La prima è una ipotesi genetica, secondo cui gli oggetti sociali trarrebbero la loro origine da
oggetti fisici. L‟esempio favorito di Searle è quello di un muro, che costituisce un confine fisico che
separa due spazi; supponendo che poco alla volta vengano tolte tutte le pietre e non resti nulla di
fisico, potrebbe restare un confine che, a questo punto, sarebbe soltanto un fatto sociale.
La seconda è la determinazione di una legge che caratterizza la costituzione degli oggetti
sociali. Il passaggio dall‟oggetto fisico all‟oggetto sociale è determinato dalla regola: “X conta
come Y nel contesto C”; questa regola è “costitutiva”, e non regolativa come invece le leggi che si
occupano di oggetti fisici: trasforma un oggetto invece che descriverlo (abbiamo qui, per l‟appunto,
una filiazione diretta dalla dottrina degli atti linguistici di Austin). Per esempio, questo foglio di
carta arancione 14x8 conta come 50 Euro nel 2003 (e non contava come 50 Euro nel 1993).
La terza è che, se gli oggetti sociali sono dipendenti da oggetti fisici per la loro genesi
(d‟accordo con l‟esempio del muro e del confine), tuttavia risultano dipendenti da soggetti per la
loro costituzione (d‟accordo con il funzionamento della “regola costitutiva”). L‟idea di fondo è che
feste, matrimoni, proprietà, università, soldi e avvocati sono quello che sono essenzialmente perché
noi li consideriamo come tali (Searle [1999]: 113).
La quarta, che viene a correggere il fortissimo convenzionalismo presente nella ipotesi
precedente, è che il riconoscimento di oggetti sociali non dipende dall‟incontro di soggettività
monadiche, bensì è l‟esercizio di quello che Searle chiama „intenzionalità collettiva‟ ( Searle
[1995]). D‟accordo con l‟esempio di Searle, un violinista di fila esegue la sua parte solo nel quadro
di una prestazione collettiva dove l‟intenzione individuale viene dopo, e può essere ricavata per
astrazione, rispetto a una condivisione di credenze, desideri e intenzioni che è molto più forte di
quanto non avvenga nel semplice caso di un comportamento cooperativo, come avviene viceversa
(per estendere l‟esempio di Searle) nel caso di un duetto.
Rispetto a Austin, Searle focalizza la sua attenzione sugli oggetti e non sugli atti, ma i primi
risultano comunque troppo dipendenti dai secondi. Così, anche la prospettiva di Searle presenta
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debolezze di fondo, che derivano dalle matrici culturali su cui si appoggia. Primo, sopravvaluta la
potenza delle regole costitutive (la convenzione, il linguaggio, la dipendenza dai soggetti); secondo,
e correlativamente, sottovaluta i vincoli che vengono dagli oggetti, cioè i veri e propri apriori
materiali(5) (come vedremo e come intuiamo, nonostante tutto non qualsiasi cosa può valere come
moneta, sebbene la monetazione sia indubbiamente un atto sociale); terzo, non fornisce un criterio
per distinguere norme giuste e ingiuste, né spiega perché intuitivamente certe norme ci appaiano
ingiuste; quarto, non spiega la circostanza per cui ci può essere diritto anche in assenza di
linguaggio. Nel complesso, Searle spiega la genesi degli oggetti sociali, ma non fornisce criteri
efficaci per la loro classificazione o correzione (6).
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8 Oggetti sociali
Una ontologia degli oggetti sociali deve perciò trasferire le prospettive elaborate dai teorici
degli atti sociali in un contesto profondamente differente, ed è qui che interviene la pista
fenomenologica, dove abbiamo a che fare con il riconoscimento e la tematizzazione filosofica di
una circostanza valorizzata da Edmund Husserl [1900-1901], nella prima fase, realistica, del suo
pensiero: il mondo ha le sue leggi, e le fa rispettare, e conviene lasciare l‟iniziativa all‟oggetto,
giacché si tratta di tenere un discorso sull‟essere in quanto è indipendente dal rapporto conoscitivo
con il soggetto(7).
Le categorie stanno negli oggetti, come pensava Aristotele, non nella testa dei soggetti,
come pensava Kant. Questa prospettiva può offrirsi in molte versioni: il fatto che le qualità
secondarie (per esempio, i colori) o terziarie (per esempio, la bellezza o la bruttezza) non siano
puramente soggettive, bensì immanenti agli oggetti; il fatto che si diano delle qualità formali
indipendenti dal fare della soggettività; il fatto che anche prestazioni sofisticate, come la percezione
della causalità, si esercitino in assenza di schemi concettuali. Appare piuttosto ovvio che in una
prospettiva di questo genere si dovesse trovare l‟impulso per una definizione degli oggetti sociali
come indipendenti a qualunque convenzione storica, e dipendenti dagli atti sociali solo per la loro
espressione.
8.1
Hartmann, Lesniewski, Scheler.
I punti rilevanti in questa impostazione, che si può definire come “realismo forte”, dove
anche nel quadro degli oggetti sociali valgono norme regolative e non costitutive, sono tre.
Il primo è il fatto che la realtà incorpora al proprio interno non solo oggetti fisici (magari
costruiti dal soggetto, come nella ipotesi del trascendentalismo kantiano), ma anche oggetti ideali.
Questa impostazione trova la sua massima espressione, a livello di realismo ontologico, nella
prospettiva di Nicolai Hartmann [1949], che muove da una critica nei confronti dello stesso Husserl
(accusato di ridurre la realtà alla coscienza) e che afferma che gli enti reali e ideali esistono
indipendentemente dal fatto che qualcuno li conosca.
Il secondo è che questi enti ideali, che sono scoperti esattamente come si scopre un
continente o una molecola, costituiscono degli apriori materiali, ossia hanno lo stesso carattere
necessitante che la tradizione forniva alla logica. In questo senso, un allievo di Husserl come
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Stanislaw Lesniewski [1916] (8), professore di filosofia della matematica a Varsavia, propone una
formalizzazione logica della ontologia condotta “dal basso”, ossia con uno stile aristotelico, e
questo per l‟appunto muovendo dal presupposto che le regole scoperte attraverso una analisi di
questo tipo avrebbero lo stesso carattere necessitante che quelle che Kant ricavava quando traeva la
tavola delle categorie dal sistema dei giudizi puri dell‟intelletto.
La tematizzazione della autonomia e della necessarietà degli oggetti reali e ideali diviene, in
Max Scheler [1916], riconoscimento del fatto che, tra gli apriori materiali incastonati nel mondo e
indipendenti dai soggetti, ci sono anche i valori, cioè degli oggetti eminentemente morali. Qui
abbiamo a che fare con un attacco frontale nei confronti di uno dei più influenti tra gli idola theatri
che abbiamo esaminato all‟inizio, e cioè l‟idea kantiana secondo cui i valori dipenderebbero
esclusivamente dalle disposizioni dei soggetti, e risulterebbero del tutto estranei agli oggetti. Per
Scheler, invece, si tratta di costruire una etica materiale, secondo la quale i valori si troverebbero
negli oggetti prima che nelle menti che li contemplano; come dire che non solo io sono in grado di
riconoscere l‟essenza di una sedia a partire da una sedia e non da una idea di sedia, così sono in
grado di riconoscere il bene o il male di una azione e di un comportamento anche prescindendo
dalle disposizioni della mia soggettività(9).
8.2
Reinach.
In questo quadro, Adolf Reinach (Reinach [1913], Schuhmann e Smith [1987], Mulligan (a
cura di) [1987]) –che in un certo senso è il vero eroe della nostra storia– sviluppa una teoria degli
enti giuridici come tipi peculiari di oggetti, non situati nello spazio (diversamente dagli oggetti
fisici) ma collocati nel tempo (diversamente dagli oggetti ideali), giacché una promessa o un
obbligo hanno una origine nel tempo e cessano nel tempo.
La prospettiva di Reinach dipende direttamente dall‟idea di Husserl secondo cui il mondo
non è composto di dati di senso disordinati, bensì di oggetti dotati di una legalità propria, che hanno
lo stesso carattere vincolante delle leggi logiche. In ogni oggetto è possibile trovare una essenza non
relativa e non caduca. Come non è possibile che la parte sia maggiore del tutto, che esistano corpi
privi di estensione o che certi scapoli siano ammogliati (per riprendere una serie di giudizi analitici,
in cui, cioè, il predicato è compreso nel soggetto), così non è possibile che ci sia un colore senza
estensione o una estensione senza almeno un colore, oppure che ci sia una promessa o una
scommessa che non abbiano un contenuto. Queste leggi sono sintetiche, nel senso che ciò che
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predicano non è contenuto nel soggetto, però sono apriori, nel senso che non dipendono
dall‟esperienza, se con “esperienza” si intende qualcosa di mutevole e di aleatorio.
Forte di questo principio, Reinach attacca frontalmente l‟assunzione del diritto positivo
secondo cui il diritto produrrebbe autonomamente concetti specificamente giuridici come proprietà,
pretese, obbligazioni. Al contrario, qui abbiamo a che fare proprio con princìpi di carattere non
puramente formale, che esistono indipendentemente da ogni dottrina giuridica (esattamente come i
numeri esistono indipendentemente dalla matematica) e che possiedono proprietà altrettanto
vincolanti che gli oggetti fisici. La scoperta e la formalizzazione dei queste leggi apriori diviene il
compito della ontologia, che Reinach, sulla scia di Husserl, intende come una dottrina apriori
dell‟oggetto(10).
Il vantaggio della impostazione di Reinach rispetto a quella della linea Reid-Austin sta nel
fatto che non fa dipendere gli oggetti da una dimensione contrattuale (l‟atto sociale è espressione,
ma non costituzione dell‟oggetto sociale), e ci spiega perciò per quale motivo afferriamo
immediatamente e in modo intuitivo l‟assurdità di certe leggi. Inoltre, individua nella ontologia e
nella categorizzazione formale lo strumento di base per una efficace scoperta e classificazione della
specificità degli oggetti sociali, che cessano di essere il frutto di uno spirito storicamente
determinato (come nella ipotesi storicistica) o il mero esito di atti sociali che lasciavano sullo
sfondo il problema del carattere delle istituzioni che li rendevano possibili.
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9 Apriori materiale
Le prospettive attuali della discussione sulla ontologia degli oggetti sociali appaiono come la
confluenza delle due tradizioni, quella degli atti sociali di origine anglo- americana, e quella degli
oggetti sociali di origine mitteleuropea.
9.1
Il paradigma dell’oggetto (Smith [1993]).
L‟intuizione che sta alla base della riflessione di Scheler e di Reinach (in analogia con
alcune considerazioni di Wittgenstein [1946-49] degli anni Trenta) è che sia un errore postulare una
equivalenza tra “formale” e “apriori”, come aveva fatto Kant. Ovunque siamo collocati nel mondo,
troviamo delle connessioni oggettive che non sono aleatorie: un rosso che tenda al verde è
impossibile; lo stesso si può fare a proposito delle leggi apriori del diritto civile. Queste strutture
non stanno semplicemente nella testa delle persone che compongono una comunità o, peggio che
mai, in quella degli interpreti, ma sono dotate di proprietà che appartengono agli oggetti prima che
ai soggetti che li contemplano. Il fatto che l‟impossibilità per un rosso di tendere al verde sia
spiegato dalla fisiologia del sistema visivo non significa in alcun modo che dipenda da una
intenzione individuale, sia pure inconscia, e che valga per certi soggetti e non per altri.
Il paradigma dell‟oggetto nel diritto romano (Bretone [1998], Lancieri [
3]) risulta da
questo punto di vista illuminante. Oggetti giuridici come l‟obbligazione, le servitù, l‟eredità e
l‟usufrutto hanno origine da cose materiali, e proprio da questa genesi traggono la loro esattezza,
che urta frontalmente l‟idea di Hume secondo cui non c‟è necessità in senso materiale, ma solo in
senso logico. Qui, dunque, diversamente che nella impostazione ispirata al paradigma dello spirito
oggettivo, non abbiamo uno spirito (come principio formale) che si solidifica nelle istituzioni, ma è
la cosa che fa valere il proprio apriori materiale. In questo senso possiamo apprezzare sino in fondo
il valore del detto secondo cui “i nomi sono conseguenze delle cose”. Anche le buone maniere a
tavola costituiscono, da questo punto di vista, un esempio di apriori materiale adattato a una sfera
sociale. Apparentemente, buona parte delle questioni di etichetta sono convenzionali. Si può
mangiare con le mani, con le posate, con le bacchette. Tuttavia, all‟interno di queste possibilità, che
presuppongono un modo diverso di cucinare i cibi e di presentarli in tavola, prevalgono le
opportunità d‟uso dettate dagli oggetti e dal contesto, e si spiega che non un solo atto dell‟etichetta
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(non appoggiare i gomiti sulla tavola per non dar fastidio ai commensali; mangiare solo con la
mano destra tenendosi la sinistra dietro la schiena in Marocco, per non sporcare il bicchiere; usare a
tavola coltelli non appuntiti, per evitare la minaccia fisica; dare la mano, per mostrarsi disarmati;
usare specifiche posate da pesce, per evitare che malodorino ecc.) ha origini non convenzionali.
9.2
Inemendabilità.
Qui abbiamo a che fare anzitutto con lo smantellamento di un altro degli idola theatri
esaminati in apertura, la convinzione di Cartesio secondo cui i costumi sono interamente relativi.
Questo atteggiamento si era amplificato sul piano della natura con l‟empirismo del diciottesimo
secolo, che si fondava sull‟idea che la stessa natura non possegga delle necessità, ma solo delle
regolarità che non possono dar luogo a certezze. Ora, questo atteggiamento è smentito proprio dal
caso delle ontologie sociali, a cui si attaglia il racconto di Kafka: cui sembra che gli uomini siano
come le basi degli alberi abbattuti che emergono dalla neve, diresti che basta un calcio per scansarli,
come se fossero pedine della dama, e invece affondano radici immense e profonde nel terreno
sottostante. Un approccio alla ontologia sociale che si appoggi sulla idea di “inemendabilità” punta
l‟attenzione sul fatto che non è vero che l‟esperienza sia contingente (Hume), è necessaria così
come sono necessarie le leggi della geometria o dei colori, e nell‟esperienza sono incastonati anche
degli apriori che riguardano gli oggetti sociali.
Strutture complesse possono avere origini e composizioni diverse, ma resta il fatto che non
possono essere corrette a piacere, cioè con un mero atto convenzionale che manifesti una volontà
individuale: il mondo è pieno di cose che non si correggono, allo stesso modo che non si può vedere
un muro bianco come un muro nero, posto che il muro sia bianco. Questa circostanza, che si può
elaborare come fondamento di una ontologia realista ( Ferraris [2001] e [2002]), si ricollega alla
nozione di invarianza sotto trasformazione discussa da Nozick [2001], e sembra più solida della
fondazione delle invarianze sulla base del carattere conservativo del senso comune proposta da
Strawson [1959], per il quale c‟è un nocciolo del pensiero umano che non cambia, o cambia poco,
perché è poco soggetto all‟intima dinamicità della ricerca. In realtà, alla base di queste invarianze,
c‟è una caratteristica degli oggetti sociali che li avvicina agli oggetti fisici e agli oggetti ideali. Chi
si ripromette di smettere di fumare, o promette a qualcun altro di farlo, può avere degli ottimi (o
pessimi) motivi per agire come agisce, ma –se sarà sufficientemente sincero con se stesso- non
dubiterà di esser venuto meno a una promessa quando riprende a fumare.
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In questo senso, c‟è una evidenza del mondo morale e dei valori che è paragonabile alla
evidenza degli oggetti fisici. In altri termini, abbiamo, nei confronti delle intuizioni morali, una
certezza primitiva, d‟accordo, con la prospettiva avanzata da Reid, ripresa da José Ortega y Gasset
[1940] e da Ludwig Wittgenstein [1950-51], secondo cui ci sono proposizioni elementari che non
possono essere sottoposte a dubbio, e che sono oggetto di “credenza” e di “certezza”, secondo una
concezione valorizzata da Kevin Mulligan ( [1995], [1997], [1998], [1999], [2002], [2002a],
[
b]). Questo punto è particolarmente rilevante. Ho già fatto cenno all‟osservazione di Kant a
proposito delle intuizioni morali; diversamente dalla Critica della ragion pura, la Critica della ragion
pratica è breve perché, almeno nell‟assunto di Kant, la legge morale è evidente come il cielo stellato
sopra di noi.
Questa considerazione cattura una evidenza di fondo a cui è difficile sottrarsi; una legge che
decretasse che il furto non è reato difficilmente potrebbe essere considerata giusta.
Ora, da che cosa dipendono questi vincoli e la loro costanza? C‟è una fisica del mondo
sociale, indubbiamente, ma è, in larghissima parte, una fisica ingenua (Lipmann [1923], Bozzi
[1990], Casati e Smith [1994]), che ha a che fare con il nostro rapporto percettivo con il mondo
molto più che con le nostre convinzioni esperte circa il funzionamento della natura. Piuttosto che a
una prospettiva naturalistica, conviene rifarsi a un‟ottica ecologica, che cioè non miri a una
fondazione fisica degli oggetti sociali, ma piuttosto tenga presente quanto contino, per la loro
definizione, le risorse e i limiti legati all‟ambiente comportamentale e percettivo. D‟accordo con
l‟intuizione di fondo di Leibniz [1684], ci sono evidenze non solo percettive, ma anche di ordine
superiore, che costituiscono una realtà incontrata, ossia che si impongono come qualcosa di dato
intuitivamente e non di elaborato concettualmente (Metzger [1941]). Il compito di una ontologia
degli oggetti sociali consiste nell‟esplicitare questo implicito.
9.3
Ontologia.
Non solo come esseri naturali, ma anche, secondo il suggerimento di Barry Smith [1997],
come agenti sociali, siamo unità fisico-comportamentali. Questa considerazione spiega per quale
motivo si possano assumere, nel quadro di un discorso giuridico, anche elementi che altrimenti
potrebbero essere ridotti a unità atomiche di base (spiega perché abbia senso parlare di “intenzioni”
e non di “enzimi che causano epifenomeni chiamati popolarmente „intenzioni‟”).
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In questo senso, il trattamento degli oggetti sociali non è semplicemente naturalistico. Se
crediamo che tutto è costruito socialmente, perdiamo un pezzo importante della realtà in cui
viviamo; ma lo perdiamo anche se crediamo che tutto possa essere ridotto a componenti atomiche
elementari. I processi, i prezzi e i debiti esistono, cioè non possono essere risolti nelle unità
atomiche che li compongono, e questo vale anche per i referenti dei termini „innocenza‟,
„colpevolezza‟, „intenzioni delittuose‟, al limite „nervoso‟11. In effetti, buona parte della nostra vita
si confronta con questioni di senso comune, e non abbiamo a che fare solo con protoni e virus, ma
con leggi, contratti, obbligazioni, software, matrimoni, case, di cui si deve rendere conto in molti
casi indipendentemente dalla fisica. Inoltre, la realtà descritta dalla fisica si è progressivamente
discostata dalla realtà che fa parte del nostro arredo percettivo e che entra nel senso comune, di cui
si tratta di rendere conto autonomamente ( Smith [1995]). Infine, si sono introdotti degli oggetti
sociali (come per esempio quelli del cyberspazio) che risultano difficili da integrare nel senso
comune.
Di qui la rilevanza del ricorso all‟ontologia, che, come ho detto all‟inizio, ha scopi
completamente differenti dalla fisica: la prima serve essenzialmente a spiegare individuando dei
nessi causali, la seconda serve invece a classificare e a esplicitare i caratteri di ciò che classifica (
Varzi [2001] e [2002]). Da questo punto di vista, il realismo degli oggetti sociali si può appoggiare
su una prospettiva che concepisca l‟ontologia non come una fisica generalizzata (secondo il
modello di Kant), ma piuttosto, secondo il suggerimento di Barry Smith, come una chimica
generalizzata, cioè come una analisi di oggetti di ordine superiore e di strutture complesse.
9.4
Chimica generalizzata.
Come nel mondo percettivo, anche nel mondo sociale abbiamo a che fare con molecole e
non con atomi, anche e soprattutto nell‟ambito degli oggetti sociali. In questo ambito abbiamo a
che fare con un attacco diretto nei confronti dell‟ultimo idolo superstite, e cioè la tendenza a ridurre
la realtà alle sue componenti atomiche. Alle origini dell‟ atteggiamento alternativo che fa da sfondo
all‟attacco c‟è l‟esperienza della psicologia della Gestalt tra la fine dell‟Ottocento e i primi anni del
Novecento, che aveva focalizzato la propria attenzione proprio sulla trascendenza delle strutture
complesse rispetto alle loro componenti elementari.
Secondo Christian von Ehrenfels ( Ehrenfels [1890], Wertheimer [1923], Smith (a cura di)
[1988]), la percezione di un quadrato o di una melodia non è il risultato che si aggiunge ai lati o alle
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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note (come nella ipotesi empiristica), ma comporta una sensazione di qualità diversa, e cioè –
circostanza cruciale per il nostro problema – un vero e proprio oggetto distinto dalle sue
componenti, che per l‟appunto Ehrenfels chiamò „Gestalt‟, ossia „figura‟ o „configurazione‟. A sua
volta, l‟elaborazione di Ehrenfels era debitrice della riflessione di Alexius von Meinong [19 4], che
aveva elaborato una teoria dell‟“oggetto puro”, indipendentemente dalla sua esistenza fisica.
L‟indagine di Meinong, che si apriva alla possibilità di una indagine di oggetti ideali, era anche la
premessa per il riconoscimento di oggetti sociali, ossia di oggetti di ordine superiore che si
fabbricano (alle condizioni descritte dalla psicologia della Gestalt) sopra altri oggetti.
Ma la trascendenza non significa indifferenza rispetto alle parti, cioè indifferenza rispetto
alla teoria degli oggetti. D‟accordo con l‟esempio del filosofo inglese Gilbert Ryle [1949], che si
poneva un problema simile, sarebbe vagamente sorprendente l‟atteggiamento di chi, dopo aver visto
le biblioteche, i dipartimenti, le aule e il rettorato chiedesse dov‟è l‟Università: l‟oggetto sociale
Università è il risultato di una composizione di oggetti, che vanno analizzati nella loro struttura
formale e nei vincoli che ne derivano.
9.5
Ecologia.
Gli oggetti fisici che fanno parte della nostra esperienza, e che li catturano con una forza tale
da far passare in secondo piano gli oggetti ideali e sociali, sono caratterizzati dal fatto di non essere
né troppo grandi né troppo piccoli. Trattando di questi oggetti, Alfred J. Ayer ([1940]: 2) aveva
parlato di „oggetti familiari‟, Austin ( [196 b]: 3) di „articoli da emporio di modeste dimensioni‟ e
Strawson ([1959]: 11) di „particolari‟, per contrapposto agli universali. Questa indicazione può
tornare utile anche per catturare alcuni aspetti caratteristici degli oggetti sociali, il cui decorso
temporale è in molti casi commisurato con l‟estensione corporea e con la durata temporale della vita
di un uomo.
In questa concezione è implicito un orizzonte ecologico e una taglia mesoscopica (ovvero, a
metà strada tra il mondo microscopico e quello geografico e astronomico), d‟accordo con la
definizione dello psicologo americano James J. Gibson ([1979]: 46)1 . L‟idea di fondo è per
l‟appunto che nelle interazioni sociali noi abbiamo a che fare con dimensioni spaziali e temporali
che orientano e limitano la forza della convenzione. I contratti, le leggi, gli affitti, le monete sono
condizionati, più profondamente che dalla volontà dei contraenti, da coordinate spazio-temporali
che hanno a che fare con il nostro rapporto ecologico con l‟ambiente circostante.
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Il caso della moneta, da questo punto di vista, risulta illuminante. Non sembra illecito
affermare: “Qualsiasi cosa può fungere da moneta”; e, sulle prime, poiché la monetazione deve non
poco alla convenzione, l‟asserto pare ragionevole, ma solo fino a un certo punto: oltre a pezzi di
metallo e di carta, valgono o sono valse come monete sacchetti di sale o conchiglie, mai tavoli o
mucche, perché non risultano maneggevoli (le mucche, inoltre, vanno accudite), e allora tanto vale
il baratto, laddove si possono riciclare vecchie monete come bottoni per abiti tirolesi. Del pari, non
si possono adibire a monete bolle di sapone né pezzi di carta bruciata, granelli di sabbia, atomi,
carne fresca. Le sequenze uno e zero in un computer hanno certo preso il posto della moneta in un
grandissimo numero di transazioni, ma il loro rappresentante fisico è un oggetto di 8,50x5.50
centimetri, abbastanza sottile per non ingombrare il portafogli, abbastanza resistente per non
spezzarsi, e di plastica per resistere all‟acqua. I vincoli ontologici risultano strettamente intrecciati
con vincoli ecologici, giacché al Polo Nord forse anche la libbra di carne fresca potrebbe valere
come moneta, ma sussisterebbero restrizioni legate alle dimensioni corporee (13).
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10 Ontologia formale
Come ha suggerito Kevin Mulligan [
], l‟ontologia o è formale o non è. Il ricorso a
strumenti formali contribuisce forse ad alienarle molte simpatie, ma i vantaggi sono manifesti. Il
grande dibattito nelle scienze dello spirito non era giunto a conclusioni metodologiche certe, dal
momento che le due vie predominanti (riconoscere nelle scienze sociali dei saperi dell‟individuale,
cioè “idiografici”, o riconoscerle come delle scienze interpretative) ha di fatto coinciso con
l‟assenza di metodo. Di qui per l‟appunto l‟utilità, dal punto di vista metodologico, di fornirsi degli
strumenti di una ontologia formale, così come è proposta da Husserl , nelle Ricerche logiche ed è
stata sviluppata da Peter Simons , Kevin Mulligan , Barry Smith a partire dagli anni Ottanta del
Novecento (Husserl [1900-1901], Smith (a cura di) [1982], Simons [1987], Casati e Varzi [1994] e
[1999]) e che consiste nello studio di strutture e relazioni formali (parte e tutto, dipendenza, confini,
continuità e contatto) che sono esemplificati dalle singole scienze, comprese le scienze sociali.
L‟approccio formale presenta tre vantaggi principali.
In primo luogo, una ontologia formale ha una grande efficacia descrittiva. Una buona
ontologia ha una forte capacità di descrizione, e la descrizione è tanto più efficace quanto meno
dipende dalla convenzione. Per fare una buona enciclopedia, è necessaria una buona ontologia,
ossia un solido e razionale principio di classificazione di quello che c‟è nel mondo. Ma è anche
necessario, per l‟appunto, rispondere a una esigenza enciclopedica, quanto dire che gli argomenti
della ontologia non saranno soltanto domande, ma riguardano un principio d‟ordine che vale per
tutto ciò che c‟è. E‟ in questo senso che diviene necessaria una scienza dotata di grandissima
generalità, capace di fornire non asserti o spiegazioni, ma tassonomie, e in grado di determinare una
tavola delle categorie in cui ogni ente viene fissato come un nodo all‟interno di un albero gerarchico
(Smith [2001]).
In secondo luogo (e soprattutto, data la natura peculiare degli oggetti sociali), l‟approccio
formale manifesta una peculiare efficacia correttiva. I sistemi sociali incorporano sempre delle
ontologie; se sono sbagliate, ne derivano problemi e ingiustizie, e una buona ontologia può avere un
valore correttivo.
In terzo luogo, una ontologia sociale strutturata formalmente si presenta come neutrale
(comunque come molto più neutrale di una ontologia strutturata storicamente). Nessuno potrà dire
che il rapporto colore-estensione sia determinato storicamente (lo stesso vale per la correzione di
certi errori percettivi, come le colonne dei templi greci ecc.). La neutralità del trattamento formale
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apporta una rilevante correzione a un approccio agli oggetti sociali che si appoggiasse sulle
caratteristiche del linguaggio ordinario, del vocabolario e della legge (suggerito da Austin [1979]),
che patisce di una evidente circolarità, visto che a rigore non potrebbe correggere nemmeno una
legge.
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11 Conclusioni
L‟approccio qui suggerito offre la possibilità per riconoscere la dimensione oggettiva dei
fatti sociali e per fornirne una adeguata formalizzazione. Il vantaggio cognitivo e classificatorio che
ne deriva è piuttosto evidente sotto il profilo applicativo, perché evita le opacità di un campo
tradizionalmente riconosciuto come la sfera di azione di sedimentazioni storiche e di puri
atteggiamenti soggettivi. Considerare i fatti sociali come oggetti ci aiuta a riconoscerne meglio le
caratteristiche essenziali, a fornirne migliori concettualizzazioni, e a fare della realtà sociale un
ambito solido e nettamente riconoscibile. Sotto il profilo metodologico, infine, permette di
rilanciare le prospettive della scienze sociali integrandole con gli apporti della ontologia formale e
delle scienze cognitive.
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12 Scheda bibliografica
La più completa presentazione del problema degli oggetti sociali si può trovare in due
articoli in inglese di Barry Smith, cfr. Smith [1997] e [2003]. Per una introduzione a Reinach alla
luce della teoria delle prospettive ontologiche contemporanee, si consiglia Mulligan (a cura di)
[1987]. Per una presentazione della prospettiva storicistica, si veda invece Ferraris [1988].
Quanto alla letteratura primaria, i riferimenti fondamentali sugli oggetti sociali, entrambi
accessibili in italiano, sono Reinach [1913] e Searle [1995]; per la teoria degli atti linguistici, si
vedano invece Austin [1962a] e Searle [1969]; per la prospettiva storicistica, Gadamer [1960]; per il
realismo di sfondo nella teoria degli oggetti sociali, Reid [1764] e [1785].
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(L. 22.04.1941/n. 633)
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Note
1
Questo saggio è destinato al fascicolo speciale di Sistemi intelligenti sull‟ontologia curato
da Roberto Casati. Ringrazio ilcuratore e il direttore che ne hanno autorizzato la pubblicazione in
questa sede.
2
La dipendenza degli oggetti sociali dal contesto e dal supporto fisico è stata sottolineata
soprattutto da Derrida [1967] e [1971].
3
Sulla ontologia di Reid, Spinicci [2000].
4
In particolare, trascura l‟ipotesi che ci possano essere atti sociali che non siano atti
linguistici, diversamente dalle ricerche sul diritto non verbale condotte da Sacco [1993]
5
Nella tradizione avviata da Husserl, gli „apriori materiali‟ sono le forme racchiuse nella
organizzazione del mondo, indipendentemente dall‟intervento di un apparato di categorie, e che
vanno ricostruite attraverso una modalità descrittiva. Un classico esempio di „apriori materiale‟ è
dato dal rapporto tra figura e sfondo, e in generale da tutte le leggi che sembrano dipendere molto
più da ciò che passivamente i nostri sensi ricevono dal mondo che non da ciò che le nostre categorie
logiche applicano alla conoscenza esperta dell‟ambiente.
6
Questo punto è particolarmente cruciale per i problemi posti dalla informatica, cfr. Aa.Vv.
[2001].
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7
Ferrari [2003]: 193-195; per l‟approccio specificamente giuridico, Kalinowski [1967].
8
Si deve a lui l‟elaborazione della “mereologia”, ossia della teoria generale delle parti, che
sostituisce la teoria degli insiemi con la nozione di parte costituente di un oggetto complesso.
9
È utile rilevare, da questo punto di vista, che a risultati concomitanti era pervenuto,
attraverso una critica interna del soggettivismo e del formalismo kantiano, anche un autorevole
esponente del neokantismo di fine Ottocento come Heinrich Rickert (1863-1936), generalmente
trascurato nella ricostruzione della storia del nostro problema; cfr. Rickert [1892] e [1896-1902];
Donise [
]. Per ulteriori argomenti a favore di un approccio oggettivistico all‟etica, Floridi
[2003].
10
Roman Ingarden (1893 – 1970), allievo di Reinach, estenderà questa prospettiva all‟analisi
delle opere letterarie e degli artefatti artistici in generale, cfr. Ingarden [1931], con un approccio che
è stato recentemente riattualizzato, cfr. Thomasson [1999].
11
Di qui le costanti difficoltà, dal giusnaturalismo in avanti, di un approccio fisico ai problemi
legali; cfr. Jasanoff [1995] e Moore [2002].
12
Per la ripresa della ecologia in psicologia, Barker [1968], Barker et al. [1978], Schoggen
[1989].
13
Anche il relativismo nato dalla comparazione dei costumi è stato un tradizionale argomento
contro le intuizioni morali: i Greci onorano i loro morti, i Persiani li bruciano. Tuttavia, il modo in
cui si è imposto questo ragionamento, nell‟antichità e poi nel Settecento, con Montesquieu (1689Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
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1755), manteneva comunque un radicamento materiale (la varietà dei costumi si basa sulla relatività
dei climi, cfr. Montesquieu [1748]); in altri termini, non si appoggiava mai unicamente sull‟idea di
una pura convenzione. Il passaggio al relativismo su base storica si è fondato su una fallacia per cui,
dal considerare che legislazioni e costumi diversi hanno manifestazioni formali diverse, ne seguisse
anche una differenziazione nella sostanza, quando è facile vedere che uno stesso contenuto
normativo viene espresso in modi differenti. In Francia, ciò che non è vietato è permesso. In
Germania, ciò che non è permesso è vietato. Sembra una grande differenza, però la stragrande
maggioranza delle cose vietate e delle cose permesse coincide nella legislazione dei due Paesi.
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