IPERTENSIONE FISIOPATOLOGIA, DECORSO E TERAPIA

IPERTENSIONE
FISIOPATOLOGIA, DECORSO E TERAPIA
Sintesi e rielaborazione
da Claudio Rugali
Medicina Interna Sistematica
Masson editrice
Fisiopatologia. L’aumento dei livelli pressori condiziona lo stabilirsi di una patologia
vascolare: vengono danneggiati soprattutto alcuni organi particolarmente sensibili agli
effetti delle variazioni della pressione arteriosa. L’ipertensione costituisce in primo luogo
un fattore di rischio per l’insorgenza di aterosclerosi: si tratta di una forma particolare di
arteriosclerosi, la quale colpisce eminentemente le arterie di grande e medio calibro, in
particolare le coronarie, ed è responsabile di un numero molto elevato di decessi
(rappresenta la prima causa di morte negli USA). In secondo luogo, rilevanti aumenti
pressori sono in grado di provocare una sofferenza anche a livello delle arteriole. Infatti,
quando la pressione arteriosa aumenta, l’autoregolazione vasale interviene a determinare
una costrizione, al fine di impedire che le arteriole stesse siano sottoposte ad un insulto
meccanico eccessivo da parte dell’onda sfigmica.
L’incremento dei valori pressori comporta un aumento del lavoro del ventricolo sinistro del
cuore. Il protrarsi nel tempo di una tale situazione provoca ipertrofia del ventricolo sinistro
e successivamente dilatazione, fino ad un quadro di scompenso cardiocircolatorio,
Disturbi vascolari cerebrali occorrono con maggior frequenza nei pazienti affetti da
ipertensione arteriosa, sia sotto forma di trombosi che di emorragie. Le prime sono favorite
dall’aterosclerosi, mentre le seconde sono frutto della rottura di microaneurismi cerebrali,
in presenza di elevati livelli di pressione.
La sofferenza renale in corso di ipertensione è stata considerata a lungo conseguenza
della
ridotta
irrorazione
glomerulare
dovuta
a
processi
di
arteriosclerosi
ed
arteriolosclerosi. Le moderne conoscenze sulla progressione della insufficienza renale
cronica tendono piuttosto a valorizzare il danno emodinamico impartito ai glomeruli
dall’aumento della tensione nei capillari glomerulari.
Decorso e prognosi. Come si è detto, l’ipertensione arteriosa predispone a numerose
affezioni cardiovascolari. Nel già citato studio epidemiologico di Framingham, il 37% degli
uomini e il 51% delle donne che morirono per cause cardiovascolari avevano presentato in
precedenza, in almeno tre occasioni, dei livelli di pressione arteriosa superiori a 140/90
mmHg. Alcune di queste morti possono essere attribuite all’effetto diretto sui vasi della
elevata pressione arteriosa, come è il caso delle morti per emorragia cerebrale o per
aneurisma dissecante. Queste si osservano di solito con livelli di pressione arteriosa
superiori a 180 mmHg di sistolica e sono pressoché interamente prevenibili moderando la
pressione con adatta terapia. La grande maggioranza delle morti osservate negli ipertesi è
dovuta a cardiopatia ischemica. Questi casi sono, in prevalenza, caratterizzati da livelli di
pressione arteriosa meno elevati, attorno a 140-160 mmHg di sistolica. Si è discusso se la
riduzione di questi livelli pressori serva a prevenire la cardiopatia ischemica: studi recenti
sembrano suggerire di sì. In assenza di trattamento, la prognosi di una ipertensione
benigna di lieve entità è di circa 20 anni, mentre quella di una ipertensione maligna è di
meno di un anno.
Terapia. Sono disponibili attualmente molti efficaci trattamenti medici per la ipertensione
arteriosa. Elenchiamo i più importanti.
1. Diuretici. Agiscono promuovendo la escrezione di sodio. In un primo momento riducono
la volemia e la gettata cardiaca, successivamente riducono la sensibilità delle arteriole agli
stimoli vasocostrittori.
2. _-bloccanti. Sono farmaci che bloccano le sollecitazioni sui recettori _-adrenergici,
importanti soprattutto a livello cardiaco (la loro sollecitazione comporta tachicardia,
aumento della forza di contrazione e della eccitabilità del miocardio). Non è ben chiaro
come questi farmaci agiscano. Le azioni possono essere multiple:
sul cuore, riducendone la gettata;
sulle terminazioni nervose simpatiche, bloccando un meccanismo che promuove la
liberazione di noradrenalina;
sull’apparato iuxtaglomerulare, riducendo la produzione di renina che, come si è visto,
può essere un fattore aggravante della ipertensione arteriosa.
Empiricamente, i betabloccanti si sono rivelati farmaci molto efficaci. Sono controindicati
nell’asma bronchiale e nelle broncopneumopatie ostruttive, i recettori-adrenergici hanno,
infatti, una attività broncodilatatrice.
3. Vasodilatatori. Agiscono riducendo direttamente il tono arteriolare e le resistenze
periferiche. Tra i vasodilatatori sono particolarmente interessanti i farmaci che bloccano
nelle cellule i cosiddetti “canali del calcio”.
Questi non solo contrastano la tendenza alla contrazione delle cellule muscolari lisce, e
perciò alla vasocostrizione, ma inibiscono anche l’aggressività piastrinica, un processo che
ha importanza nella patogenesi dell’aterosclerosi e nella progressione dell’insufficienza
renale cronica.
4. Farmaci attivi sul sistema nervoso centrale. Agiscono riducendo centralmente il tono del
sistema simpatico (metildopa), o potenziando i baroriflessi (clonidina).
5. Inibitori dell’angiotensina. Esistono attualmente numerosi farmaci in grado di inibire
l’enzima convertitore dell’angiotensina (ACE, Angiotensin Converting Enzyme) e ridurre
perciò la formazione di angiotensina II.
In realtà questi farmaci sono efficaci non solamente nell’ipertensione renovascolare, ma
anche nella ipertensione essenziale. Uno dei vantaggi di questa inibizione sta nel fatto che
viene contrastata l’azione della angiotensina II stimolante la proliferazione delle cellule
mesangiali nel rene e delle cellule muscolari lisce nella parete dei vasi sanguigni. Questo
fatto può conferire ai farmaci inibitori dell’enzima convertitore dell’angiotensina un ruolo
protettivo verso il danno renale e la progressione dell’aterosclerosi.