l`alterita` - Campus Leonardo Da Vinci

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CAMPUS “Leonardo da Vinci”
ISTITUTO DI ISTRUZIONE
ISTRUZIONE SUPERIORE UMBERTIDE
OLIMPIADI DELLA FILOSOFIA
XXIV EDIZIONE
L’ALTERITA’
Prof.ssa Elisa Vannocchi
Anno Scolastico 2015/2016
ORGANIZZAZIONE del CORSO
I circa 50 ragazzi iscritti al corso sono stati divisi in due gruppi, il Gruppo A con
lezione il martedì pomeriggio, ed il Gruppo B con lezione il venerdì pomeriggio; gli alunni
appartengono sia alle classi IV che alle classi V.
Calendario delle lezioni – passibili di modifiche in itinere
I Lezione
Martedì 19 gennaio 2016
Venerdì 22 gennaio 2016
h. 14.00 – 16.30
h. 14.00 – 16.30
Gruppo A
Gruppo B
II Lezione
Martedì 26 gennaio 2016
Venerdì 29 gennaio 2016
h. 14.15 – 16.15
h. 14.15 – 16.15
Gruppo A
Gruppo B
III Lezione
Martedì 2 febbraio 2016
Venerdì 5 febbraio 2016
h. 14.15 – 16.15
h. 14.15 – 16.15
Gruppo A
Gruppo B
Dip. di Lettere e Filosofia
Università degli Studi di Perugia
(pomeriggio)
Gruppi A e B
IV Lezione - UniPg
Martedì 16 febbraio 2016
Prova
Giorni 22-24 febbraio 2016
Prove interne di Istituto
(entro il 27.2.2016)
Prova scritta durata 3,5 h
_____________________________________________
Tot. h. 10 + Lezione in Dipartimento
Selezione Regionale entro il 19 marzo 2016
Gara Nazionale a Roma 7-8 aprile 2016
NB: ci si riserva la possibilità di effettuare una quarta lezione in Istituto laddove se ne
riscontrasse la necessità.
1
INDICE
1. Prefazione e note alla Progettazione
Schema di sintesi del progetto
pag. 3
pag. 5
2. Alterità.
Il termine, il significato, il valore metodologico in chiave filosofica
pag. 6
3. Il paradigma antropologico
pag. 10
3.1.
Identità aperta
pag. 10
3.2.
La scoperta dell’Io e la scoperta dell’Altro
pag. 13
3.3.
La relazione con l’Altro
pag. 18
3.4.
La negazione dell’Altro
pag. 32
4. Il paradigma religioso
pag. 35
5. Conclusioni
pag. 37
6. Bibliografia
pag. 40
2
“Non esiste un Io senza un Tu. […] Ogni vita vera è incontro.”
Martin Buber (Vienna 1878 – Gerusalemme 1965)
L’ALTERITA’
1. Prefazione e note alla Progettazione
Sviluppare un percorso tematico su un argomento così vasto nella storia della
filosofia e del pensiero ed in così poco tempo non è impresa del tutto semplice, ma in questa
sede si cercherà di dare tuttavia una comprensione generale del concetto di alterità in sé, della
sua valenza filosofica e culturale – anche, se non soprattutto, attuale – ed il valore che una
riflessione di tale genere possa sollecitare.
In questa sede, inoltre, si è a che fare con un progetto verticale, e non orizzontale, che
coinvolge due differenti anni scolastici, e di riflesso studenti che hanno alle proprie spalle una
preparazione disciplinare differente e non allo stesso livello (Classi IV e V insieme); per
questo si è deciso di lavorare tendenzialmente in senso “assoluto”, ovvero isolando i relativi
Autori dai contesti storico-filosofici di riferimento – laddove questo non rappresentasse un
limite per la loro stessa comprensione – ed approcciandosi ad essi con un rigore ed un metodo
teoretico più che storicistico.
Scopo del presente progetto è l’acquisizione di competenze e capacità in materia di
riflessione logica e ragionata, argomentazione ponderata e rielaborazione di senso
relativamente a questo argomento così basilare (lo è davvero?) per l’esistenza dell’uomo fin
dalle sue origini: obiettivo è proprio la scoperta di quanto e se “vitale” sia l’alterità per
l’uomo intesa in tutte le sue forme, e la presa di coscienza – un valore aggiunto non da poco
per un adolescente – del significato vero che essa può assumere nella propria personale
esistenza.
Per quanto attiene al percorso che si intende realizzare, si è pensato allo sviluppo del
concetto filosofico di alterità secondo tre principali paradigmi:
1. Paradigma metodologico: volto ad illustrare quanto la relazione con l’altro,
inteso come concetto filosofico, sia stata fondamentale fin dalle origini della Filosofia per la
strutturazione stessa delle categorie del pensare e del fare filosofico. In questa sede si intende
fare veloce riferimento al ruolo della filosofia classica, e all’ontologia di Platone e di
Aristotele come funzionali all’acquisizione del senso del sé; in ultima istanza, ma di certo non
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da meno, s’intende far riferimento al metodo dialettico di Hegel ed alla relazione tesi-antitesi
come funzionale alla processualità totale: una sorta di filo conduttore dal dialogo platonico
alla dialettica idealistica. Si leva poi il pensiero antisistematico di S. Kierkegaard che conduce
direttamente al secondo paradigma.
2. Paradigma antropologico: livello ben più interessante e centro focale del
percorso, nel secondo paradigma la riflessione si sposta dal metodo all’antropologia: l’altro
non è più concetto ma realtà umana. È qui che emerge il ruolo che effettivamente ha l’altro
nella personale esistenza di ognuno, quanto questo possa influenzarla, condizionarla, o
avvalorarla e darne significato.. e se soprattutto sia possibile o meno un’esistenza personale
senza l’Altro, senza l’alterità.
Di più, in questo paradigma si è pensato di valorizzare la riflessione antropologica secondo
alcuni nodi tematici fondamentali che possono ben consentire la riflessione e la presa di
coscienza del valore (positivo e/o negativo) dell’alterità attraverso alcuni passi d’Autore,
passando tra filosofia Classica, Moderna e Contemporanea. Loro scopo è condurre alla
riflessione di quanto e se la relazione con l’Altro sia effettivamente efficace e necessaria
all’essere che noi siamo, costitutiva del nostro essere, oppure in via del tutto contraria
ciascuno basta a se stesso per cui l’Altro va annullato o negato per l’affermazione di sé.
a. L’identità aperta (riflessioni su Aristotele e su E. Husserl).
b. La scoperta dell’Io e la scoperta dell’Altro (analisi dell’essere che Io sono e la
relazione all’essere che è l’Altro):
b.1. R. Cartesio e L’Io-pensante (sono al mondo per conoscerlo; limiti e possibilità
della visione esclusivamente razionalistica del modello antropologico cartesiano);
b.2. L’uomo come totalità in B. Pascal: ragione e cuore, esprit de geometrie ed esprit
de finesse (sono al mondo per conoscerlo ed amarlo; limiti e possibilità della visione
antropologica pascaliana).
c. La relazione con l’Altro:il Singolo di S. Kierkegaard ed i tre stadi esistenziali come tre
livelli di relazione con l’Altro; apertura ed il concetto di esistenza in M. Heidegger; l’etica
dell’Altro in E. Levinas.
d. La negazione dell’Altro: il conflitto con l’Altro come strumento di affermazione di sé:
il; modello antropologico di J. P. Sartre.
3. Paradigma religioso: la relazione con l’Altro per eccellenza che è il Trascendente
e Dio; Agostino d’Ippona e l’esempio del modello antropo-teologico di K. Jaspers.
Alla luce del percorso, la finalità ultima è sostanzialmente riconducibile alla
domanda attuale: è possibile il dialogo culturale con l’altro oggi, esprimerci in termini di
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tolleranza e di rispetto dell’Altro in tempo di identità molteplice su base antropologica,
culturale e religiosa?
La convivenza con l’Altro, in quanto Alterità in tutte le dimensioni affrontate – è realmente
possibile e realizzabile in nome di un’etica della relazione realmente umana e multiculturale?
Che ci si rifletta, perché educare all’identità sia un educare all’alterità e alla diversità.
Schema –
A – Paradigma Metodologico:
- l’Alterità è funzionale all’identità
Platone ed Aristotele
Hegel (metodo dialettico)
B – Paradigma Antropologico:
- l’Alterità è funzionale al soggetto
Concetto di identità aperta in
Aristotele ed Husserl
La scoperta dell’Io e la scoperta
La negazione
dell’Altro
Pascal
dell’Altro
Sartre
Cartesio
La relazione con l’Altro
Kierkegaard
Heidegger
Levinas
C – Paradigma Religioso
- l’Alterità è apertura al Trascendente e necessità dell’uomo di fede (Agostino e
Jaspers). Conclusioni con Woityla.
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2. Alterità.
Il termine, il significato, il valore metodologico in chiave filosofica.
Il termine alterità deriva dal latino alter (altro) e dal suo derivato alteritas –atis, e nel
linguaggio filosofico indica l’altro da sé, quel qualcosa – ente o realtà, principio o concetto,
dato o persona – che si presenta come “alter” e quindi diverso da se stesso.
Più specificatamente, in filosofia indica un concetto ben determinato e preciso che si oppone a
quello altrettanto specifico di identità. Ed è a partire da questi primi elementi che sviluppiamo
il primo paramento attraverso il quale comprendere il valore dell’alterità come concetto: il
paradigma metodologico.
In effetti, se per alterità s’indica ciò che è altro-da-sé, tale concetto indica qualcosa di diverso
dal proprio io/me che rappresento: in tal senso, in filosofia il termine alterità indica il diverso
dalla propria identità (ciò che io sono, il soggetto) ma non necessariamente opposto, bensì
semplicemente “altro” (l’oggetto, o soggetto-altro): il termine alterità diviene così contrario
del termine identità.
Sin dalla filosofia eleatica antica, difatti, l’altro-da-sé era necessario alla qualifica,
alla comprensione e alla definizione dell’identità del sé: basti pensare all’ontologia di
Parmenide e al suo celebre aforisma secondo cui “l’essere è e non può non essere, e il non
essere non è e non può essere l’essere”. Questo, in effetti, è già un chiaro esempio di
paradigma metodologico dell’alterità: ciò che sia l’essere (ovvero la sua identità) lo si
comprende attraverso la relazione concettuale (o reale) con ciò che l’essere non è (ovvero il
non essere), che in quanto tale è altro rispetto all’essere stesso, e quindi sua alterità.
Tuttavia, il discorso parmenideo può indurre in errore e far coincidere l’alterità intesa
come non-essere, con il nulla stesso; errore dacché anche l’alterità ha una sua natura
ontologica (d’essere).
È la posizione di Platone a concepire l’alterità come una vera e propria categoria dell’ente
considerandola uno dei cinque generi sommi (l’essere, l’identico, l’alterità/il diverso, la
quiete, il movimento), i cinque attributi fondamentali delle idee e capaci di metterle in
relazione tra loro, spiegando il divenire cosmologico stesso. Perfino in Aristotele assume
rilevanza, affiancata ontologicamente al principio di contraddizione ed identificata come
concetto chiave dell’essere che ha innumerevoli forme e generi (l’alterità è assunta come
sinonimo di diversità dell’essere).
Ben più attuale, ma per certi aspetti molto simile, è il concetto di alterità sviluppato
nell’impianto metodologico di G. W. F. Hegel.
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Nel filosofo dell’Idealismo – dal mondo classico siamo balzati al primo Ottocento europeo ed
alla sua corrente dell’Idealismo – la comprensione della realtà – e pertanto con essa stessa il
sapere più elevato tra tutti, la “Nottola di Minerva”, ovvero la Filosofia – si dà attraverso una
processualità di momenti in relazione tra loro che chiameremo “processualità dialettica”, dal
greco dià-lego (da cui deriva anche il termine dialogo) ovvero connessione, comunicazione
tra più parti.
Ogni momento di essa risulta autonomo ed autosussistente in sé e per sé, ma è nella relazione
con gli altri che acquista il vero significato ed il vero valore di sé: ogni momento, nella
propria individualità (che altresì potremmo chiamare identità) è necessario al risultato finale,
ed ha bisogno degli altri per darsi, manifestarsi, ed acquistare senso. La dialettica hegeliana,
che ora velocemente illustreremo, è un chiaro esempio del valore dell’alterità in senso
metodologico.
La dialettica hegeliana prevede tre momenti:
1. Tesi – E’ il momento positivo, non soltanto perché, come il termine stesso
dichiara, afferma qualcosa, ma lo pone (in latino positum è qualcosa di dato, di posto) come
oggetto da analizzare, sviluppare ed indagare; tale momento è pertanto un momento
“positivo-affermativo”.
2. Antitesi – Come si evince dal termine stesso, è l’anti-tesi, è la posizione opposta e
contraria alla tesi (è l’altro-dalla-tesi) posta per analizzare, e negare, con maggiore forza la
tesi stessa: comprendo un dato attraverso un dato che sia altro dal primo, meglio ancora se
opposto; tale momento pertanto è detto momento “negativo-oppositivo”, e, in realtà, è il
momento più importante dell’intera processualità dialettica poiché dà forza alla tesi, la
avvalora o la “smonta” laddove non abbia valore sufficiente. La tesi, per dirsi tale, ha bisogno
di una sua alterità (in contesto letterario e saggistico, ad esempio, si chiamerebbe
‘confutazione’) perché acquisti senso; l’antitesi così serve a conservare (auf in tedesco) ciò
che ha valore della tesi e a togliere (hebung in tedesco) quello che non l’ha, tant’è che Hegel
denomina questo momento dell’antitesi-alterità come aufhebung (togliere e conservare).
3. Sintesi – Dal greco, significa “più tesi insieme” ed in effetti è il momento dato
dall’unione di tesi ed antitesi insieme. Essa contiene l’interezza del discorso dialettico, la
verità in quanto risultato del processo logico-conoscitivo espresso dalla processualità: Hegel
dirà, infatti, che “il vero è l’intero”, ovvero il vero è nel risultato di tesi ed antitesi, il dato
posto e la sua alterità che la avvalora e ne dà senso, rappresentando la relazione con l’altro da
sé.
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Tuttavia la posizione hegeliana ha mosso innumerevoli critiche non solo per i suoi
contenuti, di grande valore teoretico ma che in questa sede non saranno affrontati, ma proprio
perché tale metodologia, che il tedesco adopera ed adatta ad ogni suo sapere, comporta delle
conseguenze non di poco conto e si fa portavoce di una “filosofia dell’universale e
dell’universalismo” che mal si concilia con le filosofie successive. Vediamo in che senso.
È possibile che ogni dialettica triadica – così detta perché di tre momenti – abbia al suo
interno nuove dialettiche successive, con il rischio di generare quella che è stata chiamata
“una cattiva infinità”.
È, in sostanza, un metodo dell’et-et, ovvero della costante e continua – benché logica –
connessione e progressione, dove tuttavia le singole parti finiscono per essere assorbite e per
scomparire nella loro unicità identitaria: ecco perché filosofia dell’universale, oggi diremmo
dell’omologazione, dove proprio il soggetto e la sua stessa alterità, che eppure la qualifica,
finiscono per scomparire.
Se caliamo tale discorso dal piano metodologico a quello antropologico, finisce per
scomparire il soggetto, quell’unicum che è il particolare; da qui le critiche successive,
soprattutto proprio in tema antropologico, perché nel “sistema” hegeliano scompare il
particolare a favore dell’universale, e con essi anche la relazione identità-alterità che eppure
tanto è centrale sul piano metodologico.
Da qui gli antihegeliani, primi fra tutti il danese Soren Kierkegaard, che all’et-et di Hegel
antepone e pospone il suo aut-aut, che ha valore sia teoretico che più propriamente
antropologico: nella relazione con un altro-da-sé e nella scelta di quest’ultimo si realizza il
soggetto, che in quanto tale diventa unico ed irripetibile: ciò che chiamerà, per l’appunto, il
Singolo. Il Singolo kierkegaardiano, come vedremo, è il frutto delle sue personali scelte (un
aut-aut per l’appunto tra più possibilità) ed è sempre nella relazione con l’Altro, di qualsiasi
natura sia inteso, che si qualifica come Singolo, come identità unica.
“Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo.
Dell’Assoluto si deve dire che esso è essenzialmente Risultato,
che solo alla fine è ciò che è in verità.
Proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere effettualità, soggetto o divenir-se-stesso.
[…]
Ciò che è più di tali parole, e sia pure il passaggio a una sola proporzione, contiene un
divenir-altro che deve venire ripreso, ossia una mediazione.”
G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito – Prefazione
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“L’unico punto per ottenere il progresso scientifico – e intorno alla cui semplicissima
comprensione bisogna essenzialmente adoperarsi – è la conoscenza di questa proposizione logica,
ovvero che il negativo è insieme anche positivo,
ossia che quello che si contraddice non si risolve nello zero, nel nulla astratto,
ma si risolve essenzialmente solo nella negazione del suo contenuto particolare,
vale a dire che una tal negazione non è una negazione qualunque,
ma la negazione di quella cosa determinata che si risolve,
ed è perciò negazione determinata. […]
Tale negazione in quanto determinata ha un contenuto,
è un nuovo concetto ed un concetto che è superiore e più ricco che non il precedente.
Essa infatti è divenuta più ricca di quel tanto ch’è costituito dalla negazione,
o dall’opposizione di quel concetto.
Contiene dunque il concetto precedente, ma contiene anche di più, ed è l’unità di quel
concetto e del suo opposto.
[…]
Questo è il mio metodo in questo sistema della logica, e so anche che esso è l’unico vero.”
G. W. F. Hegel, Scienza della logica – Introduzione
Banalmente: il bianco è bianco (identità), ed ha il non bianco come opposizione, il
verde (ad esempio) come una sua alterità.
In tal senso, sul piano metodologico l’alterità è un contrario dell’identità e tuttavia necessaria
alla qualifica e alla comprensione dell’identità stessa, e sinonimo di diversità: partendo da
queste premesse metodologiche, i filosofi successivi affermeranno, in chiave antropologica,
che nella relazione con l’Altro si coglie e si realizza più pienamente il proprio Io e la propria
esistenza.
Vediamo, quindi, il paradigma antropologico che ha di certo offerto i maggiori contributi in
tema di alterità.
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3. Il paradigma antropologico.
“L’uomo che basta a se stesso, con particolarità che non riguardano nessuno,
è un concetto senza valore per la civiltà moderna.”
Alfred North Whitehead, Matematico e filosofo inglese (1861 – 1947)
Semplice, quanto diretto e veritiero è il pensiero dell’inglese Whitehead: parlare oggi
di uomo considerato “da sé solo” è qualcosa di impensabile da un alto, e del tutto privo di
qualsiasi valore dall’altro. Nella sua espressione, peraltro di grande sottigliezza intellettuale,
“con particolarità che non riguardano nessuno”, il filosofo inglese intende sottolineare
quanto nessuno di noi, qualsiasi caratteristiche si possa avere, qualsiasi peculiarità si abbia –
personali, psicologiche, sociali, etiche... –, è esente dal non poter essere ammesso in termini
di “io solipsistico” (dal latino solus, “solo” e ipse, “stesso”: “solo se stesso”). L’uomo non
può bastare a se stesso, non può essere solo se stesso, nonostante – come vedremo in alcuni
autori quali, ad esempio, Cartesio – la sola facoltà intellettuale ci è sufficiente per considerarci
esistenti e pertanto sufficienti a se stessi.
Ma è nella relazione, nell’apertura all’altro – che sia altro soggetto o mondo – che si realizza
il vero sé: ecco lo “spostamento “ di paradigma di cui si è parlato nella presente introduzione,
ovvero da un altro-da-sé necessario metodologicamente allo sviluppo dell’identità e alla
conoscenza del se stesso, ad un paradigma antropologico che, invece, focalizza l’importanza
dell’alterità in termini di relazione, di apertura naturale e necessaria all’altro-da-sé. Pena,
sostiene l’inglese, essere “senza valore”.
3.1. Identità aperta
Questa natura dell’essere esistente che è l’uomo è presente nelle pagine del sapere
filosofico fin dalle sue origini e, seppur nei secoli ha attraversato forme, correnti e movimenti
diversi, afferma con forza un carattere precipuo dell’uomo: l’essere umano è
costitutivamente (per sua naturale costituzione) aperto agli altri, al mondo, alla
relazione.
Già Aristotele (Stagira, 384 a.C. – 322 a.C.) difatti nella sua celebre e ben nota
espressione secondo cui l’uomo è uno “zoon politikòn”, ovvero un “animale politico”,
intendeva affermare la necessaria apertura dell’uomo all’esterno di sé, al mondo politico
inteso non tanto come mondo delle norme e delle forme statutarie, ma considerando
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l’accezione del termine ‘politico’ nella sua matrice più originaria e semplice: il mondo della
polis, quindi della città, della socialità e della relazione tra uomini.
Nonostante lo Stagirita abbia ampiamente illustrato le facoltà razionali, logiche e psicologiche
dell’uomo, egli ha avuto il merito – nel nostro caso quasi la paternità! – di aver affermato con
forza che è nella relazione sociale, e pertanto nella naturale socialità e socievolezza dell’uomo
(ecco il richiamo alla polis) che l’uomo da un lato realizza se stesso e dall’altro manifesta più
autenticamente il proprio sé. Come a dire che l’uomo non può stare solo, perché ha bisogno
dell’altro per essere se stesso: forse è proprio in questa accezione di “animale politico” che si
possono individuare le origini filosofiche e concettuali dell’alterità, dacché è in questa
identificazione che si esprime quanto l’uomo sia portato per sua natura ad unirsi ai propri
simili, a relazionarsi ad essi per formare le comunità; da qui anche, di riflesso, la sua natura
etica e pratica, tanto cara al pensiero del filosofo classico.
In effetti, Aristotele nel suo affermare che “l’uomo è un animale politico” ha sostenuto anche
che l’uomo è un “animale sociale”, e la solitudine per quest’ultimo non solo è qualcosa di
oltreché impossibile, ma pure di innaturale ed opposto alla sua più profonda caratterizzazione
psicologica. Basti anche soltanto pensare che l’evoluzione dell’Homo sapiens e delle sue
facoltà è complementare all’evoluzione e allo sviluppo del linguaggio: non c’è uomo senza
linguaggio (verbale e non), e non c’è linguaggio senza alterità; come l’umanità ha avuto
necessità di “inventare” i codici comunicativi del linguaggio, così altrettanto ha mostrato la
sua necessità dell’altro per essere se stessa e manifestarsi.
Qualche buon secolo più avanti, il filosofo austriaco Edmund Husserl (1859 –
1938), si presentava come il fondatore di una corrente denominata Fenomenologia. Dopo
secoli di scienza, di empirismo e di metodo sperimentale, l’austriaco auspicava al ritorno ai
veri “fenomeni” (dal greco, apparenza, manifestazioni) dell’esistenza colti nella loro
autenticità più profonda ed esenti dall’essere penetrati con un metodo esclusivamente
scientifico: un nuovo discorso (logos) sui fenomeni dell’esistenza – da cui il termine
fenomenologia – che recuperasse il senso dell’esistenza oramai priva del suo tratto più
filosofico, quello astratto, o metafisico, e più propriamente umano, e che consentisse di
“tornare alle cose stesse”. In tal senso, la corrente fenomenologica è letta come preparatoria
ed anticipatrice del grande movimento dell’Esistenzialismo compreso tra le due Guerre
Mondiali (riflessione sul senso, sul fine e sul significato dell’esistenza umana).
Husserl, in sintesi, non abbandona ma tuttavia critica il razionalismo più rigoroso che – sulla
scia del modello cartesiano – identifica l’uomo con la sua stessa facoltà razionale, muovendo
al contrario ad un recupero della sua dimensione intuitiva, emotiva, sensibile, affettiva e
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sociale che può darsi solo nella “dimensione relazionale con l’altro” e in quello che il filosofo
chiama “l’autentico mondo della vita”.
Per l’austriaco, infatti, oltre al mondo scientifico vi è un anche un mondo di altri fenomeni
che meritano l’attenzione conoscitiva, ed è quello della “vita” intesa come mondo di relazioni,
di dinamiche affettive, di socialità: vita per Husserl significa relazione con l’altro, relazione
che non necessariamente la si deve intendere in senso filantropico (dal greco, amico
dell’uomo) ma anche polemico (dal greco, polemos, ovvero scontro, antitesi), purché
relazione sia perché “l’uomo è per sua natura aperto al mondo della vita”, e vita, in tal senso,
è alterità.
Più specificatamente: Husserl chiama “intenzionalità” questa facoltà che ha l’uomo
di aprirsi all’altro, facoltà che è voluta, appunto intenzionale, ed è propria di ognuno.
Di più, nel suo modello antropologico si può parlare di:
-
Soggettività pura
-
Oggettività-per-la-soggettività
Per “Soggettività pura” s’intende una sorta di coscienza assoluta di sé, una percezione
immanente in cui il soggetto coglie se stesso nella propria indubitabilità ed identità, nel
“proprio soggettivo nucleo irriducibile, nel proprio residuo ineliminabile, o residuo
fenomenologico”: in altre parole, è l’io che il soggetto è nella sua parte più intima, autentica e
profonda; è il se stesso conosciuto dall’io e pertanto ammesso come indubitabile.
Per “Oggettività-per-la-soggettività”, invece, s’intende un oggetto – dato, realtà o ente di
qualsiasi natura – colto in relazione al soggetto e dal soggetto stesso, del quale non si può mai
avere una conoscenza certa ed indubitabile – come quella di sè – ma in continuo divenire,
dinamica e sempre dubitale. Eppure è nella relazione voluta e cercata – intenzionale appunto con l’oggettività-per-la-soggettività che entrambe le parti si realizzano come identità, l’una in
rapporto all’altra, l’una in alterità per l’altra:
“E’ nell’incontro tra soggettività pure ed oggettività-per-la-soggettività
che si manifesta il mondo della vita
e si realizza il senso del mondo della vita stesso: l’alterità.”
E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica.
In tal senso, non esistono scienze: niente e nessuno può mai essere conosciuto in maniera
certa ed indubitabile poiché ciò che esso è, è ciò che esso compie e costantemente mette
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intenzionalmente in atto con le sue relazioni con e nel mondo della vita. Ecco perché il tempo
della vita è il tempo delle autentiche alterità, delle autentiche aperture agli altri e non il tempo
della sola scienza e dei mezzi scientifici. Ecco la grande eredità lasciata da Husserl:
“Il tempo che per essenza inerisce (riguarda) al vissuto come tale,
con i suoi modi di datità (darsi, manifestarsi) dell’adesso, del prima, del dopo,
con la simultaneità e la successione modalmente determinata dai precedenti,
non può essere misurato da nessuna posizione del sole,
da nessun orologio, da nessun mezzo fisico:
in generale non può essere affatto misurato.
[…]
Le mere scienze di fatto creano meri uomini di fatto.”
E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale
In conclusione: l’essere umano è il costante frutto delle sue dinamiche relazionali
con l’Altro; ogni soggetto è la continua risultante della naturale apertura all’oggetto, e
viceversa.
Non è pensabile un mondo di soggetti solipsistici, “non esiste un io solipsistico poiché l’uomo
è per natura un’identità aperta al mondo”.
Questo è l’unico ‘dato di fatto’, che non ha una sua scienza di fatto – certa, finita e
determinata – di riferimento; alterità è il solo concetto che lo può esprimere.
Alla luce delle analisi compiute fin qui, la riflessione che ne deriva è evidente:
ammesso che l’uomo sia stato sempre unanimemente considerato una “identità aperta”,
l’alterità così intesa, dunque, è naturale per l’uomo, o anche necessaria all’uomo?
Oppure è naturale e necessaria insieme?
Occorre per questo analizzare alcune posizioni antropologiche tradizionali e piuttosto
significative per capire se è più valido il principio di “naturalità” o di “necessarietà”
dell’alterità per l’uomo; occorre per questo scoprire l’io in relazione all’Altro.
3.2. La scoperta dell’Io e la scoperta dell’Altro
In questa sede si ha la sola quanto ambiziosa intenzione di sottoporre a riflessione
due modelli antropologici noti ed antitetici tipici della Filosofia Moderna allo scopo di
comprendere che, in base a quale modello viene appoggiato, si modifica la concezione di
alterità che ne deriva.
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Si va per questo alla lettura – relativamente al tema in oggetto – di Cartesio e di Pascal,
peraltro Autori-chiave della programmazione dei trienni liceali. Vediamo in che senso.
Renato Cartesio (1596 – 1650) è il filosofo francese fondatore del Razionalismo.
Questa corrente, nata in seno alla Rivoluzione Scientifica tra il Cinquecento ed il Seicento,
esalta la ragione umana a tal punto da elevarla a strumento per eccellenza; per questo tale
corrente può essere considerata l’anticipazione e la fondazione filosofica del movimento
illuministico settecentesco, dove la ragione diviene vero e proprio “lume” che guida
l’Umanità e la Storia.
Cartesio, in tal senso, rivaluta e pone nuovamente attuale dopo l’epoca medievale, la
posizione aristotelica per la quale la logica e con essa il suo mezzo – il logos, la ragione –
sono l’organon – in greco lo ‘strumento’ – di tutti gli altri saperi, della conoscenza, e pertanto
il mezzo attraverso il quale rapportarsi alla realtà, e quindi al mondo e agli altri.
Difatti, il Medioevo è un tempo teocentrico, ovvero concentrato ed accentrato su Dio: tutto,
esistenza, valori, etica, relazioni, sono dipendenti da Dio e volti a Dio; l’uomo stesso è un “vir
contemplativus” che agisce e pensa per fede, ed in relazione della dicotomia peccato/grazia.
L’avvento dell’Umanesimo e del Rinascimento, invece, propongono un modello ad esso
opposto che è quello del “vir activus”, ovvero dell’uomo attivo che diviene padrone della
propria vita, delle proprie azioni per se stesso e non più per Dio: “homo faber ipsius fortunae”
– Pico della Mirandola, precettore di Lorenzo “il Magnifico” de’ Medici.
Ne deriva così che il passaggio storico-culturale dall’uomo contemplativo all’uomo attivo
altro non è che il passaggio da un teocentrismo rigoroso ed oscuro del Medioevo ad un
antropocentrismo che invece esalta l’uomo, le sue peculiarità e le sue potenzialità.
Cartesio ha avuto il merito di affermare che la potenzialità per eccellenza dell’uomo è la sua
facoltà razionale, il suo intelletto, ed in questo è assunto a padre indiscusso della Modernità.
Eppure questa posizione, a tratti così estrema, ha limiti e possibilità. Vediamo in che senso.
Sinteticamente, quando Cartesio afferma “Cogito, ergo sum” – “Penso, dunque sono”
– intende sostenere che la sola possibilità che ha l’uomo di pensare, di dubitare e di cercare la
verità è già condizione per dichiararsi esistente e di non aver dubbio alcuno proprio sulla
condizione ontologica della propria esistenza.
Letta in tal senso, questa posizione sta come a significare non solo che l’uomo, per il fatto di
pensare è esistente, ma soprattutto che l’uomo è e coincide con il suo stesso pensiero: l’uomo
è la sua Ragione… elevatissima, sublime, eccellente, ma è la sua Ragione, tant’è che così
scrive:
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“L’uomo è una macchina, ma anche gli animali lo sono.
La differenza sta nel fatto che i primi sono ‘esseri pensanti’ e pienamente viventi;
gli altri, invece, no, perché mossi esclusivamente dall’istinto bestiale.
È vero, anche gli animali – almeno la stragrande maggioranza – provano dolore oppure piacere;
però a differenza di noi uomini, avvertono queste cose istintivamente, senza accorgersi di
quello che gli accade, reagiscono continuamente mossi dall’impulso.
[…]
L’uomo invece è una macchina pensante, incomparabilmente meglio ordinata
che ha in sé i movimenti più meravigliosi di qualsiasi altra tra tutte quelle che gli uomini
possono inventare;
ed ha anche un ‘cogito’, quella capacità di autocoscienza che lo porta a compiere azioni
secondo la sua volontà,
ad agire e relazionarsi, a scegliere come impostare la sua propria vita.”
R. Cartesio, Il discorso sul metodo.
Dunque, in Cartesio, l’uomo è il suo ‘cogito’, la sua stessa quanto unica capacità
razionale: questa è la nuova rivoluzionaria visione antropologica del francese, che segna il
definitivo spartiacque tra il Medioevo e la Modernità, in cui tale coincidenza se da un lato fa
della ragione l’unico strumento di verità per l’uomo, l’unico mezzo per comprendere e
rapportarsi al mondo oggettivo, dall’altra sembra come eliminarne a priori ogni connotato
emotivo e sensibile: l’uomo non esiste se non come soggetto pensante, come macchina
pensante e che dubita in cerca della verità, è una ‘res cogitans’ in una ‘res extensa’ (una ‘cosa
pensante’ in una ‘cosa estesa’).
Secondo il pensatore, in sintesi, può anche non esistere quello che io penso, non essere vero e
oggetto di conoscenza certa, ma quel che è certo è che io che penso, esisto: “l’uomo esiste in
quanto è essenzialmente e costitutivamente pensiero.”
Ora, se questa è la tesi centrale del Razionalismo cartesiano, in qual maniera è
possibile individuare un concetto di alterità, ed in che termini essa stessa è pensabile?
Da buon scienziato moderno, anche in Cartesio vale il principio di utilità: l’antropologia
cartesiana, infatti, delinea un soggetto che si rapporta ad “altro” esclusivamente per
conoscerlo, per il vantaggio del sapere; ogni apertura all’esterno, all’altro-da-sé che ha l’uomo
è mossa e guidata da un principio di utilità della conoscenza: quasi che non vi è altro scopo
dell’alterità se non uno di natura gnoseologica, dacché l’uomo non è altro che il suo pensiero.
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Di certo elevatissima come interpretazione, ma non del tutto esente da critiche e dissensi,
soprattutto in termini etici, poiché ammettere, come fa il francese, che “le passioni sono
deformazioni del pensiero che non producono conoscenza e che in quanto tali nuocciono
all’uomo”, è come sostenere che tutto ciò che non conduca ad un ampliamento del sapere, del
proprio cogito, non abbia valore ma anzi sia un danno per l’uomo stesso, poiché “le passioni
fungono da lente di ingrandimento, e fanno sempre apparire molto più grandi ed importanti
del vero tanto i beni, quanto i mali”.
Solo l’apertura al mondo, all’altro per ragioni gnoseologiche e di ricerca del Vero sono
legittime nella visione antropologica dell’uomo-macchina pensante che ci fornisce Cartesio.
E se basta “sentire” il proprio pensiero per considerarsi esistente, ne deriva che per Cartesio
ed i tanti cartesiani a lui succeduti, l’uomo basti a se stesso e alla sua ragione: non ha bisogno
dell’altro in termini di relazione umana, emotiva ed affettiva, ma in primis ha naturale
bisogno dell’altro, del mondo, per attuare e manifestare l’efficacia della sua facoltà razionale
e della sua conoscenza.
Dato il suo modello antropologico, se ne conclude che l’alterità in Cartesio è ammissibile
quasi esclusivamente in termini gnoseologici e come funzionale all’ampliamento della
conoscenza del soggetto: la relazione con l’oggetto è tale che l’oggetto sia sempre e soltanto
considerato mezzo e strumento della conoscenza del soggetto.
Tutta la dimensione dell’alterità si risolve in Cartesio ad una dimensione intellettuale.
“L’amore per l’altro, così come l’odio, la gioia o la tristezza
sono ciò che io chiamo ‘emozioni normali’
perché la loro valutazione, in quanto fatta dal corpo (res extensa),
si riferisce soltanto al bene o al male del corpo;
ci sono poi le ‘emozioni pure’ che muovono l’anima
e che provengono dalle impressioni del cervello;
per cui c’è un amore/odio intellettuale, una gioia/tristezza intellettuale..
suscitati nell’anima (espressione del cogito) dai suoi stessi giudizi circa la convenienza
dell’unione o della separazione dall’oggetto.”
A. Malo, Certezza e volontà. Saggio sull’etica cartesiana. – passi tratti da R. Cartesio, Le
passioni dell’anima.
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Cartesio lo afferma: qualsiasi relazione ha valore di ‘purezza’ solo se di natura
intellettuale, gnoseologica – dacché l’uomo è il suo pensiero; in più, vige il principio
utilitaristico di convenienza.
Può dirsi questa vera alterità? A voi la riflessione.
Complementare soltanto in parte, e decisamente opposta per la maggiore è la
posizione antropologica consegnataci da Blaise Pascal (1623 – 1662). Francese come
Cartesio, suo studioso prima e suo oppositore poi, Pascal delinea un uomo che fa della
ragione cartesiana una sua peculiarità, ma non ne ammette l’esclusività e l’unicità così
assoluta: alla ragione, affianca il cuore, all’esprit de geometrie – spirito razionale e
matematico – affianca l’esprit de finesse – spirito emotivo ed affettivo, nella convinzione che
l’esperienza umana in tutte le sue dimensioni, soprattutto quelle relazionali, così come la vita
quotidiana, il senso profondo dell’esistenza e delle sue dinamiche non possono essere spiegati
né dimostrati con spirito razionalistico ma solo “sentiti” ed intuiti con il cuore.
Ecco perché Pascal, semplice e diretto afferma:
“Cartesio, inutile ed incerto.”
B. Pascal, I Pensieri – Pensiero n. 195
In totale onestà, il pensatore francese ammette che fare una “dipintura d’uomo” che ne
definisca tutti i caratteri e le peculiarità, ovvero avere un’idea chiara e distinta di chi e cosa sia
l’uomo, e con esso i suoi bisogni, sia qualcosa di impossibile dacché “l’uomo è un mostro
incomprensibile”; ma quel che è certo è che il soggetto non è solo il suo pensiero
(opposizione a Cartesio) ed ha bisogno dell’altro e di aprirsi col cuore al mondo per esistere
perché “è soggetto di relazione col cuore”.
Da qui le sue osservazioni:
“L’uomo è manifestatamente fatto per pensare; in questo sta la sua dignità;
e tutto il suo valore e tutto il suo dovere stanno nel pensare come si deve.
[…]
Tutta la dignità dell’uomo sta nel pensiero. Ma cos’è questo pensiero? Com’è sciocco!!
[…]
Guerra intestina nell’uomo tra la ragione e le passioni.
Se egli avesse solo la ragione senza le passioni…
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Se egli avesse solo le passioni senza la ragione…
Ma, avendo le due cose, non può stare senza guerra,
non potendo avere pace con l’una se non in guerra con le altre:
così, egli è sempre diviso, in contrasto con se stesso.
[…]
L’uomo non è né angelo né bestia;
e disgrazia vuole che chi vuole fare l’angelo faccia la bestia.
Se egli si esalta, io lo abbasso; se si abbassa, lo esalto;
e lo contraddico sempre, fino a che non comprenda che è un mostro incomprensibile.
[…]
Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce.
Dico che il cuore ama l’essere universale naturalmente e se stesso naturalmente,
a seconda che si attacchi all’uno o all’altro;
e si indurisce contro l’uno o l’altro, a sua scelta.
Voi avete respinto l’uno e conservato l’altro: è forse per ragione che amate voi stessi?”
B. Pascal, I Pensieri
L’antropologia pascaliana offre un modello molto diverso da quello cartesiano: è un
uomo incomprensibile, non definibile perché complesso avendo le due dimensioni emotiva e
razionale insieme, dimensioni in cui a volte domina l’una limitando l’altra, e viceversa.
Quello che tuttavia emerge con chiarezza dalle pagine del francese è che la dimensione del
dialogo e dell’ascolto è centrale nell’esistenza dell’uomo: l’apertura all’altro è necessaria, non
soltanto naturale, in termini affettivi e sensibili, e non per trarne un vantaggio conoscitivo
come in Cartesio, ma semmai un vantaggio ‘esistenziale’: l’Altro, che sia uomo o pure Dio
come lo stesso Pascal, da filosofo cristiano, invoca, è essenziale e fondamentale al soggetto
per se stesso. Il punto d’incontro con l’altro avviene conciliando la dimensione razionale a
quella del cuore, dando tuttavia rilevanza a quest’ultima:
“È il cuore che sente Dio, non la ragione.
Ecco che cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, non alla ragione!”
B. Pascal, I Pensieri – Pensiero n. 48
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L’alterità recupera così il suo aspetto sensibile, intimo e profondo, e diventa elemento e
caratteristica ontologica dell’uomo, benché continuamente scisso tra il suo cuore e la sua
ragione.
Concludendo, la capacità dell’uomo di aprirsi agli altri dipende da che genere di
soggettività si è; tuttavia, che sia per dominio di conoscenza o per emotività, non c’è soggetto
che non sia per natura portato all’alterità.
Pertanto, questo ci conduce con forza a sostenere la tesi della naturalità dell’alterità.
3.3. La relazione con l’Altro
A vantaggio dell’altra tesi precedentemente ipotizzata, ovvero della necessarietà
dell’alterità, andiamo ad analizzare tre grandi pensatori della filosofia contemporanea e che
hanno fatto proprio della relazione con l’altro un caposaldo delle rispettive filosofie:
Kierkegaard, Heidegger, Levinas.
Il danese Soren Kierkegaard (1813 – 1855), come in parte anticipato, fu acerrimo
oppositore di Hegel e della sua filosofia dell’universale. Come lui stesso dichiarò: “Quando
tutti parlavano di sistema su sistema, io presi di mira il sistema, ed ora di sistema non si
parla più”.
Tuttavia, per dovere di precisione, Kierkegaard non ebbe molta fortuna ai suoi tempi – metà
Ottocento –, l’Idealismo ed i suoi maestri esercitavano un monopolio troppo consolidato negli
ambienti accademici da poter consentire ad un giovane filosofo emergente – che per di più
firmava le sue prime pubblicazioni con pseudonimi – di avere la giusta risonanza. Questa gli
sarà riconosciuta quasi un secolo più tardi, quando sarà ampiamente ripreso e studiato in
quella che fu chiamata “Kierkegaard Renaissance” e che altro non è che la fondazione del
movimento Esistenzialistico, che ha in Martin Heidegger il suo padre teoretico e, per
l’appunto, in Soren Kierkegaard il suo padre ideale.
In effetti, volontà centrale della filosofia kierkegaardiana è il recupero della soggettività e
della sua esistenza nella sua dimensione più unica ed autentica, contro ogni filosofia –
dialettica in particolar modo – che proceda all’annullamento proprio la dimensione
soggettivistica: in Kierkegaard, il soggetto diviene “Il Singolo”, che è la categoria propria
dell’esistenza, come valore unico e non riducibile ad alcun concetto universale.
Ora, tale categoria si realizza mediante due elementi:
-
La possibilità
19
-
La relazione con l’Altro.
Con il termine possibilità Kierkegaard afferma il peso della responsabilità dell’esistenza,
dacché l’uomo si realizza in base a ciò che decide e sceglie di essere: ogni uomo di fronte a sé
ha infinite possibilità, “ogni esistenza è l’esistenza di una scelta tra una possibilità che sì ed
una possibilità che no”, ogni decisione è il risultato di un aut-aut che fa sì che l’uomo si
realizzi in maniera unica ed irripetibile, frutto delle sue personali scelte e volontà.
Per questo non è pensabile, per il filosofo, ammettere un’esistenza universale, uguale per tutti,
un cammino processuale dialettico (come in Hegel) che finisca per annullare la particolarità
del soggetto esistente a vantaggio di un ‘tutto universale’ che rappresenta il solo ‘vero’
possibile (cfr. “Il vero e l’intero” in Hegel).
In Kierkegaard, esistere significa scegliere fra più alternative che il mondo offre, quindi,
anche soltanto per questo, l’esistenza stessa del Singolo è già un’alterità, ovvero una relazione
con il mondo e le sue infinite possibilità: il Singolo kierkegaardiano ha bisogno del mondo, ha
necessità dei suoi soggetti-oggetti per essere se stesso e darsi unicamente alla vita. Non ci sarà
mai un Singolo uguale ad altri, perché ciascuno ha sue personali, intime necessità, o – come
dichiara il danese – la sua “spina nelle carni”.
Il filosofo, di più, chiama angoscia “il sentimento del possibile”, ovvero il sentimento che il
soggetto prova nel momento in cui sta compiendo la sua personale scelta esistenziale, nel
momento in cui si apre al mondo per realizzare se stesso e viverci: in tale ottica, possiamo
quindi identificare nell’angoscia anche un sentimento caratterizzante l’alterità stessa.
“Paradossale è la condizione umana.
Esistere significa «poter scegliere»; anzi, esistere significa essere possibilità.
Ma ciò non costituisce la ricchezza, bensì la miseria dell'uomo.
La sua libertà di scelta verso il mondo non rappresenta la sua grandezza,
ma il suo permanente dramma.
Infatti, egli si trova sempre di fronte all'alternativa di una «possibilità che sì» e di una
«possibilità che no» senza possedere alcun criterio di scelta.
E brancola nel buio, in una posizione instabile, nella permanente indecisione, senza riuscire
ad orientare la propria vita, intenzionalmente, in un senso o nell'altro.
[…]
Eppure, ogni uomo, per quanto poco intelligente sia,
per quanto bassa sia la sua posizione nella vita,
ha un bisogno naturale di formarsi una concezione di vita,
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una rappresentazione del significato della vita e del suo scopo.
[…]
Ognuno ha bisogno di aprirsi al mondo delle tante possibilità per farsi se stesso.”
S. Kierkegaard, Aut-Aut (Enten-Eller)
Da qui, necessariamente, il valore della relazione con l’Altro, che dà luogo a tre
modelli antropologici (detti stadi) assunti come tradizionali, benché l’intento del filosofo sia
sostanzialmente sostenere l’efficacia del modello teologico-religioso, evidenziando i limiti e
le debolezze degli altri due. Vediamoli velocemente.
Stadio della Vita Estetica: il personaggio che lo rappresenta è il Don Giovanni, il
libertino per eccellenza, colui che:
“fa della sua vita una danza continua, che vive di seduzione
e di puro appagamento di sé,
che non ama una donna ma la donna”.
S. Kierkegaard, Il Don Giovanni. Ovvero dello spirito della musica.
E colui che vive con la certezza che:
“Conquistare l’anima di una ragazza è un’arte,
sapersene liberare è un capolavoro.”
S. Kierkegaard, Il diario del seduttore.
Il Don Giovanni è colui che incarna il seduttore sensuale prima e carnale poi, che conduce la
fanciulla (spesso promessa sposa) al più completo smarrimento interiore, per poi
abbandonarla “una volta raggiunta, e diriger lo sguardo ad altre e nuove prede.”
Riflessione centrale del filosofo è che il Don Giovanni, poiché non può non scegliere,“sceglie
di non scegliere”: non sceglie un legame unico e solo, ma la sua esistenza è un continuo
movimento – per questo è danza, per questo è musica, come il Don Giovanni di Mozart – tra
meccanismi sempre diversi (la tradizione riferisce la conquista di 1003 donne!!) di
individuazione-corteggiamento-possesso-abbandono, alla ricerca di un piacere effimero,
sensuale ed estetico (dal greco aistesis, sollecitazione dei sensi) ma mai definitivo e di
impegno responsabile verso una sola donna.
In Don Giovanni, pertanto, la relazione con l’altro, la relazione con la donna, è di vitale
necessità a se stesso: gli occorre per soddisfare i suoi bisogni edonistici, i suoi piaceri
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personali ed ampliare la stima egoistica ed egocentrica che ha di sé; addirittura, si può
affermare che la donna diventa strumento funzionale alla realizzazione dell’esistenza stessa
del Don Giovanni, un’esistenza che alla fine si dà senza senso, centro e valore autentici, ma
ammessa in nome dei principi tutti particolari di un’etica edonistica e del piacere.
Dunque, senza questo tipo di alterità, non si darebbe vita estetica così intesa, ed è assumibile,
questa, a modello di tutte le relazioni similmente fondate sul piacere piuttosto che su un
valore profondo in sé.
Stadio della Vita Etica: modello diametralmente opposto al primo, è incarnato da un
personaggio di nome Guglielmo, marito fedele, padre amorevole e giudice rispettabile di
professione. Guglielmo, così com’è, incarna l’uomo etico per eccellenza: colui che si
“consegna” all’impegno del matrimonio e della famiglia, che vive per assicurare una vita
dignitosa ai figli e crescerli nel senso del dovere e dell’onestà, dedito al trionfo del bene e del
giusto anche nella vita pubblica data la sua professione.
In sostanza, Guglielmo vive per l’alterità: che siano la moglie, i figli o la società, egli incarna
un modello antropologico in cui si pone al servizio dell’altro e per un senso etico che è quello
dell’amore (famiglia) e/o del giusto (società).
Così, se nel Don Giovanni si può sostenere quasi la tesi di un’alterità edonistica, nel
giudice Guglielmo si può individuare un’alterità deontologica: nel primo è il piacere (edonè
in greco) a determinare la relazione ed il senso della stessa, nel secondo è il dovere (deon in
greco) ed i suoi principi del rispetto e dell’onestà – quelli che, d’altro canto, il Don Giovanni
nemmeno contempla all’infuori di sé.
Tuttavia, entrambi i modelli per il filosofo risultano in errore, benché ovviamente sia il primo
a suscitare l’enfasi critica più accesa. Eppure, presi in sé e per sé si mostrano realmente come
due estremi non ammissibili, un’alfa ed un omega che mal si conciliano con il valore più puro
dell’alterità.
Infatti, il primo strumentalizza a sé l’altro, facendo sì che ne derivi una relazione
aprioristicamente non autentica e deprecabile in via di principio: il Don Giovanni si serve
dell’altro (la donna) per soddisfare se stesso, egli conosce solo l’egoistica utilità dell’aprirsi
all’altro-da-sé, non c’è purezza né bene vero verso l’altro, né tanto meno la considerazione di
questo in termini soggettivi ma solo come oggetto utile a sé e al suo personale appagamento.
In Guglielmo, invece, la relazione e l’apertura all’altro diviene una sorta di sottomissione e
sudditanza: per quanto eticamente accettabile, letto con spirito critico, Guglielmo finisce per
annullare se stesso nelle sue relazioni quotidiane ed abitudinarie: la sua vita diventa una
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proiezione ed un soddisfacimento dei bisogni degli altri, per quanto vicini come la famiglia,
ma pur sempre altro-da-sé.
Riflettiamo bene: se si ammette, in termini filosofici, che il concetto di alterità è l’opposto di
quello di identità, allora si deve anche accettare come vero che in un’autentica relazione di
alterità ci debbono essere due identità in relazione tra loro: sono da escludersi, pertanto, tutte
quelle dinamiche in cui una delle due parti – una delle due identità – annulla o è annullata,
domina o è dominata.
-
L’identità di Don Giovanni, nella relazione di alterità, annulla l’identità della donna,
dell’altro: ovvero, il soggetto annulla il valore ontologico dell’oggetto di cui eppure ha
bisogno per darsi come esistente;
-
L’identità di Guglielmo, nella relazione di alterità, annulla se stesso per gli altri: ovvero, il
soggetto o si annulla nel suo valore ontologico e di esistente per il bene degli altri, o sono
gli altri stessi che ‘abusano’ della relazione di alterità… resta il fatto che, da qualsiasi lato
la si consideri, una delle due parti perde di identità.
Questo passaggio risulta fondamentale per evidenziare e riflettere su uno degli elementi più
importanti dell’alterità stessa: può dirsi vera relazione, vera apertura – che sia per naturalità o
per necessità – solo quella relazione tra soggetti che conservano, mantengono o in essa
perfino costruiscono, una propria, precisa e definita identità. Non può esserci alterità senza
identità determinate in relazione: nel paradigma antropologico, l’alterità è sempre apertura tra
identità che conservano uno statuto ontologico personale determinato. Definiamo, pertanto, di
vera alterità quella naturale quanto necessaria apertura all’altro-da-sé- tra identità di pari
valore ontologico.
Stadio della Vita Religiosa: ultimo modello di vita – ed assunto dal filosofo cristiano
come il migliore in assoluto – è il modello religioso, che relativamente al nostro tema ci
permette di considerare un altro aspetto finora non analizzato, ovvero l’Altro inteso in senso
teologico e trascendente (ultima sezione del presente lavoro).
In tale stadio, Abramo è assunto a uomo ideale capace di rappresentarlo, colui che ha scelto il
dovere coniugale e sociale (Guglielmo) a scapito dei piaceri della carne ed effimeri (Don
Giovanni) e sarebbe perfino disposto a sacrificare il suo bene più prezioso e tanto atteso (il
figlio Isacco) per Dio, i suoi valori e principi, e mettersi alla guida del popolo di Dio.
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Con questo terzo ed ultimo modello, Kierkegaard – ovviamente, da pensatore cristiano –
vuole affermare che solo la scelta religiosa, solo la scelta per Dio, è la scelta esistenziale vera
e di valore.
Ne deriva, di riflesso, che l’alterità per eccellenza è quella verso Dio:
“L’uomo nella sua relazione con Dio è solo
ma è anche più autenticamente se stesso”.
Solo Dio può effettivamente garantire esistenza di valore all’uomo, solo l’obbedienza a Dio e
la fede permettono all’uomo di farsi veramente ed autenticamente Singolo:
“È nell’apertura alla Trascendenza che io mi faccio Singolo nel modo più elevato.
[…]
Ciò di cui ho veramente bisogno è di chiarire nella mia mente ciò che devo fare, non ciò che
devo conoscere, pur considerando che il conoscere deve precedere ogni azione.
La cosa importante è capire a che cosa sono destinato,
scorgere ciò che la Divinità vuole che io faccia;
il punto è trovare la verità che è vera per me,
trovare l'idea per la quale sono pronto a vivere e morire.”
S. Kierkegaard, Aut-Aut (Enten-Eller)
Ora, nella filosofia kierkegaardiana l’apertura alla Trascendenza è necessaria e funzionale
all’esistenza: solo nella relazione con l’Altro che è Dio si può essere veri soggetti e vera
identità in senso ontologico.
Questa visione altro non è che la tesi centrale che si appoggia nel terzo ed ultimo paradigma
della presente analisi, per l’appunto il Paradigma Religioso che riprenderemo in esame nella
parte finale del presente lavoro, avente come tesi centrale che nella visione teologica, l’Altroda-sé che dà valore all’identità dell’Io diventa il Trascendente.
Altresì, sulla scia della posizione kierkegaardiana nasce l’Esistenzialismo
contemporaneo tra le due guerre mondiali e pone al centro di un nuovo spirito di riflessione,
che il dramma di quel tempo rende tutta attuale, il senso dell’esistenza dell’uomo. Tesi
centrale dei tanti filosofi esistenzialisti, pur nelle peculiarità teoretiche di ciascuno, è che
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l’uomo per dirsi pienamente esistente ha bisogno della relazione con l’Altro, ed è proprio in
questa relazione, in questa alterità, che si riassume il senso dell’esistenza stessa.
Tra i primi filosofi di questa nuova ‘atmosfera culturale’ che trova la sua massima
espressione nel secondo dopoguerra mondiale, spicca Martin Heidegger (1889 – 1976) una
delle personalità più dibattute e studiate del panorama filosofico contemporaneo. Non è
questa la sede per approfondirne il profilo personale e teoretico – eppure a io giudizio così
interessante – ma qui è sinteticamente analizzato come uno dei ‘padri del concetto di alterità
contemporanea’.
Infatti, il tempo contemporaneo rivendica con forza il valore di ogni esistenza umana,
indagata in ogni suo aspetto ed in quelle che saranno chiamate “le situazioni limite”, ovvero le
situazioni drammatiche dell’esistenza che la tragedia della guerra, dell’olocausto, delle stragi
belliche… avevano ampiamente testimoniato.
Si avverte così il bisogno di tornare a cercare il senso autentico della vita, dell’esistenza e
delle sue relazioni – di ciò che, si è sottolineato anche all’inizio del presente lavoro, Husserl
ha denominato “mondo della vita” con il suo “tornare alle cose stesse” –; si scorge il
bisogno di tornare a riflettere sul valore dell’esistenza pur entro i suoi limiti e le sue fragilità,
a volte pure drammatiche.
Cosa certa consegnataci dalla storia è che l’uomo ha come sua possibilità più certa ed
immancabile la morte: la presa d’atto – per quanto possa risultate banale – della finitudine
umana fa sì che ora a livello filosofico si voglia tornare a riflettere su ciò che è realmente
importante e di senso per la vita dell’uomo, una sorta di “ripiegamento su di sé” agostiniano
che faccia riscoprire un nuovo senso cui appellarsi.
Questo nuovo senso, come stiamo per analizzare, al di là delle differenti posizioni, si trova
proprio nell’alterità e nella riscoperta del suo valore esistenziale.
Heidegger si inserisce appieno in tale spirito teoretico, tant’è che sulla scia di
Kierkegaard, compie una vera e propria ‘analitica dell’esistenza’ volta a delineare le
caratteristiche naturali e le esigenze dell’essere esistente che è l’Ente, riassumibili di fatto
proprio nel concetto di alterità.
Heidegger chiama ‘Ente’ (dal latino ens, ciò che è) tutto ciò che è esistente: il mondo, la
natura, gli animali, l’uomo, sono tutti ‘enti’ per il semplice fatto che ci sono e sono esistenti.
In più tuttavia, l’uomo è un ente privilegiato poiché è cosciente della sua stessa esistenza, la
può comprendere sia in via razionale che sensibile; questo suo privilegio cosciente e
consapevole gli è valso il termine di Esserci (ciò che Heidegger in tedesco chiama Dasein),
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dove la particella “ci” indica la consapevolezza dell’Ente di essere esistente in uno spazio ed
in un tempo – hic et nunc, qui ed ora direbbero i latini.
Stando semplicemente a questi elementi già possiamo parlare di alterità: per Heidegger, non
esiste nessun soggetto fuori dal tempo e dallo spazio, perciòddetto la prima, naturale e
necessaria relazione ed apertura che il soggetto o l’Ente ha è con il mondo nella sua duplice
dimensione spazio-temporale:
“Senza la relazione e l’apertura al tempo e al luogo,
l’essere umano, che è un Esserci consapevole, non esiste.”
M. Heidegger, Essere e tempo.
Da queste premesse, parte la complessa disamina delle caratteristiche esistenziali
dell’Esserci heideggeriano, a cominciare dal concetto stesso di esistenza: come sottolinea il
filosofo, infatti, esistere non è vivere; il termine “esistere” deriva dal latino “ex-sto”, ovvero
stare al di fuori, al di là di sé: la vita è qualcosa di biologico e dato, l’esistenza è qualcosa di
progettato, definito, scelto proiettandosi al di fuori di se stessi, aprendosi al mondo e agli altri.
Per questo l’Esserci è continuamente in gioco, continuamente in movimento nella costruzione
del suo esistere e nella costante relazione con l’altro, nella dimensione dell’apertura e della
relazionalità.
Semplicemente, infatti, Heidegger così lo dichiara:
“Non c’è un soggetto senza mondo.
Noi non potremmo mai realizzare noi stessi se rimanessimo un io solipsistico.
[…]
Ma l’essere nel mondo è anche essere tra gli altri.
Così l’Esserci, a causa del modo di essere che gli è proprio,
tende a comprendere il proprio essere in base agli enti con cui si rapporta in linea
essenzialmente costante, cioè in base al mondo e agli altri.”
M. Heidegger, Essere e tempo.
Ciò vale a dire che è nella natura dell’Esserci – “a causa del modo che gli è proprio” – di
essere costitutivamente aperto al mondo (spazio e tempo) e agli altri; senza questa alterità, che
è costante e continua, nemmeno l’Esserci stesso ci sarebbe.
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Più specificatamente, Heidegger chiama “comprensione” questa naturale facoltà
dell’Esserci di relazionarsi all’altro: dal latino cum-prendere, prendere su di sé, la
comprensione è per Heidegger l’atteggiamento esistenziale (e non conoscitivo e
gnoseologico) per eccellenza che va riscoperto e che costituisce il valore stesso dell’esistenza:
“La comprensione, in quanto apertura, riguarda l’intera costituzione dell’essere nel mondo.
[…] La comprensione può attuarsi innanzi tutto come apertura del mondo;
che sia autentica o non autentica, essa è il senso dell’esistenza dell’Ente che è l’Esserci,
e ciò che ne esprime il suo carattere di progetto.”
M. Heidegger, Essere e tempo
Heidegger lo sostiene con forza, la struttura dell’Esserci è e non può che essere relazionale: è
parte della sua stessa natura ontologica essere proteso verso l’altro da sé, avere questa
tendenza alla progettualità, ad un progetto esistenziale condiviso e non solipsistico, nutrire la
comprensione verso il mondo e gli altri (per intenderci, ciò che Husserl definiva
intenzionalità), secondo un principio di “utilizzabilità”, la categoria introdotta da Heidegger
per definire il rapporto teorico e pratico dell’uomo con le cose.
Ma in che modo si esprime tale relazionalità?
Qual è in Heidegger il modo per eccellenza del darsi di questa alterità, di questa
comprensione?
“L’Esserci è un essere in relazione,
costantemente proteso (proiectum, progettato) fuori da sé,
in modo tale da progettare il mondo stesso
e prendersi cura delle cose del mondo e degli altri.”
M. Heidegger, Essere e tempo.
Il valore dell’esistenza e l’espressione più alta dell’alterità è la capacità dei soggetti non tanto
di relazionarsi, quanto di prendersi cura gli uni degli altri:
“Ogni ente è nel mondo colui che si prende cura in modo autentico delle cose e degli altri.
[…] Noi siamo enti che si prendono cura di tutto ciò con cui si relazionano;
la Cura è la struttura fondamentale dell’esistenza
perché indica la naturale protesa che abbiamo verso gli altri.”
M. Heidegger, Essere e tempo.
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Ecco l’alterità per Heidegger: fatto salvo che l’essere esistente è costitutivamente aperto
all’altro-da-sé e continuamente proteso fuori-da-sé, l’atteggiamento esistenziale per
eccellenza cui il tedesco auspica è la riscoperta nel tempo attuale del valore della
comprensione e del prendersi cura degli altri, del mondo e delle cose del mondo.
L’Esserci è costitutivamente aperto
al
Mondo
Altri
ALTERITA’
Comprensione
Prendersi cura
Quindi, al di là delle differenze teoretiche, Kierkegaard ed Heidegger sono i maestri
indiscussi del movimento dell’Esistenzialismo e gli autori che hanno fatto dell’alterità una
dimensione esistenziale naturale e necessaria per l’uomo e dell’uomo.
Ma l’alterità implica, ovviamente, anche analisi di tipo etico e morale ed il rapporto
io–altro è proprio un tema fondamentale se non caratteristico della filosofia morale
contemporanea. Questo è quanto avviene in Emmanuel Levinas (1906 – 1995), altro grande
filosofo francese contemporaneo.
Due sono le sue opere fondamentali, Il tempo e l’altro ed Etica e infinito, entrambe
volte da un lato a definire l’immancabile relazione io–altro, in linea con i suoi contemporanei
esistenzialisti, e dall’altra con l’intento di darne una definizione squisitamente etica, e
pertanto decisamente attuale.
Secondo il filosofo, il rapporto di alterità si fonda sul “mistero del soggetto che mi sta
davanti”: ovvero, l’Altro è per me, soggetto, sempre un altro-da-sé, un qualcun altro che
come tale non solo è diverso (tesi sviluppata all’inizio del presente lavoro relativamente alla
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dicotomia alterità-identità) ma soprattutto è per me un “mistero”, uno sconosciuto rispetto al
me.
Levinas sostiene che la relazione io-altro in termini gnoseologici e conoscitivi (Cartesio) è
una relazione “annullante il valore ontologico dell’io-me e dell’io-altro”: la riduzione
dell’altro a concetto non permette di cogliere né il valore dell’Altro in sé e per sé, né tanto
meno il valore della relazione con l’Altro stesso.
Se pertanto abbiamo parlato di ‘alterità gnoseologica’, con Levinas dobbiamo parlare
di una ‘alterità etica’, ovvero di un’alterità che nelle sue dinamiche relazionali ponga al centro
il soggetto, ne riconosca e ne mantenga il valore in sé – ontologico e non solo – e su tale
riconoscimento non riducibile a concetto fonda un sistema di relazioni etiche e pratiche:
possiamo quindi parlare di un’alterità etica, o come è chiamata da Levinas stesso, di un’etica
dell’incontro. Vediamo in che senso.
Il filosofo francese avvia la sua analisi partendo, appunto, dal concetto di mistero.
È ovvio, quanto vero, in effetti, che ogni soggetto-altro sia per me un dato non certo, non
conosciuto e compreso in tutti i suoi aspetti, e sia pertanto un mistero. Ma quello che Levinas
osserva è l’errore classico in cui si può cadere nel rapporto di alterità: ovvero la pretesa di
oggettivazione, la pretesa del soggetto di conoscenza (ovvero rendere l’Altro non più mistero,
ma conosciuto), di condizionare e privare di una sua valenza ontologica pari a sé il soggettoaltro. L’azione oggettivante e decostruente è, pertanto, quanto Levinas denuncia come errore
della relazione di alterità: l’Altro deve rimanere e conservarsi come Altro in sé, come un
soggetto ontologicamente di valore quanto il me che vi si relaziona:
“L’altro che mi viene incontro si presenta a me principalmente come volto,
come eccezione assolutamente irripetibile, […]
come quell’unicità insostituibile e non intercambiabile che lo rende Altro […]
e che ha in sé, per me, la dimensione del mistero.
[…]
L’Altro è qualcuno che non è me,
e qualunque mio tentativo di ricondurlo all’ovvio, al consueto, al conosciuto, al già visto,
risulta un tentativo di decostruzione sul nascere della formidabile
unicità del volto che l’Altro è.”
E. Levinas, Il tempo e l’altro.
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L’alterità, dunque, secondo Levinas ha il merito di irrompere nella strutture conoscitive e
nelle modalità più tradizionali del nostro conoscere poiché impedisce e pone fine alla
tendenza di generalizzare i dati in totalità armoniche e sintetiche (di matrice prima di tutto
hegeliana). L’Altro è un mistero, cioè è portatore di un suo universo autonomo, di un mondo,
di un sistema valoriale suo e che non è sintetizzabile con il mio o con quello di altri soggettialtro. L’alterità per questo non può essere intesa come scienza.
“Per comprendere il non-io, occorre trovarvi un accesso attraverso un'entità,
un'essenza astratta che, al tempo stesso, è e non è (concetto).
È qui che si dissolve l'alterità dell'altro.
L'essere estraneo, invece di mantenersi nella fortezza inespugnabile della sua singolarità,
invece di stare di fronte, viene tematizzato e oggettivato.
Si sussume già sotto un concetto o si dissolve in relazioni.
Cade nella rete di idee a priori che io porto con me per captarlo.
Conoscere significa cogliere nell'individuo che mi sta di fronte,
in questa pietra che ferisce, in questo pino che si slancia, in questo leone che ruggisce,
ciò mediante cui non è più questo individuo determinato che mi è estraneo,
ma attraverso cui già tradendo se stesso, dà appiglio alla volontà libera che vibra in ogni
certezza,
si lascia afferrare e comprendere, entra in un concetto.
La conoscenza consiste nel cogliere l'individuo che soltanto esiste,
non nella sua singolarità che non conta,
ma nella sua generalità, di cui solamente si dà scienza.”
E. Levinas, Il tempo e l’altro.
In sintesi, se cerco di ridurre a dato conoscibile – facendo così scienza – quel mistero, quel
volto, quel dato unico che è l’Altro, annullo l’Altro stesso e realizzo un’alterità non autentica.
“L’Altro non può divenire nostro, non può divenire noi,
è sempre inaccessibile, è sempre futuro;
l’altro è una piena e suprema libertà: quindi, da un certo punto di vista,
è sempre futuro ed io non potrò mai avere una visione dell’altro tanto certa – quanto quella
che ho di me – da farmelo vedere come un insieme di cose già viste.”
E. Levinas, Il tempo e l’altro.
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Sostenere questa tesi significa che qualsiasi cosa si creda di sapere sull’altro può essere smentita
in qualsiasi momento poiché lui “è sempre al di là (futuro) di tutto ciò che io penso di sapere di
lui”.
La reazione, nonché l’insegnamento che ci fornisce Levinas al riguardo si esprime con il
concetto di accettazione, o di responsabilità: poiché è anti-etico ed anti-umano per il francese
oggettivare l’altro, poiché significherebbe decostruirlo, allora occorre “accettare” la diversità e
su tale accettazione fondare la relazione di apertura all’altro stesso. Questo richiede,
necessariamente, un senso etico di responsabilità verso l’altro e di responsabilità dei soggetti
coinvolti nella relazione di alterità: senza questi presupposti, di natura etica appunto, la
relazione non può dirsi autenticamente significativa per l’esistenza.
In altre parole, solo se ogni soggetto (sia il soggetto-me che il soggetto-altro) conservano la
propria identità ontologica, la propria autonomia soggettiva e quindi anche la propria libertà, e
la rispetto come tale, si può parlare di vera alterità. È come se dal mistero, si passasse alla
riconoscimento di questo (accettazione e responsabilità), per poi realizzare vera relazione:
l’alterità di Levinas si riassume in questa progressione, e diventa per questo un’etica
dell’incontro perché è un’etica che si struttura e poggia sull’accettazione, sul rispetto dell’altro,
indipendentemente dalle strutture di riferimento o culturali cui il soggetto è parte ed
espressione.
1. ‘Mistero del volto’
2. ‘Accettazione – Responsabilità’
3. ‘Relazione’
_______________________________ Alterità come ‘Etica dell’incontro’
L’insegnamento di Levinas è chiaro quanto attuale: la sua riflessione non è tanto
focalizzata sul tema della necessità e della naturalità dell’apertura all’altro, quanto sul fatto che
la relazione e la responsabilità che abbiamo nei confronti dell’Altro sono e devono essere una
dimensione costitutiva di noi stessi.
Per diversi studiosi, il pensiero di Levinas sull'Altro costituisce uno dei fondamenti teorici del
multiculturalismo contemporaneo; suggerisce, cioè, una visione nuova e diversa dei rapporti fra
gli individui e fra le culture: in quanto rapporti fra diversi, come tali vanno riconosciuti e
valorizzati.
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Solo attraverso questo riconoscimento è possibile attivare una comunicazione autentica fra le
culture, senza affermazioni egemoniche dell’una sull'altra. Questa è senz’altro una prospettiva
feconda, spunto di grande riflessione, attraverso cui è possibile guardare in modo nuovo ai
problemi tanto attuali dei rapporti fra le culture ed i rispettivi sistemi di valore.
3.4. La negazione dell’Altro
Posizione diametralmente opposta alla maggior parte di quelle analizzate è quella
sostenuta da Jean Paul Sartre (1905 – 1980). Fecondo filosofo francese contemporaneo, il suo
esistenzialismo (dagli studiosi definito “ateo” e “marxista”) è il pensiero teoretico più tipico del
secondo dopoguerra mondiale, ed in esso sembrano vivere istanze hegeliane quanto, per
l’appunto, marxiste e materialistiche.
Egli delinea un modello antropologico estremo quanto realistico, illustrato nell’opera cardine
L’Essere e il nulla data 1943.
Procedendo sulla scia del metodo heideggeriano, anche Sartre si accosta al progetto di definire
una ‘analitica dell’esistenza’ e dell’esistente, ma a differenza di Heidegger il pensiero sartriano
ha uno sfondo crudo ed assai duro, quasi machiavellico, a tratti molto simile a quello di Arthur
Schopenhauer, il filosofo del pessimismo ottocentesco. Vediamo in che senso.
L’Esistenzialismo e l’ontologia sartriana ammettono due enti esistenti:
1. L’Essere per sé – ovvero il soggetto, e ciò che io sono (la particella ‘per’ indica l’essere
‘presenti a sé’ e consapevoli di sé);
2. L’Essere in sé – ovvero l’oggetto, l’essere con cui il soggetto entra in contatto, ciò che
Sartre stesso chiama “le cose del mondo” (la particella ‘in’ è colta in opposizione al ‘per’).
Tutta l’esistenza è, per il francese, la continua relazione tra questi due tipi di essere; stando a
questo, pertanto, tutta l’esistenza è già per Sartre alterità. Ma occorre vederne l’interpretazione,
del tutto originale.
Nella sua concezione, infatti, l’essere per sé è ciò che dà significati all’essere in sé: ovvero, il
soggetto è l’essere definiente e significante l’oggetto, e nello specifico ciò che Sartre chiama, in
virtù del suo realismo pessimistico, “potenza nullificatrice”.
In altre parole, per Sartre non esiste alcuna relazione di apertura – per quanto naturale e
necessaria – che non sia volta alla possibilità dell’annullamento delle parti l’una verso l’altra;
ogni soggetto è un ente che per la propria personale sopravvivenza ha la tendenza ad annullare
l’altro con cui si relaziona per poter dar senso ed avere più senso in sé.
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Definendo il soggetto potenza nullificatrice, Sartre intende affermare non il mero contrario
dell’essere, ma la capacità dell’essere stesso di dare significati alle cose e all’altro, e quindi
anche la totale libertà di poterle nullificare. Questa facoltà che ha l’uomo, che è anche e sempre
un rischio dell’esistenza, è per Sartre una vera e propria condanna:
“L’uomo è condannato ad essere libero:
condannato perché non si è creato da se stesso,
e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo,
è responsabile di tutto ciò che fa.”
J. P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanesimo.
Riflettendo, questa visione conduce ad un pessimismo estremo e crudo: l’uomo sartriano nasce
in contesto sociale (gettatezza) e dacché le relazioni che in esso instaura possono anche
annullarlo e negarne – attraverso il dare significati – il valore, ne deriva che questa possibilità
(nullificante) che ha l’uomo per natura non può originare relazioni autentiche e filantropiche,
ma solo hegelianamente di opposizione (antitesi) e lotta.
La relazione tra i soggetti esistenti, tra i diversi esseri è, dal filosofo, espressa in termini di
“sguardo”, ma questo non è mai uno sguardo benevolo, bensì giudice e giudicante,
antagonistico, polemico, nemico, che in quanto libero di ‘colpirmi’ ed annullarmi, ha anche la
potenza di farlo.
“Lo sguardo dell’altro genera un depauperamento della sfera delle mie possibilità:
io vengo limitato per il fatto di trovarmi in un contesto di persone che mi osservano,
che mi danno significati,
e così restringono l’ambito della mia autentica possibilità esistenziale.
[…]
Se poi sono sorpreso a guardare dal buco della serratura provo oggettiva vergogna
perché mi sento etichettato, definitivamente giudicato:
la mia libertà si perde perché il giudizio che è stato dato di me mi trasforma in cosa.”
J. P. Sartre, L’Essere e il Nulla.
In Sartre, pertanto, come in Hegel, l’alterità è interpretata come conflitto, come confronto
dialettico ed oppositivo con l’altro; ma mentre nel tedesco può essere letta come funzionale alla
progressione e alla crescita (logica ed ontologica insieme) dell’essere, nel francese ne è ostacolo
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ed impedimento. L’altro non è un dono, ma un soggetto-altro che può limitare il soggetto-me:
in tale modello antropologico, meglio negare l’altro che inglobarlo nella propria personale
esistenza… meglio ‘spiare’ l’esistenza dal “buco della serratura” come dichiara ne L’Essere e il
nulla – per quanto triste e vile – piuttosto che tentare di costruire relazioni autentiche.
Ecco perché Sartre giustifica la guerra, ecco perché ammette ‘la legge del più forte’, ecco
perché definisce consapevolmente “l’esistenza un assurdo caratterizzata dal sentimento della
nausea”, priva com’è di qualsiasi riferimento ad un’etica dell’incontro, della responsabilità e
del rispetto sul modello di Levinas.
Sentimento tipico del Novecento filosofico, la nausea sartriana è in effetti il sentimento che
invade l’uomo – e le sue dinamiche relazionali – quando egli scopre l’assurdità del reale e della
sua stessa esistenza, per l’appunto costantemente giocantesi tra l’essere e il nulla.
“La nausea è il sentimento di chi si sente di troppo rispetto al mondo e agli altri […];
è il sentimento dell’esistenza gratuita, assurda e senza senso, di chi è lì semplicemente.”
J. P. Sartre, La nausea
Tale sentimento giustifica il darsi dell’esistenza in termini di continua e costante conflittualità:
quasi alla maniera hobbesiana di una ‘guerra di tutti contro tutti’, pur di aver salvo il significato
ontologico ed essenziale del soggetto, si giustifica – anche eticamente – la conflittualità del
collettivo, come fatto proprio dai modelli totalitari.
In tale ottica, parlare di alterità è decisamente impossibile, e questo lo si comprende alla luce del
celebre aforisma di Sartre:
“L’enfer, c’est les autres.”
“L’inferno sono gli altri.”
J. P. Sartre, A porte chiuse
… che può essere letto come un riadattamento contemporaneo della tesi di Schopenhauer:
“Il mondo è un’arena di leoni assai peggiore dell’Inferno dantesco.”
A, Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione.
Nell’antropologia sartriana, pertanto, riscontriamo “la più totale impossibilità di
intendere l’incontro come uno stare di fronte in relazione autentico e pacifico”: l’alterità è tale
solo in quanto conflitto e peraltro legittimo e necessario all’esistenza, per lo più volto, se
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possibile, all’annullamento e alla negazione dell’altro, poiché soltanto così il soggetto può dirsi
realmente esistente e con tutte le possibilità dell’esistenza stessa avanti a sé.
4. Il paradigma religioso
Ultima chiave di lettura del presente lavoro, e genere di alterità che ha da sempre
accompagnato l’uomo di qualsiasi cultura: l’apertura all’Altro inteso come Trascendente, come
Ente Divino, come Dio.
In tal senso, l’alterità diventa espressione della Fede come relazione con il proprio Dio, e Dio
stesso diventa ‘alterità Assoluta’.
Già Agostino d’Ippona (Tagaste 354 d.C. – Ippona 430 d.C.) aveva fatto della
confessione intesa come ‘ripiegamento su se stessi’ il metodo per trovare Dio in interiore
homine (nell’interiorità dell’uomo) e stabilirci così una relazione ed un dialogo profondi e veri,
facendone così l’Altro per eccellenza; resta il fatto che ogni pensatore religioso ha considerato
sempre come vitale l’apertura al divino, che fosse concetto superiore o ente determinato.
“Ti cercavo fuori di me e non ti trovavo, perché tu sei il Dio del mio cuore.
[…] Tu eri dentro di me ed io fuori. Lì ti cercavo.
[...] Eri con me, e non ero con te.”
Agostino, Confessioni.
"Non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la Verità abita nell'uomo interiore.”
Agostino, De vera religione, XXXIX, 72
Padre della Chiesa, teologo, apologista e filosofo, Agostino fonda il suo pensiero sulla
dimensione dialogica dell’essere in sé: l’uomo ha in sé Dio, che è Trinità di Essere, Vero e
Amore; per questo – in linea con quanto analizzato nella filosofia kierkegaardiana – solo la
relazione e l’apertura a Dio rende il soggetto tale (Essere), vero (Vero) e buono (Amore).
Fori da Dio nulla è di senso e di valore, per cui:
-
va intesa come autentica alterità quella con l’alterità Assoluta, che è Dio ed è
interiormente nell’uomo;
-
può essere interpretata come alterità comunque di valore quella tra soggetti di fede, e con
il mondo inteso come “creato divino”.
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Fuori da queste interpretazioni teologiche, nulla ha valore in sé, tant’è che Agostino afferma:
“E vanno gli uomini a contemplare le vette delle montagne,
gli enormi flutti del mare, le lunghe correnti dei fiumi,
l'immensità dell'oceano, il corso degli astri,
e non pensano a se stessi.”
Agostino, Confessioni.
Similmente al grande maestro della Cristianità, il filosofo esistenzialista Karl Jaspers
(1883 – 1969) porta avanti questa impostazione fideistica e teologica, in linea con l’atmosfera
culturale dell’Esistenzialismo, di cui è rappresentante in chiave anti-sartriana.
Filosofo dalla grande sensibilità morale, acerrimo nemico del Nazismo, prima medico e poi
teoreta, Jaspers ammette sì il suo forte interesse per la scienza, ma in sua antitesi privilegia la
filosofia, il cui pensiero è un tentativo di ritorno alla guida del sapere: la conoscenza scientifica
non è e non può essere né avere gli strumenti per la conoscenza dell’essere. La scienza, per
Jaspers, non dice nulla sul senso dell’esistenza, che si può cogliere solo indagando sul Singolo
inteso kierkegaardianamente e in virtù del suo “orientamento nel mondo”, ovvero in virtù delle
sue relazioni di apertura nel mondo stesso e con il mondo stesso.
Ora, per il filosofo il mondo è “un orizzonte conglobante, un tutto abbracciante
espressione della Trascendenza, e tutto e tutti conteniente”: in altre parole, il mondo è
espressione e manifestazione della Trascendenza, di un qualcosa-altro superiore agli enti
singoli, di un Assoluto ulteriore e trascendente, e le relazioni in esso ‘conglobate’, comprese,
ne sono la rappresentazione. Pertanto, non c’è alterità differente dall’alterità Assoluta che è il
Trascendente – che sia inteso come Dio o Ente, indipendentemente dal nome che possa avere
(Jaspers, infatti, non si riferisce mai ad una fede unica poiché questo significherebbe non
rispettare il singolo, ma è bensì speranzoso nella possibilità di un dialogo multiculturale e
multireligioso tra le Verità).
Trascendenza, quindi, è sia l’altro-da-me che l’Altro Assoluto di cui tutti sono espressione; la
Trascendenza è l’Altro che dà senso al contingente, che lo sovrasta e lo contiene: fuori da
questa vi è il nulla di senso, e il sapere filosofico è l’unico sapere in grado di cogliere questa
relazione ed apertura tra l’essere e la Trascendenza.
Pertanto, filosofare in Jaspers significa cogliere questa partecipazione (intellettuale ed
ontologica) tra il singolo e il mondo, tra il singolo e la Trascendenza, tra il mondo e la
Trascendenza: solo la filosofia può cogliere questa relazione di alterità, nel naufragio
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dell’esistenza (il concetto di ‘naufragio’ assume in Jaspers la stessa valenza della ‘nausea’ di
Sartre: vogliono denunciare l’assurdo del tempo attuale e la complessità del momento
esistenziale contemporaneo).
Così Jaspers afferma:
“Il mondo resta sempre come orizzonte trascendente.
Nell’uomo è essenziale e costitutiva di sé la presenza dell’alterità,
intesa come esperienza continua con la trascendenza,
e questa non è accertata dalla filosofia sulla base della Rivelazione,
ma sulla base della sua relazione con l’esistenza stessa.”
K. Jaspers, Filosofia ed esistenza.
Concludendo, in Jaspers il senso ed il valore dell’essere e dell’esistenza si dà come
Trascendenza, ed in quanto tale è inoggettivabile (come sarebbe nel sapere scientifico, in cui
sarebbe ridotto a puro fatto empirico conoscibile). In tutte le situazioni dell’esistenza si rivela la
Trascendenza stessa, per cui ognuna di queste è segno dell’alterità tra l’io e l’Altro.
Pertanto, non c’è esistenza senza alterità così intesa, sebbene in tal caso potrebbe sembrar
valido il pensiero dell’ateo Ludwig Feuerbach secondo cui “la religione, gli dei, non sono altro
che proiezioni (immaginative ed intellettuali) dei bisogni dell’uomo”.
5. Conclusioni
Forse è vero, l’uomo ha sempre avuto bisogno di appellarsi, di aprirsi, di confidarsi a
qualcosa di ‘ulteriormente altro’: che lo abbia identificato in Dio, o nella trascendenza intesa in
termini logici o ontologici, a maggior ragione questo sembra confermare la tesi che non
possiamo e non sappiamo stare soli, ed abbiamo davvero bisogno dell’altro.
Se queste sono le conclusioni cui giungiamo, sollecitiamo un’ultima riflessione:
-
se siamo per natura identità aperta e costitutivamente portati alla relazione (principio che
abbiamo denominato ‘naturalità dell’alterità’);
-
se ammettiamo che la relazione con l’altro è funzionale (logicamente ed ontologicamente) al
nostro essere (principio che abbiamo denominato ‘necessarietà dell’alterità’);
-
se siamo capaci di cogliere il senso di un’autentica relazione di alterità, riconoscendo e
conservando il valore di tutte le identità in essa coinvolte;
37
-
se, invece, siamo in grado di cogliere il limite di tutte quelle dinamiche volte alla
strumentalizzazione o alla negazione dell’altro in funzione del sé;
-
allora forse abbiamo colto che ogni relazione deve fondarsi sul principio di responsabilità e di
rispetto dell’altro (ciò che Levinas ha chiamato etica dell’incontro).
La nostra società, pluralistica, multiculturale, sessualmente rivoluzionaria, sembra
tuttavia non confermarlo: non sembra, il nostro, un tempo del dialogo, dell’ascolto, della
comprensione, della sintonia tra soggetti-altro e tra soggetti diversi.
Riflettiamo, allora, se il venir meno di un’autentica alterità è forse proprio la
caratteristica dell’uomo post-moderno e del tempo attuale, e che possiate aver maturato una
maggiore consapevolezza per un’etica della relazione realmente umana.
Mi piace, pertanto, concludere questo lavoro con le parole di un altro filosofo; non uno
tra i tanti citati e che leggete sui manuali, ma un uomo del nostro tempo e che ricorderete
senza’altro: Karol Woityla (1920 - 2005).
Woityla, in effetti, non fu solo un grande Pontefice, o come fu chiamato “il Papa dei giovani”,
ma fu anche un grande filosofo, e nella sua principale opera filosofica Persona ed atto del
1969, esprime proprio il senso di questo nostro percorso sull’alterità e delle riflessioni che
spero possiate aver maturato.
La tesi filosofica principale, infatti, è quella secondo cui la persona per natura trascende
continuamente se stessa attraverso i suoi atti e le sue relazioni, e si rapporta alla dimensione dei
valori che ha il suo fondamento in Dio: la persona, quindi, è in tutto e per tutto portata
all’alterità.
Il rapporto con gli altri, per Woityla, svolge così un ruolo fondamentale per l’esistenza perché
permette il superamento della dimensione meramente soggettiva ed individualistica
dell’esistenza stessa attraverso un sano ed autentico principio che egli individua in quello di
partecipazione.
Ebbene sì, alterità per Woityla significa partecipazione, e conseguentemente anche solidarietà,
e spetta proprio alla generazione giovanile esserne un esempio vivente.
Concludiamo così, con l’insegnamento del filosofo:
“La partecipazione è il tratto caratteristico della persona agente ‘insieme agli altri’.
[…]
È il tratto caratteristico della persona,
il suo tratto interiore ed omogeneo che fa sì che,
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esistendo ed agendo ‘insieme con gli altri’,
la persona esista ed agisca come tale.
È solo nell’agire e nell’esistere ‘insieme agli altri’
che si compie l’atto dell’esistenza e l’uomo si realizza in esso.
[…]
L’atteggiamento di solidarietà è la conseguenza naturale
del fatto che l’uomo esiste ed agisce ‘insieme agli altri’.
Ed è anche il fondamento della comunità
in cui il bene comune rivela la partecipazione tra gli altri.
[…]
Solidarietà significa disposizione costante a ricevere e a realizzare
la parte che a ciascuno spetta in quanto membro di una determinata comunità
ed inserito nel mondo e tra gli altri.
[…]
L’umanità è un’umanità di soggetti-prossimo.
Il concetto di ‘prossimo’ esprime la relazione reciproca di tutti gli uomini nell’umanità.
[…]
Ma senza partecipazione,
senza solidarietà,
senza condivisione dinamica con l’altro,
non può esserci Umanità.”
K. Woityla, Persona e atto.
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Bibliografia dei testi degli Autori
G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito.
G. W. F. Hegel, Scienza della logica.
M. Heidegger, Essere e tempo.
E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica.
E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale.
K. Jaspers, Filosofia ed esistenza.
S. Kierkegaard, Aut-Aut (Enten-Eller).
S. Kierkegaard, Il Don Giovanni. Ovvero dello spirito della musica.
S. Kierkegaard, Il diario del seduttore.
E. Levinas, Il tempo e l’altro.
B. Pascal, I Pensieri.
J. P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanesimo.
J. P. Sartre, L’Essere e il Nulla.
J. P. Sartre, La nausea.
J. P. Sartre, A porte chiuse.
K. Woityla, Persona e atto.
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