APPUNTI SULLA FENOMENOLOGIA DI HUSSERL Nelle considerazioni introduttive alle Ricerche logiche Husserl parla di una fenomenologia delle conoscenza. Prendendo le distanze dalla fenomenologia hegeliana, narrazione della coscienza. La fenomenologia di cui Husserl fornirà le fondamenta è una indagine eminentemente descrittiva, che ha per oggetto l’esperienza e che si differenzia dalle indagini psicologico-genetiche per la sua esplicita rinuncia a ogni considerazione che vada al di là dei fenomeni così come essi si manifestano alla coscienza. Descrizione e classificazione della nostra esperienza che non cada nell’errore di confondere il senso dell’esperienza con le modalità empiriche della sua realizzazione fisiologica. La fenomenologia non è filosofia che “si studia, bensì che si fa avendo come orizzonte tematico i campi formali e materiali in cui si esercita la nostra esperienza, il nostro sguardo, la nostra vita, e mirando a cogliere, di tale varietà, quelle essenza unitarie capaci di far comprendere che del particolare non si dà scienza, e che dunque il filosofo deve mirare all’universale, ma che, per contro, senza particolari, senza un corpo che tocca, sente e guarda cose, così come esse appaiono nel loro insieme qualitativo, neppure è possibile avviare il processo che induce in noi l’interrogazione sui sensi stratificati del nostro mondo circostante”. La fenomenologia è dunque in primo luogo descrizione, quel che di essa si può introdurre sono le regole e non i temi, non perché questi ultimi non ci siano, bensì perché essi coincidono con i correlati del nostro sguardo sul mondo, che si tratta di connettere ai modi con cui le qualità delle cose si offrono, cercando di afferrare i sensi di tale legame. Il filosofo deve correttamente compiere il proprio lavoro di descrizione, chiarificazione e connessione concettuale tra l’esperienza e il giudizio, esplicitando i sensi molteplici di tale rapporto. Prima di addentrarci a chiarire i punti salienti della fenomenologia, rintracciamo i luoghi teoretici di riferimento. 1. Errori rintracciati nella filosofia empiristica: a. L’empirismo ha una concezione fattualistica e antropologica dell’esperienza, b. L’empirismo ha una concezione immanentistica degli oggetti dell’esperienza c. L’empirismo riconduce la problematica della sintesi interna all’esperienza e ai suoi decorsi ai legami antropologico-fattuali dell’associazione di idee e dell’abitudine. 2. Prendere le distanze da una concezione dell’esperienza che sembra essere direttamente modellata sul calco della realtà obiettiva che si proietta dalla res extensa sulla res cogitans in una reduplicazione che non sembra tenere in alcun conto la specificità delle forme dell’esperire. Ogni atto di esperienza è sempre coscienza di qualcosa, cioè ha un suo oggetto in senso proprio – l’oggetto primario, ma è anche consapevolezza di sé, e ha per dirla con Brentano, un oggetto secondario. ESEMPIO: da una parte vi sono le note di un concerto che ascolto, dall’altra il mio ascoltarle, ed è solo questo mio esperire così che si dà alla percezione interna. Ne segue che la percezione interna è davvero soltanto la consapevolezza che accompagna il nostro esperire, non uno sguardo che scopra nell’anima gli oggetti cui rivolgere la propria attenzione. La filosofia husserliana trae il suo primo decisivo impulso dalla psicologia descrittiva di Brentano, una morfologia pura dei vissuti e delle loro forme di relazione, ponendosi come una descrizione dell’esperienza attenta alle sue caratteristiche strutturali e invarianti. Nella Quinta ricerca il tentativo di fare i conti con l’insostenibile plurivocità del concetto di rappresentazione assume la forma di un dialogo con Brentano, e cioè con l’autore da cui Husserl ha imparato di più e a cui almeno in parte deve gli strumenti teorici di cui si avvale per far ordine in questa intricata questione. Per Husserl il rapporto tra coscienza e oggetti non è statico, bensì dinamico. C’è qui l’eco dell’impostazione kantiana: il vedere stesso, come atto della coscienza, è un attivo costituire l’oggetto visivo, una costruzione di un oggetto definito i cui contorni sono ritagliati dai dati confusamente indistinti che si presentano alla coscienza stessa. La coscienza ha quindi un ruolo attivo: il vedere – per mantenere l’esempio – non è un ricevere dati dall’esterno nella più totale passività della coscienza, ma piuttosto un continuo mettere a fuoco gli oggetti con-fusi ed indistinti del campo visivo che alla coscienza si offre, si dà. Questo – da un altro punto di vista – è il gioco stesso della Fenomenologia: un continuo mettere a fuoco, un continuo approfondire legami e strutture essenziali che solitamente vengono o ignorate o ingenuamente date per scontate. Detto in altri termini, la coscienza trae una sua identità solo se illuminata dalla sua caratteristica – teleologica – di essere intenzionale. Potremmo dire che avere coscienza è essere intenzionati. La chiarificazione di che cosa siano intenzionalità e coscienza non può che crescere di pari passo: tanto più sappiamo che cos’è l’intenzionalità tanto più riusciremo a dare un contenuto alla coscienza. Con il termine “coscienza” Husserl non intende mai una “sostanza” un “luogo psichico” determinato a priori ed indipendente. Egli intende piuttosto con “coscienza” il rapporto dinamico degli atti soggettivi con il darsi dell’esperienza, anzi: nel darsi dell’esperienza. L’intenzionalità, quindi, definisce e caratterizza le modalità dell’attività coscienziale. A questo nodo teoretico si potrebbero ricollegare altre espressioni tipiche di Husserl quali per esempio “connessione d’essenza”: «Ogni tipo d’oggetto – scrive Husserl – che deve diventare oggetto di un discorso razionale, deve manifestarsi nella conoscenza, dunque nella coscienza stessa e deve, in conformità al senso di ogni conoscenza, lasciarsi portare a datità. Tutti i tipi di coscienza, così come si ordinano per così dire teleologicamente sotto il titolo di conoscenza e, inoltre, si raggruppano secondo le diverse categorie d’oggetto – in quanto gruppi di funzioni conoscitive ad esse specificamente corrispondenti – devono potere essere studiati nella loro connessione d’essenza e nel riferimento alle forme di coscienza di datità che sono loro proprie». La caratteristica della coscienza è dunque quella di essere – in questo senso sì – il luogo del disvelarsi dell’essenza: la coscienza, in quanto coscienza-di, è “connessione d’essenza”. Le diverse “funzioni conoscitive” caratterizzano la disposizione della coscienza in base agli oggetti e ai corrispondenti modi di datità di queste connessioni. Abbiamo dunque diverse tipologie di distensione di coscienza, in relazione ai diversi modi in cui la coscienza costituisce una connessione d’essenza nel rapportarsi agli oggetti che si danno, in una relazione dinamica. Poco prima Husserl aveva parlato di “correlatum di coscienza”: «se la teoria della conoscenza intende esaminare i problemi inerenti alla relazione tra coscienza ed essere, essa può avere davanti agli occhi l’essere soltanto come correlatum di coscienza, come un che di coscienzialmente “inteso” [Gemeintes], vale a dire come un che di percepito, ricordato, atteso, immaginativamente rappresentato, fantasticato, identificato, distinto, creduto, supposto, valutato ecc. Si comprende allora che la ricerca deve mirare ad una conoscenza scientifica dell’essenza della coscienza, a ciò che la coscienza stessa “è” in base alla sua essenza in tutte le sue forme distinguibili e, nello stesso tempo però, a ciò che essa “significa”, nonché ai differenti modi in cui, in conformità all’essenza di queste forme, essa intende – ora in modo chiaro ora in modo oscuro, presentando o presentificando, in modo signitivo o immaginativo, schietto o mediato dal pensiero, in questo o quel modo attenzionale e così in innumerevoli altre forme – un che di oggettuale, “mostrando” eventualmente il suo essere “valido” e “reale”». Siamo ad un punto nodale. La critica implicita è rivolta alla teoria brentaniana dei tre gradi di intenzionalità: rappresentazione, giudizio e sentimento: Husserl amplifica qui le modalità di riferimento, i “canali” di relazione possibili tra coscienza intenzionate ed oggetti correlati. La correlazione è – in questo senso – la modalità in cui la coscienza si rapporta all’essere dei suoi oggetti. A questo punto, tra soggetto ed oggetto continua a sussistere un dualismo, ma non statico, bensì dinamico: non c’è soggetto senza oggetto e viceversa, e la dinamicità del rapporto è data dalla loro correlazione. Un’altra espressione tipica legata a questo tema è “fluente avere coscienza” [«Si devono prendere i fenomeni così come essi si danno, vale a dire come quel fluente avere coscienza, intendere e manifestarsi, che essi sono (…). Pertanto si devono prendere i fenomeni come un qualcosa che si forma e si modifica in questo o quel modo, nel mutare di questo o quell’atteggiamento, di questo o quel modo attenzionale. Tutto ciò – scrive Husserl – porta il titolo di “coscienza di” (…)]. Come si vede, Husserl non cessa di riproporre uno schema funzionale all’interno del quale la coscienza – definita qui come “modo attenzionale” – è sempre in correlazione con gli oggetti dell’esperienza. Si tratta della “pura coscienza” intesa in modo radicalmente diverso dal Naturalismo e contrapposta alla coscienza materializzata dello psicologismo e della psicofisica, che a questo punto diventa uno dei privilegiati oggetti specifici della filosofia rigorosamente scientifica. Sull’intenzionalità si basano i giudizi che riguardano le visioni d’essenza, quelli che portano a definire oggettivamente ciò che risiede nella visione d’essenza, il modo in cui le essenze di un certo genere o di una certa specie si connettono con altre, il modo con cui ad esempio si uniscono tra loro intuizione, fantasia, percezione e contatto (etc.). Tutti questi sono necessariamente «unificabili» poiché si accordano fra loro come «intenzione» oppure sono «non-unificabili». In entrambi i casi (unificabili e non unificabili) danno luogo a una «coscienza di». Ogni giudizio di questo tipo – prosegue il Filosofo tedesco – è una conoscenza assoluta, un giudizio d’essenza che sarebbe assurdo voler giustificare, confermare o contraddire mediante l’esperienza. Intenzionalità, “coscienza-di“: la Fenomenologia indaga le connessioni essenziali delle formazioni di coscienza, così come di ciò che in esse è inteso e appartiene loro correlativamente ed essenzialmente in una comprensione intuitiva. Definendo le caratteristiche del concetto di intenzionalità c’è da dire che non si tratta di una semplice «relazione» tra un atto e il suo oggetto. Non si tratta del fatto che la coscienza come “intentio” sia “una cosa” preventivamente realizzata e conclusa, indipendente ed assoluta (etimologicamente: “sciolta-da“), come una sorta di atto che già esiste, «dopodiché» si stabilisce una relazione con qualcosa che non è coscienza intenzionale, e sta al di là di essa, relazione che verrebbe qui espressa nel «di». Non si tratta di questo perché l’essere rivolta all’oggetto non è un momento “aggiuntivo” ed “indipendente” o semplicemente “possibile” rispetto alla coscienza, ma al contrario essa appartiene strutturalmente e formalmente alla coscienza in quanto tale. L’essere intenzionale è la forma (éidos) della coscienza stessa: l’intenzionalità non è un atto concluso di fronte all’oggetto, ma ha compimento come atto solo nel suo stesso riferimento continuo e progressivo al suo oggetto. In altri termini, il «di» non è una relazione dalla coscienza intenzionata all’oggetto, ma è la struttura stessa dell’intenzionalità, la sua matrice tipica, il suo tratto distintivo. Da una parte la coscienza ha le sue modalità di distensione e di rapporto ai suoi oggetti, dall’altra anche gli oggetti hanno la loro propria e peculiare modalità di essere percepiti, di essere ricordati, ecc. Così, la coscienza prefissa anticipatamente il modo di presentazione dell’oggetto; non è insomma una mera correlazione, ma un prefissare. D’altra parte gli oggetti si danno secondo delle modalità tipiche. La struttura stessa della coscienza fa sì che ci sia per essa un oggetto intenzionale, permette il darsi degli oggetti dell’esperienza; la coscienza non solo ha un oggetto, ma fa sì che per essa ci sia un oggetto intenzionale, e lo fa a partire da se stessa. In altre parole l’intenzionalità non produce a partire da se stessa il contenuto dell’oggetto: questa sarebbe una ricaduta in una forma di soggettivismo che Husserl invece rifiuta perentoriamente. L’intenzionalità garantisce la possibilità della manifestazione dell’oggetto intenzionale così come esso è in se stesso, ovvero nel suo proporsi alla coscienza che lo intenziona. L’intenzionalità è quindi il fondamento della possibilità di ogni manifestazione oggettiva, di ogni disvelamento, di ogni “darsi” degli oggetti alla coscienza intenzionante. Dunque, la «coscienza-di» rispetto agli oggetti non è una mera correlazione soggettiva, ma una sorta di “a priori” del rapporto dinamico tra coscienza stessa ed oggetti dell’esperienza. Per Husserl l’intenzionalità non è solo tipica della coscienza in sé, vista come dire “dall’interno”, ma è anche un “a priori” rispetto al suo oggetto, vista cioè in relazione al suo rapporto con gli oggetti intenzionati. E in questo caso per “a priori” intendiamo che la coscienza fonda, a partire da se stessa la manifestazione del suo oggetto, la possibilità del suo darsi. E questo fenomeno di intenzionalità è ciò che sistematicamente Husserl ha chiamato Erlebnis. Tale è, delineata a grandi tratti, la struttura della coscienza pura, secondo Husserl: in riferimento al concetto di intenzionalità manca ancora la precisazione della forzatura di husserliana rispetto allo schema di Brentano. Ora, per Brentano sono tre i modi con cui la coscienza intenziona l’oggetto [mediante: 1) rappresentazione, 2) giudizio e 3) sentimento]. Inoltre in Brentano è presente una gerarchia tra oggetto primario – esito dell’atto intenzionalizzante che rappresenta alla coscienza un oggetto (che le si pone di fronte, il gegenstand) – e oggetto secondario, (la ri-rappresentazione dell’oggetto ora divenuto contenuto della rappresentazione, del giudizio o del sentimento). È bene precisare che per Brentano istituisce così tre “classi” distinte di fenomeni psichici, tra loro qualitativamente diverse. Proprio per segnare questa differenziazione nella traduzione italiana de La psicologia dal punto di vista empirico, il termine Vorstellung è stato tradotto con “presentazione”, e non, come ci si aspetterebbe, con “rappresentazione”; appunto per enfatizzare la duplicità dei piani dell’oggetto, primario (la presentazione) e secondario (la rappresentazione vera e propria). Ma nella Quinta delle Ricerche logiche, come abbiamo visto, Husserl era intervenuto a questo livello, su vari punti: 1) moltiplicando le modalità di riferimento, al di là delle tre affermate da Brentano (rappresentare, giudicare, sentire); 2) mentre ne La psicologia dal punto di vista empirico Brentano afferma che l’oggetto intenzionato può essere sia reale (nel senso di “accessibile all’esperienza”, interna o esterna) sia immaginario (frutto di fantasia, di immaginazione, come la rappresentazione di oggetti inesistenti), facendo cioè riferimento alla “realtà” in diverse accezioni e determinazioni, ora come Wirklichkeit, ora come Existenz, ora come Sein, ora come Realität, Husserl forza lo schema brentaniano, affermando che anche l’Irrealität è passibile di intenzione. Al punto che Brentano, nella prefazione all’edizione del 1913 de La psicologia dal punto di vista empirico (ma già nella Classificazione dei fenomeni psichici del 1911), ritiene opportuno un irrigidimento della propria posizione teoretica in senso “antihusserliano”, restringendo la sua accezione di “oggetto” ed escludendo la possibilità di intenzionare oggetti immaginari; 3) Husserl riprende e precisa ulteriormente il concetto di rappresentazione, maturando nella Quinta delle Ricerche logiche un susseguirsi di ipotesi interpretative e di differenti tentativi chiarificatori. Il punto centrale dell’intervento di Husserl è proprio la distinzione brentaniana tra oggetto primario e oggetto secondario, secondo la quale la rappresentazione è qualcosa di diverso dal giudicare e dal sentire ed è inoltre qualcosa di preparatorio rispetto al giudizio. Husserl contesta questa visione gerarchica, vedendo piuttosto nella rappresentazione, nel giudicare e nel sentire una funzione continua, anche se a livelli diversi; inoltre queste tre funzioni sono – per il filosofo Tedesco – sempre intrecciate fra loro: nel giudicare vi è un rappresentare, nel sentire vi è un giudicare, etc. Non sono perciò tre classi di riferimento gerarchicamente separate, ma piuttosto l’espressione di un processo di complicazione crescente: la conoscenza è così uno sviluppo continuo di varie serie di modalità di riferimento, in successiva complicazione. Il loro mutuo riferimento è dato appunto dalla correlazione tra la coscienza e l’oggetto. Coscienza e oggetto, però, – è bene ripeterlo ancora – non esistono come elementi “a parte” del processo, ma si danno all’interno del processo conoscitivo stesso. Tali serie correlate di modalità di riferimento sono in sostanza i flussi degli Erlebnisse. Al posto della distinzione brentaniana tra oggetto primario e oggetto secondario, allora, Husserl introduce una diversa distinzione: da un lato c’è il darsi, l’apparire; dall’altro, le essenze. Il darsi è l’apparire degli oggetti di fronte al soggetto nell’intrecciarsi delle modalità di riferimento, in una diversa complessità ma all’interno di una serialità continua. È il modo proprio degli oggetti di presentarsi al soggetto. Identificare le essenze significa allora districare gli intrecci dei fasci di riferimento, ossia individuarne singolarmente la qualità e il significato. È così che resta perfettamente stabilito il legame tra coscienza e conoscenza intesa in senso forte: «Ogni tipo d’oggetto, che deve diventare oggetto di un discorso razionale, di una conoscenza prescientifica e poi scientifica, deve manifestarsi nella conoscenza, dunque nella coscienza stessa e deve, in conformità al senso di ogni conoscenza, lasciarsi portare a datità. Tutti i tipi di coscienza, così come si ordinano per così dire teleologicamente sotto il titolo di conoscenza e, inoltre, si raggruppano secondo le diverse categorie d’oggetto – in quanto gruppi di funzioni conoscitive ad esse specificamente corrispondenti – devono potere essere studiati nella loro connessione d’essenza e nel riferimento alle forme di coscienza di datità che sono loro proprie. Così deve essere inteso il senso della questione concernente la legittimità, che deve essere posta per ogni atto di conoscenza, e deve potersi del tutto chiarire l’essenza di ogni dimostrazione fondata di legittimità e della fondabilità ideale o validità, e ciò per ogni grado di conoscenza, in special modo per la conoscenza scientifica. Che cosa significhi che l’oggettualità sia e si mostri nella conoscenza come essente ed essente così, deve risultare evidente, e pertanto del tutto comprensibile, puramente dalla coscienza stessa. E a tal fine è necessario lo studio dell’intera coscienza, poiché essa entra nelle possibili funzioni conoscitive secondo tutte le sue forme. Ma, nella misura in cui ogni coscienza è “coscienza di”, lo studio dell’essenza della coscienza include anche quello del significato e dell’oggettualità della coscienza in quanto tali. Studiare un qualsiasi tipo di oggettualità nella sua essenza generale (uno studio questo che può perseguire interessi distanti dalla teoria della conoscenza e dall’analisi della coscienza) significa analizzarne i modi di datità e dispiegarne appieno il contenuto essenziale nel relativo processo di “chiarificazione”. Anche se qui l’atteggiamento non è quello rivolto ai modi di coscienza e all’analisi della loro essenza, tuttavia il metodo della chiarificazione è tale che non si può fare a meno della riflessione sui modi dell’essere inteso e dell’essere dato. Ma, d’altro canto, la chiarificazione di tutti i tipi fondamentali di oggettualità è in ogni caso indispensabile per l’analisi dell’essenza della coscienza, e di conseguenza in essa inclusa; ciò però vale solo in un’analisi gnoseologica, che veda il proprio compito nella ricerca della correlazione. Pertanto comprendiamo tutti questi studi, per quanto debbano essere relativamente separati, sotto il titolo di fenomenologici». Detto in altri termini la conoscenza alla quale aspira la Fenomenologia è pura ed assoluta, indubitabilmente certa: il suo oggetto è la “visione d’essenza”: «Fin dove arriva l’intuizione, – scrive Husserl – l’avere coscienza intuitiva, giunge anche la possibilità della corrispondente “ideazione” (come ero solito dire nelle Ricerche logiche) o della “visione d’essenza”. Nella misura in cui l’intuizione è un’intuizione pura, che non include alcuna co-intenzione transiente, l’essenza intuita è un che di adeguatamente intuito, un che di assolutamente dato. Il dominio della pura intuizione abbraccia dunque anche l’intera sfera che lo psicologo fa propria quale sfera dei “fenomeni psichici”, nella misura in cui egli li prende puramente per se stessi, nella pura immanenza. Va da sé, per chiunque non abbia pregiudizi, che le “essenze” colte nella visione d’essenza possano essere fissate in concetti stabili, per lo meno in misura considerevole, rendendo così possibili enunciati stabili e nel loro genere oggettivamente e assolutamente validi. Le più piccole differenze di colore, le sfumature ultime, possono sfuggire alla fissazione, ma la differenza tra “colore” e “suono” è così sicura, che non vi è al mondo nulla di ancor più sicuro. Queste essenze, che possono essere distinte e fissate in maniera assoluta, non sono soltanto quelle dei “contenuti” sensibili e delle apparizioni “cose visive”, fantasmi ecc.), ma anche quelle di tutto ciò che è psichico in senso pregnante, di tutti gli “atti” e gli stati dell’io, che corrispondono a ciò che è noto, ad esempio, con il nome di percezione, fantasia, ricordo, giudizio, sentimento, volontà, con tutte le loro innumerevoli forme particolari. Restano qui escluse le “sfumature” ultime, che appartengono a quanto di indeterminabile vi è nel “flusso”, mentre al tempo stesso la tipica descrivibile del fluire ha a sua volta le sue “idee” che, colte e determinate intuitivamente, rendono possibile l’assoluta conoscenza». Il compito della Fenomenologia È il raggiungimento di evidenze stabili, di una conoscenza assoluta e – come scrive Husserl – “valida in generale”. L’epoché fenomenologica permette di “portare a datità” ciò che è “percezione”, ovvero di individuare nel flusso dei vissuti “un che di adeguatamente intuito”, un che di “assolutamente dato”. Ma a quale livello si posso dare giudizi assoluti e quando, esattamente, si può pervenire a una conoscenza “valida in generale”? Husserl risponde in questo modo: «Ogni giudizio che porta ad espressione adeguata in concetti fissi adeguatamente formati ciò che risiede nell’essenza, il modo in cui essenze di un certo genere o di una certa specie particolare si connettono con certe altre, il modo in cui, ad esempio, si uniscono tra loro “intuizione” e “vuota intenzione” [leere Meinung], “fantasia” e “percezione”, “concetto” e “intuizione” ecc., e sulla base di questa o quella componente essenziale sono necessariamente “unificabili”, accordandosi per così dire tra loro come “intenzione” [Intention] e “riempimento” [Erfüllung], oppure al contrario sono non unificabili, fondando così una “coscienza di elusione” [Bewußtsein der Enttäuschung] ecc.: ogni giudizio di questo tipo è una conoscenza assoluta, valida in generale e, in quanto giudizio d’essenza, di un genere tale che sarebbe un controsenso volerlo giustificare, confermare o contraddire mediante l’esperienza. Esso fissa una “relation of ideas”, un a priori […]». Dunque l’aver abbandonato il piano dell’esistenza fisica comporta, implicitamente, un porsi di fronte alla possibilità di individuare le essenze, ovvero di districare i fasci di riferimento della coscienza agli oggetti selezionandone e descrivendone qualità e modi tipici. «La pura Fenomenologia in quanto scienza – scrive Husserl – nella misura in cui è pura e non fa alcun uso della posizione esistenziale della natura, può essere soltanto ricerca d’essenza e non ricerca d’esistenza. Ogni “introspezione” ed ogni giudizio compiuto sulla base di una tale “esperienza” cade al di fuori di questo ambito. Il singolo nella sua immanenza può essere posto soltanto come un “questo qui” – questa percezione fluente, questo ricordo ecc. – e in ogni caso può essere sussunto sotto i rigorosi concetti d’essenza dovuti all’analisi d’essenza. Infatti, l’individuo non è essenza, ma “ha” un’essenza, che si può enunciare di esso in modo evidente e valido. Una tale mera sussunzione non può però chiaramente determinarlo come individuo, attribuendogli una posizione in un “mondo” d’esistenze individuali. Per essa il singolare è eternamente l’àpeiron. Essa può conoscere in modo oggettivamente valido solo essenze e relazioni di essenze e così compiere in maniera definitiva tutto ciò che è necessario alla comprensione chiarificante di ogni conoscenza empirica e di ogni conoscenza in genere: la chiarificazione dell’”origine” di tutti i “principi” logicoformali e logico-naturali e di ogni altro “principio” guida, nonché di tutti i problemi, a ciò strettamente connessi, inerenti alla correlazione dell’“essere” (essere di natura, essere di valore ecc.) e della “coscienza”». A questo punto si possono notare analogie tra la fenomenologia di Husserl e il pensiero di Cartesio, relativamente all'idea di cogito. Una volta mondata la coscienza dall'atteggiamento teorico e scientifico che costituiscono gli atteggiamenti naturali per cui la coscienza comprende la realtà (la mente si accinge del tutto naturalmente ad astrarre e a "fare" teorie sulle cose), ciò che rimane di veramente certo e incontrovertibile della realtà è il fenomeno, ovvero l'innegabile manifestazione del mondo entro la coscienza dell'uomo. Tale sedimento originario e non eludibile delle manifestazioni delle cose è chiamato da Husserl residuo fenomenologico, ovvero ciò che non si può negare e che resta a fondamento certo della scienza fenomenologica. Husserl introduce poi il concetto di intenzionalità della coscienza. Il contenuto della coscienza, il pensato, si identifica intenzionalmente alle cose pensate, ciò significa che i concetti che pensiamo sono il frutto di un rapporto intenzionale che sussiste tra la coscienza e ciò di cui la coscienza è cosciente. Ad esempio, quando immaginiamo un sasso, la coscienza non diventa il sasso, ma identifica intenzionalmente l'idea di sasso al "fenomeno sasso" che giunge manifestandosi alla coscienza. La coscienza intenzionale è chiamata da Husserl anche coscienza trascendentale: "Ogni senso, ogni essere immaginabile, che si dica immanente o trascendente, cade entro la cerchia della soggettività [la coscienza] trascendentale". La coscienza che trascende ogni cosa, ovvero la coscienza pura non inerente o legata a una qualsiasi materialità, contiene intenzionalmente ogni manifestazione della realtà e delle cose, ovvero ogni manifestazione delle cose del mondo entra intenzionalmente, a motivo della natura stessa della coscienza, entro il cerchio della coscienza stessa (ciò di cui non si è coscienti, infatti, non esiste).