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Giovanni Panno, Dionisiaco e Alterità nelle «Leggi» di Platone. Ordine del corpo e automovimento dell’anima
nella città-tragedia, Milano, Vita e Pensiero, 2007, pp. 386.
Recensione a cura di Milena Bontempi
La proposta legislativa delle Leggi platoniche è detta dai suoi protagonisti la “tragedia più bella”: lungo la
linea del tragico – nella funzione politica che esso ebbe per l’Atene classica, nelle sue crisi storiche, e nelle
sue problematiche specificamente platoniche – il libro di Giovanni Panno sceglie di interpretare l’operazione
politica e filosofica attuata da Platone nel suo ultimo testo scritto. Ne viene un’opera mossa da una serie di
dicotomie, calibrate sui testi platonici, ma giocate al di là degli stessi, con sonorità accattivanti per il
moderno lettore e filosofo politico: apollineo e dionisiaco; progetto o rappresentazione politici e il politico;
ordine e movimento; singolo e comunità; ragione e passioni; unità e molteplicità; identità e alterità; la legge
e le molte leggi; legge scritta e non scritta. Ciò nell’ambito del tentativo generale, da parte di Platone, di
pensare la città come realtà omogenea e totalizzante che sia il soggetto del movimento della legge: un tutto
e un movimento costruiti però nell’assunzione ogni volta dell’opposta polarità, e quindi intorno a discrasie
che fanno della città “un organismo ritmicamente ordinato” (p. 9). In ciò si gioca la possibilità, per Panno,
che il meccanismo della dialettica identità-alterità del Sofista – presenza della filosofia nelle Leggi – trovi
traduzione politica proiettandosi sul nomos.
Con l’analisi delle Baccanti euripidee (cap. I) – efficace illustrazione dello status quaestionis cui Platone
risponderebbe con le Leggi – il tema si dispiega in quanto capacità, da parte dell’ordine politico e della legge,
di confrontarsi con l’alterità e di farsene carico, non nascondendo al proprio meccanismo identificativo il
diverso che lo costituisce: confronto con l’alterità da un lato, e dall’altro capacità di rinnovare il proprio
ordine, pena la propria dissoluzione. Appunto tale esito Platone cercherebbe di arginare, col disegno della
colonia Magnesia, rielaborando e includendo nel nomos i meccanismi di autorappresentazione e
comunicazione del teatro ateniese.
L’A. chiarisce come la legge assuma teoreticamente l’alterità e quindi descriva, limiti e connetta gli elementi
costitutivi della città: così quest’ultima costruisce il legame politico attraverso la propria rappresentazione (p.
47). La legislazione è allora la tragedia più bella nel senso per cui “tragedia” significa la rappresentazione
rituale in cui la comunità si salva (ivi), e con tale percorso l’A. riesce a far comprendere il nesso fra due
tematiche difficili e politicamente decisive in Platone, mostrando cioè come il tema della differenza risulti
riconducibile “a un problema mimetico” (p. 188), articolandosi i tipi dell’alterità secondo i tipi, buono e
cattivo, dell’imitazione.
La mimesi praticata al suo tempo minaccia fortemente, per Platone, di creare individui schizofrenici tra
ragione e passioni, disposti a vestire molte maschere, non funzionali al tutto della polis: ma proprio l’uscita
da sé caratteristica del meccanismo mimetico, della festa e dell’altra pratica dionisiaca del vino, è altresì il
percorso che consente di pervenire al vero dominio di sé. Ed è altresì il percorso per cui lo sguardo
dell’uomo, sfruttando il lato emotivo per guadagnare quello del logos, può essere riconvertito allo stesso
attraverso l’altro: tale capacità educativa e psicagogica della tragedia in direzione comune e comunitaria,
capacità di parlare alla comunità come ad un tutto e non al piacere del singolo spettatore, è ciò che la
tragedia aveva perso secolarizzandosi e che Platone cercherebbe invece di riattivare, anche recuperando una
tradizione mitica come nomos non scritto della città e configurando quest’ultima come un grande mito.
Orizzonte interpretativo che consente all’A. di illuminare e collegare vari aspetti pratico-comunitari,
istituzionali e rituali delle Leggi, in quanto momenti di una catarsi tragica intesa come terapeutica
omeopatica (pp. 107 ss.), e di un complesso tentativo di armonizzazione di singolo e comunità in cui gioca
un ruolo peculiare il meccanismo della festa (capp. III-IV).
Di più, la scelta di tale prospettiva ermeneutica sulle Leggi permette all’A. di dare ragione coerente e
persuasiva ai nessi e alle dinamiche cui Platone affida il ruolo di conferire efficacia al proprio progetto
filosofico-politico. La trama portante (cfr. pp. 155 ss.) è quella per cui la disposizione alla conoscenza di sé,
che rende possibile la comunicazione politica, si consegue in ogni cittadino esponendo la sua immagine di sé
al pubblico e all’esterno (v. pratiche simposiali, importanza di paura e vergogna etc.): la sua anima si fa
malleabile e si eleva alla relazione con l’alterità, relazione politica. In tal modo, egli è stimolato
all’autoapprendimento, che è automovimento. Esperienza dell’identitià che, nell’integrazione ordinata anche
degli elementi di alterità fisica alla polis (schiavi, donne, stranieri), è completa, perché non statica, e non
fittizia, perché relata.
D’altro canto, l’imitazione che si fa cifra della città intera e della vita di ogni cittadino è mimesi non
dell’alterità da cui liberarsi (forma demandata apotropaicamente agli stranieri, nella commedia), ma del
modello vero. Il cittadino dev’essere univoco, non “doppio” come l’attore o il sofista, ma semplice e
trasparente, sì da farsi inoltre specchio per l’altro della sua verità: non è a questo livello, dunque, che si
colloca il contatto col diverso. Semmai, è il processo di cambiamento di una legge quello in cui la posizione
del cittadino-spettatore si rende conscia di sé e, annullata così l’immedesimazione in altro, diviene posizione
di cittadino-attore che partecipa del tutto (pp. 171 ss.). Tema della variazione temporale della legge che
apre anche lo spazio per cogliere quella tensione fra tempo storico, tempo della realizzazione della città,
tempo dialogico e tempo della narrazione, che, facendo frizionare fecondamente il politico e l’estetico,
rappresenta un ulteriore interessante filone della riflessione dell’A.: tensione che si propone quale ragione
filosofica per l’incompiutezza dell’ultima opera platonica, e per incongruenze apparenti che in realtà
rimanderebbero ad un farsi della stessa legge che si fissa per iscritto e si comunica oralmente, perché doppia
tensione fra nous divino e storia. Sono, le Leggi, “una tragedia che difende un ordine noetico instaurandone
al contempo uno mitico” (p. 69), ad assumere in sé l’ulteriore discrasia fra umano e divino, altro snodo tipico
di poesia e tragedia. Sicché è ancora il tema del cambiamento della legge nel tempo lo sfondo per cui l’A.,
nel VII capitolo, riesce a spiegare in modo originale e utile, sia dal lato storiografico che filosofico, la
questione della scrittura della legge, e la sua articolazione con la dimensione dell’oralità (seppure in rapporto
ad un’interpretazione forse troppo enfatizzata della valenza di alcuni elementi costituzionali, e in particolare
degli agrapha nomima di 793a-c: ma cfr. 788a-c).
Sul fronte non più temporale, ma del confronto con l’alterità interna al politico, l’A. valorizza in modo
originale la quarta tipologia di straniero individuata nel XII libro, insieme ai cittadini che visitano le altre città:
confronto a livello legislativo, riservato a quanti hanno i mezzi dialettici per sostenerlo, e maschera della
filosofia platonica (pp. 206 ss.). Del resto, stranieri tra loro sono i tre anziani protagonisti, e atopos è il
contesto del dialogo, che non è un posto ma una via, un luogo in fieri, legame fra l’umano e il divino. Ed è
nell’eccentricità (non però separazione o estraneità) del Consiglio Notturno che trova poi la sua massima
precipitazione istituzionale e soprattutto iniziatica l’elaborazione del diverso (cap. VI): il Consiglio partecipa
alla genesi e al mutamento delle leggi, conserva dentro l’ordine la kinesis che gli è propria, possiede quel
grado di conoscenza superiore che gli consente di riorganizzare le molte leggi mantenendo stabile il nomos
che le unifica. Questi pochi eletti possono così considerarsi proprio l’elemento di alterità per eccellenza
integrato nel progetto cittadino: la dialettica identico-diverso trova traduzione politica in un piano di polis
“centrato sulla capacità dialettica di organizzare secondo diverse modalità e tempi il plesso uno-molteplice
nella struttura della città” (p. 237).
Poiché però la struttura stessa della città è improntata iniziaticamente alla mediazione dialettica uno-molti, la
conoscenza filosofica non ha bisogno di farsi regina, né il Consiglio Notturno esercita personalmente il
potere: l’espressione dell’ordine noetico nella legge, così come il possesso dell’autorità politica, sono
desoggettivati e disseminati in vari procedimenti e istituzioni reciprocamente dipendenti, come molteplici
sono i legami che fanno coesa la costituzione. La filosofia a Magnesia è sovrana – dice l’A. – al di là
dell’elemento personalistico. D’altra parte, con la mimesi e con la festa quali luoghi in cui la legge organizza
a diversi livelli e sotto diversi aspetti il rapporto di inclusione-esclusione, il sacro, da irruzione eccezionale del
tempo extramondano e del nucleo a-politico (perché eccedente ogni ordine) della polis, diventava perno
della vita quotidiana tutta, e il moto di conversione alla verità si disseminava in ogni componente della città,
dalle istituzioni più alte al singolo cittadino (pp. 146-150). È dunque la città nel suo complesso il soggetto del
movimento. E certo apprezzabile nel volume di Panno è questa capacità di proporre, a partire da una
penetrazione puntuale delle dinamiche interne e strutturanti il testo, tesi di ampio respiro, misurate anche
nella loro capacità di interazione – non mera sovrapponibilità o incongruenza, astratta anticipazione o
negazione – con la riflessione e la vita dell’uomo d’oggi. L’A. chiarisce così la sua prospettiva generale: nel
quadro di un pensiero inteso come pratica, il problema non è la realizzazione di una teoria politica, o la
versione realistica di una città ideale; “si tratta piuttosto di elevare i molti, grazie al movimento complessivo
della città, al di là della loro Allzumenschlichkeit” (p. 255). In tal senso sono centrali i temi della persuasione
e dell’incantamento, che consentono alla legge di allocare il proprio potere nell’anima dei cittadini, e di farsi
automovimento, quale prodotto di quel primo per natura che è l’anima.
Si considera dunque fondante la riflessione sul moto di anima e nous del libro X, non tanto nel senso di una
legge naturale divina a fondamento di quella scritta, quanto nella direzione di una città assunta, nel
complesso delle mediazioni che consente, quale luogo dell’assimilazione a dio: Magnesia come magnetica
forza di attrazione, per ogni cittadino, da parte del centro politico-religioso e del plesso nomos-nous (p. 95).
Processo politico, perché intrinsecamente costituito nella relazione con l’altro, che per l’A. si compie nel
superamento del politico stesso, in quello sguardo negli occhi di un altro simile (sul modello di Alc. Ma.)
possibile fra cittadini dal volto semplice e vero: relazione che non richiederebbe più mediazione, e nella quale
pertanto la politica e la città cesserebbero di essere necessarie. Affiora, nelle parole dell’A., la tensione
classica per il platonismo fra una politicità costitutiva dell’uomo e del pensiero, quasi sovrapponibile alla
nozione stessa di relazione identità-alterità, ed una politica dalla valenza solo parziale e transitoria rispetto a
quest’ultima: il percorso adottato dall’A. consente di pervenire tuttavia a tale tensione in termini originali,
che costringono fruttuosamente la ricerca ad una sua reimpostazione alla luce dei nessi e delle dinamiche
illuminate dal suo studio. Per proseguire su questa linea sarebbe forse necessario, al fine di evitare
schematismi o ambiguità nella direzione complessiva del ragionamento, uno specifico approfondimento
testuale e teorico su lessico e categorie afferenti il politikòn.
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