Storia romana II 2014-2015 STORIA ROMANA II prof. Elio Lo Cascio

Storia romana II 2014-2015
STORIA ROMANA II
prof. Elio Lo Cascio
2014-2015
Dall’Italia in conflitto della Guerra Sociale all’Italia “senza storia” dell’età
imperiale
Programma: La Guerra Sociale, i suoi prodromi e i suoi effetti. Il ruolo delle elites municipali
nell’ultima convulsa fase della storia repubblicana. L’Italia augustea e la sua posizione di primato
nella costruzione del principato. Il dibattito moderno sull’Italia romana.
(1) Pol. 2.23-24 : Οἱ δὲ Γαισάται Γαλάται συστησάμενοι δύναμιν πολυτελῆ καὶ βαρεῖαν ἧκον
ὑπεράραντες τὰς ῎Αλπεις εἰς τὸν Πάδον ποταμὸν ἔτει μετὰ τὴν τῆς χώρας διάδοσιν ὀγδόῳ. τὸ μὲν
οὖν τῶν ᾿Ινσόμβρων καὶ Βοίων γένος ἔμεινε γενναίως ἐν ταῖς ἐξ ἀρχῆς ἐπιβολαῖς, οἱ δ' Οὐένετοι καὶ
Γονομάνοι, διαπρεσβευσαμένων ῾Ρωμαίων, τούτοις εἵλοντο συμμαχεῖν. διὸ καὶ μέρος τι τῆς
δυνάμεως καταλιπεῖν ἠναγκάσθησαν οἱ βασιλεῖς τῶν Κελτῶν φυλακῆς χάριν τῆς χώρας πρὸς τὸν
ἀπὸ τούτων φόβον. αὐτοὶ δ' ἐξάραντες παντὶ τῷ στρατεύματι κατατεθαρρηκότως ὥρμησαν,
ποιούμενοι τὴν πορείαν ὡς ἐπὶ Τυρρηνίας, ἔχοντες πεζοὺς μὲν εἰς πεντακισμυρίους, ἱππεῖς δὲ καὶ
συνωρίδας εἰς δισμυρίους. ῾Ρωμαῖοι δ' ὡς θᾶττον ἤκουσαν τοὺς Κελτοὺς ὑπερβεβληκέναι τὰς
῎Αλπεις, Λεύκιον μὲν Αἰμίλιον ὕπατον μετὰ δυνάμεως ἐξαπέστειλαν ὡς ἐπ' ᾿Αριμίνου, τηρήσοντα
ταύτῃ τῶν ἐναντίων τὴν ἔφοδον, ἕνα δὲ τῶν ἑξαπελέκεων εἰς Τυρρηνίαν. ὁ μὲν γὰρ ἕτερος τῶν
ὑπάτων Γάιος ᾿Ατίλιος προεξεληλυθὼς ἔτυχεν εἰς Σαρδόνα μετὰ τῶν στρατοπέδων, οἱ δ' ἐν τῇ
῾Ρώμῃ πάντες περιδεεῖς ἦσαν, μέγαν καὶ φοβερὸν αὑτοῖς ὑπολαμβάνοντες ἐπιφέρεσθαι κίνδυνον.
ἔπασχον δὲ τοῦτ' εἰκότως, ἔτι περὶ Γαλατῶν ἐγκαθημένου ταῖς ψυχαῖς αὐτῶν τοῦ παλαιοῦ φόβου.
διὸ καὶ πρὸς ταύτην ἀναφέροντες τὴν ἔννοιαν τὰ μὲν συνήθροιζον, τὰ δὲ κατέγραφον στρατόπεδα,
τοῖς δ' ἑτοίμοις εἶναι παρήγγελλον τῶν συμμάχων. καθόλου δὲ τοῖς ὑποτεταγμένοις ἀναφέρειν
ἐπέταξαν ἀπογραφὰς τῶν ἐν ταῖς ἡλικίαις, σπουδάζοντες εἰδέναι τὸ σύμπαν πλῆθος τῆς ὑπαρχούσης
αὐτοῖς δυνάμεως. σίτου δὲ καὶ βελῶν καὶ τῆς ἄλλης ἐπιτηδειότητος πρὸς πόλεμον τηλικαύτην
ἐποιήσαντο κατασκευὴν ἡλίκην οὐδείς πω μνημονεύει πρότερον. συνηργεῖτο δ'αὐτοῖς πάντα καὶ
πανταχόθεν ἑτοίμως. καταπεπληγμένοι γὰρ οἱ τὴν ᾿Ιταλίαν οἰκοῦντες τὴν τῶν Γαλατῶν ἔφοδον
οὐκέτι ῾Ρωμαίοις ἡγοῦντο συμμαχεῖν οὐδὲ περὶ τῆς τούτων ἡγεμονίας γίνεσθαι τὸν πόλεμον, ἀλλὰ
περὶ σφῶν ἐνόμιζον ἕκαστοι καὶ τῆς ἰδίας πόλεως καὶ χώρας ἐπιφέρεσθαι τὸν κίνδυνον. διόπερ
ἑτοίμως τοῖς παραγγελλομένοις ὑπήκουον. ῞Ινα δὲ συμφανὲς ἐπ' αὐτῶν γένηται τῶν ἔργων ἡλίκοις
᾿Αννίβας ἐτόλμησε πράγμασιν ἐπιθέσθαι [μετὰ δὲ ταῦτα] καὶ πρὸς ἡλίκην δυναστείαν παραβόλως
ἀντοφθαλμήσας ἐπὶ τοσοῦτο καθίκετο τῆς προθέσεως ὥστε τοῖς μεγίστοις συμπτώμασι περιβάλλειν
῾Ρωμαίους, ῥητέον ἂν εἴη τὴν παρασκευὴν καὶ τὸ πλῆθος τῆς ὑπαρχούσης αὐτοῖς τότε δυνάμεως.
μετὰ μὲν δὴ τῶν ὑπάτων ἐξεληλύθει τέτταρα στρατόπεδα ῾Ρωμαϊκά, πεντάκις μὲν χιλίους καὶ
διακοσίους πεζούς, ἱππεῖς δὲ τριακοσίους ἔχον ἕκαστον. σύμμαχοι δὲ μεθ' ἑκατέρων ἦσαν οἱ
συνάμφω πεζοὶ μὲν τρισμύριοι, δισχίλιοι δ' ἱππεῖς. τῶν δ' ἐκ τοῦ καιροῦ προσβοηθησάντων εἰς τὴν
῾Ρώμην Σαβίνων καὶ Τυρρηνῶν ἱππεῖς μὲν ἦσαν εἰς τετρακισχιλίους, πεζοὶ δὲ πλείους τῶν
πεντακισμυρίων. τούτους μὲν ἁθροίσαντες ὡς ἐπὶ Τυρρηνίας προεκάθισαν, ἑξαπέλεκυν αὐτοῖς
ἡγεμόνα συστήσαντες. οἱ δὲ τὸν ᾿Απεννῖνον κατοικοῦντες ῎Ομβροι καὶ Σαρσινάτοι συνήχθησαν εἰς
δισμυρίους, μετὰ δὲ τούτων Οὐένετοι καὶ Γονομάνοι δισμύριοι. τούτους δ' ἔταξαν ἐπὶ τῶν ὅρων τῆς
Γαλατίας, ἵν' ἐμβαλόντες εἰς τὴν τῶν Βοίων χώραν ἀντιπερισπῶσι τοὺς ἐξεληλυθότας. τὰ μὲν οὖν
προκαθήμενα στρατόπεδα τῆς χώρας ταῦτ' ἦν. ἐν δὲ τῇ ῾Ρώμῃ διέτριβον ἡτοιμασμένοι χάριν τῶν
συμβαινόντων ἐν τοῖς πολέμοις, ἐφεδρείας ἔχοντες τάξιν,῾Ρωμαίων μὲν αὐτῶν πεζοὶ δισμύριοι,
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μετὰ δὲ τούτων ἱππεῖς χίλιοι καὶ πεντακόσιοι, τῶν δὲ συμμάχων πεζοὶ μὲν τρισμύριοι, δισχίλιοι δ'
ἱππεῖς. καταγραφαὶ δ'ἀνηνέχθησαν Λατίνων μὲν ὀκτακισμύριοι πεζοί, πεντακισχίλιοι δ' ἱππεῖς,
Σαυνιτῶν δὲ πεζοὶ μὲν ἑπτακισμύριοι, μετὰ δὲ τούτων ἱππεῖς ἑπτακισχίλιοι, καὶ μὴν ᾿Ιαπύγων καὶ
Μεσσαπίων συνάμφω πεζῶν μὲν πέντε μυριάδες, ἱππεῖς δὲ μύριοι σὺν ἑξακισχιλίοις, Λευκανῶν δὲ
πεζοὶ μὲν τρισμύριοι, τρισχίλιοι δ' ἱππεῖς, Μαρσῶν δὲ καὶ Μαρρουκίνων καὶ Φερεντάνων, ἔτι δ'
Οὐεστίνων πεζοὶ μὲν δισμύριοι, τετρακισχίλιοι δ' ἱππεῖς. ἔτι γε μὴν καὶ ἐν Σικελίᾳ καὶ Τάραντι
στρατόπεδα δύο παρεφήδρευεν, ὧν ἑκάτερον ἦν ἀνὰ τετρακισχιλίους καὶ διακοσίους πεζούς, ἱππεῖς
δὲ διακοσίους. ῾Ρωμαίων δὲ καὶ Καμπανῶν ἡ πληθὺς πεζῶν μὲν εἰς εἴκοσι καὶ πέντε κατελέχθησαν
μυριάδες, ἱππέων δ' ἐπὶ ταῖς δύο μυριάσιν ἐπῆσαν ἔτι τρεῖς χιλιάδες. ὥστ' εἶναι τὸ [κεφάλαιον τῶν
μὲν προκαθημένων τῆς ῾Ρώμης δυνάμεων πεζοὶ μὲν ὑπὲρ πεντεκαίδεκα μυριάδες, ἱππεῖς δὲ πρὸς
ἑξακισχιλίους, τὸ δὲ] σύμπαν πλῆθος τῶν δυναμένων ὅπλα βαστάζειν, αὐτῶν τε ῾Ρωμαίων καὶ τῶν
συμμάχων, πεζῶν ὑπὲρ τὰς ἑβδομήκοντα μυριάδας, ἱππέων δ' εἰς ἑπτὰ μυριάδας. ἐφ' οὓς ᾿Αννίβας
ἐλάττους ἔχων δισμυρίων ἐπέβαλεν εἰς τὴν ᾿Ιταλίαν. περὶ μὲν οὖν τούτων ἐν τοῖς ἑξῆς σαφέστερον
ἐκποιήσει κατανοεῖν.
23. I Galli Gesati, dopo avere organizzato un esercito molto ben equipaggiato e potente, arrivarono
al fiume Po dopo avere attraversato le Alpi, otto anni dopo che furono distribuite le terre del Piceno.
[2] Ora, il popolo degli Insubri e dei Boi restò valorosamente fedele ai propositi iniziali, mentre i
Veneti e i Cenomani, quando i Romani inviarono degli ambasciatori, decisero di allearsi con loro.
[3] Pertanto i re dei Celti furono costretti a lasciare una parte del loro esercito per preservare il loro
territorio dalla minaccia che veniva da questi. [4] Quindi si mossero con l’intero esercito e si misero
in marcia pieni di ardore bellico in direzione della Tirrenia. Avevano circa cinquantamila fanti e
ventimila fra cavalieri e coppie degli equipaggi dei carri da guerra. [5] I Romani da parte loro non
appena vennero a sapere che i Celti avevano valicato le Alpi, inviarono a Rimini il console Lucio
Emilio con il suo esercito per tenere sotto controllo da questa città la marcia dei nemici; in Tirrenia
invece mandarono un pretore. [6] Il secondo console infatti, Gaio Atilio, si trovava in Sardegna con
le sue legioni; [7] e quelli che erano rimasti a Roma erano tutti completamente atterriti, perché
pensavano che si stesse avvicinando a loro un pericolo grave e terribile. In verità provavano questo
sentimento non senza ragione, perché nei loro animi restava ancora ben insinuata l’antica paura dei
Galli. [8] Pertanto anche per il richiamo di questo pensiero misero in assetto delle legioni, altre le
arruolarono ex novo e diedero l’ordine agli alleati di tenersi pronti.[9] Come provvedimento di
carattere generale, poi, ordinarono alle popolazioni loro soggette di fornire degli elenchi degli
uomini in età di servizio militare (apographai ton en tais elikiais), [10] desiderando conoscere la
consistenza complessiva di tutte le forze di cui disponevano. [11] Raccolsero quindi una tale
quantità di rifornimenti di viveri, di armi e di quanto altro fosse necessario per la guerra quale mai è
stata ricordata da alcuno in precedenza. [12] E tutto quanto fu prontamente compiuto da parte di
ognuno secondo la loro volontà. [13] Infatti le popolazioni italiche, atterrite dall’arrivo dei Galli,
non si sentivano più come se stessero combattendo in qualità di alleati dei Romani, né pensavano
più che la guerra avesse come oggetto la supremazia di questi ultimi, ma ognuno riteneva che il
pericolo minacciasse la propria stessa incolumità, la propria città e il proprio territorio. [14] E per
questo obbedivano prontamente a quanto veniva loro ordinato. 24. Ma perché sia chiaro in base alla
realtà delle cose contro quali forze osò scontrarsi Annibale e affrontando temerariamente quale
potenza riuscì a realizzare il proprio piano in misura tale da gettare i Romani nelle più grandi
sventure, [2] bisognerebbe elencare la consistenza e la qualità degli eserciti di cui i Romani allora
disponevano. [3] Agli ordini dei due consoli uscivano nelle spedizioni in tutto quattro legioni di
cittadini romani, che contavano ciascuna cinquemiladuecento fanti e trecento cavalieri. [4] Insieme
ai consoli c’erano anche le truppe degli alleati, trentamila fanti e duemila cavalieri in tutto. [5] Circa
quattromila cavalieri e più di cinquantamila fanti erano forniti dai Sabini e dai Tirreni che in fretta
andarono in soccorso di Roma. [6] Dopo avere radunato queste truppe le stanziarono in Tirrenia,
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ponendo a capo di esse un pretore. [7] Si poté raccogliere un contingente di circa ventimila uomini
tra gli Umbri e i Sarsinati che vivono sull’Appennino; insieme a questi ventimila Veneti e
Cenomani. [8] Questi ultimi li schierarono ai confini con la Gallia, affinché con delle incursioni nel
territorio dei Boi facessero opera di diversione ai danni dei nemici usciti in spedizione. Queste
erano dunque le truppe impegnate sul territorio. [9] A Roma invece restavano distaccati, in assetto
di guerra per qualunque evenienza, come truppe di riserva, ventimila fanti e millecinquecento
cavalieri romani, e inoltre trentamila fanti e duemila cavalieri forniti dagli alleati. [10] Le liste di
leva (katagraphai) che furono approntate comprendevano ottantamila fanti e cinquemila cavalieri
dei Latini; settantamila fanti e settemila cavalieri dei Sanniti; [11] cinquantamila fanti e sedicimila
cavalieri unendo Iapigi e Messapi; [12] trentamila fanti e tremila cavalieri dei Lucani; ventimila
fanti e quattromila cavalieri dei Marsi, dei Marrucini, dei Frentani e ancora dei Vestini. [13] Inoltre
distaccarono a Taranto e in Sicilia due legioni, ciascuna delle quali comprendeva circa quattromila e
duecento fanti e duecento cavalieri. [14] La massa dei Romani e dei Campani registrata nelle liste di
leva ammontava a duecentocinquantamila fanti e ventitremila cavalieri; [15] cosicché l’ammontare
complessivo [delle truppe acquartierate davanti a Roma era di centocinquantamila fanti e seimila
cavalieri, [16] il numero complessivo] di quelli che erano in grado di portare le armi (to sympan
plethos ton dynamenon opla bastazein), comprendendo sia i Romani che gli alleati, era di oltre
settecentomila fanti e di quasi settantamila cavalieri. [17] Contro queste forze Annibale si scontrò
quando calò in Italia. Aveva con sé meno di ventimila uomini. Ma sarà possibile comprendere
chiaramente queste cose nei libri che seguiranno.
(2) Roman Statutes I, nr. 2 (Lex agraria)
l. 21 : [...] quei in eo agro loc[o ceiuis] Romanus sociumue nominisue Latini, quibus ex formula
togatorum [milites in terra Italia inperare solent [...]
[...] colui che in quel terreno o luogo, cittadino romano o alleato o membro della nazione latina, dai
quali essi sono soliti richiedere truppe nella terra dell’Italia secondo l’elenco dei togati [...]
l. 50 : [---socium nominisue Latini, quibus ex formula t]ogatorum milites in terra Italia inperare
solent [...]
[...] alleato o membro della nazione latina, dai quali essi sono soliti richiedere truppe nella terra
dell’Italia secondo l’elenco dei togati [...]
(3) Liv. 6.4.4 : eo anno in civitatem accepti qui Veientium Capenatiumque ac Faliscorum per ea
bella transfugerant ad Romanos, agerque his novis civibus adsignatus.
In quell’anno [389 a.C.] furono accolti nella cittadinanza quei Veienti, Capenati e Falisci che erano
passati ai Romani in seguito a quelle guerre: a questi nuovi cittadini fu assegnato del terreno.
(4) Liv. 8.17.11 : eodem anno census actus novique cives censi. tribus propter eos additae Maecia
et Scaptia; censores addiderunt Q. Publilius Philo Sp. Postumius. Romani facti Acerrani lege ab L.
Papirio praetore lata, qua civitas sine suffragio data.
In quello stesso anno [332 a.C.] si svolse il censimento e furono censiti nuovi cittadini. Presso di
loro furono introdotte le tribù Maecia e Scaptia: le introdussero i censori Quinto Publilio Filone e
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Spurio Postumio. Gli abitanti di Acerra divennero romani in base alla legge del pretore Lucio
Papirio, che conferiva loro la cittadinanza senza diritto di voto.
(5) Dion. 20.1.4: οἱ δὲ ὕπατοι κατὰ μὲν τὸ λαιὸν κέρας ἔστησαν τάγμα τὸ καλούμενον πρῶτον
ἐναντίον τῇ Μακεδονικῇ καὶ Ἀμπρακιωτικῇ φάλαγγι καὶ τοῖς μισθοφόροις τῶν Ταραντίνων.
ἑπόμενον δὲ τῷ πρώτῳ τάγματι τὸ τρίτον, καθ' ὃ μέρος ἡ λεύκασπις ἦν τῶν Ταραντίνων φάλαγξ καὶ
τὸ Βρεττίων καὶ τὸ Λευκανῶν συμμαχικόν.
I consoli schierarono sull'ala sinistra la cosiddetta prima legione, ad affrontare la falange macedone
e ambraciota e i mercenari tarantini. A fianco della prima, schierarono la terza, dirimpetto la falange
tarantina con i suoi bianchi scudi, e le forze alleate di Bruzi e Lucani.
(6) Liv. 10.26.14: itaque praeterquam quod ambo consules profecti ad bellum erant cum quattuor
legionibus et magno equitatu Romano Campanisque mille equitibus delectis, ad id bellum missis, et
sociorum nominisque Latini maiore exercitu quam Romano.
Inoltre entrambi i consoli erano partiti in guerra con quattro legioni e un grande contingente di
cavalleria romana, con in aggiunta mille cavalieri scelti tra i Campani e inviati per quella guerra; e
l’esercito degli alleati di condizione latina era perfino più grande di quello romano.
(7) Liv. 10.29.12: tum Fabius audita morte collegae Campanorum alam, quingentos fere equites,
excedere acie iubet et circumvectos ab tergo Gallicam invadere aciem.
Alla notizia della morte del suo collega, Fabio ordina a uno squadrone di Campani, composto da
circa cinquecento cavalieri, di uscire dallo schieramento e di spostarsi per attaccare i Galli alle
spalle.
(8) Liv. 23.4.8: et, quod maximum vinculum erat, trecenti equites, nobilissimus quisque
Campanorum, cum militarent aliquando apud Romanos in praesidia Sicularum urbium delecti ab
Romanis ac missi.
E il vincolo più stretto in assoluto era costituito dal fatto che trecento cavalieri campani di stirpe
nobilissima erano stati scelti, giacché talvolta servivano presso i Romani, e inviati dai Romani a
presidiare le città della Sicilia.
(9) Vell. 1.14.6-7: At quintum Fabio Quinto, Decio Mure quartum consulibus, quo anno Pyrrhus
regnare coepit, Sinuessam Minturnasque missi coloni, post quadriennium Venusiam; interiectoque
biennio, M'. Curio et Rufino Cornelio consulibus, Sabinis sine suffragio data civitas: id actum ante
annos ferme CCCXX. At Cosam et Paestum abhinc annos ferme trecentos, Fabio Dorsone et
Claudio Canina consulibus, interiecto quinquennio, Sempronio Sopho et Appio, Caeci filio,
consulibus, Ariminum <et> Beneventum coloni missi et suffragii ferendi ius Sabinis datum.
Nell’anno del quinto consolato di Quinto Fabio e del quarto di Decio Mure [295 a.C.], quando cioè
Pirro salì al trono, furono inviati coloni a Sinuessa e Minturnae, quattro anni dopo a Venusia.
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Trascorsi due anni, nell’anno del consolato di Manio Curio e Rufino Cornelio [290 a.C.], ai Sabini
fu conferita la cittadinanza senza diritto di voto: ciò avvenne all’incirca 320 anni fa. E lo stesso
avvenne a Cosa e a Paestum circa trecento anni fa, cioè nell’anno del consolato di Fabio Dorsone e
di Claudio Canina [273 a.C.]; trascorsi cinque anni, nell’anno del consolato di Sempronio Sofo e
Appio, figlio di Cieco [268 a.C.], furono inviati coloni ad Ariminium e a Beneventum e ai Sabini fu
concesso il diritto di voto.
(10) Liv. 38.36.7: de Formianis Fundanisque municipibus et Arpinatibus C. Valerius Tappo
tribunus plebis promulgavit, ut iis suffragii latio – nam antea sine suffragio habuerant civitatem –
esset.
Il tribuno della plebe Gaio Valerio Tappone avanzò una proposta circa i municipi di Formia, Fondi e
Arpino, che conferiva loro il diritto di voto (infatti prima avevano ottenuto la cittadinnaza senza
diritto di voto).
(11) Cic. De domo 78: qui cives Romani in colonias Latinas proficiscebantur fieri non poterant
Latini, nisi erant auctores facti nomenque dederant.
I cittadini romani che si trasferivano nelle colonie latine non potevano diventare Latini se non
l’avevano richiesto espressamente e vi avevano registrato il proprio nome.
(12) Cic. Pro Caecina 98: Quaeri hoc solere me non praeterit [...] quem ad modum, si civitas adimi
non possit, in colonias Latinas saepe nostri cives profecti sint. Aut sua voluntate aut legis multa
profecti sunt; quam multam si sufferre voluissent, manere in civitate potuissent.
Non mi sfugge che di solito mi si domanda [...] come sia possibile che, se il diritto di cittadinanza è
irrevocabile, spesso i nostri cittadini si siano trasferiti nelle colonie latine. Ci sono andati o di loro
spontanea volontà o in conseguenza di una sanzione prevista dalla legge: ma se avessero accettato
di scontare la sanzione, avrebbero potuto mantenere la cittadinanza.
(13) Gai. 1.131: Olim quoque, quo tempore populus Romanus in Latinas regiones colonias
deducebat, qui iussu parentis in coloniam Latinam nomen dedissent, desinebant in potestate
parentis esse, quia efficerentur alterius civitatis cives.
Anche un tempo, quando cioè il popolo romano deduceva colonie nei territori latini, coloro i quali
avevano registrato il proprio nome in una colonia Latina per ordine del genitore, cessavano di essere
soggetti alla potestà del genitore, in quanto erano divenuti cittadini di un’altra città.
(14) Liv. 25.3.16: testibus datis tribuni populum submoverunt sitellaque lata est ut sortirentur ubi
Latini suffragium ferrent.
Una volta scelti i testimoni, i tribuni allontanarono il popolo e fu portata l’urna per sorteggiare la
tribù in cui far votare i Latini.
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(15) Cic. Pro Balbo 21: Tulit apud maiores nostros legem C. Furius de testamentis, tulit Q.
Voconius de mulierum hereditatibus; innumerabiles aliae leges de civili iure sunt latae; quas Latini
voluerunt, adsciverunt; ipsa denique Iulia, qua lege civitas est sociis et Latinis data, qui fundi
populi facti non essent civitatem non haberent. In quo magna contentio Heracliensium et
Neapolitanorum fuit, cum magna pars in iis civitatibus foederis sui libertatem civitati anteferret.
Postremo haec vis est istius et iuris et verbi, ut fundi populi beneficio nostro, non suo iure fiant.
Tra i nostri antenati, Gaio Furio propose una legge sui testamenti, Quinto Voconio una sull’eredità
delle donne; furono approvate innumerevoli altre leggi sul diritto civile: i Latini accolsero quelle
che volevano. Infine la stessa legge Giulia che conferisce la cittadinanza agli alleati e ai Latini
stabilisce che quei popoli che non vi aderiscono (fundus fieri) non ottengono la cittadinanza. Tale
clausola suscitò ampia contesa tra gli abitanti di Eraclea e di Neapoli, poiché gran parte di loro
preferiva alla cittadinanza la libertà garantita dal trattato con noi. Da ultimo, è questo il significato
letterale e giuridico di quella legge, cioè che i popoli vi aderiscono per nostra concessione e non per
un loro diritto.
(16) Gell. 10.3.2-3: Legebamus adeo nuper orationem Gracchi de legibus promulgatis, in qua M.
Marium et quosdam ex municipiis Italicis honestos viros virgis per iniuriam caesos a magistratibus
populi Romani, quanta maxima invidia potest, conqueritur. Verba haec sunt, quae super ea re fecit:
‘Nuper Teanum Sidicinum consul venit. Uxor eius dixit se in balneis virilibus lavari velle. Quaestori
Sidicino M. Mario datum est negotium, uti balneis exigerentur, qui lavabantur. Uxor renuntiat viro
parum cito sibi balneas traditas esse et parum lautas fuisse. Idcirco palus destitutus est in foro,
eoque adductus suae civitatis nobilissimus homo M. Marius. Vestimenta detracta sunt, virgis caesus
est. Caleni, ubi id audierunt, edixerunt, ne quis in balneis lavisse vellet, cum magistratus Romanus
ibi esset. Ferentini ob eandem causam praetor noster quaestores arripi iussit: alter se de muro
deiecit, alter prensus et virgis caesus est.’
Ho letto di recente il discorso di Gaio Gracco sulla promulgazione delle leggi, nel quale lamenta,
con tutta l’indignazione di cui è capace, il fatto che Marco Mario e altri uomini onesti dei municipi
italici siano stati ingiustamente fatti bastonare da magistrati del popolo romano. Ecco le sue parole
sulla questione: «Poco fa il console giunse a Teano Sidicino. Sua moglie disse di voler fare un
bagno alle terme maschili. Al questore di Sidicino, Marco Mario, fu conferito l’incarico di
allontanere coloro che vi stavano facendo il bagno. La donna informa il marito che i bagni le sono
stati aperti in ritardo e che non erano molto puliti. Perciò venne posto un palo nel foro e Marco
Mario, uomo nobilissimo nella propria città, vi fu portato: lì fu spogliato e bastonato. Gli abitanti di
Cales, quando seppero di questo fatto, proclamarono con un editto che nessuno dovesse fare il
bagno nelle terme quando era presente un magistrato romano. A Ferentinum, per lo stesso motivo il
nostro pretore ordinò di arrestare i questori [locali]: uno si gettò giù dal muro, l’altro fu preso e
bastonato».
(17) Liv. 27.9-10: Triginta tum coloniae populi Romani erant; ex iis duodecim, cum omnium
legationes Romae essent, negaverunt consulibus esse unde milites pecuniamque darent. eae fuere
Ardea, Nepete, Sutrium, Alba, Carseoli, Sora, Suessa, Circeii, Setia, Cales, Narnia, Interamna.
nova re consules icti cum absterrere eos a tam detestabili consilio vellent, castigando
increpandoque plus quam leniter agendo profecturos rati, eos ausos esse consulibus dicere aiebant
quod consules ut in senatu pronuntiarent in animum inducere non possent; non enim detractationem
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eam munerum militiae, sed apertam defectionem a populo Romano esse. redirent itaque propere in
colonias et tamquam integra re, locuti magis quam ausi tantum nefas, cum suis consulerent.
admonerent non Campanos neque Tarentinos esse eos sed Romanos, inde oriundos, inde in colonias
atque in agrum bello captum stirpis augendae causa missos. quae liberi parentibus deberent, ea
illos Romanis debere, si ulla pietas, si memoria antiquae patriae esset. consulerent igitur de
integro; nam tum quidem quae temere agitassent, ea prodendi imperii Romani, tradendae
Hannibali victoriae esse. cum alternis haec consules diu iactassent, nihil moti legati neque se quid
domum renuntiarent habere dixerunt neque senatum suum quid novi consuleret, ubi nec miles qui
legeretur nec pecunia quae daretur in stipendium esset. cum obstinatos eos viderent consules, rem
ad senatum detulerunt, ubi tantus pavor animis hominum est iniectus ut magna pars actum de
imperio diceret: idem alias colonias facturas, idem socios; consensisse omnes ad prodendam
Hannibali urbem Romanam.Consules hortari et consolari senatum et dicere alias colonias in fide
atque officio pristino fore: eas quoque ipsas quae officio decesserint si legati circa eas colonias
mittantur qui castigent, non qui precentur, verecundiam imperii habituras esse. permissum ab
senatu iis cum esset, agerent facerentque ut e re publica ducerent, pertemptatis prius aliarum
coloniarum animis citaverunt legatos quaesiveruntque ab iis ecquid milites ex formula paratos
haberent. pro duodeviginti coloniis M. Sextilius Fregellanus respondit et milites paratos ex formula
esse, et si pluribus opus esset plures daturos, et quidquid aliud imperaret velletque populus
Romanus enixe facturos; ad id sibi neque opes deesse, animum etiam superesse. consules parum
sibi videri praefati pro merito eorum sua voce conlaudari [eos] nisi universi patres iis in curia
gratias egissent, sequi in senatum eos iusserunt. senatus quam poterat honoratissimo decreto
adlocutos eos, mandat consulibus ut ad populum quoque eos producerent, et inter multa alia
praeclara quae ipsis maioribusque suis praestitissent recens etiam meritum eorum in rem publicam
commemorarent. ne nunc quidem post tot saecula sileantur fraudenturve laude sua: Signini fuere et
Norbani Saticulanique et Fregellani et Lucerini et Venusini et Brundisini et Hadriani et Firmani et
Ariminenses, et ab altero mari Pontiani et Paestani et Cosani, et mediterranei Beneventani et
Aesernini et Spoletini et Placentini et Cremonenses. harum coloniarum subsidio tum imperium
populi Romani stetit, iisque gratiae in senatu et apud populum actae. duodecim aliarum coloniarum
quae detractaverunt imperium mentionem fieri patres vetuerunt, neque illos dimitti neque retineri
neque appellari a consulibus; ea tacita castigatio maxime ex dignitate populi Romani visa est.
Trenta erano allora le colonie fondate dal popolo romano; dodici di esse, quando le delegazioni di
tutte furono a Roma, dichiararono ai consoli che non avevano modo di fornire né soldati né denaro:
Ardea, Nepete, Sutri, Alba, Carseoli, Sora, Suessa, Circeo, Setia, Cales, Narnia, Interamna. Colpiti
da una cosa tanto nuova, i consoli, volendo dissuaderli da una così detestabile intenzione, e
credendo di riuscirci meglio con biasimi e rimproveri che con modi blandi, risposero agli inviati che
avevano osato dire ai consoli una cosa che i consoli stessi non si sarebbero mai permessi di riferire
al senato: quello non era il rifiuto di una prestazione militare, ma l’aperta defezione dal popolo
romano. Che ritornassero in fretta alle loro colonie e, come se la questione fosse ancora nuova ed
essi avessero accennato con parole ma non osato commettere un così grave crimine, ne trattassero
coi i propri concittadini. Che ricordassero loro di non essere né Campani né Tarentini, ma Romani:
da Roma erano oriundi, da Roma erano stati mandati in quelle colonie e in quei territori conquistati
con la guerra, al fine di rendere più grande la stirpe. Ciò che i figli debbono ai loro genitori, quello
appunto dovevano essi ai Romani, se ancora provavano una sorta di devozione per la loro antica
patria, se ancora se la ricordavano! Dovevano dunque deliberare di nuovo, poiché la loro
sconsiderata intenzione avrebbe tradito l’impero romano e avrebbe finito per dare la vittoria ad
Annibale. Sebbene i consoli, a turno, avessero ripetuto a lungo questi ammonimenti, gli inviati, per
nulla scossi, dissero di non avere alcunché da riferire in patria e che il loro senato non aveva nuove
delibere di fare, poiché non c’erano né soldati da arruolare né denaro accantonato per il loro soldo. I
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Storia romana II 2014-2015
consoli, vedendoli così ostinati, deferirono lo cosa al senato, dove un così grande spavento invase
gli animi che molti senatori dissero che era la fine dell’impero, che altre colonie avrebbero fatto lo
stesso, idem gli alleati; che tutti erano ormai d’accordo a dare ad Annibale la città di Roma. Ecco
allora i consoli rassicurare e confortare il senato e dire che le altre colonie sarebbero state fedeli agli
antichi impegni; e che anche quelle che vi erano venute meno avrebbero conservato il rispetto per
l’impero, se solo si fossero inviati loro dei messi a ricordarglielo con minacce invece che con
preghiere. Avuto dal senato il mandato di trattare e di agire come ritenevano utile per la res publica,
i consoli, dopo aver saggiato per bene il sentimento delle altre colonie, citarono i loro inviati e
chiesero loro se avevano pronti i soldati secondo la formula. Marco Sestilio di Fregelle rispose a
nome di diciotto colonie rispose che erano pronti i soldati secondo la formula e che, se ne servivano
di più, ne avrebbero dati altri e che, qualunque cosa avesse ordinato e voluto il popolo romano
l’avrebbero fatta con ogni sforzo; non gli mancavano le risorse per farlo e il loro desiderio era
perfino superiore a queste. I consoli, dopo aver risposto di ritenere che un elogio da parte loro
sarebbe stata una ricompensa insufficiente senza aggiungervi il ringraziamento di tutti i senatori
nella curia, li invitarono a seguirli in senato. E il senato li salutò con un indirizzo il più possibile
onorifico e incaricò i consoli di presentarli al popolo e di ricordargli, tra gli altri molti e insigni
servigi che quelle colonie avevano reso a loro e ai loro antenati, anche il recente loro merito verso la
res publica. E, affinché neppure ora, dopo tanti secoli, si passino sotto silenzio e si lascino prive
della loro lode, ecco quali furono: le colonie di Segni, Norba, Saticula, Fregelle, Luceria, Venosa,
Brindisi, Adria, Fermo, Rimini e, sull’altro mare, Ponza, Pesto, Cosa e, nell’interno, Benevento,
Isernia, Spoleto, Piacenza, Cremona. L’impero del popolo romano allora si resse con l’aiuto di
queste colonie e a esse furono attribuiti ringraziamenti dal senato e dal popolo. Delle altre dodici
colonie, che rifiutarono l’obbedienza, i senatori vietarono che si facesse menzione e che i consoli né
congedassero i loro inviati né li trattenessero o li convocassero: questa tacita punizione fu ritenuta la
più conforme alla dignità del popolo romano.
(18) Liv. 29.15: Cum de supplemento legionum quae in provinciis erant ageretur, tempus esse a
quibusdam senatoribus subiectum est quae dubiis in rebus utcumque tolerata essent, ea dempto iam
tandem deum benignitate metu non ultra pati. erectis exspectatione patribus subiecerunt colonias
Latinas duodecim quae Q. Fabio et Q. Fulvio consulibus abnuissent milites dare, eas annum iam
ferme sextum vacationem militiae quasi honoris et beneficii causa habere cum interim boni
obedientesque socii pro fide atque obsequio in populum Romanum continuis omnium annorum
dilectibus exhausti essent. sub hanc vocem non memoria magis patribus renovata rei prope iam
oblitteratae quam ira inritata est. itaque nihil prius referre consules passi, decreverunt ut consules
magistratus denosque principes Nepete Sutrio Ardea Calibus Alba Carseolis Sora Suessa Setia
Circeiis Narnia Interamna – hae namque coloniae in ea causa erant – Romam excirent; iis
imperarent, quantum quaeque earum coloniarum militum plurimum dedisset populo Romano ex quo
hostes in Italia essent, duplicatum eius summae numerum peditum daret et equites centenos
vicenos; si qua eum numerum equitum explere non posset pro equite uno tres pedites liceret dare;
pedites equitesque quam locupletissimi legerentur mitterenturque ubicumque extra Italiam
supplemento opus esset. si qui ex iis recusarent, retineri eius coloniae magistratus legatosque
placere neque si postularent senatum dari priusquam imperata fecissent. stipendium praeterea iis
coloniis in milia aeris asses singulos imperari exigique quotannis, censumque in iis coloniis agi ex
formula ab Romanis censoribus data; dari autem placere eandem quam populo Romano; deferrique
Romam ab iuratis censoribus coloniarum priusquam magistratu abirent. ex hoc senatus consulto
accitis Romam magistratibus primoribusque earum coloniarum consules cum milites stipendiumque
imperassent, alii aliis magis recusare ac reclamare: negare tantum militum effici posse: vix si
simplum ex formula imperetur enisuros: orare atque obsecrare ut sibi senatum adire ac deprecari
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liceret: nihil se quare perire merito deberent admisisse; sed si pereundum etiam foret, neque suum
delictum neque iram populi Romani ut plus militum darent quam haberent posse efficere. consules
obstinati legatos manere Romae iubent, magistratus ire domum ad dilectus habendos: nisi summa
militum quae imperata esset Romam adducta neminem iis senatum daturum. ita praecisa spe
senatum adeundi deprecandique dilectus in iis duodecim coloniis per longam vacationem numero
iuniorum aucto haud difficulter est perfectus.
Mentre si discuteva sui complementi da fornire alle legioni delle province, alcuni senatori
avanzarono la proposta che, allontanato ormai ogni timore grazie al favore degli dèi, non si
tollerasse più quello che, comunque, si era tollerato in momenti difficili. Al senato incuriosito essi
ricordarono che dodici colonie latine, che avevano rifiutato di fornire soldati nell’anno del consolato
di Quinto Fabio e di Quinto Fulvio [209 a.C.], beneficiavano ormai da sei anni dell’esenzione da
obblighi militari, come se fosse un onore e un privilegio loro accordato, mentre gli altri alleati buoni
e obbedienti, in cambio della fedeltà e della devozione al popolo romano, erano esausti dalle
continue leve di tutti quegli anni. A questo proposito, non solo si rinnovò nei senatori il ricordo di
un fatto ormai quasi dimenticato, ma anche e più si riaccese la loro ira. Perciò, non lasciando che i
consoli proponessero la discussione di altre proposte, decretarono che i consoli convocassero a
Roma i magistrati e dieci notabili di ciascuna delle colonie incriminate: Nepi, Sutri, Ardea, Cales,
Alba, Cerseoli, Sora, Suessa, Sezze, Circeo, Narni, Interamna. Si doveva intimare a queste di
fornire un numero di fanti doppio di quello che avrebbe dovuto dare al popolo romano dal momento
in cui erano entrati in Italia i nemici, più centoventi cavalieri; se qualcuna non poteva arrivare a quel
numero di cavalieri, le si doveva permettere di dare tre fanti al posto di ogni cavaliere mancante;
cavalieri e fanti andavano scelti tra i più ricchi e andavano inviati ovunque servissero rinforzi fuori
d’Italia; se alcuni si fossero rifiutati, si sarebbero trattenuti i magistrati e gli inviati di quella colonia
e non si sarebbe data loro udienza in senato, neanche dietro precisa richiesta, prima che avessero
ottemperato agli ordini; si doveva inoltre imporre a quelle colonie un tributo annuale dell’uno per
mille sui patrimoni e il censimento di esse andava eseguito secondo la formula indetta dai censori
romani (e si volle che fosse la stessa che si adottava per la popolazione romana); i risultati del
censimento dovevano essere portati a Roma dai censori giurati delle colonie, prima che uscissero di
carica. Per questo decreto del senato vennero convocati a Roma i magistrati e i notabili di quelle
colonie e i consoli intimarono loro il tributo di uomini e di denaro. Costoro fecero a gara nel
rifiutarsi e nell’opporsi a gran voce: dicevano di non poter radunare così tanti soldati; a stento
sarebbero riusciti a mettere insieme il solo numero previsto dalla formula. Pregavano e imploravano
che si concedesse loro di presentarsi in senato e di supplicarlo. Sostenevano di non aver fatto nulla
per cui meritassero di perire; ma, se anche dovessero perire, né la loro colpa né l’ira del popolo
romano avrebbe potuto fare sì che fornissero più uomini di quelli che avevano. I consoli,
inflessibili, trattennero a Roma gli inviati, rimandando i magistrati nelle loro sedi per procedere
all’arruolamento: se non avessero mandato a Roma tutti i soldati richiesti, nessuno li avrebbe fatti
ammettere in senato. Caduta così la loro speranza di essere ricevuti in senato e di supplicarlo, quelle
dodici colonie, dove la lunga esenzione aveva di parecchio accresciuto il numero dei giovani,
completarono l’arruolamento senza difficoltà.
(19) Liv. 39.3.4-6: legatis deinde sociorum Latini nominis, qui toto undique ex Latio frequentes
convenerant, senatus datus est. his querentibus magnam multitudinem civium suorum Romam
commigrasse et ibi censos esse, Q. Terentio Culleoni praetori negotium datum est, ut eos
conquireret, et quem C. Claudio M. Livio censoribus postve eos censores ipsum parentemve eius
apud se censum esse probassent socii, ut redire eo cogeret, ubi censi essent. hac conquisitione
duodecim milia Latinorum domos redierunt, iam tum multitudine alienigenarum urbem onerante.
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Gli inviati degli alleati Latini, che erano accorsi in gran numero da ogni parte del Lazio, furono
ricevuti in senato. Poiché costoro si lamentavano che un gran numero di cittadini delle loro città
erano immigrati a Roma e lì erano stati censiti, si conferì al pretore Quinto Terenzio Culleone
l’incarico di ricercarli: quelli nei confronti dei quali gli alleati erano in grado di provare che erano
stati censiti (loro stessi o i loro padri) nelle comunità alleate durante la censura di Gaio Claudio e
Marco Livio o successiva, il pretore doveva obbligarli a tornare laddove erano stati censiti. In
seguito a questa indagine, dodicimila Latini rientrarono nelle loro città: già allora un gran folla di
stranieri riempiva l’Urbe.
(20) Liv. 41.8.6-12: moverunt senatum et legationes socium nominis Latini, quae et censores et
priores consules fatigaverant, tandem in senatum introductae. summa querellarum erat, cives suos
Romae censos plerosque Romam commigrasse; quod si permittatur, perpaucis lustris futurum, ut
deserta oppida, deserti agri nullum militem dare possint. Fregellas quoque milia quattuor
familiarum transisse ab se Samnites Paelignique querebantur, neque eo minus aut hos aut illos in
dilectu militum dare. genera autem fraudis duo mutandae viritim civitatis inducta erant. lex sociis
[ac] nominis Latini, qui stirpem ex sese domi relinquerent, dabat, ut cives Romani fierent. ea lege
male utendo alii sociis, alii populo Romano iniuriam faciebant. nam et ne stirpem domi
relinquerent, liberos suos quibuslibet Romanis in eam condicionem, ut manu mitterentur, mancipio
dabant, libertinique cives essent; et quibus stirps deesset, quam relinquerent, ut cives Romani [lac.]
fiebant. postea his quoque imaginibus iuris spretis, promiscue sine lege, sine stirpe in civitatem
Romanam per migrationem et censum transibant. haec ne postea fierent, petebant legati, et ut
redire in civitates iuberent socios; deinde ut lege caverent, ne quis quem civitatis mutandae causa
suum faceret neve alienaret; et si quis ita civis Romanus factus esset, <civis ne esset>. haec
impetrata ab senatu.
Provocarono sconcerto in senato anche le delegazioni degli alleati di diritto latino, ai quali fu infine
concessa udienza dopo che avevano tormentato i censori e i precedenti consoli. In buona sostanza,
essi si lamentavano del fatto che alcuni loro concittadini fossero stati censiti a Roma e vi si fossero
trasferiti; se la cosa veniva ulteriormente tollerata, in pochissimi lustri le loro città sarebbero rimaste
deserte e i campi abbandonati non avrebbero più fornito alcun soldato; i Sanniti e i Peligni
lamentavano a loro volta di essere stati abbandonati da quattromila famiglie che erano passate a
Fregelle e non per questo, né gli uni né gli altri offrivano, in occasione degli arruolamenti, un minor
numero di soldati. Erano stati introdotti due sistemi fraudolenti che consentivano ai singoli di
cambiare la cittadinanza. La legge concedeva agli alleati il diritto di diventare cittadini romani se
lasciavano a casa loro dei figli maschi; utilizzando quella legge in modo fraudolento, alcuni
imbrogliavano gli alleati, altri il popolo romano: infatti, per non lasciare i propri figli in patria li
offrivano come schiavi a un romano qualunque, alla condizione che costui li liberasse facendone dei
cittadini della classe dei liberti. Coloro che invece non avevano figli maschi da lasciare per [lacuna]
diventavano cittadini romani. In seguito, anche questa parvenza di legalità venne del tutto
trascurata: senza alcuna discriminazione, fuori da qualsiasi legalità, in assenza di figli maschi
avveniva il passaggio alla cittadinanza romana, semplicemente immigrando in città e facendovisi
censire. I delegati chiedevano che questo pratica cessasse e che si obbligassero gli alleati a rientrare
nelle loro città; chiedevano anche che venisse proibito per legge che uno, allo scopo di cambiare
cittadinanza, potesse adottare un figlio o cederlo in schiavitù. Se qualcuno era divenuto cittadino
romano con questi sistemi, la sua posizione andava revocata. Il senato accolse le loro richieste.
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(21) Liv. 41.9.9-12: legem dein de sociis C. Claudius tulit <ex> senatus consulto et edixit, qui socii
[ac] nominis Latini, ipsi maioresve eorum, M. Claudio T. Quinctio censoribus postve ea apud socios
nominis Latini censi essent, ut omnes in suam quisque civitatem ante kal. Novembres redirent.
quaestio, qui ita non redissent, L. Mummio praetori decreta est. ad legem et edictum consulis
senatus consultum adiectum est, ut dictator, consul, interrex, censor, praetor, qui nunc esset <quive
postea futurus esset>, apud eorum quem <qui> manu mitteretur, in libertatem vindicaretur, ut ius
iurandum daret, qui eum manu mitteret, civitatis mutandae causa manu non mittere; in quo id non
iuraret, eum manu mittendum non censuerunt. haec in posterum cauta iussique edicto C. Claudi
cons. [lac.] Claudio decreta est.
Gaio Claudio propose una legge sugli alleati e, dietro parere del senato, decretò che gli alleati di
diritto latino che fossero stati censiti (essi in persona o i loro antenati) presso gli alleati di diritto
latino dalla censura di Marco Claudio e Toto Quinzio in poi, dovevano rientrare nelle proprie città
entro il 31 ottobre. L’istruzione del processo a coloro che non avessero fatto ritorno alla scadenza
fissata venne assegnata al pretore Lucio Mummio. Alla legge e all’editto del console seguì un
senatoconsulto: quando uno veniva liberato e affrancato davanti a un dittatore, a un console, a un
interré, a un censore, a un pretore in carica in quel momento o in futuro, colui che procedeva
all’affrancamento doveva giurare che l’affrancamento non avveniva per consentire un cambio di
cittadinanza. E dunque si dispose che non si potesse affrancare quello schiavo per cui tale
giuramento non venisse pronunciato. In questo modo ci si cautelò per il futuro e, in base all’editto
del console Gaio Claudio, ricevettero l’ordine [lacuna] fu assegnato a Claudio.
(22) Liv. 42.10.1-3: Eo anno lustrum conditum est; censores erant Q. Fulvius <Flaccus A.
Postumius> Albinus; Postumius condidit. censa sunt civium Romanorum capita ducenta sexaginta
novem milia et quindecim, minor aliquanto numerus, quia L. Postumius consul pro contione
edixerat, qui socium Latini nominis ex edicto C. Claudi consulis redire in civitates suas debuissent,
ne quis eorum Romae, et omnes in suis civitatibus censerentur.
In quell’anno [173 a.C.] fu completato il lustrum. Erano censori Quinto Fulvio Flacco e Aulo
Postumio Albino, lo completò Postumio. Furono censiti 269.015 cittadini: un numero abbastanza
inferiore al precedente, poiché il console Lucio Postumio aveva proclamato in assemblea che quei
Latini che, in base all’editto del console Gaio Claudio, dovevano rientrare nelle loro città non
fossero censiti a Roma, ma tutti nelle proprie città.
(23) Liv. 26.16.5-10: Capuam a Calibus reditum est, Atellaque et Calatia in deditionem acceptae;
ibi quoque in eos qui capita rerum erant animaduersum. ita ad septuaginta principes senatus
interfecti, trecenti ferme nobiles Campani in carcerem conditi, alii per sociorum Latini nominis
urbes in custodias dati, uariis casibus interierunt: multitudo alia ciuium Campanorum uenum data.
de urbe agroque reliqua consultatio fuit, quibusdam delendam censentibus urbem praeualidam
propinquam inimicam. ceterum praesens utilitas uicit; nam propter agrum, quem omni fertilitate
terrae satis constabat primum in Italia esse, urbs seruata est ut esset aliqua aratorum sedes. urbi
frequentandae multitudo incolarum libertinorumque et institorum opificumque retenta: ager omnis
et tecta publica populi Romani facta. ceterum habitari tantum tamquam urbem Capuam
frequentarique placuit, corpus nullum ciuitatis nec senatum nec plebis concilium nec magistratus
esse: sine consilio publico, sine imperio multitudinem nullius rei inter se sociam ad consensum
inhabilem fore; praefectum ad iura reddenda ab Roma quotannis missuros. (cfr. la traduzione nel
volume di J.-M. David, La romanizzazione dell’Italia, Roma-Bari, Laterza, 2002)
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(24) Liv. 38.36.5: Campani, cum eos ex senatus consulto, quod priore anno factum erat, censores
Romae censeri coegissent – nam antea incertum fuerat, ubi censerentur –, petierunt, ut sibi ciues
Romanas ducere uxores liceret, et, si qui prius duxissent, ut habere eas, et nati ante eam diem uti
iusti sibi liberi heredesque essent. Vtraque res impetrata.
[188 a.C.] I Campani, poiché i censori, in ottemperanza al senatoconsulto emesso l’anno
precedente, li avevano obbligati a farsi censire in Roma (prima infatti non era stato definito dove
censirli), chiesero di essere autorizzati a sposare delle cittadine romane e, nel caso qualcuno
l’avesse già fatto, di poterle tenere e che i figli nati prima di allora fossero considerati legittimi e
liberamente destinabili come eredi. Entrambe le richieste furono soddisfatte.
(25) Liv. 41.13.7-8: [Claudius] triumphauit in magistratu de duabus simul gentibus. tulit in eo
triumpho denarium trecenta septem milia et uictoriatum octoginta quinque milia septingentos duos.
militibus in singulos quini deni denarii dati, duplex centurioni, triplex equiti. sociis dimidio minus
quam ciuibus datum. itaque taciti, ut iratos esse sentires, secuti sunt currum.
[C. Claudio] mentre era ancora in carica celebrò un unico trionfo su entrambe le popolazioni
[dell’Istria e della Liguria]. In quel trionfo portò 307.000 denari e 85.702 vittoriati; a ogni soldato
vennero dati 15 denari, il doppio ai centurioni, il triplo ai cavalieri; agli alleati la metà in meno
rispetto ai cittadini: perciò costoro seguirono il corteo in silenzio, sicché avresti potuto percepire il
loro sdegno.
(26) Liv. 42.4.4: eodem anno, cum agri Ligustini et Gallici, quod bello captum erat, aliquantum
uacaret, senatus consultum factum, ut is ager uiritim diuideretur. decemuiros in eam <rem> ex
senatus consulto creauit A. Atilius praetor urbanus [...] diuiserunt dena iugera in singulos, sociis
nominis Latini terna.
Nello stesso anno [173 a.C.], poiché era disponibile una discreta quantità di terra, che era stato
sottratta ai Galli e ai Liguri in conseguenza della guerra, con senatoconsulto si stabilì che fosse
distribuita a titolo individuale. In ottemperanza al senatoconsulto, il pretore urbano Aulo Atilio
nominò dieci uomini incaricati della questione [...], costoro distribuirono dieci iugeri a testa, tre agli
alleati di diritto latino.
(27) Vell. 2.2.3: P. Mucio Scaeuola L. Calpurnio consulibus, abhinc annos CLXII, [Ti. Gracchus]
desciuit a bonis, pollicitusque toti Italiae ciuitatem, simul etiam promulgatis agrariis legibus,
omnibus statum concupiscentibus, summa imis miscuit et in praeruptum atque anceps periculum
adduxit rem publicam.
162 anni fa, durante il consolato di Publio Mucio Scevola e di Lucio Calpurnio [133 a.C.], il tribuno
della plebe Tiberio Gracco si staccò dagli onesti: offrì la cittadinanza all’Italia intera, e intanto fece
approvare leggi agrarie che tutti desideravano vedere immediatamente in funzione. Così facendo
mise sottosopra la res publica e la gettò in un grande e grave pericolo.
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(28) Ascon. Pison., p. 3 Clark : Magnopere me haesitare confiteor quid sit qua re Cicero
Placentiam municipium esse dicat. Video enim in annalibus eorum qui Punicum bellum secundum
scripserunt tradi Placentiam coloniam deductam pridie Kal. Iun. primo anno eius belli, P. Cornelio
Scipione, patre Africani prioris, Ti.Sempronio Longo coss. Neque illud dici potest, sic eam coloniam
esse deductam quemadmodum post plures aetates Cn. Pompeius Strabo, pater Cn. Pompei Magni,
Transpadanas colonias deduxerit. Pompeius enim non novis colonis eas constituit sed veteribus
incolis manentibus ius dedit Latii, ut possent habere ius quod ceterae Latinae coloniae, id est ut
petendo magistratus civitatem Romanam adipiscerentur. Placentiam autem sex milia hominum novi
coloni deducti sunt, in quibus equites ducenti. Deducendi fuit causa ut opponerentur Gallis qui eam
partem Italiae tenebant. Deduxerunt IIIviri P. Cornelius Asina, P. Papirius Maso, Cn. Cornelius
Scipio. Eamque coloniam LIII [lac.] deductam esse invenimus: deducta est autem Latina. Duo porro
genera earum coloniarum quae a populo Romano deductae sunt fuerunt, ut Quiritium aliae, aliae
Latinorum essent. De se autem optime meritos Placentinos ait, quod illi quoque honoratissima
decreta erga Ciceronem fecerunt certaveruntque in ea re cum tota Italia, cum de reditu eius actum
est.
Confesso che non mi è chiara la ragione per la quale Cicerone definisce Piacenza un municipio.
Negli annali di coloro che narrarono la seconda guerra punica leggo che Piacenza è definita una
colonia, dedotta il giorno precedente le calende di giugno del primo anno di guerra [= 31 maggio
218 a.C.], sotto il consolato di Publio Cornelio Scipione, padre dell’Africano maggiore, e di Tiberio
Sempronio Longo. E non si può neanche affermare che la colonia fu dedotta con la stessa procedura
adottata in Transpadana molto più tardi da Gneo Pompeo Strabone, padre del grande Pompeo.
Pompeo infatti non le fondò con l’invio di nuovi coloni, ma concesse il diritto latino agli abitanti
precedenti, in modo che costoro potessero avere lo stesso diritto delle altre colonie latine, cioè
quello di ottenere la cittadinanza romana assumendo le cariche locali. Tuttavia Piacenza ottenne
l’invio di seimila nuovi coloni, tra i quali c’erano duecento cavalieri. Causa della deduzione fu la
necessità di contrastare i Galli che occupavano quella parte d’Italia. La dedussero tre incaricati:
Publio Cornelio Asina, Publio Papirio Masone, Gneo Cornelio Scipione. E leggiamo che quella
colonia fu dedotta 53 [lacuna]: ma era una colonia latina. Inoltre, esistevano due tipi di colonie
dedotte dal popolo romano: quelle di diritto romano e quelle di diritto latino. Cicerone dice che i
Piacentini gli fecero un gran servigio, dal momento che, al suo ritorno dall’esilio, approvarono un
bellissimo decreto nei suoi riguardi, e in questo fecero a gara con l’Italia intera.
(29) Vell. 2.15.1-3: Mors Drusi iam pridem tumescens bellum excitavit Italicum; quippe L. Caesare
et P. Rutilio consulibus abhinc annos centum viginti, universa Italia, cum id malum ab Asculanis
ortum esset (quippe Servilium praetorem Fonteiumque legatum occiderant) ac deinde a Marsis
exceptum in omnis penetrasset regiones, arma adversus Romanos cepit. Quorum ut fortuna atrox,
ita causa fuit iustissima: petebant enim eam civitatem, cuius imperium armis tuebantur: per omnis
annos atque omnia bella duplici numero se militum equitumque fungi neque in eius civitatis ius
recipi, quae per eos in id ipsum pervenisset fastigium, per quod homines eiusdem et gentis et
sanguinis ut externos alienosque fastidire posset. Id bellum amplius trecenta milia iuventutis
Italicae abstulit.
La morte di Druso scatenò la guerra degli Italici che da tempo covava sotto la cenere. Centoventi
anni fa, sotto il consolato di Lucio Cesare e Publio Rutilio, l’Italia intera prese le armi contro i
Romani: la rivolta partì dagli abitanti di Ascoli (con l’uccisione del pretore Servilio e del legato
Fonteio) e poi si estese ai Marsi e da lì in tutte le altre zone. Gli eventi furono tanto atroci quanto
giustissima era la causa: chiedevano infatti quella cittadinanza, la cui supremazia difendevano con
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le armi. Ogni anno, in ogni guerra, fornivano il doppio dei fanti e di cavalieri, ma non ricevevano la
cittadinanza di quello stato che, grazie a loro, aveva raggiunto un tale livello da permettersi di
guardare dall’alto in basso uomini della stessa stirpe e dello stesso sangue, come se fossero estranei
e stranieri. Questa guerra si portò via più di trecentomila giovani in Italia.
(30) Iustin. 38.4.13: Ac ne veteribus inmoremur exemplis, hoc ipso tempore universam Italiam
bello Marsico consurrexisse, non iam libertatem, sed consortium imperii civitatisque poscentem.
Ma, tralasciando gli esempi passati, in questo stesso tempo l’Italia intera insorse nella guerra dei
Marsi, non già per chiedere la libertà, bensì la partecipazione all’impero e la cittadinanza.
(31) Flor. 2.6: Sociale bellum vocetur licet, ut extenuemus invidiam; si verum tamen volumus, illud
civile bellum fuit. quippe cum populus Romanus Etruscos, Latinos Sabinosque sibi miscuerit et
unum ex omnibus sanguinem ducat, corpus fecit ex membris et ex omnibus unus est; nec minore
flagitio socii intra Italiam quam intra urbem cives rebellabant. itaque cum ius civitatis, quam
viribus auxerant, socii iustissime postularent, quam in spem eos cupidine dominationis Drusus
erexerat, postquam ille domestico scelere oppressus est, eadem fax, quae illum cremavit, socios in
arma et in expugnationem urbis accendit.
Chiamiamola pure guerra sociale per sminuire l’odio; ma se proprio vogliamo dire la verità, quella
fu una guerra civile. Difatti essendosi il popolo romano mescolato con Etruschi, Latini, Sabini e
vantando la propria discendenza da tutti loro, fece un unico corpo da queste varie membra ed è un
unico popolo composto da tutti. La rivolta degli alleati in Italia era una tragedia non minore di una
rivolta dei cittadini nell’Urbe. Perciò gli alleati molto giustamente richiedevano la cittadinanza di
quello stato che avevano reso grande con le loro forze. Druso aveva sollecitato in loro questa
speranza per brama di potere; dopo che costui fu assassinato dai suoi concittadini, la stessa torcia
che lo cremò accese gli alleati, spingendoli a prendere le armi e ad attaccare l’Urbe.
(32) Cic. Philipp. 12.27: Cn. Pompeius, Sexti filius, consul me praesente, cum essem tiro in eius
exercitu, cum P. Vettio Scatone, duce Marsorum, inter bina castra conlocutus est: quo quidem
<die> memini Sex. Pompeium, fratrem consulis, ad conloquium ipsum Roma venire, doctum virum
atque sapientem. Quem cum Scato salutasset, ‘Quem te appellem?’ inquit. At ille ‘Voluntate
hospitem, necessitate hostem.’ Erat in illo conloquio aequitas; nullus timor, nulla suberat suspicio;
mediocre etiam odium. Non enim ut eriperent nobis socii civitatem, sed ut in eam reciperentur
petebant.
Il console Gneo Pompeo, figlio di Sesto, in mia presenza, quando una giovane recluta nel suo
esercito, ebbe un incontro con Publio Vezio Scatone, comandante dei Marsi, tra i due
accampamenti. E mi ricordo di Sesto Pompeo, fratello del console, uomo colto e saggio, che venne
da Roma a quello stesso incontro. E quando Scatone lo salutò, egli gli chiese: «Come ti devo
chiamare?». L’altro rispose: «Uno che per desiderio è amico, ma per necessità nemico». In
quell’incontro vigeva l’equità: nessuna paura, nessun sospetto, persino l’odio era contenuto. Gli
alleati non cercavano di strapparci la nostra città, ma chiedevano di essere accolti in essa.
(33) Liv. Per. 86.3: Sulla cum Italicis populis, ne timeretur ab his velut erepturus civitatem et
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suffragii ius nuper datum, foedus percussit.
Silla concluse un trattato con i popoli italici affinché non si temesse che avrebbe infranto i diritti di
cittadinanza e di voto che questi avevano da poco ottenuto.
(34) Sisenna frg. 17 Peter: Lucius Calpurnius Piso ex senati consulto duas nouas tribus... frg.
120: milites, ut lex Calpurnia concesserat, uirtutis ergo ciuitate donari.
Lucio Calpurnio Pisone, dietro senatoconsulto, due nuove tribù... i soldati ammessi nell’esercito in
base alla legge Calpurnia ottennero dunque la cittadinanza per il loro valore.
(35) Vell. 2.20.2: Non erat Mario Sulpicioque Cinna temperatior. Itaque cum ita civitas Italiae data
esset, ut in octo tribus contribuerentur novi cives, ne potentia eorum et multitudo veterum civium
dignitatem frangeret plusque possent recepti in beneficium quam auctores beneficii, Cinna in
omnibus tribubus eos se distributurum pollicitus est: quo nomine ingentem totius Italiae
frequentiam in urbem acciverat.
Cinna non era più moderato di Mario e di Sulpicio. Di conseguenza, poiché la cittadinanza era stata
concessa all’Italia in modo tale che i nuovi cittadini venissero iscritti solo in otto tribù – ciò per
evitare che il loro potere e il loro numero infrangesse il prestigio dei vecchi cittadini e che i
beneficiati avessero una forza maggiore dei benefattori –, Cinna promise di lasciarli registrare in
tutte le tribù: con questo progetto aveva fatto affluire in città moltissima gente da tutta Italia.
(36) App. BC 1.49.212-215: αἰσθόμενοι δ' αὐτῶν οἱ ἐπὶ θάτερα τῆς Ῥώμης Τυρρηνοὶ καὶ Ὀμβρικοὶ
καὶ ἄλλα τινὰ αὐτοῖς ἔθνη γειτονεύοντα, πάντες ἐς ἀπόστασιν ἠρεθίζοντο. δείσασα οὖν ἡ βουλή, μὴ
ἐν κύκλῳ γενόμενος αὐτοῖς ὁ πόλεμος ἀφύλακτος ᾖ, τὴν μὲν θάλασσαν ἐφρούρει τὴν ἀπὸ Κύμης
ἐπὶ τὸ ἄστυ δι' ἀπελευθέρων, τότε πρῶτον ἐς στρατείαν δι' ἀπορίαν ἀνδρῶν καταλεγέντων,
Ἰταλιωτῶν δὲ τοὺς ἔτι ἐν τῇ συμμαχίᾳ παραμένοντας ἐψηφίσατο εἶναι πολίτας, οὗ δὴ μάλιστα
μόνου πάντες ἐπεθύμουν. καὶ τάδε ἐς Τυρρηνοὺς περιέπεμπεν, οἱ δὲ ἄσμενοι τῆς πολιτείας
μετελάμβανον. καὶ τῇδε τῇ χάριτι ἡ βουλὴ τοὺς μὲν εὔνους εὐνουστέρους ἐποίησε, τοὺς δὲ
ἐνδοιάζοντας ἐβεβαιώσατο, τοὺς δὲ πολεμοῦντας ἐλπίδι τινὶ τῶν ὁμοίων πραοτέρους ἐποίησεν.
Ῥωμαῖοι μὲν δὴ τούσδε τοὺς νεοπολίτας οὐκ ἐς τὰς πέντε καὶ τριάκοντα φυλάς, αἳ τότε ἦσαν
αὐτοῖς, κατέλεξαν, ἵνα μὴ τῶν ἀρχαίων πλέονες ὄντες ἐν ταῖς χειροτονίαις ἐπικρατοῖεν, ἀλλὰ
δεκατεύοντες ἀπέφηναν ἑτέρας, ἐν αἷς ἐχειροτόνουν ἔσχατοι. καὶ πολλάκις αὐτῶν ἡ ψῆφος ἀχρεῖος
ἦν, ἅτε τῶν πέντε καὶ τριάκοντα προτέρων τε καλουμένων καὶ οὐσῶν ὑπὲρ ἥμισυ. ὅπερ ἢ λαθὸν
αὐτίκα ἢ καὶ ὣς αὐτὸ ἀγαπησάντων τῶν Ἰταλιωτῶν ὕστερον ἐπιγνωσθὲν ἑτέρας στάσεως ἦρξεν.
Gli abitanti dell’Etruria, dell’Umbria e di altre zone vicine a Roma, sentito ciò, si ribellarono. Il
senato, per paura di essere circondato dalla guerra e di trovarsi indifeso, fece presidiare la costa da
Cuma a Roma da liberti, che venivano allora arruolati per la prima volta a causa della penuria di
soldati. Il senato stabilì anche che gli Italici rimasti fedeli all’alleanza ottenessero la cittadinanza:
era la cosa che tutti desideravano di più. Diffusero questo decreto presso gli Etruschi, che volentieri
accettarono la cittadinanza. Con questo provvedimento il senato rese più fedeli gli alleati già fedeli,
rafforzò coloro che esitavano e allettò i nemici con la speranza di un trattamento simile. I Romani
non iscrissero i nuovi cittadini nelle trentacinque tribù esistenti, al fine di non dar loro maggior
potere nelle votazioni, essendo essi più numerosi, ma li incorporò in dieci nuove tribù, che votavano
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per ultime. Così capitò spesso che il loro voto fosse inutile, dal momento che la maggioranza veniva
raggiunta dalle trentacinque tribù che votavano per prime. Gli Italici in un primo momento o non se
ne resero conto, oppure erano soddisfatti di ciò che avevano ottenuto, ma la questione fu sollevata
in seguito e divenne motivo per un nuovo conflitto.
(37) Liv. 42.1.6: Priusquam in <provincias> magistratus proficiscerentur, senatui placuit, L.
Postumium consulem ad agrum publicum a privato terminandum in Campaniam ire, cuius ingentem
modum possidere privatos paulatim proferendo fines constabat.
[173 a.C.] Prima che i magistrati partissero alla volta delle loro destinazioni, il senato stabilì che il
console Lucio Postumio si recasse in Campania a definire i confini tra terreno privato e pubblico,
poiché risultava che alcune persone possedessero un’ingente quantità di quest’ultimo, ottenuto
spostando poco per volta i confini.
(38) Liv. 42.19.1-2: Eodem anno, quia per recognitionem Postumi consulis magna pars agri
Campani, quem privati sine discrimine passim possederant, recuperata in publicum erat, M.
Lucretius tribunus plebis promulgavit, ut agrum Campanum censores fruendum locarent, quod
factum tot annis post captam Capuam non fuerat, ut in vacuo vageretur cupiditas privatorum.
In quello stesso anno [172 a.C.], poiché la ricognizione del console Postumio aveva permesso di
recuperare gran parte dell’agro pubblico in Campania che i privati possedevano qua e là senza titoli,
il tribuno della plebe Marco Lucrezio propose che i censori mettessero in affitto l’agro Campano,
affinché venisse sfruttato, cosa che non era stata ancora fatta dai tempi della presa di Capua,
cosicché l’avidità dei privati si era rivolta ai terreni non assegnati.
(39) Cic. agr. 2.82: Cum a maioribus nostris P. Lentulus, qui princeps senatus <fuit>, in ea loca
missus esset ut privatos agros qui in publicum Campanum incurrebant pecunia publica coemeret,
dicitur renuntiasse nulla se pecunia fundum cuiusdam emere potuisse [...]
Quando Publio Lentulo, che poi divenne primo senatore, fu inviato dai nostri antenati [nel 165 a.C.]
per acquistare a spese dello stato quei terreni privati che confinavano con l’agro pubblico in
Campania, si dice che alcuni terreni non sia riuscito a comprarli a nessun prezzo [...]
(40) Roman Statutes I, nr. 2 (Lex agraria)
ll. 13-14: quei ager locus publicus populi Romanei in terra Italia P. Muucio L. Calpurnio
co(n)s(ulibus) fuit, extra eum agrum, quei ager ex lege pl[ebei]ve sc(ito), q[uod C. Sempronius Ti. f.
tr(ibunus) pl(ebis) rog(avit), exceptum cavitumque est, nei divideretur, e]xtra eum agrum, quem
vetus possessor ex lege plebeive [sc(ito) --- sei quis post hanc legem rogatam agri colendi cau]sa in
eum agrum agri iugra non amplius XXX possidebit habebitve, <i>s ager privatus esto.
Quel terreno o porzione di terreno pubblico del popolo romano che c’era in Italia nell’anno del
consolato di Publio Mucio e Lucio Calpurnio [133 a.C.], eccetto quel terreno che la legge o
plebiscito di Gaio Sempronio, figlio di Tiberio, escluse dalle divisioni, eccetto quel terreno che un
vecchio possessore in base alla legge o plebiscito [...] se qualcuno, dopo l’approvazione di questa
legge a favore dell’agricoltura, ha o possiede non più di 30 iugeri di quel suddetto terreno, diventi
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esso privato.
l. 15: ager publicus populi Romanei, quei in Italia P(ublio) Mucio L(ucio) Calpurnio co(n)s(ulibus)
fuit, eius ag//r//i IIIvir a(gris) d(andis) a(dsignandis) ex lege plebeive scito sortito quoi ceivi
Roma[no quod dedit adsignavit]
Il terreno pubblico del popolo romano che c’era in Italia nell’anno del consolato di Publio Mucio e
Lucio Calpurnio [133 a.C.], ciò che di questo terreno un commissario agrario abbia dato o assegnato
a un cittadino romano in base alla leggeo plebiscito [...]
(41) App. BC 1.11 [46]: μισθὸν ἅμα τῆς πεπονημένης ἐξεργασίας αὐτάρκη φερομένους τὴν
ἐξαίρετον ἄνευ τιμῆς κτῆσιν ἐς αἰεὶ βέβαιον ἑκάστῳ πεντακοσίων πλέθρων, καὶ παισίν, οἷς εἰσὶ
παῖδες, ἑκάστῳ καὶ τούτων τὰ ἡμίσεα.
Come ricompensa sufficiente per i lavori spesi, ogni possessore avrebbe avuto il possesso,
esclusivo, senza alcun pagamento e per sempre irrevocabile, di 500 iugeri e per i figli, chi ne
avesse, altri 250 ciascuno. (trad. E. GABBA)
(42) App. BC 1.18-19: Ucciso Gracco e deceduto Appio Claudio, furono nominati al loro posto nel
triumvirato agrario, con il più giovane Gracco, Fulvio Flacco e Papirio Carbone, e poiché i
possessori di agro pubblico trascuravano di farne regolare dichiarazione, si bandì con un editto che
degli accusatori avrebbero potuto presentare denunzie. Si ebbe subito, allora, un gran numero di
difficili liti. E, difatti, quanto altro terreno, prossimo all’agro pubblico, era stato venduto o diviso fra
gli alleati, su di esso, per misurare l’agro pubblico, era necessario svolgere un’inchiesta: come era
stato venduto e come diviso. Ma non tutti avevano più i titoli di vendita o di assegnazione e quelli
che si ritrovavano erano dubbi. Rifatta, inoltre, la misurazione dei terreni, taluni possessori
venivano trasferiti, da un terreno a piantagioni e fornito di cascine, a terreni nudi; taluni da zone
fruttifere ad altre sterili e piene di paludi e pantani: difatti, originariamente, non si era fatto la
divisione con esattezza, trattandosi di terreni conquistati. Inoltre, la disposizione che consentiva a
chi voleva di lavorare la terra indivisa aveva indotto molti a lavorare le terre vicine alle proprie,
confondendo, cosi, la distinzione fra le pubbliche e le private. Il passar del tempo aveva, poi, mutato
ogni cosa. E l’ingiustizia dei ricchi, per quanto grande, era difficile a riconoscere. Cosi non vi era
altro che un generale trasferimento, poiché ognuno era trasportato e traslocato su terreni altrui. Gli
Italici non sopportando questa situazione e la rapidità con la quale i triumviri giudicavano in questa
materia, pregavano Cornelio Scipione, quello che aveva distrutto Cartagine, di farsi loro patrono
contro le ingiustizie. Egli, che li aveva conosciuti valorosissimi in guerra, non osò trascurarli e,
recatosi al Senato, non biasimò apertamente la legge di Gracco, per non disgustare il popolo, ma,
esposte le difficoltà, che ne derivavano, espresse il parere che le controversie non fossero decise, dai
triumviri, sospetti ai giudicandi, ma da altri. Con questa proposta riusci facilmente a convincere,
perché appariva giusta; e il console Tuditano fu incaricato della funzione giudicatrice. Ma egli,
accintosi all’impresa e vistone le difficoltà, intraprese una campagna contro gli Illiri, per aver cosi
un pretesto per non occuparsi dei giudizi. I triumviri agrari, poiché nessuno si presentava loro per i
giudizi, rimasero inattivi. (trad. E. GABBA).
(43) App. BC 1.27: Finì così la rivoluzione del secondo Gracco. Dopo non molto tempo fu
approvata una legge che concedeva agli assegnatari di vendere la propria porzione di terra, della cui
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inalienabilità tanto si continuava a disputare. (νόμος τε οὐ πολὺ ὕστερον ἐκυρώθη τὴν γῆν, ὑπὲρ ἧς
διεφέροντο, ἐξεῖναι πιπράσκειν τοῖς ἔχουσιν) Questa proibizione era stata stabilita dal primo
Gracco. Subito i ricchi si mettevano ad acquistare i lotti dai poveri o con vari pretesti ne li
privavano con la violenza. La condizione dei poveri diventò ancora peggiore, finché Spurio Torio,
tribuno della plebe, propose una legge, per la quale l’agro pubblico non fosse più oltre diviso, ma
restasse in possesso degli occupanti; che fosse pagato un canone al popolo su di esso e che le
somme cosi ricavate venissero distribuite (Σπούριος Θόριος δημαρχῶν εἰσηγήσατο νόμον, τὴν μὲν
γῆν μηκέτι διανέμειν, ἀλλ' εἶναι τῶν ἐχόντων, καὶ φόρους ὑπὲρ αὐτῆς τῷ δήμῳ κατατίθεσθαι καὶ
τάδε τὰ χρήματα χωρεῖν ἐς διανομάς). Questa misura rappresentava una certa qual consolazione per
i poveri a causa della distribuzione di denaro, ma non era utile per l’incremento della popolazione
(ἐς πολυπληθίαν). Fu resa nulla una volta per sempre con questi artifici la legge di Gracco, che
sarebbe stata ottima e molto utile, se avesse potuto trovare applicazione; e non molto dopo un altro
tribuno abolì anche il canone, cosicché il popolo perdette totalmente ogni cosa. Di conseguenza
rimasero ancor più di prima privi di cittadini e di soldati e dei proventi della terra e delle
distribuzioni di denaro e di leggi: questo accadde nei quindici anni successivi alla legislazione di
Gaio Gracco. (trad. E. GABBA)
(44) De viris illustribus 73.1: Lucius Apuleius Saturninus, tribunus plebis seditiosus, ut gratiam
Marianorum militum pararet, legem tulit, ut veteranis centena agri iugera in Africa dividerentur.
Lucio Apuleio Saturnino, il tribuno della plebe rivoluzionario, per ottenere il favore dei soldati di
Mario propose una legge che assegnava ai veterani cento iugeri di terra in Africa.
(45) App. BC 1.29 [130]: ὁ μὲν Ἀπουλήιος νόμον ἐσέφερε διαδάσασθαι γῆν, ὅσην ἐν τῇ νῦν ὑπὸ
Ῥωμαίων καλουμένῃ Γαλατίᾳ Κίμβροι γένος Κελτῶν κατειλήφεσαν, καὶ αὐτοὺς ὁ Μάριος ἔναγχος
ἐξελάσας τὴν γῆν ὡς οὐκέτι Γαλατῶν ἐς Ῥωμαίους περιεσπάκει.
Apuleio propose una legge, in base quale dovevano essere assegnate quelle terre, nella regione che i
Romani chiamano Gallia, delle quali i Cimbri, stirpe celtica, si erano impadroniti. Mario poco prima
con lo scacciarli aveva trasferito questo territorio, non più dei Galli, in potere del popolo romano.
(trad. E. GABBA)
(46) Cic. Pro Sulla 60-62: Iam vero quod obiecit Pompeianos esse a Sulla impulsos ut ad istam
coniurationem atque ad hoc nefarium facinus accederent, id cuius modi sit intellegere non possum.
An tibi Pompeiani coniurasse videntur? Quis hoc dixit umquam, aut quae fuit istius rei vel minima
suspicio? ‘Diiunxit,’ inquit, ‘eos a colonis ut hoc discidio ac dissensione facta oppidum in sua
potestate posset per Pompeianos habere.’ Primum omnis Pompeianorum colonorumque dissensio
delata ad patronos est, cum iam inveterasset ac multos annos esset agitata; deinde ita a patronis res
cognita est ut nulla in re a ceterorum sententiis Sulla dissenserit; postremo coloni ipsi sic
intellegunt, non Pompeianos a Sulla magis quam sese esse defensos. Atque hoc, iudices, ex hac
frequentia colonorum, honestissimorum hominum, intellegere potestis, qui adsunt, laborant, hunc
patronum, defensorem, custodem illius coloniae si in omni fortuna atque omni honore incolumem
habere non potuerunt, in hoc tamen casu in quo adflictus iacet per vos iuvari conservarique
cupiunt. Adsunt pari studio Pompeiani, qui ab istis etiam in crimen vocantur; qui ita de
ambulatione ac de suffragiis suis cum colonis dissenserunt ut idem de communi salute sentirent. Ac
ne haec quidem P. Sullae mihi videtur silentio praetereunda esse virtus, quod, cum ab hoc illa
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colonia deducta sit, et cum commoda colonorum a fortunis Pompeianorum rei publicae fortuna
diiunxerit, ita carus utrisque est atque iucundus ut non alteros demovisse sed utrosque constituisse
videatur.
E invero ciò che ha obiettato, che i Pompeiani sarebbero stati istigati da Silla ad aderire a questa
congiura e a questa azione scellerata, non sono in grado di comprendere come sarebbe avvenuto. A
te sembra che i Pompeiani abbiano congiurato? Chi ha mai detto questo o quando mai vi è stato il
minimo sospetto che sia avvenuta una cosa del genere? «Li ha separati dai coloni» – afferma – «al
fine di riuscire ad avere il controllo della città (oppidum) attraverso i Pompeiani grazie a questa
divisione e alle dispute che ne derivavano». Innanzitutto, tutta questa disputa tra Pompeiani e coloni
è stata rimessa nelle mani dei patroni della città, quando era già vecchia e durava da molti anni; in
secondo luogo, la questione è stata risolta dai patroni in modo tale che Silla non si è trovato in nulla
in disaccordo con gli altri patroni; infine i coloni stessi sono consapevoli che Silla non difende i
Pompeiani più di loro. E questo, o giudici, lo potete capire dalla presenza qui oggi di numerosi
coloni, persone onorevolissime, che si preoccupano per il loro patrono, difensore e guardiano della
colonia: se non sono riusciti a farlo rimanere intatto in ogni fortuna e onore, almeno sperano che sia
aiutato e salvato da voi in questa circostanza che l’affligge. Anche i Pompeiani, che non sono
risparmiati dagli stessi accusatori, sono qui con lo stesso impegno. Anche se hanno litigato con i
coloni a proposito dell’ambulatio e dei propri suffragia, la pensano allo stesso modo sul bene
comune. E neanche questo merito di Publio Silla mi sembra vada taciuto: nonostante che quella
colonia sia stata da lui fondata e nonostante che le circostanze abbiano imposto la separazione degli
interessi dei coloni dalle sorti dei Pompeiani, egli si fece amare e apprezzare così tanto dagli uni e
dagli altri, che sembrava non avesse rimosso un gruppo a favore dell’altro, ma li avesse consolidati
entrambi.
(47) CIL, I2 1627 = X 794: V(ibius) Popidius / Ep(idii) f(ilius) q(uaestor) / porticus / faciendas /
coeravit
Il questore Vibio Popidio, filio di Epidio, curò la realizzazione dei portici.
(48) CIL, I2 1631 = X 800: M(arcus) Porcius M(arci) f(ilius), L(ucius) Sextilius L(uci) f(ilius),
Cn(aeus) Cornelius Cn(aei) f(ilius), / A(ulus) Cornelius A(uli) f(ilius), ((quattuor)) vir(i) d(e)
d(ecurionum) s(ententia) f(aciundum) locar(unt)
I quattuorviri Marco Porcio, figlio di Marco, Lucio Sestilio, figlio di Lucio, Gneo Cornelio, figlio di
Gneo, e Aulo Cornelio, figlio di Aulo, appaltarono la realizzazione per ordine dei decurioni.
(49) CIL, I2 1630 = X 938: [- - -] Cuspius T(iti) f(ilius), M(arcus) Loreius M(arci) f(ilius), /
((quattuor)) vir(i), L(ucius) Septumius L(uci) f(ilius), / D(ecimus) Claudius D(ecimi) f(ilius)
((quattuor)) vir(i) ex / pequnia publica d(e) d(ecurionum) / s(ententia) f(aciundum) curaverunt
I quattuorviri [...] Cuspio, figlio di Tito, Marco Loreio, figlio di Marco, e i quattuorviri Lucio
Septumio, figlio di Lucio, Decimo Claudio, figlio di Decimo, curarono la realizzazione con denaro
pubblico per ordine dei decurioni.
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(50) CIL, V 2864: M(arcus) Iunius / Sabinus / ((quattuor)) vir / aedili/ciae potestat(e) / e lege Iulia
/ municipali / patronus [...]
Il patrono Marco Giunio Sabino, quattuorviro con potestà di edile ai sensi della legge Giulia
municipale...
(51) Roman Statutes I, nr. 24 (Tabula Heracleensis), ll. 159-163: [- - -] quei lege pl(ebei)ve sc(ito)
permissus est <f>uit, utei leges in municipio fundano [o Fundano] municipibusve eius municipi
daret, / sei qui<d> is post h(anc) l(egem) r(ogatam) in eo anno proxumo, quo h(anc) l(egem)
populus iuserit, ad eas leges <addiderit commutaverit conrexerit>, municipi{ei}s fundanos [o
Fundanos] / item teneto, utei oporteret, sei ea<e> res ab eo tum, quom primum leges eis
municipibus lege pl(ebei)ve sc(ito) dedit,/ ad eas leges additae commutatae conrectae essent, neve
quis interced<i>to neve quid facito, quo minus/ ea rata sint quove minus municipis Fundanos
tenea<n>t eisque optemperetur [- - -]
Chi è o è stato autorizzato con legge o plebiscito a stilare le leggi in un municipium fundanum [o nel
municipio di Fondi] o per i cittadini di quel municipio, se costui, dopo l’approvazione della presente
legge, ha aggiunto, modificato o corretto qualcosa in quelle leggi entro un anno dacché il popolo le
ha autorizzate, ciò sia vincolante per i cittadini di Fondi, come se fosse stato incluso nella prima
stesura autorizzata da legge o plebiscito. Nessuno ponga il veto o impedisca che tali aggiunte,
modifiche o correzioni alle leggi siano applicate e siano vincolanti per i municipes fundani [o per i
municipes di Fondi] e che ciascuno le osservi.
(52) CIL, IV 768 (Pompeii): M(arcum) Epidium Sabinum d(uovirum) i(ure) d(icundo) / o(ro) v(os)
f(aciatis) / dig(nus) est / defensorem coloniae ex sententia Suedi Clementis sancti iudicis / consensu
ordinis ob merita eius et probitatem dignum reipublicae faciat(is) / Sabinus dissignator cum plausu
facit
Votate Marco Epidio Sabino come duoviro giusdicente; è persona meritevole, difensore della
colonia a giudizio di Suedio Clemente, retto giudice; è degno di amministrare la città a parere del
consiglio cittadino, per i suoi meriti e per la sua onestà: votatelo! Sabino, la maschera degli
spettacoli, lo sostiene con l’applauso.
(53) CIL, IX 690 (Herdonia): - - - - - - / [- - - patrono?] / m[u]nicipi, aed(ili) / iur(e) dic(undo),
q(uaestori) bis, / ((quattuor))vir(o) i(ure) d(icundo) bis / q(uin)q(uennali), curat(ori) mu/neris bis, /
colleg(ium) mancip(um), / honor(e) cont(entus) impens(am) remisit / l(ocus) d(atus) d(ecreto)
d(ecurionum)
[…] al patrono [?] del municipio, edile con poteri giurisdizionali, due volte questore, quattuorviro
con poteri giurisdizionali per due volte, la seconda delle quali fu quattuorviro quinquennale,
curatore dello spettacolo gladiatorio per due volte, il collegio dei mancipes pose. (Il magistrato),
grato per l’onore ricevuto, provvide alla spesa. Luogo concesso per decreto dei decurioni.
(54) ILS, 5627: C(aius) Quinctius C(ai) f(ilius) Valgus, / M(arcus) Porcius M(arci) f(ilius),
duovir(i) / quinq(uennales) coloniai / honoris caussa spectacula de sua / peq(unia) fac(iunda)
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coer(averunt) et coloneis / locum in perpetuom deder(unt)
I duoviri quinquennali Gaio Quinzio Valgo, figlio di Gaio, e Marco Porcio, figlio di Marco, per
onorare la colonia curarono la realizzazione degli spettacoli pagando di tasca propria e diedero
questo luogo per sempre ai coloni.
(55) Cass. Dio 52.22.1-2: ὧδε γὰρ συμβουλεύω σοι διατάξαι. τήν τε Ἰταλίαν πᾶσαν τὴν ὑπὲρ
πεντήκοντα καὶ ἑπτακοσίους ἀπὸ τῆς πόλεως σταδίους οὖσαν, καὶ τἆλλα πάντα τά τε ἐν ταῖς νήσοις
καὶ τὰ ἐν ταῖς ἠπείροις ὁμολογοῦντα ἡμῖν, κατάνειμον ἑκασταχόθι κατά τε γένη καὶ ἔθνη, τάς <τε>
πόλεις ἁπάσας, ὅσας γε καὶ αὔταρκές ἐστιν ὑφ' ἑνὸς ἀνδρὸς αὐτοτελοῦς ἄρχεσθαι· κἀνταῦθα
στρατιώτας ἐγκατάστησον, καὶ ἄρχοντας καθ' ἑκάστους ἕνα μὲν ἐκ τῶν ὑπατευκότων ἐπὶ πᾶσι
πέμπε, δύο δὲ ἐκ τῶν ἐστρατηγηκότων, τὸν μὲν ἄρτι ἐκ τῆς πόλεως ἐξιόντα, καὶ αὐτῷ τά τε ἰδιωτικὰ
πράγματα καὶ ἡ τῶν ἐπιτηδείων παρασκευὴ προσκείσθω, τὸν δὲ ἐκ τῶν τοῦτο πεποιηκότων, ὃς τά
τε κοινὰ τῶν πόλεων διοικήσει καὶ τῶν στρατιωτῶν ἄρξει, πλὴν ὅσα ἀτιμίας ἢ θανάτου ἔχεται.
Infatti ti consiglio di riorganizzare le cose nel modo seguente. Prendi l’Italia intera, oltre il raggio di
settecentocinquanta stadi da Roma, e tutto il restante territorio soggetto al nostro dominio, isole e
continenti, e dividilo in parti, ciascuna secondo le genti (γένη) e i popoli (ἔθνη); e così anche quelle
città che sono autosufficienti e in grado di avere un governante con pieni poteri. Stanzia soldati e
invia come governatore in ciascuna parte o città autonoma un ex console, accompagnato da due ex
pretori: di questi ultimi, l’uno, da poco uscito di carica in Roma, dovrebbe essere incaricato di
gestire gli affari privati e gli approvvigionamenti, l’altro, dotato di competenze specifiche al
riguardo, dovrebbe occuparsi degli affari pubblici e avere il comando dei soldati, tranne il potere di
marchiare d’infamia e condannare a morte.
(56) Cass. Dio 52.22.6: καὶ μὴ θαυμάσῃς εἰ καὶ τὴν ᾿Ιταλίαν τοιαῦτα μέρη νεῖμαί σοι παραινῶ·
πολλή τε γὰρ καὶ πολυάνθρωπος οὖσα ἀδύνατός ἐστιν ὑπὸ τῶν ἐν τῷ ἄστει ἀρχόντων καλῶς
διοικεῖσθαι.
E non meravigliarti se ti consiglio di dividere anche l’Italia in questi distretti, dal momento che
essendo un territorio vasto e popoloso, è impossibile amministrarla bene da parte dei magistrati
della città.
(57) Plin. NH 3.46: Nunc ambitum eius [scil. Italiae] urbesque enumerabimus, qua in re praefari
necessarium est auctorem nos divum Augustum secuturos discriptionemque ab eo factam Italiae
totius in regiones XI, sed ordine eo, qui litorum tractu fiet; urbium quidem vicinitates oratione
utique praepropera servari non posse, itaque interiore parte digestionem in litteras eiusdem nos
secuturos, coloniarum mentione signatis [ms. signata], quas ille in eo prodidit numero.
Di questa [Italia] passeremo ora in rassegna il circuito e le città; a tal proposito è necessario
premettere che seguiremo come fonte il divino Augusto e la ripartizione da lui fatta di tutta l’Italia
in undici regioni, ma in quell’ordine che risulterà dal tracciato dei litorali; che non sarà possibile in
un discorso così affrettato mantenere i rapporti di vicinanza tra le città e che di conseguenza
nell’entroterra seguiremo l’elenco in ordine alfabetico redatto dallo stesso [Augusto],
contraddistinte con la denominazione di colonie quelle che egli ha segnalato in questa categoria.
(trad. U. LAFFI)
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(58) Plin. NH 7.162-164: Accedunt experimenta recentissimi census, quem intra quadriennium
Imperatores Caesares Vespasiani pater filiusque censores egerunt. nec sunt omnia vasaria
excutienda; mediae tantum partis inter Appenninum Padumque ponemus exempla: CXX annos
Parmae tres edidere, Brixilli unus, CXXV Parmae duo, CXXX Placentiae unus, Faventiae una
mulier, CXXXV Bononiae L. Terentius M. filius, Arimini vero M. Aponius CXL, Tertulla CXXXVII.
citra Placentiam in collibus oppidum est Veleiatum, in quo CX annos sex detulere, quattuor vero
centenos vicenos, unus CXL, M. Mucius M. filius Galeria Felix. Ac ne pluribus moremur in re
confessa, in regione Italiae octava centenum annorum censi sunt homines LIIII, centenum denum
homines XIIII, centenum vicenum quinum homines duo, centenum tricenum homines quattuor,
centenum quadragenum homines tres.
Si aggiungono i dati dell’ultimo censimento organizzato meno di quattro anni fa dagli imperatori
Vespasiano e Tito in qualità di censori. Non è necessario fare lo spoglio di tutti gli archivi;
sceglieremo esempi relativi soltanto all’area mediana tra l’Appennino e il Po: dichiararono l’età di
120 anni tre uomini a Parma, uno a Brescello, di 125 anni due a Parma, di 130 anni uno a Piacenza
e una donna a Faenza, di 135 anni a Bologna L. Terenzio figlio di Marco, a Rimini di 140 anni M.
Aponio e di 137 Tertulla. prima di arrivare a Piacenza nelle colline vi è la città di Veleia, nella quale
sei uomini dichiararono l’età di 110 anni, quattro di 120, uno di 140: M. Mucio, figlio di Marco,
della tribù Galeria, Felice. Per non attardarci più a lungo in dati tanto evidenti, nell’ottava regione
dell’Italia 54 uomini sono stati censiti con l’età di 100 anni, 14 uomini con l’età di 110, due uomini
con l’età di 125, quattro uomini con l’età di 130, altrettanti con l’età di 135 o 137 anni, tre uomini
con l’età di 140. (trad. U. LAFFI)
(59) CIL, V 5050 = ILS, 206 (Tabula Clesiana), ll. 22-37: Quod ad condicionem Anaunorum et
Tulliassium et Sinduno/rum pertinet, quorum partem delator adtributam Triden/tinis, partem ne
adtributam quidem arguisse dicitur, / tam et si animadverto non nimium firmam id genus homi/num
habere civitatis Romanae originem: tamen, cum longa / usurpatione in possessionem eius fuisse
dicatur et permix/tum cum Tridentinis, ut diduci ab is sine gravi splendi[di] municipi / iniuria non
possit, patior eos in eo iure, in quo esse se existima/verunt, permanere beneficio meo, eo quidem
libentius, quod / pleri{s}que ex eo genere hominum etiam militare in praetorio / meo dicuntur,
quidam vero ordines quoque duxisse, / nonnulli collecti in decurias Romae res iudicare./ Quod
beneficium is ita tribuo, ut quaecumque tanquam / cives Romani gesserunt egeruntque, aut inter se
aut cum / Tridentinis alisve, rata{m} esse iubeam [lapis iubeat] nominaque ea, / quae habuerunt
antea tanquam cives Romani, ita habere is permittam.
Per quanto riguarda la condizione degli Anauni, dei Sinduni e dei Tulliassi, una parte dei quali si
dice che il denunciante abbia scoperto essere attribuita ai Tridentini, una parte nemmeno attribuita,
anche se mi rendo conto che questa categoria di persone non fonda la cittadinanza romana su
un'origine sufficientemente assodata, tuttavia, poiché si dice che ne siano stati in possesso per lungo
periodo d'uso, e che si siano talmente fusi con i Tridentini da non poterne essere separati senza
grave danno per lo splendido municipio, permetto che per mia concessione essi continuino a stare
nella condizione giuridica che ritenevano di avere, e tanto più perchè parecchi della loro condizione
si dice prestino servizio perfino nel mio pretorio, e che alcuni addirittura siano stati ufficiali della
truppa, e che certuni inseriti nelle decurie a Roma vi facciano i giudici. Accordo loro tale beneficio,
con la conseguenza che qualunque negozio abbiano concluso o qualunque azione giudiziaria
abbiano intrapreso come se fossero stati cittadini romani, o fra di loro o con i Tridentini o con altri,
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ordino che sia ratificato; e i nomi da cittadini romani che avevano preso in precedenza, concedo
loro di mantenerli (trad. E. MIGLIARIO).
(60) Tac. Ann. 11.23: A. Vitellio L. Vipstano consulibus cum de supplendo senatu agitaretur
primoresque Galliae, quae Comata appellatur, foedera et civitatem Romanam pridem adsecuti, ius
adipiscendorum in urbe honorum expeterent, multus ea super re variusque rumor. et studiis diversis
apud principem certabatur adseverantium non adeo aegram Italiam ut senatum suppeditare urbi
suae nequiret. suffecisse olim indigenas consanguineis populis nec paenitere veteris rei publicae.
quin adhuc memorari exempla quae priscis moribus ad virtutem et gloriam Romana indoles
prodiderit. an parum quod Veneti et Insubres curiam inruperint, nisi coetus alienigenarum velut
captivitas inferatur? quem ultra honorem residuis nobilium, aut si quis pauper e Latio senator
foret? oppleturos omnia divites illos, quorum avi proavique hostilium nationum duces exercitus
nostros ferro vique ceciderint, divum Iulium apud Alesiam obsederint. recentia haec: quid si
memoria eorum moreretur qui sub Capitolio et arce Romana manibus eorundem perissent satis:
fruerentur sane vocabulo civitatis: insignia patrum, decora magistratuum ne vulgarent.
Nell’anno del consolato di Aulo Vitellio e Lucio Vipstano si discuteva dell’opportunità di
completare il numero dei senatori e i notabili della Gallia Comata, che in precedenza avevano
ottenuto trattati e la cittadinanza romana, rivendicavano il diritto di ottenere cariche a Roma. Vi
erano parecchie e varie opinioni al riguardo e nel consiglio del princeps il dibattito era animato in
entrambi i sensi: l’Italia – si diceva – non era così moribonda da non essere in grado di fornire
nuovi senatori alla propria capitale. Un tempo erano bastati Romani di nascita per i popoli
consanguinei e non c’era da dolersi dell’antica repubblica, anzi erano ancora vivi gli esempi di
valore e di gloria offerti dal carattere dei Romani, quando vigevano gli antichi costumi. Non bastava
forse l’irruzione nella curia di Veneti e Insubri, senza bisogno di immettervi una massa straniera,
come un branco di prigionieri? Quale onore sarebbe rimasto ai nobiles residui o a quei poveri
senatori latini, se ancora ne esistevano? Avrebbero occupato tutte le cariche quei ricchi, i cui avi e i
cui antenati, al comando di popoli nemici, avevano massacrato i nostri eserciti e assediato il divino
Giulio in Alesia? E questi erano fatti recenti. Ma che sarebbe accaduto, se si risvegliava il ricordo di
quelli che, ai piedi del Campidoglio e della rocca di Roma, erano caduti per mano degli stessi Galli?
Che si servissero pure della cittadinanza nominale, ma non si dovevano svilire la dignità degli
antenati e il decoro delle magistrature.
(61) Tac. Ann. 11.24: His atque talibus haud permotus princeps et statim contra disseruit et vocato
senatu ita exorsus est: 'maiores mei, quorum antiquissimus Clausus origine Sabina simul in
civitatem Romanam et in familias patriciorum adscitus est, hortantur uti paribus consiliis in re
publica capessenda, transferendo huc quod usquam egregium fuerit. neque enim ignoro Iulios Alba,
Coruncanios Camerio, Porcios Tusculo, et ne vetera scrutemur, Etruria Lucaniaque et omni Italia
in senatum accitos, postremo ipsam ad Alpis promotam ut non modo singuli viritim, sed terrae,
gentes in nomen nostrum coalescerent. tunc solida domi quies et adversos externa floruimus, cum
Transpadani in civitatem recepti, cum specie deductarum per orbem terrae legionum additis
provincialium validissimis fesso imperio subventum est. num paenitet Balbos ex Hispania nec minus
insignis viros e Gallia Narbonensi transivisse? manent posteri eorum nec amore in hanc patriam
nobis concedunt. quid aliud exitio Lacedaemoniis et Atheniensibus fuit, quamquam armis pollerent,
nisi quod victos pro alienigenis arcebant? at conditor nostri Romulus tantum sapientia valuit ut
plerosque populos eodem die hostis, dein civis habuerit. advenae in nos regnaverunt: libertinorum
filiis magistratus mandare non, ut plerique falluntur, repens, sed priori populo factitatum est. at
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cum Senonibus pugnavimus: scilicet Vulcsi et Aequi numquam adversam nobis aciem instruxere.
capti a Gallis sumus: sed et Tuscis obsides dedimus et Samnitium iugum subiimus. ac tamen, si
cuncta bella recenseas nullum breviore spatio quam adversus Gallos confectum: continua inde ac
fida pax. iam moribus artibus adfinitatibus nostris mixti aurum et opes suas inferant potius quam
separati habeant. omnia, patres conscripti, quae nunc vetustissima creduntur, nova fuere: plebeii
magistratus post patricios, Latini post plebeios, ceterarum Italiae gentium post Latinos.
inveterascet hoc quoque, et quod hodie exemplis tuemur, inter exempla erit.
Claudio non si lasciò convincere da questi e da altri argomenti simili, ma subito li confutò e,
convocato il senato, così parlò: «I miei antenati, il più antico dei quali Clauso di origine sabina fu
accolto tanto nella cittadinanza romana quanto nel patriziato, mi esortano ad agire allo stesso modo
nel governo dello stato, portando qui quanto di meglio vi sia altrove. So bene che i Giulii sono stati
chiamati in senato da Alba, i Coruncanii da Camerio, i Porci da Tuscolo e, lasciando da parte
l’antichità, altri ne vennero dall’Etruria, dalla Lucania e dall’Italia intera. L’Italia stessa ha di
recente esteso i suoi confini fino alle Alpi, cosicché non solo individui, ma regioni e popoli interi si
sono fusi con noi. Abbiamo goduto di una solida pace interna e della vittoria esterna quando i
Transpadani sono stati accolti nella cittadinanza e noi con la scusa che le nostre legioni erano sparse
per il mondo abbiamo aggiunto provinciali validissimi, risollevando le sorti di un impero in
difficoltà. Dobbiamo forse pentirci del fatto che i Balbi siano giunti dalla Spagna e uomini non
meno illustri dalla Gallia Narbonense? I loro discendenti sono qui e amano questa patria non meno
di noi! Cos’altro causò la rovina di Ateniesi e Spartani, se non il fatto che, pur forti in guerra,
trattavano i vinti come stranieri? Invece il nostro fondatore Romolo fu così saggio che, in più
occasioni, vinse popoli ostili e li trasformò in cittadini nell’arco della stessa giornata. Alcuni nostri
re erano stranieri, anche l’elezione alle magistrature di figli di liberti non è una pratica recente,
come molti erroneamente credono, bensì comune nei tempi antichi. ‘Ma contro i Senoni abbiamo
combattuto’, dite; e Volsci ed Equi non si sono mai schierati in battaglia contro di noi? ‘Siamo stati
invasi dai Galli’; se è per questo, agli Etruschi abbiamo dato ostaggi e siamo passati sotto il giogo
dei Sanniti. Tuttavia, se consideriamo tutte le nostre guerre, nessuna si è conclusa da meno tempo di
quella contro i Galli: da allora la pace è stata continua e sicura. Si sono già assimilati a noi per
usanze, cultura e parentele: lasciamo che ci portino anche il loro oro e le loro ricchezze, invece di
tenerle separate! O padri coscritti, tutto quello che adesso ci sembra antichissimo una volta era
nuovo: i magistrati plebei vennero dopo i patrizi, i Latini dopo i plebei, tutti gli altri popoli d’Italia
dopo i Latini. Anche la presente innovazione invecchierà e ciò che ora giustifichiamo ricorrendo ai
precedenti, diverrà un precedente».
(62) Tac. Ann. 11.25: Orationem principis secuto patrum consulto primi Aedui senatorum in urbe
ius adepti sunt. datum id foederi antiquo et quia soli Gallorum fraternitatis nomen cum populo
Romano usurpant.
Un senatoconsulto fece seguito al discorso del princeps: gli Edui ottennero per primi il diritto di
avere senatori a Roma. Fu concesso loro in ragione dell’esistenza di un antico trattato e perché, soli
fra i Galli, vantavano il titolo di ‘fratelli del popolo romano’.
(63) CIL, XIII 1668 = ILS, 212 (Tavola di Lione)
col. II: [- - - p]otest sane / novo m[ore] et divus Aug[ustus av]<u>nc[ulus] meus et patruus
Ti(berius) / Caesar omnem florem ubique coloniarum ac municipiorum bo/norum scilicet virorum et
locupletium in hac curia esse voluit / quid ergo non Italicus senator provinciali potior est iam /
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vobis cum hanc partem censurae meae adprobare coepero quid / de ea re sentiam rebus ostendam
sed ne provinciales quidem / si modo ornare curiam poterint reiciendos puto / ornatissima ecce
colonia valentissimaque Viennensium quam / longo iam tempore senatores huic curiae confert ex
qua colo/nia inter paucos equestris ordinis ornamentum L(ucium) Vestinum fa/miliarissime diligo et
hodieque in rebus meis detineo cuius libe/ri fruantur quaeso primo sacerdotiorum gradu postmodo
cum / annis promoturi dignitatis suae incrementa ut dirum nomen la/tronis taceam et odi illud
palaestricum prodigium quod ante in do/mum consulatum intulit quam colonia sua solidum civitatis
Roma/nae benificium consecuta est idem de fratre eius possum dicere / miserabili quidem
indignissimoque hoc casu ut vobis utilis / senator esse non possit / tempus est iam Ti(beri) Caesar
Germanice detegere te patribus conscriptis / quo tendat oratio tua iam enim ad extremos fines
Galliae Nar/bonensis venisti / tot ecce insignes iuvenes quot intueor non magis sunt paenitendi /
senatores quam paenitet Persicum nobilissimum virum ami/cum meum inter imagines maiorum
suorum Allobrogici no/men legere quodsi haec ita esse consentitis quid ultra desidera/tis quam ut
vobis digito demonstrem solum ipsum ultra fines / provinciae Narbonensis iam vobis senatores
mittere quando / ex Luguduno habere nos nostri ordinis viros non paenitet / timide quidem p(atres)
c(onscripti) egressus adsuetos familiaresque vobis pro/vinciarum terminos sum sed destricte iam
Comatae Galliae / causa agenda est in qua si quis hoc intuetur quod bello per de/cem annos
exercuerunt div<u>m Iulium idem opponat centum / annorum immobilem fidem obsequiumque
multis trepidis re/bus nostris plus quam expertum illi patri meo Druso Germaniam / subigenti tutam
quiete sua securamque a tergo pacem praes/titerunt et quidem cum ad census novo tum opere et
inadsue/to Gallis ad bellum avocatus esset quod opus quam ar/duum sit nobis nunc cum maxime
quamvis nihil ultra quam / ut publice notae sint facultates nostrae exquiratur nimis / magno
experimento cognoscimus [- - -]
Indubbiamente, con il nuovo sistema, mio prozio, il divino Augusto, e mio zio Tiberio Cesare hanno
voluto che il fior fiore di ogni colonia e municipio, vale a dire i loro uomini migliori e più ricchi,
fossero ammessi in questo consesso. E allora un senatore italico non è preferibile a un senatore
provinciale? Mostrerò la mia opinione al riguardo se questa parte della mia proposta in qualità di
censore verrà approvata. Ma ritengo che non dobbiamo escludere dal senato i provinciali, se questi
possono fargli onore. Ecco l’onoratissima e potentissima colonia dei Viennensi che già da tempo
invia senatori a questo consesso: non è forse venuto da qui, tra gli altri, Lucio Vestino, rara gemma
dell’ordine equestre, per il quale provo molto affetto e che ora impiego presso di me nella gestione
degli affari privati? Vi prego di attribuire ai suoi figli le prime cariche sacerdotali, in modo che col
tempo possano proseguire nella carriera. Possa io tacere il nome infame e odioso di quel ladro di
ginnasta prodigioso che fece entrare il consolato in casa sua prima ancora che la sua colonia avesse
ottenuto la piena cittadinanza romana. Potrei dire lo stesso di suo fratello, degno forse di pietà, ma
indegno per il fatto di essere divenuto un senatore a voi utile. Ma è ora, Tiberio Cesare Germanico,
di rivelare ai padri coscritti lo scopi del tuo discorso, poiché sei già arrivato ai limiti estremi della
Gallia Narbonense. Non rimpiangerete di avere tra i senatori tutti questi giovani promettenti su cui
poso lo sguardo più di quanto il mio amico Persico, uomo nobilissimo, rimpianga di leggere tra i
ritratti dei suoi antenati il nome di Allobrogico. Se dunque riconoscete con me che le cose stanno
così, quale desiderio vi resta se non quello che io vi faccia toccare con mano che la terra stessa al di
là della provincia Narbonense vi invia senatori, allorché non dobbiamo pentirci di accogliere
Lugdunensi tra i membri di quest’ordine? È vero, o padri coscritti: esitavo a uscire dai confini
provinciali che vi sono familiari; ma è ora di perorare apertamente la causa della Gallia Comata. Se
mi si rinfaccia la guerra che questa ha condotto per un decennio contro il divino Giulio, io opporrò
cent’anni di fedeltà irremovibile e di obbedienza in circostanze difficili in cui ci siamo trovati.
Quando mio padre Druso conquistò la Germania, gli garantirono sicurezza col mantenere i territori
alle sue spalle in una pace profonda, nonostante che fosse chiamato a questa guerra proprio mentre
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era impegnato a fare il censimento in Gallia, operazione nuova e estranea alle usanze dei Galli. E
sappiamo bene quanto sia ancora un’operazione difficile per noi, anche se si tratta solo di far sì che
sia reso pubblicamente noto l’ammontare del nostro patrimonio.
(64) Plin. Iun. Ep. 6.19: Scis tu accessisse pretium agris, praecipue suburbanis? Causa subitae
caritatis res multis agitata sermonibus. Proximis comitiis honestissimas voces senatus expressit:
‘Candidati ne conviventur, ne mittant munera, ne pecunias deponant.’ […] nam sumptus
candidatorum, foedos illos et infames, ambitus lege [princeps] restrinxit; eosdem patrimonii tertiam
partem conferre iussit in ea quae solo continerentur, deforme arbitratus (et erat) honorem petituros
urbem Italiamque non pro patria sed pro hospitio aut stabulo quasi peregrinantes habere.
Concursant ergo candidati; certatim quidquid venale audiunt emptitant, quoque sint plura venalia
efficiunt. Proinde si paenitet te Italicorum praediorum, hoc vendendi tempus tam hercule quam in
provinciis comparandi, dum idem candidati illic vendunt ut hic emant.
Sai che è aumentato il prezzo dei terreni, soprattutto suburbani? Motivo di questo rincaro
improvviso fu una questione a lungo dibattuta. Negli ultimi comizi, il senato si è espresso con
queste onorevolissime parole: «I candidati non diano banchetti, non annuncino spettacoli, non
depositino denaro». […] Infatti [il princeps], con la legge sui brogli, limitò le spese dei candidati,
cioè quelle vergognose e infami; e ordinò che gli stessi convertissero in terre un terzo del proprio
patrimonio, poiché riteneva che fosse disonorevole (e lo era) che i concorrenti alle cariche
trattassero l’Urbe e l’Italia non come una patria, ma come una locanda e una stalla, neanche fossero
dei viaggiatori. Dunque i candidati scorrazzano qua e là e fanno a gara a comprare tutto ciò che
odono essere in vendita: così fanno in modo che tutto sia venduto a un prezzo maggiorato.
Insomma, se sei stufo delle tue proprietà in Italia, per Ercole, è questo il momento buone di
venderle e di acquistarne altre in provincia, poiché gli stessi candidati là vendono per comprare qui.
(65) SHA Marc. 11.8: Leges etiam addidit de vicensima hereditatum, de tutelis libertorum, de bonis
maternis et item de filiorum successionibus pro parte materna, utqu[a]e senatores peregrini
quartam partem in Italia possiderent.
Introdusse anche leggi sulla tassazione delle eredità, sulla tutela dei liberti, sui beni delle madri e sui
diritti di successione dei figli per la parte materna, e [stabilì] che i senatori di origine straniera
dovessero possedere almeno un quarto del loro patrimonio in Italia.
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