STORIA
STORIA
3
3.1
IL CONGRESSO DI VIENNA E LA RESTAURAZIONE
Il Congresso di Vienna si aprì nel settembre del 1814 e si chiuse, dopo varie interruzioni, nel giugno
del 1815. Vi parteciparono delegazioni di tutti gli Stati europei, ma i veri protagonisti furono i rappresentanti diplomatici dei quattro Stati che avevano sconfitto la Francia napoleonica: Metternich per
l’Austria, Nesselrode per la Russia, von Hardenberg per la Prussia e lord Castlereagh per l’Inghilterra. Ai lavori partecipò, in qualità di plenipotenziario per la Francia, anche Talleyrand, che fu abile ad approfittare degli attriti tra i vincitori per strappare accordi vantaggiosi per il suo Paese. La finalità del Congresso era di sistemare l’Europa, dopo gli sconvolgimenti delle guerre napoleoniche, seguendo due criteri: 1) il principio di legittimità dinastica, in virtù del quale tutte le Case regnanti
spodestate da Napoleone dovevano ritornare sui rispettivi troni; 2) il principio di equilibrio, in virtù
del quale si doveva ripristinare la stabilità nelle relazioni fra i maggiori Stati europei.
Queste furono le più importanti decisioni del Congresso:
• la Francia, sul cui trono ritornarono i Borbone, conservò l’integrità del proprio territorio nazionale, allo scopo di scongiurare ogni possibile spirito di rivincita, ma fu costretta a rinunciare ad
alcuni suoi piccoli possedimenti coloniali a favore dell’Inghilterra (isole Seycelles, nonché Tobago
e Santa Lucia nelle Antille);
• l’Impero d’Austria, sotto la sovranità di Francesco I, dovette rinunciare al Belgio, ma in
cambio ottenne il Regno lombardo-veneto e recuperò l’Istria, la Dalmazia, il Trentino e le regioni
polacche della Galizia e della Bucovina;
• i regni di Spagna e di Portogallo furono reintegrati entro i confini nazionali e sui loro troni ritornarono i Borbone di Spagna e i Braganza;
• fu costituito un regno dei Paesi Bassi, unendo Olanda e Belgio, sotto la sovranità di
Guglielmo I di Orange Nassau;
• la Prussia, sotto la sovranità di Federico Guglielmo III di Hoenzollern, ottenne la Pomerania,
Danzica, una parte della Sassonia e gran parte della Renania;
• fu costituita una Confederazione germanica, comprendente ben trentanove Stati tedeschi (tra
cui la stessa Prussia), i cui rappresentanti sedevano nella Dieta di Francoforte sotto la presidenza
dell’imperatore austriaco;
• all’Impero russo, sotto la sovranità di Alessandro I Romanov, furono annesse la Finlandia, la
Bessarabia e gran parte della Polonia, della quale restava indipendente solo la piccola Repubblica di
Cracovia;
• all’Inghilterra andarono il regno di Hannover, nonché alcuni possedimenti coloniali come
Ceylon, la Colonia del Capo e le isole già citate cedute dalla Francia;
• la Danimarca dovette cedere la Norvegia alla Svezia, ma in compenso ottenne i ducati tedeschi di Schleswig, Holstein e Lauenburg, mentre la Svezia, a sua volta, dovette rinunciare alle già
menzionate Finlandia e Pomerania;
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LA PROVA SCRITTA
• la Confederazione svizzera fu proclamata Stato indipendente con neutralità perpetua;
• l’Italia, che il cancelliere austriaco Metternich era solito definire una semplice “entità geografica”, ritornò divisa, ma con evidente violazione del principio di legittimità per il fatto che non fu ripristinata l’indipendenza della Repubblica di Venezia, anzi, il Veneto e la Lombardia passarono
sotto la sovranità dell’Impero d’Austria.
Gli Stati indipendenti della Penisola, ma pur sempre sotto l’influenza politica asburgica, erano:
• il Regno di Sardegna, sotto la sovranità di Vittorio Emanuele I di Savoia, al quale furono restituite Nizza e la Savoia e in più furono assegnati anche i territori che erano stati della Repubblica
di Genova;
• il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, dato come vitalizio a Maria Luisa d’Asburgo, la
moglie di Napoleone, per essere alla sua morte restituito ai Borbone-Parma, nel frattempo titolari
del Ducato di Lucca;
• il Ducato di Modena e Reggio, sotto Francesco IV d’Asburgo d’Este;
• il Granducato di Toscana, sotto la sovranità degli Asburgo-Lorena, incluso il territorio di
Lucca una volta che i Borbone-Parma fossero ritornati nel loro Ducato;
• lo Stato Pontificio, dove ritornò il papa Pio VII;
• il Regno delle Due Sicilie, sotto la sovranità dei Borbone di Napoli.
L’assetto politico dato all’Europa dai congressisti di Vienna restò pressoché inalterato per alcuni decenni, dimostrando che un sostanziale equilibrio tra i maggiori Stati del Vecchio Continente
effettivamente fu realizzato, sebbene al prezzo di calpestare il diritto di nazionalità: a molti popoli non fu riconosciuto il diritto all’indipendenza e un grande impero plurinazionale, qual era quello
asburgico, continuava ad opprimere tante nazionalità nel cuore stesso dell’Europa. Tuttavia va riconosciuto al Congresso di Vienna il merito di aver riportato la pace in Europa, e in modo duraturo,
dopo tanti anni di guerre.
Con la parola Restaurazione s’intende il ripristino delle tradizionali dinastie regnanti, rovesciate durante il periodo rivoluzionario napoleonico e reintegrate nella loro sovranità dal Congresso di
Vienna, le quali, una volta ritornate al potere, promossero una politica apertamente reazionaria, cancellando ogni traccia dei precedenti regimi napoleonici, abrogando le Carte costituzionali, liquidando le istituzioni politiche nate in quel periodo e colpendo duramente ogni forma di dissenso. I sovrani della Restaurazione, accantonando anche ogni riformismo laico quale si era manifestato nel ‘700
(il cosiddetto “dispotismo illuminato”), fondarono il loro assolutismo d’intesa con la Chiesa (alleanza trono-altare). A garantire il mantenimento dell’ordine della Restaurazione provvide la Santa
Alleanza, costituita nel 1815 su iniziativa dello zar Alessandro I, da Russia, Austria e Prussia ed
alla quale poi aderirono altri Stati minori, che si curò d’intervenire militarmente all’interno di ogni
Paese che fosse minacciato da moti rivoluzionari. La Restaurazione, pur riportando indietro le lancette della storia per quanto concerne la politica, sul piano economico non poté tuttavia impedire
che il capitalismo, che durante il periodo napoleonico aveva ricevuto un grande impulso, si consolidasse e penetrasse anche nell’agricoltura.
3.2
I MOTI DEL 1820-21
Nonostante l’occhiuta sorveglianza delle autorità di polizia di ogni Stato, moti rivoluzionari anche
estesi non tardarono a scoppiare: nel biennio 1820/21 si ebbero insurrezioni in Spagna, a Napoli e
in Piemonte, sebbene repressi nel giro di qualche anno dall’intervento militare diretto della Santa
Alleanza. In comune questi moti ebbero: a) il fatto di essere scoppiati negli ambienti militari e che a
dirigerli fossero degli ufficiali di grado minore; b) la rivendicazione della Costituzione; c) l’eccessiva fiducia, ai limiti dell’ingenuità, che gli insorti mostrarono nei confronti dei sovrani.
Un ruolo determinante vi ebbero le sette segrete, principalmente la Carboneria e la
Massoneria. Queste, per sfuggire alla repressione, avevano adottato un codice segreto: quello dei
carbonai, nel caso della Carboneria, e quello dei muratori nel caso della Massoneria. Fra gli aderenti c’erano soprattutto sottufficiali e ufficiali minori già in forza agli eserciti napoleonici, perciò discriminati dagli ufficiali legittimisti, borghesi, artigiani ed alcuni nobili illuminati.
Il primo moto insurrezionale scoppiò a Cadice, in Spagna, nel gennaio 1820, quando si ammutinarono le truppe in partenza per le colonie latino-americane che, durante il convulso periodo rivoluzionario napoleonico, avevano unilateralmente proclamato la propria indipendenza dalla Spagna.
Il moto rivoluzionario, guidato dagli ufficiali Riego e Quiroga, si estese rapidamente ad altre guarnigioni del Paese e il re Ferdinando VII fu costretto a ripristinare la Costituzione del 1812, che garantiva le libertà individuali, di riunione, di stampa e d’iniziativa economica, in vigore nel Paese
iberico negli ultimi anni del periodo napoleonico. L’esempio della Spagna fu seguito nel Regno
delle Due Sicilie, dove, nel luglio delle stesso anno, insorsero le guarnigioni di Nola, guidate dagli
ufficiali Morelli e Silvati, e nel Regno di Sardegna, dove, nel marzo del 1821, insorsero i presidi
militari di Alessandria e di Torino. A Napoli un esercito guidato dal generale Guglielmo Pepe, inviato per sedare la rivolta, solidarizzò con gli insorti e il re Ferdinando I di Borbone, preoccupato, si
sentì costretto ad aderire alle richieste degli insorti, concedendo una Costituzione modellata su quella spagnola. In Piemonte gli insorti contarono sulle promesse di Carlo Alberto, giovane erede al
trono, ma il sovrano pro tempore, suo zio Carlo Felice, sconfessò l’operato del nipote e minacciò la
repressione. Tuttavia la rivolta scoppiò ugualmente, estendendosi ad altre località dello Stato.
La Santa Alleanza, nei congressi di Lubiana, Troppau e Verona, decise gli interventi militari
per reprimere i tre moti. Nel Napoletano, nel marzo del 1821, intervenne un esercito austriaco a ripristinare l’assolutismo monarchico di Ferdinando I, mentre nel Regno di Sardegna, il mese successivo, le truppe rimaste fedeli ai Savoia, con l’aiuto di un contingente austriaco, riportarono all’ordine le guarnigioni ribelli. Infine si ebbe l’intervento repressivo in Spagna: nel 1823 l’incarico di riportarvi l’ordine reazionario fu assolto, per conto della Santa Alleanza, da un esercito della Francia,
evidentemente desiderosa, sotto la monarchia dei Borbone, di guadagnare dei titoli di merito agli
occhi delle grandi Potenze conservatrici. Se l’ordine sancito dal Congresso di Vienna sembrò ripristinato, tuttavia qualcosa sfuggiva: le antiche colonie spagnole dell’America Latina restarono indipendenti e nel 1830-31 conquistò l’indipendenza pure la Grecia, dopo una lunga e dura lotta contro
l’Impero ottomano, promossa dalla setta segreta Eteria e sostenuta dalle simpatie di numerosi patrioti liberali europei, alcuni dei quali morirono sul suolo greco, come il poeta romantico inglese
lord Byron e il piemontese Santorre di Santarosa, protagonista del moto del 1821.
3.3
LA RIVOLUZIONE DI LUGLIO IN FRANCIA E I MOTI DEL 1830-31
La Francia, tornata sotto la monarchia dei Borbone (Luigi XVIII e Carlo X), conobbe un’involuzione reazionaria. Soprattutto al tempo del sovrano Carlo X gli interessi della borghesia furono non
poco danneggiati, mentre si rafforzava l’influenza del clero e si restituivano privilegi e ricchezze ai
nobili. Il re si fece addirittura promotore di un’iniziativa che avrebbe dissanguato le finanze pubbliche: l’indennizzo agli aristocratici espropriati durante la grande rivoluzione (legge del miliardo).
L’insofferenza divenne generale nel 1830, quando il re, emanando quattro ordinanze liberticide,
tentò di sopprimere ogni libertà. Il popolo parigino allora insorse (27, 28 e 29 luglio), rovesciando la
monarchia borbonica. L’unità d’azione tra borghesi e masse popolari, però, durò solo qualche giorno, perché la crisi rivoluzionaria trovò presto uno sbocco moderato: la borghesia portò sul trono
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Luigi Filippo d’Orléans, figlio di Filippo Egalité, che all’epoca della grande rivoluzione aveva addirittura manifestato qualche simpatia per i giacobini. La monarchia orleanista (Luigi Filippo si proclamò “re dei Francesi”, a significare la sua investitura popolare) inaugurò un’epoca nuova nella
storia della Francia: in politica interna furono create le condizioni per un grande sviluppo industriale, proteggendo gli interessi della grande imprenditoria, delle banche, ma anche della speculazione finanziaria (soprattutto la costruzione delle ferrovie favorì la speculazione sui titoli delle imprese del settore e la conseguente formazione di grandi e improvvise fortune finanziarie); in politica estera, almeno inizialmente, Luigi Filippo si dichiarò favorevole alle rivendicazioni delle nazionalità oppresse, ma la vera costante della sua politica fu l’intesa con l’Inghilterra (“Entente
Cordiale”).
La Rivoluzione di luglio in Francia non lasciò senza conseguenze il resto d’Europa. Infatti innescò una serie di moti insurrezionali che scossero gli equilibri usciti dal Congresso di Vienna. Questi
moti scoppiarono in Belgio, in Polonia, nel Ducato di Modena e nelle Romagne. In Belgio la rivoluzione dell’agosto 1830, sostenuta dalla monarchia orleanista, portò all’indipendenza del piccolo
Paese, che si staccò dal Regno dei Paesi Bassi, al quale era stato aggregato dalle decisioni del
Congresso di Vienna. Il nuovo Stato si diede una Costituzione liberale e nel 1831 la sua indipendenza fu ufficialmente riconosciuta dalle Potenze europee, che ne proclamarono la neutralità perpetua,
sotto la sovranità del principe tedesco Leopoldo di Sassonia-Coburgo. Successivamente gli entusiasmi suscitati dagli avvenimenti francesi furono, però, un po’ dovunque frustrati dal mutato atteggiamento di Luigi Filippo e del suo primo ministro Périer, che, proclamando che “il sangue dei
Francesi appartiene solo alla Francia”, lasciarono intendere di non essere disposti ad intervenire nella situazione interna degli altri Paesi, per non turbare le relazioni con le Potenze europee. Così l’insurrezione dei Polacchi (gennaio 1831) per l’indipendenza dall’Impero russo fu lasciata che fosse
repressa dal potente vicino, mentre i moti scoppiati, sempre nel 1831, nel Ducato di Modena e nelle Romagne appartenenti allo Stato Pontificio, accuratamente preparati da Ciro Menotti, furono
stroncati dalla repressione messa in atto dalle forze congiunte del piccolo Ducato, dello Stato
Pontificio e dell’Austria, prontamente intervenuta a difesa dell’ordine minacciato dagli insorti.
3.4
DALLA CARBONERIA ALLA GIOVINE ITALIA DI GIUSEPPE MAZZINI
I moti del 1820/21 e del 1831 dimostrarono, per quanto concerne l’Italia, le insufficienze della
Carboneria. In particolare, emerse: a) la scarsa compattezza degli insorti, per i contrasti tra gli elementi più radicali e democratici (generalmente ufficiali e sottufficiali degli antichi eserciti napoleonici e intellettuali borghesi) e gli elementi più moderati (i nobili illuminati); b) il carattere limitato
delle rivendicazioni, che non affrontavano le questioni sociali, limitandosi, in genere, alla richiesta
della Costituzione, quasi sempre la riedizione di una Carta costituzionale del periodo napoleonico;
c) l’eccessiva fiducia, ai limiti dell’ingenuità, riposta nei sovrani, i quali non si sarebbero, in realtà,
mai compromessi con l’Austria; d) il settarismo, che impediva un efficace lavoro di agitazione e
propaganda. Di questi limiti si rese perfettamente conto Giuseppe Mazzini, che fondò un’organizzazione politica del tutto nuova nei metodi e nella finalità: la Giovine Italia.
Mazzini, genovese, già carbonaro, consapevole dei limiti della Carboneria, volle che la nuova
organizzazione fosse profondamente diversa negli obiettivi, nella struttura organizzativa e nei metodi del lavoro politico. Gli obiettivi da perseguire erano sintetizzati nell’espressione “L’Italia deve
essere una, libera, indipendente, repubblicana”. Pertanto il patriota genovese, andando ben oltre
il limitato programma dei Carbonari, proponeva l’unità nazionale, l’indipendenza dall’Austria e la
forma repubblicana delle istituzioni dello Stato. Quest’ultima rivendicazione lo poneva in contrasto
con tutte le Case regnanti della Penisola. Infatti, arrestato a Genova nel 1830 e condannato all’esi-
lio, fu a lungo esule in Francia, in Svizzera e a Londra. Per quanto concerne la struttura organizzativa, la Giovine Italia intendeva superare i limiti delle vecchie società segrete: di segreto, doveva
esserci solo ciò che era ritenuto indispensabile per sfuggire alla polizia, ma l’organizzazione doveva fare proselitismo e ben radicarsi nel popolo. Mazzini attribuiva grande importanza all’agitazione
e alla propaganda, in particolare alla diffusione di giornali, pamphlets e altre pubblicazioni. Egli era
animato da una concezione religiosa lontana dall’ufficialità cristiana: ostile al potere temporale
della Chiesa cattolica, era fermamente convinto che Dio si rivelasse attraverso il popolo (uno dei
suoi motti preferiti era “Dio e Popolo”). Pertanto ogni popolo aveva una sua missione storica da
compiere: in particolare, il popolo italiano aveva il compito di conseguire la sua emancipazione attraverso l’indipendenza e l’unità nazionale. L’emancipazione di un popolo, secondo il patriota genovese, contribuiva alla liberazione degli altri popoli, essendo parte integrante del più generale movimento per il progresso dell’umanità. Era una concezione del nazionalismo profondamente democratica, rispettosa dei diritti di ogni nazionalità, ben diversa dalla concezione aggressiva ed imperialistica del nazionalismo che si sarebbe imposta sul finire del secolo: non a caso Mazzini fondò
pure la Giovine Europa. Il programma mazziniano trascurava, però, la questione sociale. Infatti, per
il patriota genovese, la causa nazionale richiedeva la mobilitazione di tutte le energie del popolo:
ogni ceto della società avrebbe dovuto dare il suo contributo. La lotta di classe e le rivendicazioni di
emancipazione sociale (ad esempio dei contadini per la riforma agraria e la distribuzione delle terre) avrebbero diviso gli animi, allontanando l’obiettivo del movimento nazionale. Pertanto, la subordinazione della questione sociale alla questione nazionale (solo dopo il conseguimento dell’unità nazionale si sarebbero dovuti affrontare i problemi sociali) rivelava la natura essenzialmente
interclassista del programma mazziniano.
3.5
2.5
LO SVILUPPO INDUSTRIALE, LA FORMAZIONE DEL PROLETARIATO
E LE TEORIE DEL SOCIALISMO
Negli anni ‘30 e ‘40, in Paesi come l’Inghilterra, la Francia e il Belgio, si svilupparono rapidamente le forze produttive: si moltiplicarono le industrie, si costruirono le ferrovie (che favorirono
lo sviluppo dei trasporti e dei commerci ed alimentarono la domanda di prodotti siderurgici e meccanici), s’intensificarono gli scambi commerciali. Da quel generale progresso sociale ed economico
restarono escluse la Germania, l’Italia, la Spagna e l’Europa orientale. Nell’Europa occidentale lo
sviluppo industriale determinò altresì lo sviluppo del proletariato, sempre più numeroso e capace
di esprimere le prime, sia pure ancora rudimentali, forme di organizzazione. Il lavoro nelle prime
fabbriche era molto diverso da quello di oggi: non c’era disciplina dell’orario (anche 14-15 ore di lavoro al giorno), né riposo settimanale, né assicurazioni contro gli infortuni, mentre la nocività nei
luoghi di lavoro era altissima. Inoltre la semplicità delle mansioni consentiva agli imprenditori di
utilizzare largamente, ma con paghe infime, anche donne e fanciulli. Le prime lotte spontanee degli
operai di fabbrica miravano proprio a rivendicare alcuni diritti elementari, come il riposo settimanale e la regolamentazione dell’orario giornaliero e del lavoro di donne e fanciulli.
Al proletariato si rivolsero i primi teorici del socialismo, detto così perché fondato sul principio
della “socializzazione dei mezzi di produzione” (fabbriche, terre, ecc.). Ricordiamo Saint-Simon,
Fourier, Blanc, Owen, Proudhon, detti socialisti utopisti poiché, nel denunciare i mali del capitalismo e dell’industrializzazione, semplicemente prospettavano la possibilità di una società migliore,
senza lo sfruttamento e le ingiustizie sociali, ma non indicavano i mezzi e le strategie per arrivarci.
Carlo Marx e Federico Engels furono, invece, i teorici del socialismo scientifico, in quanto
proponevano un’analisi delle contraddizioni del capitalismo condotta con rigore scientifico, sulla
base di un esame storico dell’affermazione di tale modo di produzione. Infatti il capitalismo, a giu-
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LA PROVA SCRITTA
dizio di Marx ed Engels, non era che un modo di organizzare l’attività economica succeduta alla
crisi del precedente sistema, quello feudale, a sua volta emerso dalla crisi del sistema schiavistico,
tipico dell’evo antico. Possesso tribale della terra, sistema schiavistico, sistema feudale e sistema
capitalista erano quindi, secondo Marx ed Engels, i modi di produzione succedutisi storicamente;
pertanto il carattere storico del sistema capitalista lasciava capire che era destinato ad essere travolto anch’esso dalle inevitabili contraddizioni che il suo sviluppo produceva. Il capitalismo aveva
avuto l’importantissima funzione storica di sviluppare enormemente le forze produttive, di socializzare il lavoro e la produzione, creando la disponibilità delle merci e liberando l’umanità dalla penuria, estendendo il commercio anche alle regioni più lontane ed abbattendo i metodi arcaici di produzione. La sua funzione progressiva si era evidenziata con la liberazione dell’umanità dai ceppi del
feudalesimo: l’affermazione della libertà dell’individuo (di pensiero, di associazione, d’intraprendenza economica) aveva rappresentato il corollario giuridico di tale rivoluzione e la libertà di mercato ne era stata la conseguenza sul piano sociale. Ma con la distruzione dei residui feudali, secondo Marx ed Engels, cessava la funzione progressiva della borghesia, la classe sociale che aveva promosso il capitalismo. Infatti lo sviluppo poderoso dell’industria aveva generato il proletariato, cioè
la nuova classe degli operai salariati, antagonista alla borghesia. Al proletariato sarebbe spettato il
compito di risolvere la contraddizione di fondo del capitalismo, quella tra il carattere ormai socializzato della produzione e l’appropriazione, che restava privata, dei frutti del lavoro. La maturazione
della coscienza di classe avrebbe portato il proletariato, sempre secondo Marx ed Engels, ad organizzarsi in modo sempre più efficace al fine di rovesciare il potere della borghesia. La lotta di classe, che aveva sempre segnato la storia dell’umanità, nella fase del capitalismo si configurava, pertanto, come scontro tra la borghesia e il proletariato: il risultato sarebbe stata l’espropriazione dei
capitalisti e la socializzazione dei mezzi di produzione. Questo regime socialista, caratterizzato dal
potere politico del proletariato, sarebbe stato, però, solo una fase di transizione verso una società di
liberi ed uguali: la società comunista.
Le idee di Marx ed Engels, contenute nel Manifesto del Partito Comunista, apparso all’inizio
del 1848, ebbero subito una larga diffusione e contribuirono ad orientare le lotte del proletariato europeo verso obiettivi sentiti in modo più consapevole e adottando forme organizzative più mature
(organizzazioni sindacali e partiti socialisti e comunisti).
3.6
LE CORRENTI POLITICHE DEL RISORGIMENTO
Nel pensiero di Mazzini si riconobbe l’ala democratica e radicale del movimento nazionale.
Anche Giuseppe Garibaldi fu mazziniano e repubblicano, condannato a morte da un tribunale sabaudo, nel 1834, per la partecipazione ad un moto mazziniano e per questo costretto ad andare esule in America Latina. Da ricordare, nell’ambito dei programmi politici democratici, anche il progetto federalista del milanese Carlo Cattaneo, sostenitore di un’Italia federale, repubblicana e democratica che, a suo dire, avrebbe favorito lo sviluppo delle potenzialità economiche del Paese.
L’ala più moderata, diffidente dei democratici, preferì invece non rompere con i sovrani: varie
furono nel tempo le sue più significative espressioni politiche. Particolare successo ebbe, negli anni
‘40, il programma politico di Vincenzo Gioberti, esposto nel saggio Del primato morale e civile
dell’Italia: vi era sostenuto il ruolo guida che, nella storia del nostro Paese, politicamente diviso,
avrebbe avuto la Chiesa sul piano morale e civile. Questo, a giudizio del Gioberti, legittimava una
funzione di guida politica del Papato, se quest’ultimo, ovviamente, si liberava dei vizi di corruzione
e dei pregiudizi che lo rendevano ostile al progresso. Il Gioberti auspicava così un rinnovamento
del Papato, condizione perché questo fosse alla testa del movimento nazionale: la formula escogitata era la federazione di tutti gli Stati italiani sotto la presidenza del papa, obiettivo che piacque ai
moderati che così non vedevano messe in discussione le prerogative dei sovrani. Un’altra formula
fu quella proposta da Cesare Balbo, autore delle Speranze d’Italia: ancora una federazione di tutti
gli Stati italiani, ma sotto la presidenza di Carlo Alberto, re di Sardegna. L’Austria, secondo Balbo,
avrebbe dovuto rinunciare all’egemonia sull’Italia e trovare un compenso nell’estensione della sua
influenza nella Penisola Balcanica.
Tra i moderati, come detto, per qualche anno sembrò prevalere il programma giobertiano, detto
neoguelfo, soprattutto quando, nel 1846, l’elezione al soglio pontificio del cardinale Ferretti Mastai,
che assunse il nome di Pio IX, sembrò segnare l’auspicato avvento di una Chiesa disponibile al rinnovamento. Il nuovo papa infatti, appena eletto, liberò alcuni detenuti politici, attenuò la censura
sulla stampa e istituì una guardia civile. Qualcuno gridò al papa “liberale”, tra cui perfino il
Metternich (“tutto mi sarei aspettato, tranne l’elezione di un Papa liberale”, affermò il vecchio ministro austriaco). In realtà fu solo un equivoco, creato da un eccesso di aspettative: il lungo pontificato di Pio IX si sarebbe presto rivelato ostile alla causa nazionale e ideologicamente e culturalmente reazionario (come dimostrerà in seguito la stesura del Sillabo, il documento ufficiale della Chiesa,
di condanna di tutte le moderne teorie, da quelle politiche a quelle scientifiche).
In pratica, dopo gli avvenimenti travolgenti del 1848-49, i programmi politici si ridussero sostanzialmente a due: quello mazziniano (democratico e repubblicano) e quello cavouriano (moderato, monarchico e incentrato sul ruolo guida di casa Savoia) che raccolse l’eredità dei vari progetti
moderati.
3.7
IL 1848, LA “PRIMAVERA DEI POPOLI”
Il 1848 fu un anno di rivolgimenti rivoluzionari che segnarono la fine dell’epoca della
Restaurazione. La rivoluzione ebbe, però, aspetti diversi: prevalentemente sociali in Francia e liberali e nazionali in Italia e nell’Europa centro-orientale.
La rivoluzione scoppiò in Francia il 22 febbraio, causata dall’involuzione reazionaria della monarchia orleanista, che aveva suscitato viva preoccupazione anche negli ambienti più radicali e democratici della borghesia. In effetti, la monarchia orleanista negli ultimi anni, in particolare con il
governo Guizot, aveva favorito gli interessi delle grandi banche e della speculazione finanziaria. La
borghesia dell’imprenditoria e dei commerci, che politicamente si esprimeva attraverso le organizzazioni radicali e repubblicane e promuoveva iniziative come i “banchetti”, grandi convegni politici “di opposizione”, così mascherati per aggirare i divieti del governo, diede vita, insieme al proletariato parigino, provato da una grave crisi economica e guidato dalle prime organizzazioni socialiste, ad un moto rivoluzionario che in pochi giorni portò alla fine della monarchia, con la fuga di
Luigi Filippo a Londra, e alla proclamazione della Seconda Repubblica. Fu costituito un governo
provvisorio, formato da esponenti della borghesia radicale e repubblicana, come il poeta
Alphonse de Lamartine, e da esponenti socialisti, come Louis Blanc e l’operaio Alexandre Martin,
detto Albert, che indisse elezioni a suffragio universale per la Costituente e varò un piano di riforme
sociali, che prevedeva la riduzione a dieci ore della giornata lavorativa e, allo scopo di assorbire la
disoccupazione crescente, anche la creazione di atéliers nationaux, opifici di proprietà pubblica. Ma
i contrasti in seno al governo provvisorio non tardarono a manifestarsi: i socialisti furono emarginati e, quando le elezioni dell’aprile diedero la maggioranza alle organizzazioni politiche della borghesia, furono cacciati dal governo. Il piano di riforme sociali fu cancellato, i giornali socialisti furono chiusi e degli atéliers nationaux non rimase più traccia. Il proletariato parigino allora insorse
contro il nuovo governo di soli esponenti borghesi (rivoluzione di giugno), ma si trovò contro le
truppe del generale Cavaignac che repressero nel sangue l’insurrezione. Seguì una scia di processi e
condanne a lunghe pene detentive e a deportazioni alla Caienna e in Nuova Caledonia, inflitte agli
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insorti dai tribunali repubblicani. L’involuzione reazionaria della Seconda Repubblica francese proseguì, dopo che fu approvata una Costituzione che assegnava ampi poteri al Presidente della
Repubblica, con l’elezione all’importante carica, a suffragio universale maschile, di Luigi
Bonaparte, nipote del grande Napoleone, il quale raccolse una messe di voti tra i borghesi, la burocrazia, i contadini, il clero, i militari nostalgici del bonapartismo e perfino tra i monarchici sia legittimisti sia orleanisti. Si era costituito un ampio fronte conservatore, unito dal timore di nuove lotte
del proletariato.
La rivoluzione di febbraio in Francia provocò sussulti in tutta l’Europa, ma con il prevalere delle istanze liberali e nazionali. Il 13 marzo insorse Vienna, dove studenti, operai, artigiani e intellettuali reclamarono la Costituzione. Il Metternich dovette fuggire a Londra, mentre il movimento rivoluzionario si estendeva alla periferia del grande impero plurinazionale: in particolare, insorgevano Budapest, Praga, Venezia e Milano. Anche in Germania si ebbero insurrezioni: a Berlino, capitale della Prussia, e nelle città di altri Stati tedeschi, dove le rivendicazioni confluirono nella richiesta dell’unità nazionale, ma seguendo due opposti orientamenti: i Grandi Tedeschi, che miravano all’unità dei popoli germanici sotto la guida dell’Austria, e i Piccoli Tedeschi, che puntavano
ad un’unità nazionale che, sotto la guida della Prussia, escludesse l’Austria.
L’insurrezione di Vienna generò fermento anche nel Lombardo-Veneto. Il 17 marzo insorsero
i Veneziani, che cacciarono la guarnigione austriaca e si organizzarono in una libera municipalità
sotto la guida di Daniele Manin e Niccolò Tommaseo. Subito dopo fu la volta dei Milanesi: le
Cinque Giornate (dal 18 al 23) videro la mobilitazione di tutta la cittadinanza, che costrinse gli
Austriaci a lasciare il capoluogo lombardo. Dalla Lombardia e dal Piemonte si levò allora la richiesta di un intervento armato del re di Sardegna Carlo Alberto. Quest’ultimo si decise infine a varcare
con le sue truppe la frontiera del Ticino e ad entrare il 26 marzo in Milano, accolto dal favore degli
ambienti moderati, nei quali si distingueva Gabrio Casati, il capo della municipalità, ma dalla diffidenza, che rasentava l’aperta ostilità, degli ambienti democratici e repubblicani, ispirati da Carlo
Cattaneo, che vedevano nell’iniziativa di Carlo Alberto un mero calcolo opportunistico per estendere il Regno di Sardegna nella Pianura Padana. Ma l’iniziativa del re sabaudo generava entusiasmo
anche negli altri Stati italiani, al punto che alcuni sovrani, loro malgrado, dovettero lasciar partire
corpi di volontari che si unirono all’esercito piemontese, dando così luogo ad una vera e propria
guerra federale contro l’Austria, chiamata in seguito prima guerra d’indipendenza. Bisogna ricordare che in quei mesi erano cresciute le speranze di un’evoluzione in senso liberale della situazione
politica italiana, tanto che i principali sovrani della Penisola avevano concesso degli Statuti. In particolare, si ricorda lo Statuto Albertino, che rimase in vigore nel Regno di Sardegna dopo il 184849 e fu poi esteso al Regno d’Italia.
La guerra regia federale ebbe un iniziale andamento favorevole: gli Austriaci si ritirarono, lasciando via libera agli Italiani. In realtà, questo avvenne per le limitate forze militari di cui poteva
disporre il comando austriaco a causa delle insurrezioni nelle altre regioni dell’Impero. Il generale
Radetzky mise al sicuro le sue truppe nel Quadrilatero di fortezze oltre il Mincio (Mantova,
Legnago, Verona e Peschiera), in attesa di adeguati rinforzi. Carlo Alberto, perennemente incerto,
esitò a tagliare la linea dei rifornimenti austriaci attraverso il Trentino, per cui, anziché entrare in
Veneto e magari raggiungere i Veneziani insorti, preferì assestarsi sulla riva del Mincio. Il sovrano
sabaudo aveva il timore di favorire, con la sua iniziativa militare, i democratici della municipalità di
Venezia, nonché i democratici lombardi che già reclamavano una loro partecipazione al governo di
Milano. A complicare la situazione intervenne il 29 aprile l’allocuzione di Pio IX: il papa dichiarò
di non poter combattere contro la cattolica Austria e intimò ai volontari partiti dallo Stato Pontificio
di tornare a casa. Subito fu imitato dal re delle Due Sicilie e dal granduca di Toscana. Tuttavia molti volontari, come i Napoletani guidati dal generale Guglielmo Pepe e gli studenti toscani che resi-
stettero alla controffensiva austriaca a Curtatone e Montanara, rifiutarono di tornare nei loro Stati.
Gli Austriaci, dopo aver circoscritto le rivolte di Praga e di Vienna, impedendo che si estendessero
nel loro immenso impero (le rivolte infine furono represse, rispettivamente in giugno e in ottobre),
ritennero giunto il momento di attaccare i Piemontesi: Radetzky ebbe gli aiuti richiesti e lanciò la
sua controffensiva in Lombardia. Le truppe di Carlo Alberto furono costrette a ritirarsi: sconfitte a
Custoza il 25 luglio, lasciarono Milano, nonostante la disponibilità della cittadinanza, guidata dai
democratici, ad organizzare una resistenza. L’armistizio Salasco, dal nome del generale piemontese
che lo firmò, il 9 agosto pose fine alle ostilità.
La fine ingloriosa della guerra regia federale indusse, però, democratici e repubblicani a prendere l’iniziativa: a Roma fu dichiarato decaduto il potere del papa (costretto a rifugiarsi a Gaeta, protetto dal Borbone di Napoli) e proclamata la Repubblica Romana, guidata da un triumvirato, formato da Mazzini, Armellini e Saffi, che lanciò il progetto di una Costituente. A Firenze, analogamente, fu deposto il granduca e fu insediato un governo provvisorio che, sotto la guida di un altro
triumvirato, formato da Guerrazzi, Mazzoni e Montanelli, agì in stretto collegamento con i governi
di Roma e di Venezia. Lo sviluppo dell’iniziativa democratica in Italia allarmò Carlo Alberto il quale, sia per il timore che essa potesse estendersi anche al Regno di Sardegna, sia al fine di utilizzare a
suo vantaggio i moti che si erano sviluppati, nel 1849 dichiarò nuovamente guerra all’Austria. Ma la
sconfitta di Novara (23 marzo) fu decisiva e indusse il sovrano ad abdicare. Salì così sul trono suo
figlio Vittorio Emanuele II, che firmò l’armistizio di Vignale ed ebbe il merito di non abrogare lo
Statuto, evidentemente allo scopo di non irritare democratici e radicali. Per le stesse ragioni gli
Austriaci preferirono non umiliare il Regno di Sardegna, di cui fu rispettata l’integrità territoriale.
Nell’estate del ‘49 crollarono tutti i governi provvisori retti dai democratici: in particolare, la
Repubblica Romana fu abbattuta il 1° luglio da un corpo di spedizione francese, inviato da Luigi
Bonaparte per accattivarsi il favore dei clericali francesi (qualche giorno prima dello scioglimento
della Repubblica, Mazzini era riuscito a far approvare la Costituzione, un documento dal valore solo simbolico, ma di grande significato civile e politico), mentre a Venezia gli Austriaci, in agosto,
dopo un lungo assedio, ebbero ragione degli insorti e concessero loro l’onore delle armi.
La lunga stagione delle rivoluzioni del 1848-49 si concludeva, sempre in agosto, con la repressione degli ultimi focolai di resistenza nel resto d’Europa, quelli in Ungheria, dove gli Austriaci furono aiutati, contro i rivoluzionari, dai Russi. Per quanto riguarda invece gli avvenimenti in
Germania, già da tempo, la repressione aveva “normalizzato” la situazione politica e le aspirazioni
del movimento dei cosiddetti “Piccoli Tedeschi” erano state frustrate dall’atteggiamento ostile del
re di Prussia Federico Guglielmo II, il quale, da coerente reazionario, aveva respinto la corona di re
di Germania che la Dieta di Francoforte, in nome dei popoli tedeschi, gli aveva offerto: “un sovrano
prussiano conquista un regno, non lo riceve da rappresentanti del popolo!”. Il parlamentino di
Francoforte, trasferitosi a Stoccarda, era stato infine sciolto militarmente nel gennaio 1849.
I moti del 1848-49 erano stati dappertutto sconfitti, ma non erano scoppiati invano: la coscienza
dei popoli aveva ormai cancellato l’Europa della Restaurazione, qual era uscita dal Congresso di
Vienna; i semi di un nuovo ordine nel Vecchio Continente erano stati gettati e presto sarebbero germogliati.
3.8
IL SECONDO IMPERO IN FRANCIA
La Seconda Repubblica francese conobbe una rapida involuzione autoritaria sotto la presidenza di
Luigi Bonaparte. Questi, all’approssimarsi della scadenza del mandato presidenziale, che era di
quattro anni, il 2 dicembre 1851 sciolse con un colpo di Stato il Parlamento, imprigionò gli avversari politici, impose la censura sulla stampa e si autoproclamò presidente dei Francesi per altri dieci
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STORIA
Storia
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LA PROVA SCRITTA
anni. Un plebiscito confermò la svolta autoritaria compiuta nell’interesse dell’ampio blocco conservatore che lo sosteneva e che comprendeva i militari e i clericali, i contadini piccoli proprietari e i
grandi imprenditori, la burocrazia statale e i monarchici, tutti uniti dal timore di un possibile risorgere del “pericolo rosso” proletario. Il Bonaparte, forte di un ampio consenso popolare guadagnato
con la demagogia, esattamente un anno dopo, il 2 dicembre 1852, con un nuovo colpo di mano si
proclamò imperatore dei Francesi, assumendo il nome di Napoleone III e dando vita a quello che
fu chiamato il Secondo Impero.
Napoleone III realizzò lo Stato forte che i ceti proprietari e conservatori auspicavano per esorcizzare la paura del “pericolo rosso”. Il parlamento e le altre istituzioni furono formalmente lasciati
in vita, ma di fatto svuotati dalla politica accentratrice dell’imperatore che limitò pesantemente le libertà politiche e colpì ogni forma di dissenso. Inoltre fu promossa una politica economica che, rastrellando il risparmio privato, puntava a finanziare sia un ampio programma di opere pubbliche
(comprendente anche la costruzione dei grandi boulevards che cambiarono la struttura urbana di
Parigi), con l’obiettivo di assorbire la disoccupazione e procurare consenso popolare, sia le iniziative di politica estera miranti a fare svolgere alla Francia un ruolo di protagonista nello scenario europeo, in particolare nei Balcani, in Italia e in Germania.
3.9
CAVOUR E LO STATO SABAUDO
II Regno di Sardegna fu l’unico a mantenere lo Statuto dopo il fallimento dei moti del 1848-49. Ciò
valse a proiettare il piccolo Stato e la dinastia sabauda sullo scenario risorgimentale con una funzione di guida. Particolarmente importante fu, nei dieci anni che intercorsero tra quelle che furono
chiamate la prima (1848-49) e la seconda guerra d’indipendenza (1859), l’operato di Camillo
Benso di Cavour, prima come ministro dell’Agricoltura e delle Finanze nel governo D’Azeglio e
poi, dal 1852, come presidente del Consiglio. Egli era un liberale convinto, sostenitore della libertà
di mercato ed ammiratore degli ordinamenti dei paesi dell’Europa occidentale (Francia e
Inghilterra). Il suo modello era tuttavia il Belgio che, piccolo come lo Stato sabaudo, si era avviato
sulla strada dello sviluppo economico e del liberalismo politico. Cavour promosse, pertanto, una serie di riforme per ammodernare l’amministrazione dello Stato e favorire l’iniziativa economica. Abolì il “foro ecclesiastico”, il diritto d’asilo ed altri privilegi, anche fiscali, della Chiesa, che riducevano la sovranità dello Stato, e promosse gli investimenti nelle infrastrutture indispensabili allo sviluppo economico, tra cui i primi tronchi ferroviari in Piemonte, nuove strade ed alcuni canali
nel Vercellese, il potenziamento del porto di Genova. In politica estera, ebbe l’intuizione del nuovo
ruolo che la Francia dell’imperatore Napoleone III ambiva svolgere in Europa, che, in funzione antiaustriaca, poteva essere di sostegno alle nazionalità oppresse. A questo proposito il Cavour, che
dalla lezione degli avvenimenti del 1848-49 aveva tratto la convinzione che contro la potenza austriaca non sarebbe bastata la forza del solo Regno di Sardegna, volle inserire quest’ultimo in un sistema di alleanze europee al fine di estromettere l’Austria dall’Italia. Perciò nel 1855, vincendo la
resistenza dell’opposizione nel Parlamento di Torino, inviò in Crimea un corpo di quindicimila bersaglieri, al comando del generale La Marmora (guerra di Crimea), in appoggio alla spedizione anglofrancese contro la Russia uscita vittoriosa da un precedente conflitto con l’Impero turco. La
Russia fu sconfitta dall’intervento occidentale e, alla Conferenza di pace del 1856 a Parigi, poté partecipare anche il piccolo Regno di Sardegna e “levare il suo grido di dolore” sulla condizione
dell’Italia gravata da una soffocante ingerenza politica dell’Austria.
La Francia napoleonica e il Piemonte di Cavour stabilirono un’intesa che nel 1858 fu perfezionata da un’autentica alleanza militare (accordi di Plombières), in virtù della quale la Francia si sarebbe impegnata ad intervenire militarmente in Italia qualora il Regno di Sardegna fosse stato aggredito.