ABSTRACT 2A PARTE - Comune di Firenze

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Parole dal fronte
Per i cento anni della Grande Guerra
1915-2015
Prosegue la mostra in occasione dei cento anni dall’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale.
L’esposizione è stata realizzata utilizzando il patrimonio documentario posseduto dalla Sezione di
Conservazione e Storia locale della Biblioteca delle Oblate, dall'Archivio del Risorgimento e
dall'Archivio Storico del Comune di Firenze.
Una serie di immagini e di testi coevi di diversa natura (articoli di giornale, copertine di riviste,
periodici di trincea, caricature umoristiche) ricostruiscono il contesto storico-culturale italiano
durante la prima guerra mondiale, descrivendo il clima che aleggiava in quegli anni in Italia e a
Firenze. L'intento è evidenziare il modo in cui i molteplici canali di informazione, esaltando la
guerra come momento di unità nazionale e come strumento giusto e necessario per sconfiggere il
“nemico straniero”, abbiano segnato una società e la sua epoca.
Nella mostra sono esposti documenti che raccontano e rievocano il periodo della seconda parte del
conflitto, con particolare attenzione agli eventi che si susseguirono sul fronte italiano dalla celebre
“rotta di Caporetto” (24 ottobre 1917) fino alla conclusione delle ostilità (4 novembre 1918).
A cura di Alessandro Chiavistelli e Martina Verna
Servizio Civile Regionale, Progetto L'Immagine di Firenze dalle carte al web
L’Italia e la disfatta di Caporetto
Dopo circa due anni di logoranti battaglie di trincea (l’Italia, lo ricordiamo, entrò ufficialmente in
guerra il 24 maggio 1915 a fianco della Triplice Intesa) combattute in maniera statica e snervante
con un altissimo numero di caduti, si giunse ad un momento di svolta. Il 1917, infatti, fu l’anno più
difficile della guerra.
Tra i soldati italiani le proteste e i gesti di insubordinazione si fecero più frequenti, causando così la
dura reazione da parte degli ufficiali che ordinarono provvedimenti punitivi e addirittura fucilazioni
per i “disertori”. Anche tra la popolazione civile si manifestarono segni di malcontento contro la
guerra. Tra tutti è da ricordare l’agitazione che si verificò a Torino fra il 22 e 26 agosto 1917,
quando una protesta originata per la mancanza di pane e la carenza di viveri si trasformò in vera e
propria sommossa con partecipazione operaia.
Altro episodio cruciale per il contesto italiano e per le sorti della guerra fu lo scoppio della
Rivoluzione russa nel febbraio 1917. Per consentire alla rivoluzione il respiro necessario, il nuovo
governo bolscevico russo decise di abbandonare l’alleanza con la Triplice Intesa e di siglare un
armistizio con gli Imperi centrali. Nel marzo 1918 fu ufficialmente firmato il trattato di BrestLitovsk che comportò per i russi condizioni pesantissime come la perdita della Polonia e del vasto
territorio dal Baltico all’Ucraina.
Il cedimento dell’ esercito russo consentì al comando austro-tedesco di far affluire nuove forze e di
impegnarle sul fronte italiano. Questo immane dispiegamento di truppe nemiche sul fronte alpino
coincise proprio col periodo di malcontento generale che colpì il contesto sociale e militare della
penisola. Era il presagio che la situazione si stava avvicinando ad un punto di rottura.
Il 24 ottobre 1917 un’armata austriaca rinforzata da sette divisioni tedesche attaccò le linee italiane
a nord del fiume Isonzo (XII battaglia dell’Isonzo) e le sfondò nei pressi di Caporetto, penetrando in
profondità per circa 150 chilometri.
Fu questa la pagina più drammatica della guerra, perché il cedimento del fronte si tramutò in
un’autentica rotta disordinata e le truppe dovettero abbandonare precipitosamente le posizioni che
tenevano dall’inizio della guerra. Molti reparti si disgregarono, furono circa 400.000 uomini tra
morti, feriti e prigionieri, per non parlare degli imponenti quantitativi di artiglieria e materiali caduti
in mano al nemico e dei numerosissimi profughi civili che lasciarono intere province del Veneto.
Per la storiografia tradizionale Caporetto fu una sconfitta sia militare sia politica. La rottura al
fronte era stata causata da errori dei comandi, che si erano lasciati cogliere impreparati dall’attacco
sull’alto Isonzo, situazione diventata irreparabile per l’efficacia della manovra ideata dagli austrotedeschi e dalla loro superiorità in fatto di artiglieria e gas venefici. Gli errori principali furono
commessi dal Comandante Luigi Cadorna (1850 – 1928), che gettò, invece, la responsabilità della
disfatta interamente sugli stessi soldati, accusandoli di essersi arresi senza combattere.
La sconfitta militare fu effettivamente accompagnata da una sorta di insubordinazione
generalizzata, da un diffuso spirito di rivolta e di protesta contro “l’inutile strage” della guerra di
trincea (“Caporetto politica”). Tuttavia pare, però, che la negligenza e l’attitudine a sottovalutare il
nemico dimostrate dagli alti comandi italiani, prevalsero su ogni causa. Sembra quindi, un po’
eccessivo sostenere che Caporetto fu il frutto esclusivamente della campagna disfattista che si
sviluppò dall’interno del paese.
La resistenza sul Piave e la vittoria finale
Nel periodo successivo alla “rotta di Caporetto” il paese si riprese stringendosi al nuovo governo di
unione patriottica presieduto da Vittorio Emanuele Orlando (1860 – 1952), mentre il Comando
dello Stato Maggiore dell’esercito passò da Cadorna al Generale Armando Diaz (1861 – 1928) che
costituì sul Piave una nuova linea difensiva dal massiccio del Monte Grappa fino al Montello. Qui,
negli ultimi mesi del 1917 (I battaglia del Piave), le truppe italiane resistettero valorosamente
all’avanzata degli austro-tedeschi che minacciavano di dilagare nella Pianura Padana ed evitarono
che la sconfitta si tramutasse in definitiva catastrofe.
Paradossalmente la svolta imposta dalla disfatta di Caporetto finì con l’avere ripercussioni positive
sull’andamento della guerra italiana. I soldati si trovarono nelle condizioni di combattere una guerra
difensiva, contro un nemico che adesso occupava una parte del territorio nazionale. Questo
contribuì a far leva motivazionale sul morale degli italiani, a rendere più comprensibili gli scopi del
conflitto, ad aumentare il senso di solidarietà e coesione patriottica al fronte come nel paese.
A cominciare dai primi mesi del 1918 fu svolta un’opera sistematica di propaganda tra l’esercito,
attraverso una maggiore diffusione dei giornali di trincea rispetto ai primi anni del conflitto. Per
questo motivo fu creato il Servizio P, un apposito Ufficio di propaganda presso il Comando
Supremo che si avvaleva anche della collaborazione di ufficiali, soldati dal fronte e numerosi
intellettuali e disegnatori. Lo scopo principale era quello di rivolgersi direttamente al soldato con
l’intento di risollevarne lo spirito dopo la grande débacle subita sul fronte.
Da questo momento aumentarono considerevolmente i messaggi patriottici e motivazionali con
l’intento di ricordare sia al militare sia al civile italiano che era giunta l’ora della riscossa, di rialzare
la testa, di vendicare l’umiliazione subita, di difendere la propria patria, le proprie donne e la
propria dignità contro l’invasore straniero.
A tal proposito, molto indicativa è l’immagine a colori che abbiamo esposto nella mostra, tratta
dalla copertina del primo numero di Luglio 1918 del San Marco, periodico trimestrale dell’ VIII
Corpo d’Armata. Vi è raffigurato un soldato italiano che regge la bandiera tricolore a testa alta con
lo sguardo sicuro e dignitoso. Sopra il disegno compare la scritta “Caporetto - Capo eretto”, che
con un gioco di parole rimanda chiaramente alla necessità di reagire alla sconfitta subita sull’alto
Isonzo.
Tra le altre, fanno parte dell’esposizione anche alcune caricature molto suggestive strutturate in
chiave di pubblicità umoristica. Queste vignette sono tratte da Il Razzo, giornale della VII Armata
che iniziò ad essere pubblicato nell’aprile del 1918. Qui il nemico straniero viene demonizzato e
identificato come una sorta di infezione batterica da estinguere a tutti i costi ( “Obiceol distrugge
l’austrococco […] i bacilli che minacciano la vostra esistenza”; “Resisteol sopprime l’influenza
austro-tedesca”).
In queste riviste di trincea la guerra era perciò presentata in una nuova cornice ideologica, dipinta
come una giusta lotta per ristabilire un ordine interno e internazionale.
Tornando agli eventi storici che si susseguirono in Italia, nel giugno del 1918 l’esercito austrotedesco tentò di sferrare il colpo decisivo attaccando in forza sul Piave (II battaglia del Piave o
“battaglia del solstizio”). L’esercito italiano, formato in buon numero da giovanissime reclute classe
1899 (“i giovinetti del Piave”), ebbe la meglio e ricacciò indietro il nemico.
Fu proprio questa circostanza che ispirò i versi de La leggenda del Piave, celebre canzone
patriottica scritta nel 1918 dal maestro Ermete Giovanni Gaeta (1884 – 1961). La canzone venne
pubblicizzata subito nei giorni successivi alla battaglia del solstizio. Fu cantata da Enrico Demma,
nome d’arte di Raffaele Gattordo (1890 – 1975). L'inno contribuì a ridare morale alle truppe
italiane, al punto che il generale Diaz inviò un telegramma all'autore nel quale sosteneva che aveva
giovato alla riscossa nazionale più di quanto avesse potuto fare lui stesso.
Il conflitto si stava avviando verso la fine. Le truppe austriache erano ormai vicine al collasso a
causa sia del logoramento conseguente al lungo periodo di guerra, sia a causa dell’instabile
situazione interna caratterizzata dalle crescenti tensioni politico-sociali tra le numerose identità
nazionali presenti. Decisivo fu anche l’appoggio dato alle forze della Triplice Intesa da parte degli
Stati Uniti, che entrarono in guerra il 6 aprile 1917.
La III battaglia del Piave, iniziò con un’offensiva italiana il 24 ottobre 1918. La data, la stessa della
disfatta di Caporetto dell’anno precedente, fu scelta consapevolmente e simbolicamente per
vendicare l’umiliazione subita. Gli austriaci batterono in ritirata su tutto il fronte e la battaglia
decisiva si svolse a Vittorio Veneto. Il 3 novembre furono liberate Trento e Trieste, il 4 novembre
Diaz annunciò la vittoria.
L’Armistizio di Villa Giusti
L'Impero austro-ungarico chiese l'armistizio e i rappresentanti degli alti comandi si riunirono a Villa
Giusti presso Padova, dove ebbero luogo le trattative che si protrassero dalla mattina del 1° fino alla
mattina del 3 novembre.
L'Austria avrebbe dovuto cedere, ritirandosi, tutti i territori stabiliti nel Patto di Londra stipulato il
26 giugno 1915 dall'Italia con le potenze dell'Intesa, compatibilmente con quanto sarebbe stato
deciso al termine della trattativa in corso con la Germania sul fronte occidentale (armistizio di
Compiègne). Il comando italiano, intenzionato ad occupare militarmente i territori previsti, si
accordò per l'interruzione delle ostilità 24 ore dopo la firma del trattato: l'armistizio fu dunque
firmato alle 15:20 del 3 novembre con la clausola che sarebbe entrato in vigore alle 15:00 del
giorno seguente. Quando il generale Weber von Weberau, poi, dichiarò che all'esercito imperiale
era stato già dato l'ordine della ritirata e chiese la cessazione immediata delle ostilità, Il generale
Pietro Badoglio (1871-1956) rifiutò e permise alle truppe italiane di avanzare per le ventiquattro ore
successive.
Il 3 novembre il comando dell'esercito austro-ungarico eseguì dunque gli ordini deponendo le armi
e cominciando ad arretrare. Le ostilità da parte italiana cessarono invece solo nel pomeriggio del
giorno 4 di novembre, dando adito a molte proteste, in quanto l'esercito italiano proseguì la guerra
contro un nemico che non combatteva. Il 4 novembre il capo di stato maggiore Armando Diaz
annunciò finalmente la conclusione del conflitto firmando l'ultimo bollettino di guerra, passato poi
alla storia come il "bollettino della Vittoria".
Alla conferenza di pace di Parigi del 1919, la delegazione italiana capeggiata da Vittorio Emanuele
Orlando domandò l'applicazione integrale del Patto di Londra, e, in più, anche la concessione della
città di Fiume, che non era in esso compresa ma che il giorno 30 ottobre 1918 si era autoproclamata
indipendente chiedendo l'annessione all'Italia. La città, però, veniva ora reclamata dalla nascente
Jugoslavia. Gli Alleati e il presidente americano Woodrow Wilson (1856-1924) in particolare si
opposero alla richiesta di Orlando ed egli, per contro, abbandonò per protesta la conferenza di pace.
Il nuovo presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti (1868-1953) il 10 settembre 1919
sottoscrisse il Trattato di Saint-Germain che definiva i soli confini con l'Austria; furono assegnati
all'Italia il Trentino-Alto Adige, l'Istria, la Venezia Giulia fino alle Alpi Giulie, la Dalmazia
settentrionale fino al porto di Sebenico incluso e le sue isole, il porto di Valona e l'isolotto di Saseno
in Albania. Nitti ribadì inoltre la posizione italiana nei confronti di Fiume e iniziò negoziati con il
neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
Le conseguenze di cinque anni di guerra furono devastanti sotto il profilo politico, economico, ma
in misura ancor maggiore sotto quello umano e psicologico. "L'inutile strage" aveva deformato il
volto dell'Europa.
L'Italia, seppur uscita vincitrice dal conflitto, aveva pagato uno scotto di circa 650.000 morti, e più
di un milione tra feriti e mutilati, dei quali la Patria, per la quale avevano combattuto, avrebbe
dovuto ora farsi carico.
La questione di Fiume
Le condizioni di pace lasciarono infine tutti i contendenti delusi. Sempre più profonda era la
sfiducia nei confronti delle istituzioni e, dopo l'abbandono del tavolo delle trattative da parte della
delegazione, l'Irrendentismo nazionalista italiano contestò apertamente l'operato del governo. Ben
presto il movimento, diffondendo il mito della "vittoria mutilata" raccolse il consenso dell'opinione
pubblica e, forte dell'appoggio di ampi strati sociali insoddisfatti, tra i quali figuravano gli Arditi e
molti reduci, riprese il progetto di espansione sull'Adriatico.
Il 12 settembre 1919, una forza volontaria irregolare di nazionalisti ed ex-combattenti, oltre ad
alcuni reparti delle Forze Armate, che chiamavano sé stessi "legionari", guidata dal poeta Gabriele
D'Annunzio, occupò manu militare la città di Fiume e proclamò l'istituzione della Reggenza del
Carnaro.
Il governo Nitti, impreparato dinanzi quest'azione di forza, reagì blandamente e lasciò la risoluzione
della questione al governo successivo (quinto governo Giolitti), dopo sedici mesi dall'occupazione.
Giovanni Giolitti (1842-1928) raggiunse un accordo diretto con la Jugoslavia e con la firma del
Trattato di Rapallo il 12 novembre 1920, Fiume fu riconosciuta città indipendente (Stato Libero di
Fiume) . Il Vate e i suoi legionari si rifiutarono di abbandonare la città e furono costretti a farlo in
seguito ad un assedio armato nel dicembre 1920, poi ribattezzato dallo stesso D'annunzio come
"Natale di sangue".
Al di là di qualsiasi retorica l'impresa fiumana divenne l'emblema della debolezza dello stato
liberale, che, provato da quattro anni di guerra, andava ora verso il declino e avallava
pericolosamente l'uso della violenza privata a fini politici.
Il collasso fu rapido: i fatti di Fiume portarono il Paese alle elezioni anticipate, nel maggio 1921.
Sette mesi dopo partiva la Marcia su Roma.
Di seguito, alcuni siti per approfondire gli argomenti inerenti alla
Grande Guerra e alle riviste di trincea :
http://www.grandeguerra.rai.it/
http://www.centenario1914-1918.it
http://www.cadutigrandeguerra.it/
http://www.europeana1914-1918.eu/it
http://www.14-18.it/
http://www.storiaxxisecolo.it/grandeguerra/gmguida.htm
http://www.primaguerra.it/sitoabibliografia/siti-web-dedicati/2
http://www.bbc.com/history/0/ww1/
http://www.1914-1918-online.net
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