Husserl e la fenomenologia 2. I problemi fondamentali: coscienza,
intenzionalità, epochè
Che cosa significa significare?
L’analisi del rapporto coscienza-mondo ci conduce al centro della riflessione
fenomenologica. Per Husserl, la coscienza non trascende il mondo in quanto è
sempre intenzionale e cioè “coscienza di”; nello stesso tempo, però, non può essere
considerata “una cosa tra le cose” in quanto essa è ciò attraverso cui le cose stesse ci
si offrono.
Quanto detto non significa un ritorno idealistico alla coscienza, a un io che esiste
solipsisticamente in sé e per sé. La coscienza è coscienza del mondo così come il
mondo esiste per la coscienza. Intenzionalità significa che la coscienza è sempre
coscienza di qualcosa, ma anche che essa non può essere considerata una cosa tra
le cose in quanto, proprio in ragione del suo carattere intenzionale, è ciò attraverso
cui le cose sono date, significano qualcosa. Non a caso la prima questione della
fenomenologia diventa: che cosa significa significare? Potremmo dire che questo atto
puro di significare costituisce il centro stesso dell’intenzionalità. Il movimento e il
fine della coscienza fenomenologica è quello di ritrovare continuamente l’unità di
senso che permette di descrivere il flusso di apparizione delle cose. Nella relazione
intenzionale la coscienza e il mondo non sono due poli, uno di fronte all’altro, esistenti
prima del loro relazionarsi, ma il senso determina la presenza nella misura in cui
la presenza riempie il senso: costituzione dell’io e costituzione del mondo sono
intrinsecamente legate e, in tal senso, la visione fenomenologica si sbarazza
della tradizionale alternativa tra realismo e idealismo.
Se per Husserl è, però, sempre vero che l’intenzionalità della coscienza è la stessa
fondamentale proprietà di essere “coscienza di”, è altrettanto vero che, mentre nelle
Ricerche logiche (1900-1901) Husserl parlava d’intuizione categoriale, ponendo in
primo piano la descrizione delle operazioni logiche della coscienza sul mondo (segni,
espressioni, significazioni, giudizi ecc.), a partire da quel capolavoro fondativo quanto
problematico che sono le Idee per una fenomenologia pura e una filosofia
fenomenologica (1913) il terreno quasi esclusivo della costituzione del senso
e della presenza diviene la percezione e il mondo diviene “mondo-percepito-nellavita-riflessiva”. La percezione si presenta, quindi, come il luogo privilegiato di
datità del mondo. La relazione percettiva non si risolve nella distinzione cartesiana
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Cogito e mondo, ma nella scissione interna al mondo stesso tra il suo cosiddetto
essere in sé (indipendente dal soggetto) e il suo apparire puro, o come dirà Husserl, il
suo adombrarsi come serie noematica. Il termine ‘noema’ sta a significare che
ogni oggetto mondano diventa il correlato intenzionale di un movimento della
coscienza (noesi) e, in sintesi, si costituisce come vissuto di coscienza: l’albero non è
mai l’albero nella sua compiutezza e certezza ontologiche, ma è sempre e solo l’albero
percepito, immaginato, ricordato, voluto ecc. da un atto intenzionale di coscienza. La
coscienza-fenomeno logicamente intesa è continua apertura al mondo, ma
non lo possiede idealisticamente e del fatto che “c’è il mondo” essa non può mai
rendere del tutto ragione.
Per risvegliare il mondo dobbiamo prima addormentarlo
La nozione d’intenzionalità, spesso presentata come la scoperta principale della
fenomenologia, non è in realtà comprensibile se non viene intrinsecamente collegata a
quella di riduzione (epochè). Proprio per il fatto che il mondo è l’orizzonte
permanente di tutti i miei vissuti di coscienza, diviene necessario sospendere
temporaneamente il giudizio, al fine di far apparire i fili intenzionali che ci
collegano al mondo per vedere cosa si nasconde, se qualcosa si nasconde,
dietro le certezze del senso comune.
Ciò significa andare oltre l’atteggiamento naturale, come lo chiama Husserl,
l’ovvietà delle cose, sospendere il mondo stesso, metterlo tra parentesi o fuori
gioco. Questo perché il mondo è un mistero che tiene celata prima di tutto la
sua stessa misteriosità: per risvegliare il mondo dobbiamo prima addormentarlo. La
riduzione trascendentale è, nella bella immagine di Eugen Fink, stupore di
fronte al mondo, ed è questo stesso stupore che ci permette di concepire il soggetto
come trascendenza verso il mondo. Tale trascendenza non ha niente di idealistico, non
sostituisce al mondo “il pensiero del mondo”, ma è la ricerca dello scaturire
originario del mondo attraverso la necessaria sospensione della nostra ovvia
familiarità e complicità con esso.
Sospendere il mondo per farne balenare il senso
In altre parole, per tentare di descrivere il nostro rapporto originario con il mondo l’Io
trascendentale deve sospendere ogni relazione data, tentare di attingere alla
vita irriflessa, far apparire il mondo prima di qualsiasi immanenza di quest’ultimo
alla coscienza: per far trionfare “il vedere” fenomenologico sulla semplice e
ininterrotta “presenza” del mondo.
In seguito, all’epochè la riflessione fenomenologica attinge al suo senso più profondo:
non si tratta di un ripiegarsi dell’Io su sé stesso in una solitudine pensante sradicata
dal mondo; essa non separa il Cogito dal cogitatum o, se si vuole, la coscienza dai
suoi vissuti mondani, ma separa il mondo intenzionato dalla sua opaca potenza di
esistere assolutamente. Sotto questo angolo visivo, la riduzione trascendentale ci
svela l’intenzionalità come costituzione di un senso e non come un contatto con
un “fuori” assoluto.
In conclusione, bisogna sospendere il mondo per far balenare il senso del
mondo. Il mondo fenomenologico, insieme ridotto e intenzionato, non spiega la
presenza del mondo, ma risale alla sua fondazione di senso. È ancora in questa linea
maestra che la fenomenologia si offre preliminarmente come un metodo. Non è
possibile esplorare il flusso dei vissuti senza la guida della riduzione trascendentale:
gli adombramenti del mondo attendono di venire costituiti in un senso (cose, valori,
persone ecc.), ma a sua volta ogni adombramento sembra rinviare a un senso
preliminare. È quello che Husserl chiama il “meraviglioso” della coscienza, cioè il
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fatto originariamente sorprendente che non siamo di fronte a un caos di apparizioni, in
una parola all’evidenza che ci sia “un mondo” e non un “non-mondo”.
L’incomprensione degli allievi
I discepoli husserliani dell’originario circolo di Gottinga interpretarono le analisi
contenute nelle Idee come una sorta di “tradimento” della primigenia
formulazione della fenomenologia e del suo metodo descrittivo della realtà. Essi
accusarono Husserl di “idealismo”, di “platonismo”: in breve di aver compiuto quella
“svolta trascendentale” che, secondo loro, era incompatibile con un autentico
sviluppo delle nuove possibilità d’indagine del reale aperte dalla fenomenologia.
Tale rottura, non priva di una certa sofferenza filosofica, ma anche umana, fu
determinata da un’incomprensione di fondo dell’ampiezza e della profondità
del progetto husserliano da parte dei suoi allievi che, forse troppo entusiasti della
“rivoluzione fenomenologica”, volevano coglierne subito e interamente i frutti, senza
rendersi conto della parzialità dei risultati conseguiti e della complessità dei problemi
che, più che risolversi, si stavano aprendo.
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