Chi avesse letto i principali quotidiani europei, la mattina del 12 novembre 1918, avrebbe trovato, a titoli di scatola, la notizia che, da più di quattro anni, miliardi di persone aspettavano: la guerra era finita, definitivamente (si sognava, allora), su tutti i fronti. Il lettore, però, sia che fosse un festante Francese, un Inglese o un Americano, o un esausto Italiano, sia che fosse un Tedesco o un Austroungherese, con le lacrime agli occhi ed un futuro minaccioso davanti, non avrebbe trovato, nel clamore delle prime pagine, urlate agli angoli delle strade, la notizia vera, quella importante: il necrologio dell'Europa. Nonostante si sia tentato, con quel procedimento storico ormai invalso da parte di una certa tendenza storiografica, di cancellare o addomesticare un periodo non facilmente collocabile all'interno dei teoremi di comodo, nelle trincee di Paschaendaele e sulle cenge delle Dolomiti si era consumata un'Europa che esisteva, con scarsissimi mutamenti, da secoli. Altro che secolo breve: il Novecento è stato un secolo lunghissimo, aperto dalla veglia funebre davanti al cataletto dell'Europa dei re e degli imperatori e concluso dal più che cinquantennale balipedio di un'Europa che vive soprattutto sulle banconote da cento Euro! Eppure, senza il feroce tirocinio della Grande Guerra, non ci sarebbe neppure stato il “Novecento”: probabilmente, non sarebbero esistiti gli ipernazionalismi, nati dalle insoddisfazioni di Versailles, come non ci sarebbero state le rivoluzioni, di cui quella guerra fu la levatrice, e, soprattutto, non ci sarebbe stato il ricatto economico statunitense, che nacque proprio dagli enormi vantaggi americani, dovuti ai debiti di guerra. Insomma, il Novecento sarebbe stato un secolo di quieta transizione, con le sue quiete guerricciole e il suo quieto malessere generale, con alleanze traballanti ed incidenti internazionali mai abbastanza gravi da non essere rimediati: al posto di alcuni atroci genocidi, probabilmente, ne avremmo avuti altri; ma meno eclatanti e meno raccontati, del tipo di quello attualmente in corso in Algeria. LA GRANDE GUERRA Parte prima: da Serajevo al patto di Londra I primi colpi della Grande Guerra furono sparati a Serajevo, il 28 giugno del 1914. Li sparò un giovanotto serbo e bersaglio di quei colpi di pistola furono l'erede al trono asburgico, Francesco Ferdinando, e sua moglie, Sofia Chotek, che morirono entrambi. I Serbi vedevano nell'arciduca l'incarnazione dell'odiata dottrina trialista, ossia l'idea di un'autonomia croata all'interno dell'impero, in chiave antiserba ed antislava; inoltre, Francesco Ferdinando era legato a filo doppio con il bellicoso alto comando di Baden, dominato dal generale Conrad von Hoetzendorf e da un'ammirazione sconfinata per il militarismo prussiano. Tuttavia, la situazione precipitò, in un balletto d’ambasciatori che si concluse col celebre ultimatum alla Serbia, e con la dichiarazione di guerra, un mese esatto dopo l'attentato: una versione piuttosto accreditata dei fatti è quella che indica nell'imperatore tedesco, Guglielmo II, il motore della crisi definitiva, culminata con la dichiarazione dei pieni poteri in bianco, che sanciva un'alleanza strettissima tra i due imperi centrali. Tant'è che Guglielmo II, dopo la mobilitazione generale dell'esercito zarista, inviò già il 31 luglio un ultimatum alla Russia e alla Francia, cui fecero seguito, a stretto giro diplomatico, le dichiarazioni di guerra, rispettivamente l'1 ed il 3 di agosto. Così, scattarono i meccanismi delle alleanze: l'Italia si dichiarò neutrale, come il Belgio (che ricevette ugualmente un ultimatum dai tedeschi il 2 agosto e fu invaso due giorni dopo); la Turchia si alleò segretamente con gli Imperi centrali e proclamò la Jihad contro l'Intesa, il 31 ottobre; l'Inghilterra scese in campo contro la Germania il 4 agosto e, dopo che gli Asburgo dichiararono guerra alla Russia (6 agosto), non esitò a dichiararle guerra, insieme alla Francia (12 agosto). I giochi erano fatti: ora toccava alle armi e non più agli ambasciatori far sentire la voce dei vari stati belligeranti. Il creatore del piano strategico germanico in chiave anti- francese era stato, alla fine del secolo, un anziano generale, che stava morendo proprio in quei giorni: Von Schlieffen. Questo piano prevedeva l'invasione del nord-est francese, con per obiettivo l'isolamento di Parigi, passando attraverso il Belgio. Il piano era brillante, ma c'era bisogno di due cose perché funzionasse: un'azione a tenaglia in cui il lato destro fosse fortissimo, per compiere l'aggiramento e tagliare in due lo schieramento anglo-francese, ed una grande velocità di esecuzione. Solo che, nel 1914, pur spostando velocemente le truppe alle frontiere, grazie alla loro eccellente rete ferroviaria, i tedeschi non avevano mezzi di trasporto celeri durante l'attacco; le truppe ed i pesanti carriaggi d'artiglieria procedevano molto lentamente, una volta effettuato lo sfondamento: furono i carri armati che permisero a Hitler di perfezionare quello che Schlieffen aveva progettato, cioè la Blitzkrieg! Per questo, i franco-britannici ebbero il tempo di riorganizzarsi, dopo il primo shock, e di arrestare le armate tedesche, contrattaccandole, fino a giungere su quelle posizioni che resteranno in gran parte invariate per tutto il conflitto. In effetti, nella prima decade di settembre 1914, avvenne quello che fu definito da molti “il miracolo della Marna”, quando le apparentemente inarrestabili truppe germaniche, furono fermate sulla via di Parigi da una robusta battaglia d'arresto sul fiume sacro ai Francesi; il miracolo, però, è spiegabilissimo in termini militari: oltre a quanto già scritto, è certo che i Tedeschi, ad un certo punto, temettero di indebolire troppo il fianco sinistro a favore del destro, e non diedero quella spinta vigorosa da nord che Schlieffen aveva raccomandato per il buon esito del suo piano. La volontà granitica di resistere da parte dei Francesi e il sacrificio terribile del vecchio esercito professionale inglese (che ne uscì distrutto, tanto che anche l'Inghilterra, in seguito a ciò, adottò la leva di massa), che si dissanguò, insieme ai belgi e ad aliquote francesi, per un mese nelle Fiandre (battaglie dell’Yser e di Ypres), allo scopo di contendere ai germanici lo sbocco al Passo di Calais, che avrebbe segnato il culmine dell'aggiramento (18 ottobre-15 novembre) , fece il resto. Nasceva un nuovo tipo di guerra, la guerra di posizione, basata su difese campali articolate e profonde, con fasce di filo spinato larghe centinaia di metri, un'enorme quantità di pezzi d'artiglieria, e un sostanziale prevalere della difesa sull'attacco, grazie alle nuove armi a tiro rapido, le mitragliatrici, che, con l'artiglieria pesante, saranno l'arma simbolo della Grande Guerra. Il passo successivo sarà la guerra d'attrito, in cui le battaglie serviranno, non a conquistare un successo definitivo, ma a consumare ferocemente le risorse materiali ed umane dei contendenti, per ottenere il dissanguamento dell'avversario. Sul fronte orientale, invece, i grandi spazi e le caratteristiche degli eserciti contrapposti permisero vasti movimenti di truppe. Inaspettatamente, i russi, comandati da Samsonov e Rennenkampf, attaccarono con successo la Prussia orientale, costringendo al ripiegamento i tedeschi e creando sconcerto, se non panico, a Berlino; poi, il provvidenziale intervento di Ludendorff, del suo vice Von Hindenburg, ma, soprattutto, di un valente generale che avrebbe fatto carriera, Von Below, permisero di capovolgere la situazione, passando l'iniziativa ai tedeschi che l'avrebbero poi sempre mantenuta. Le armate germaniche inflissero una sconfitta spaventosa alle truppe zariste, nella battaglia dei laghi Masuri (agosto-settembre 1914), che i tedeschi ricordano anche come battaglia di Tannenberg, per associarla alla battaglia combattuta in quei luoghi nel XV secolo dai cavalieri teutonici: ad un certo punto, era tale la mattanza delle truppe russe, in fuga lungo le sottili lingue di terra tra una palude e l'altra, che molti artiglieri tedeschi sospesero il fuoco. Intanto, gli Austriaci faticavano, alle prese con il combattivo esercito serbo e con la minaccia russa in Galizia, tanto che ad un certo punto, i tedeschi dovettero distogliere truppe dal settore settentrionale del fronte per appoggiare l'alleato in difficoltà. Alla vigilia dell'entrata in guerra dell'Italia, nulla si era deciso, ad Ovest come ad Est, ma erano ugualmente già cadute centinaia di migliaia d’uomini: gli italiani mostrarono di non saper fare tesoro dell'esperienza già maturata nel primo anno di guerra, e questo avrebbe causato loro problemi a non finire. I Fronti Per comprendere il meccanismo dei vari fronti, è utile immaginarli come delle porte girevoli, nelle quali, data l'estensione dei territori, alla spinta in un settore corrispondeva, quasi sempre, un atteggiamento difensivo nell'altro: fu così sul fronte occidentale, dove a nord era maggiore la pressione tedesca, mentre, verso sud, in Alsazia, i Francesi avevano un'impostazione decisamente offensiva; lo stesso dicasi per il fronte orientale, coi Russi aggressivi in Galizia e pesantemente sconfitti in Masuria e sul Baltico; non si sottrasse alla regola neppure il fronte meridionale, cioè quello italiano, con una forte spinta offensiva austroungarica nel settore trentino, cui corrisposero le undici battaglie dell'Isonzo, intorno a Gorizia e a Trieste, in cui gli Italiani furono perennemente all'attacco. Naturalmente, stiamo parlando di grandi tendenze: è chiaro che, all'interno del sistema difesa-attacco, sussistevano operazioni di carattere tattico, che smentivano la tendenza strategica generale; tuttavia, è opportuno tenere presente questo schema, se si vuole avere un'idea abbastanza attendibile dei meccanismi che sovrintendevano all'atteggiamento dei vari eserciti. A questo si aggiunga che, da un certo momento in poi, le offensive dell'Intesa furono pianificate da un'apposita conferenza interalleata, anche in funzione dell'alleggerimento di settori posti sotto pressione: così, ad esempio, se gli Italiani erano alle strette in Trentino, i Russi scatenavano un'offensiva in Galizia che distogliesse truppe austriache dal fronte meridionale, permettendo agli alleati di riorganizzarsi. Il fronte italiano aveva caratteristiche del tutto particolari; esso si trovava, per buona parte, in territori impervi, con quote spessissimo superiori ai duemila metri, e con linee di rifornimento problematiche. L'unico settore paragonabile a quello italiano, fu quello dei Carpazi, in cui le truppe austro-ungariche pagarono un pesante tributo di sangue; per il resto, i fronti correvano in pianura o, tutt'al più, su piccoli rilievi, onorati dell'appellativo di Quote dalla toponomastica militare, come nel caso di Quota 304, a Verdun. L'Italia Dallo scoppio delle ostilità all'entrata in guerra dell'Italia, com’è noto, trascorsero dieci mesi, che furono piuttosto turbolenti: erano appena finiti gli scioperi della Settimana Rossa (giugno 1914) e l'Italia si era dichiarata neutrale, a differenza di Mussolini, che, per questo, era stato espulso dal Psi ed aveva fondato “Il popolo d'Italia”. I diplomatici italiani, da subito, si erano messi alla finestra, per cercare sul mercato del miglior offerente: dapprima, pareva che si dovesse trattare dell'Austria, in base a quell'articolo della Triplice Alleanza che prevedeva compensi territoriali per l'Italia in caso di un'espansione asburgica, non concordata, nei Balcani. In seguito, si fece sempre più consistente, nonostante le indifese manovre dell'ambasciatore tedesco Von Below presso il ministro di San Giuliano, l'ipotesi di un intervento a favore dell'Intesa, dietro precise concessioni territoriali. Si giunse, infine, alla firma del patto segreto di Londra (26 aprile), in cui l'Italia s’impegnava ad entrare in guerra entro un mese a fianco dell'Intesa, in cambio dell'annessione di Trentino-Alto Adige, Trieste, Istria, Isole Dalmate, Valona e Dodecaneso, in caso di conclusione vittoriosa del conflitto. Probabilmente, il primo colpo di cannone fu sparato dai forti italiani degli altopiani di Lavarone e Folgaria: da allora, le armi non tacquero un solo giorno, per più di quaranta mesi, fino al silenzio incredulo del pomeriggio del 4 novembre 1918. Da Ypres all'entrata in guerra degli Usa Nell'andamento monotono del massacro quotidiano sul fronte occidentale, si devono registrare dei picchi, in corrispondenza dei vari reciproci tentativi di scardinare il dispositivo delle difese avversarie; questi picchi rappresentano, oggi, delle cifre impressionanti nel conteggio delle perdite, ma, molto di più, significano, nei ricordi dei sopravvissuti, un orrore inimmaginabile. Una storiografia basata sul calcolo statistico, non potrà mai descrivere la tragedia infinita di Verdun o della Somme: si potrà dire dei milioni di proiettili d'artiglieria tuttora non recuperati, delle centinaia di migliaia di cadaveri mai trovati, dei colpi sparati, dei feriti e dei mutilati; ma questo non servirà a comprendere l'incubo che avevano negli occhi i reduci di queste battaglie terrificanti. Nel 1915, l'orrore della guerra cominciò ad assumere caratteri nuovi e peculiari: iniziò l'attacco sottomarino tedesco ai trasporti nemici, nel tentativo di fiaccare la resistenza dell'avversario e di controbilanciare la potenza britannica in termini di marina di superficie; proprio in questo contesto avvenne, il 7 maggio, l'affondamento, al largo dell'Irlanda, del transatlantico inglese “Lusitania”, con 124 americani tra le vittime: questo, negli Stati Uniti, sarebbe stato uno degli argomenti principali dei sostenitori dell'ingresso degli Usa in guerra al fianco dell'Intesa. A Ypres, in aprile, vi fu il primo massiccio attacco con i gas da parte dei tedeschi, sia sulle linee inglesi che su quelle francesi, a distanza di pochi giorni: di qui proviene il nome dato a quel gas, la cosiddetta Iprite, che inaugurò la stagione dei grandi attacchi con gas asfissianti e vescicanti, come il fosgene o il gas mostarda, che anche sugli altri fronti semineranno morte e panico. Nel frattempo, gli attacchi anglo-francesi in Artois e nella Champagne si rivelarono sanguinosi fallimenti. Più o meno nello stesso periodo, gli inglesi avrebbero sperimentato la prima operazione di sbarco militare, mandando i soldati dell'Anzac (Australian and New Zealand Army Corps) a farsi macellare sulla penisoletta di Gallipoli, in Turchia. Archiviata come uno dei più scalcinati attacchi di tutta la guerra, l'impresa di Gallipoli aveva l'obiettivo di eliminare il sistema di forti che impedivano l'accesso al Dardanelli, in modo da ottenere quel passaggio che le navi da guerra inglesi non erano riuscite ad aprirsi coi loro cannoni, riportando, invece, seri danni. Mal concepita e peggio condotta, la campagna che si protrasse per ben otto mesi, dall'aprile del ‘15 al gennaio del ‘16, vide tutta una serie d’assalti sanguinosi ed improvvisati alla linea trincerata turca, che portarono solo ad uno stallo, la cui unica soluzione fu, alla fine, evacuare la penisola; se vi fosse stato, viceversa, un deciso attacco di sorpresa, mentre le difese turche non si erano ancora potute organizzare, probabilmente l'operazione sarebbe riuscita, senza le enormi perdite subite dai valorosi Anzac. Questo, tuttavia, era solo l'inizio: il 1916 assistette agli scontri, forse, più spaventosi dell'intero conflitto. Tra il febbraio ed il dicembre del ‘16, a Verdun, nella Woevre, francesi e tedeschi si contesero pochi chilometri quadrati, al prezzo mostruoso di 700.000 morti. Il generale Von Falkenhayn aveva concepito un piano feroce: si trattava di creare un saliente nel punto focale delle difese nemiche, il vasto sistema di forti intorno a Verdun, sulle rive della Mosa, in modo che i Francesi, non potendo ritirarsi, poiché questo avrebbe messo in crisi l'intero fronte, dovessero gettare nella battaglia risorse sempre maggiori, fino al dissanguamento del loro esercito; questa fu la guerra d'attrito. In effetti, l'esercito francese non si sarebbe mai più ripreso dal tremendo salasso: i suoi effettivi non sarebbero più tornati al numero di prima del febbraio del '16. Nel pieno della battaglia, lungo la strada di rifornimento tra Verdun e Bar le Duc (la Voie Sacrée), ogni giorno passava un'intera divisione francese, che, il giorno dopo veniva sostituita, poiché aveva cessato di esistere. Alla fine, grazie soprattutto al valoroso comando e alla volontà di resistere del generale Pétain, i Francesi conservarono il possesso della cittadina; il prezzo pagato dai contendenti fu, tuttavia, esorbitante. Dopo la battaglia navale dello Jutland (31 maggio), la situazione nel Mare del Nord e nel Baltico rimase sostanzialmente stazionaria: le corazzate di Von Tirpitz non erano riuscite a sconfiggere l’Home Fleet inglese ed erano tornate nei loro porti per non uscirne, praticamente, più; l'Inghilterra vinse la guerra dei blocchi e la Germania cominciò a boccheggiare per la mancanza di rifornimenti via mare. Tra il giugno ed il novembre del 1916, sul fiume Somme, i tedeschi attaccarono e furono, poi, contrattaccati da inglesi e francesi; il risultato fu insignificante in termini territoriali, mentre i morti furono circa un milione, tra cui più di 400.000 britannici: ormai la guerra aveva raggiunto tali livelli nelle perdite, che le nazioni belligeranti non avrebbero potuto reggere a lungo a questi ritmi: verso la fine del '16, fecero, infatti, capolino i primi tentativi di intavolare trattative di pace da parte degli austrotedeschi Intanto, sempre alla fine dell'anno, fecero la loro comparsa nelle Fiandre i Mk1, i primi carri armati inglesi, che, però, furono usati a spizzichi, e sempre a ruota delle fanterie: pochi ne intravedevano le immense potenzialità. In realtà, quello era il mezzo per uscire dallo stallo della guerra di trincea, a patto di gettarne nella mischia masse numerose in un solo attacco, come avvenne a Cambrai (novembre '17), su piccolissima scala. Mentre gli austriaci avanzavano in Trentino, in seguito alla Strafexpedition (maggio 1916), il generale russo Brussilov sfondava le linee austriache ad est e procedeva per centinaia di chilometri, facendo prigionieri interi corpi d'armata. Questa, che diede una mano ai nostri soldati che difendevano la linea di massima resistenza, sull'Altopiano dei Sette Comuni, fu l'ultima iniziativa vittoriosa dell'esercito zarista, che di lì a poco, sarebbe scomparso nel vortice della rivoluzione. Con il 1916, comunque, si erano gettate le premesse di quella stanchezza dell'”inutile strage”, come ebbe a definire la guerra papa Benedetto XV, che si estese a tutti gli eserciti nel 1917; i Turchi, nel frattempo, tanto per aggiungere stragi a stragi, massacravano un milione di Armeni e gli Inglesi uccidevano i rivoltosi irlandesi dell'Easter Revolution. L'anno 1917 si aprì con l'entrata in guerra degli Usa, dove aveva vinto il partito antitedesco; questo per l'Intesa significò, almeno agli inizi, non tanto un peso in termini umani sul piatto della bilancia, quanto in termini economici ed industriali: molto più del milione e mezzo di soldati americani che sbarcarono in Europa per combattere, contarono i loro mezzi, che spostarono l'ago della bilancia definitivamente dalla parte dell'Intesa. Nonostante questo, la Germania non sembrò mai tanto vicina a vincere la guerra come nel 1917: i suoi sommergibili misero quasi in ginocchio la Gran Bretagna, affondando circa 900.000 tonnellate di naviglio alleato, la Russia, dopo la fallimentare offensiva di luglio, vide la vittoria bolscevica, la fine delle ostilità e l'umiliante trattato di Brest-Litovsk (del dicembre 1917, ma sconfessato in seguito, e ratificato, infine, nel marzo del '18, dopo l'invasione tedesca dell'Ucraina), mentre la Francia reprimeva disperatamente continue sommosse e diserzioni nel suo provatissimo esercito. A questo si aggiunga che, grazie anche ai soldati che si poterono sottrarre al fronte orientale, gli austro-tedeschi avevano dato una spallata al fronte italiano che sembrava definitiva: il 24 ottobre, nell'alto Isonzo, le truppe degli imperi centrali avevano travolto la 2^ armata italiana, dilagando nella pianura, in quella che sarebbe passata alla storia come battaglia di Caporetto; a quel punto, in pochi avrebbero scommesso sulla resistenza italiana sul Piave. Bisogna dire, in verità, che nemmeno in Austria e Germania filava tutto liscio: oltre ai problemi dovuti alla grave penuria di materie prime, che si faceva sentire sempre più, per gli effetti del blocco continentale, si manifestavano dappertutto segnali di dissenso aperto con la continuazione della guerra. Mentre in Germania, questo dissenso aveva un carattere maggiormente sociale, con scioperi ed ammutinamenti, in Austria l'opposizione si colorava degli indipendentismi delle nazioni che formavano il multietnico impero, dando il via a pressioni enormi per ottenere autonomie e sovranità, specialmente in Cecoslovacchia e nei paesi jugoslavi. Col passare dei mesi del 1918, la situazione degli imperi centrali si fece insostenibile: dal marzo al luglio del 1918, l'esercito germanico tentò di sfondare le linee anglo-francesi con una nuova, possente, offensiva verso Parigi, arrivando a minacciare di nuovo la capitale francese, ma venne nuovamente fermato sulla Marna e lentamente respinto indietro, finché, costretto sulla difensiva, si trincerò dietro la linea “Hindenburg”. Gli italiani, a febbraio, rintuzzarono un tentativo austroungarico sugli altopiani (battaglia dei tre monti) e a giugno (battaglia del solstizio) resistettero bravamente sul Piave e sul Grappa all'ultimo disperato assalto imperialregio. Nell'ottobre del 1918, le truppe dell'Intesa ottennero vittorie decisive su tutti i fronti: il 15 gli anglofrancesi sfondarono la linea “Hindenburg”, mentre il 24 dello stesso mese, gli italiani passarono il Piave nella vittoriosa battaglia di Vittorio Veneto. Il 28 ottobre insorsero Cecoslovacchi e Polacchi, l'1 novembre insorse la flotta austroungarica, il 3 scoppiò la rivoluzione in Germania, il 9 fu proclamata la repubblica tedesca e il 12 quella austriaca. Era la fine di un mondo: il 4 novembre cessarono le ostilità sul fronte italiano e l'11 novembre 1918, sul fronte occidentale, fu stipulato l'armistizio di Compiègne. La vecchia Europa era morta, insieme a circa sei milioni di giovani europei: era finita la Grande Guerra. ALLA FRONTIERA ITALIANA Lo scoppio della guerra Abbiamo già detto delle ragioni che portarono l'Italia a aderire all'Intesa, e che, in sostanza, fanno riferimento alle appetitose offerte territoriali messe sul piatto dalla diplomazia inglese e francese, che portarono alla firma del patto segreto di Londra, del 26 aprile 1915. Giova premettere che l'Italia, alla vigilia della Grande Guerra, era ancora un paese diviso etnicamente e geograficamente, le cui componenti si sarebbero conosciute e, forzatamente, frequentate da vicino, proprio nelle trincee; a questo si aggiunga che l'idea d’intervento, di santità della guerra e di redenzione di Trento e Trieste era sviluppata soprattutto nelle classi borghesi, mentre trovava piuttosto indifferenti le vaste plebi contadine della Penisola. Di fatto, perciò, fu la gioventù colta e benestante che diede il maggior impulso alle manifestazioni anti-giolittiane della vigilia; e, per amor di verità, bisogna dire che fu anche la classe sociale che pagò, in proporzione, il prezzo più alto della guerra: i giovani ufficiali di complemento, nutriti di garibaldinismo e di retorica patriottica, si fecero massacrare alla testa delle proprie truppe nelle prime, sconsiderate, offensive di Cadorna, privando, in breve, l'esercito di validi ufficiali subalterni. Quando l'Italia entrò in guerra, il 24 maggio del '15, il conflitto sui fronti occidentale ed orientale durava ormai da quasi un anno; ciò nonostante, gli alti comandi italiani non fecero affatto tesoro di quello che i tremendi massacri dei primi mesi di guerra avevano insegnato sulla pericolosità delle armi automatiche, sull'inutilità degli attacchi a ranghi serrati contro le trincee ed i reticolati, sulla preparazione d'artiglieria: la regola unica del nostro esercito pareva quella di attaccare, di “sfondare coi petti i reticolati”. Certamente, l'assetto delle truppe italiane, almeno fino alla fine del '17, non poteva che essere offensivo; tuttavia, i concetti ispiratori di quest’offensivismo, provenivano da un libretto edito dal Cadorna dieci anni prima della guerra, che indicava le “direttive per l'attacco frontale”, e che, per ragioni anagrafiche, non teneva appunto conto di quanto successo negli ultimi dieci anni. Lo stesso Cadorna, d'altra parte, si accingeva ad andare in pensione, quando l'improvvisa morte del generale Pollio, Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, lo vide proiettato al comando supremo, il 27 luglio del 1914; Pollio, per inciso, era stato un obiettivo giudice delle nostre capacità militari, definendo più volte “grandioso”lo sforzo che sarebbe stato necessario all'Italia per mettersi alla pari delle altre potenze europee: questo sforzo sarebbe durato quattro anni e sarebbe costato 650.000 morti. Di fatto, all'Italia mancavano armi moderne: le mitragliatrici inglesi Maxim arrivavano col contagocce, mentre le Fiat uscirono di fabbrica dal maggio del ‘15 al ritmo di 50 al mese! L'esercito italiano mancava dunque di quelle armi automatiche che avevano fatto la differenza sul fronte francese: il 24 maggio del 1915 ne possedeva soltanto 618 per dieci corpi d'armata. I grossi calibri d'assedio, se escludiamo le vecchie ed usurate batterie da costa riattate, erano praticamente assenti, mentre i calibri da campagna, piccoli e medi, erano spesso obsoleti pezzi ad affusto rigido, di ghisa o, qualche volta, addirittura di bronzo, che dovevano essere ripuntati dopo ogni colpo, e con cadenze di tiro da guerra napoleonica. Le bombarde, tanto utili per spianare i reticolati, entreranno in funzione dal 1916, così come gli elmetti d’acciaio di tipo 'Adrian', originariamente acquistati dalla Francia. Insomma, il nostro Paese entrava in guerra con un esercito disomogeneo, male armato e peggio comandato: c'erano tutte le premesse per un disastro. Se non che l'Austria –Ungheria, impegnata duramente dai Serbi e dai Russi, stava peggio di noi, almeno per quel che riguarda le risorse umane, visto che alcune zone del fronte, nel maggio del '15, erano del tutto sguarnite, o difese da reparti d’anziani territoriali della Landsturm; bisogna però dire che gli austro-ungarici potevano contare su di una linea difensiva vantaggiosissima, su di un buon numero d’ottime mitragliatrici e su di un'artiglieria efficiente; oltre che sul loro innato spirito bellicoso. Tuttavia, se le nostre truppe avessero attaccato vigorosamente durante la prima settimana di guerra, avrebbero trovato ben poca resistenza tra loro e il cuore della monarchia danubiana; solo che non attaccarono, e questo diede agli austro-ungarici il tempo di fare affluire truppe, di organizzare le difese, e di ottenere un consistente aiuto dall'alleato germanico. Caporetto Ancora oggi, a 83 anni di distanza, ci s’interroga sulle ragioni che portarono al disastro di Caporetto: come fu possibile che un esercito temprato ormai da due anni e mezzo di guerra spaventosa, con una massa d'artiglieria possente e per la maggior parte incavernata, con in prima linea sulle direttrici dell'attacco sei robusti corpi d'armata e, soprattutto, con in mano i piani dettagliati dell'offensiva avversaria, forniti da ufficiali disertori romeni, nei quali cui si indicava perfino l'ora dell'inizio del fuoco di distruzione, abbia ceduto di schianto in modo così impressionante? Le ragioni sono diverse; ma, prima, è necessario chiarire che Caporetto non fu l'unico o il più terribile disastro patito da un esercito durante la Grande Guerra: un gusto tutto italiano di esaltare le proprie magagne, da un lato, e l'enfasi che fu data all'estero alla sconfitta che gettò le basi per la cosiddetta “vittoria mutilata”, dall'altro, crearono l'iperbole di Caporetto. Già nella conferenza interalleata di peschiera, l'8 novembre del '17, si diceva che l'esercito avrebbe potuto resistere. Peccato che, in quella stessa conferenza, i nostri alleati ribadirono la loro intenzione di “preservare” le proprie truppe sul fronte italiano: un gran bel sistema di fare la guerra; soprattutto se pensiamo alle migliaia di morti italiane. Nella seconda metà del 1917, l'esercito russo non aveva praticamente più capacità bellica: questo permise ai germanici di sottrarre al fronte orientale un cospicuo numero di divisioni. Date le pressanti richieste del nuovo imperatore d'Austria, Carlo, che continuava a domandare aiuti al Kaiser, fu creata un'armata, agli ordini del valentissimo generale Von Below, allo scopo di ricacciare gli Italiani sulle posizioni del 1915. L'impresa di giungere al Tagliamento, pareva impossibile, tuttavia, l'operazione fu preparata con grande cura e dispiego di mezzi. Per aprire la strada agli attaccanti nella conca di Plezzo, fu fatto arrivare al fronte anche uno speciale battaglione lanciagas, che piazzò centinaia di tubi lanciagranate sulle pendici del Ravelnik, di fronte alle linee italiane: i reparti che Cadorna additò al pubblico disprezzo, accusandoli di resa al nemico, erano, in realtà stati sterminati dal gas mostarda; i “traditori” di Plezzo erano caduti al loro posto, dal primo all'ultimo. La mattina del 24 ottobre 1917, l'alta valle dell'Isonzo era piena di nebbia, ed il tempo era freddo e piovoso. Nonostante che conoscessero l'ora dell'inizio dei tiri nemici, gli artiglieri italiani restarono silenziosi, quando una valanga di fuoco si abbatté sulle prime linee e poi avanzò a sconvolgere le retrovie: il Corpo di Stato Maggiore era stato chiarissimo quando aveva intimato di non sparare fino a che ciò non venisse esplicitamente ordinato. Solo che, sotto un simile uragano di ferro, le linee telefoniche saltarono subito; i segnali ottici non servirono a nulla nella nebbia e nel fumo e i portaordini non portarono nessun ordine, per la semplice ragione che morirono quando cercarono di attraversare la cortina di sbarramento. In realtà, il tiro di contro-preparazione sarebbe dovuto iniziare prima e non dopo quello austro-tedesco, dato che tutte le informazioni indicavano un ammassamento di truppe d'assalto assai a ridosso della prima linea e, quindi, poco protette da un efficace sbarramento d'artiglieria: prevalse la paura del siluramento, più forte di qualunque altra considerazione logica o strategica. Badoglio, dopo che fu il principale esecutore dell'ordine di Cadorna, fu per buona pezza irreperibile. A Caporetto c'era un solo ponte sull'Isonzo; e fu fatto brillare anzitempo, condannando intere divisioni alla cattura. Nel frattempo il generale Bongiovanni, nemmeno sapeva che le sue truppe erano impegnate in combattimento. Per farla breve, gli austro-tedeschi dilagarono per la valle dell'Isonzo, in mezzo a resistenze eroiche e a grottesche inadempienze dei comandi. Sul Piave e sul Grappa, dove le truppe del neodecorato tenente Rommel ebbero modo di spuntarsi le corna contro i battaglioni alpini, si combatté una terribile battaglia d'arresto, che durò, in pratica, fino al febbraio del 1918; ma, alla fine, l'esercito si consolidò, e la bilancia cominciò a pendere dalla nostra parte: paradossalmente, il nuovo fronte significava linee di rifornimento più facili, lunghezza delle linee molto inferiore; e, soprattutto, un poderoso stimolo per la combattività degli Italiani. Ora, i soldati non cantavano solo “Il general Cadorna…”: cominciava a diffondersi un'altra canzone il cui ritornello parlava del Piave che mormorò “non passa lo straniero”; e lo straniero, stavolta, non passò. Era finita la 7^ battaglia dell'Isonzo: ci era costata 10.000 morti, 30.000 feriti, 300.000 prigionieri, 350.000 sbandati e disertori, 3.152 cannoni, 1.732 bombarde, 5.000 mitragliatrici; l'esercito italiano, tra il Brenta e il mare, poteva contare su non più di 300.000 uomini! Guerra sulle vette La guerra, in particolar modo per la 1^, la 4^ armata e le truppe del settore Carnia, si combatté quasi interamente in montagna, con quote variabili tra i mille ed i quasi quattromila metri (Marmolada, Ortles, Adamello) e temperature invernali intorno ai trenta gradi sottozero. Se a questo si aggiunge che i due inverni, 1915-16 e 1916-17, furono caratterizzati da straordinarie precipitazioni nevose e da un clima più freddo della media del secolo, ci si renderà immediatamente conto delle condizioni terribili in cui si trovarono a combattere i soldati degli opposti schieramenti. I protagonisti tradizionali di questi epici scontri, che, nonostante l'utilizzo di masse umane assai inferiori a quelle delle grandi battaglie isontine e carsiche, ebbero grande risonanza per l'alto valore alpinistico di alcune imprese e per la temerarietà di ogni iniziativa offensiva, furono, da una parte, gli Alpini e, dall'altra i Tirolesi, tradizionali rivali di quasi tutte le battaglie sui monti. Sarebbe, tuttavia, sbagliato pensare che soltanto gli Alpini ed i Tirolesi siano stati protagonisti delle azioni di questa parte di fronte: fanti, bersaglieri, granatieri, fanteria, insanguinarono le montagne della Lombardia, del Trentino, del Veneto e del Friuli, al pari dei loro più attrezzati commilitoni delle truppe da montagna. I principali settori del fronte che furono interessati dalla guerra in montagna furono: 1. Settore Valtellina: teatro di scontri assai modesti sul piano strategico e con truppe molto limitate, ma caratterizzato da imprese straordinarie per lo scenario di altissima quota in cui si combatté (Passo dello Stelvio, Ortles, Cevedale); 2. Settore Valcamonica: ruotava sul massiccio Adamello-Presanella (con quote superiori ai 3.000 metri), che ospitò masse d’uomini anche notevoli e vide tentativi d’attacchi in massa, purtroppo quasi sempre risoltisi in carneficine; 3. Settore Altipiani: vide l'utilizzo di grandi masse d’uomini, in operazioni di vasta portata; nel sottosettore di Lavarone e Folgaria vide, nella prima fase della guerra, notevoli scontri d’artiglierie tra i forti delle due parti, che dominavano la parte occidentale dell'altipiano dei Sette Comuni; 4. Settore Cadore: scenario delle più note battaglie dolomitiche, andava originariamente dalla val Boite alle sorgenti del Piave: di qui gli italiani mossero per conquistare uno sbocco verso il Tirolo austriaco e la valle della Drava. Non vi furono grandi ammassamenti di truppe, tuttavia si verificarono scontri anche di un certo rilievo; 5. Alpi Giulie: montagne brulle e quasi del tutto prive d’acqua, con quote intorno ai 2.000 metri, ma anche superiori; furono interessate direttamente dalla 7^ battaglia dell'Isonzo, che vide spesso l'isolamento dei reparti che tenevano le posizioni più elevate. I fatti d'arme più importanti che interessarono questa parte di fronte, avvennero tutti nella zona degli altipiani e videro gli opposti schieramenti fronteggiarsi in battaglie, ora difensive, ora offensive, che si combattevano ciclicamente sulle stesse posizioni. Il 15 maggio del 1916, dietro le pressioni del maresciallo Conrad, due armate austro-ungariche, la 9^ e la 3^, appoggiate da un migliaio di cannoni, scatenarono tra Adige e Brenta una poderosa offensiva, allo scopo di sfondare le difese italiane della zona altipiani e sfociare nella pianura vicentina; l'offensiva, che era nota a tutti ufficiosamente come “Strafexpedition”, cioè “spedizione punitiva”, mirava anche a punire l'Italia per il suo tradimento della Triplice Alleanza. In un mese, le truppe austro-ungariche occuparono praticamente tutto l'altopiano dei Sette Comuni: resisteva soltanto una sottile linea sul bordo meridionale dell'acrocoro, in corrispondenza di rilievi divenuti leggendari per la granitica resistenza italiana. Molte di queste cime precipitavano a strapiombo sulla pianura; e molti dei loro difensori, esaurite le munizioni, precipitarono nel vuoto, avvinti ai soldati nemici, in un disperato corpo a corpo. Il 10 giugno del 1917, circa 300.000 italiani attaccarono le linee austro-ungariche sugli altipiani, mirando a scardinare le difese nemiche e costringere gli austro-ungarici a calare in Valsugana. In quella che fu nota al mondo come battaglia dell'Ortigara, durata fino al 26 giugno, le perdite italiane, paragonabili a quelle di una battaglia isontina, avvennero per la maggior parte in 2 km di fronte: 28.000 uomini, tra cui 22 battaglioni alpini, pressoché distrutti. Dal Piave a Vittorio Veneto Il 15 giugno 1918, iniziava la battaglia del Solstizio, o, meglio, l'operazione Albrecht. Gli austro-ungarici dovevano sfondare il fronte italiano, per ottenere una pace favorevole, mentre la monarchia si stava sfaldando sotto la spinta dei nazionalismi e della crisi economica; così attaccarono al Tonale, sui soliti altipiani, sul Grappa e sul Piave. L'esercito che stava loro di fronte, però, era un esercito riarmato con mezzi più moderni, con facili vie di rifornimento e con reparti ricostituiti grazie all'afflusso delle giovani reclute della classe 1899; anche il morale era alto e inoltre, gli Italiani detenevano il dominio quasi incontrastato dei cieli. Tuttavia, all'inizio, l'attacco austro-ungarici penetrò nei territori di là dal Piave preoccupando gli alti comandi fino a raggiungere, il 20 giugno, il punto di massima penetrazione. Il 23 giugno, pressati dalle notizie da Vienna e dal contrattacco italiano, gli austro-ungarici avevano già ripassato il Piave: l'ultimo ruggito della monarchia bicipite si era concluso con un nulla di fatto, se escludiamo la perdita di 50.000 uomini; ora era solo questione di tempo. Per gettare le basi di un passaggio vittorioso del fiume sacro alla Patria, gli Italiani, con un'azione durata cinque giorni, tra il 2 ed il 6 di luglio del 1918, riconquistarono il delta del Piave; seguì un interludio, che durò fino ad ottobre. Il 24 ottobre, ad un anno esatto da Caporetto, oltre 3.500 cannoni aprirono il fuoco, dal Brenta all'Adriatico: era la battaglia finale di una guerra senza esclusione di colpi. Dopo qualche difficoltà iniziale, gli italiani riuscirono a sfondare in molti punti, mentre l'8^ armata puntava su Vittorio Veneto. Per gli austro-ungarici era il crollo: mentre le truppe più fidate resistevano disperatamente sul Grappa e sugli altipiani, Sloveni, Bosniaci, Croati, Cecoslovacchi e, in parte, Ungheresi, abbandonarono la lotta, iniziando un enorme esodo di ripiegamento. Naturalmente, l'Italia voleva conquistare quanto più territorio possibile, prima del cessate il fuoco, in modo da presentare al tavolo delle trattative una conquista di fatto, che difficilmente sarebbe stata messa in discussione: per questo si poté assistere al bizzarro spettacolo di truppe austro-ungariche ancora in piena efficienza, che risalivano le valli alpine, superate dalle avanguardie italiane, che correvano verso il Brennero, senza minimamente disturbarsi a vicenda. Sempre per questo motivo, il capitano austro-ungarico Ruggera, che si era presentato con la proposta di resa alle linee italiane di Serravalle all'Adige già il 29 ottobre, assistette ad un’incredibile sequenza di tergiversazioni diplomatiche, atte a guadagnare tempo prezioso. Soltanto alle 18 del 3 novembre 1918, dopo una ridda d’aggiustamenti e di cambi di programma, tra Vienna, Roma e Baden, a Villa Giusti venne firmato il protocollo d'intesa dell'armistizio, che prevedeva la cessazione di ogni atto ostile da entrambe le parti entro le ore 15 del giorno successivo. Era finita la Grande Guerra sul fronte italiano.