Leggi - Politecnico di Torino

Un tentativo di introdurre alla matematica qualche
non matematico
di Paolo Valabrega
Chi ha seguito (con un po’ di impegno) studi secondari superiori di indirizzo classico o scientifico ha certamente letto e analizzato alcune opere della nostra letteratura
ritenute fondamentali: la Divina Commedia, I Promessi sposi, le poesie di Petrarca,
Leopardi, Foscolo, Carducci, Pascoli e magari anche Ungaretti, Montale, Quasimodo,
oltre alle novelle di Pirandello e ai Malavoglia. Ed è in grado di parlarne, di fare qualche
commento. Conosce anche la grammatica italiana e sa distinguere fra soggetto, verbo,
complemento, sa costruire una frase corretta (o quasi) in italiano. Sa anche leggere un
romanzo, o un articolo di giornale, o un saggio riguardante il riscaldamento globale,
la seconda guerra mondiale e il nazismo, la rivoluzione francese o il Risorgimento. Ha
inoltre qualche ricordo di chi siano Platone, Aristotele, Kant, Marx e saprebbe certo
leggere e capire qualche cosa di non troppo tecnico su di loro. Chi proviene dal Liceo
scientifico forse sa anche con un po’ di fatica capire una semplice citazione latina (e greca
se ha seguito studi classici). Non vorrei sopravvalutare le conoscenze umanistiche di chi
ha seguito con impegno (buoni) studi secondari superiori, ma certo le loro conoscenze
e abilità in campo umanistico non sono disprezzabili, nemmeno se gli studi successivi
sono stati scientifici o tecnici (matematica, ingegneria, fisica, chimica, medicina,. . . ).
Nulla di simile si può dire della matematica. Chi ha frequentato scuole secondarie
superiori e lì si è fermato o ha proseguito con studi umanistici difficilmente è in grado di
capire qualcosa di più di quello che ha appreso nelle scuole elementari e medie inferiori
(operazioni con i numeri interi e razionali, equazioni di primo grado, triangoli, aree).
Anche se ha studiato al liceo scientifico o all’istituto tecnico, non ricorda più che cosa
siano un limite o una derivata, a meno che non li usi nel suo lavoro (e ciò avviene
di rado). E nemmeno chi ha proseguito con studi tecnico-scientifici è in genere (con
eccezioni) capace di ricordare che cosa sia un limite. Ed è certo che la lettura di un libro
o un articolo matematico, contenente qualche formula e soprattutto qualche idea non
troppo vaga, non è alla sua portata.
La matematica purtroppo (grazie a Croce e Gentile e ai loro epigoni) viene presentata in modo ben diverso. È ben vero che fin dalle scuole medie inferiori si studia la
geometria euclidea, che è un bellissimo esempio di costruzione logico-deduttiva, ma purtroppo la sua struttura logico-deduttiva rimane nell’ombra e non sempre è chiaro che
cosa si ammette (assioma), che cosa si introduce per definizione, che cosa si dimostra. Il
concetto stesso di dimostrazione è spesso poco chiaro. Ma la confusione maggiore viene
dall’insegnamento dell’algebra, ridotta a un noiosissimo e inutile calcolo letterale, dove
non è nemmeno chiaro che cosa si deve fare (che cosa significa con esattezza “semplificare un’espressione”, se non indovinare il risultato desiderato dall’insegnante?). E una
quantità esagerata di tempo viene poi impiegata a studiare (di nuovo in modo un po’
confuso) la trigonometria piana, che potrebbe essere liquidata in una settimana.
Salvo qualche tentativo (non sempre riuscito) di far capire la struttura logico-deduttiva
della geometria euclidea, il resto degli studi matematici è rivolto a questioni ben poco
interessanti e noiose, ma soprattuto è privo di organicità e coerenza. Qualunque studente si fa un’idea della struttura e della complessità della lingua italiana (o inglese, o
latina), dello sviluppo della letteratura, dello sviluppo del mondo occidentale, dai greci e
romani (o addirittura sumeri e babilonesi) fino all’Europa moderna (magari escludendo
la II guerra mondiale, il fascismo e il nazismo), ma nessuno si fa un’idea di come sia
articolata la matematica. Non stupisce che, quando si è dimenticato tutto ciò che si è
studiato, la letteratura, la storia, la filosofia lascino una traccia non superficiale, e la
matematica scompaia dalla mente dei più: degli intellettuali, dei professori di italiano,
di storia e di filosofia, dei giuristi e dei linguisti, ma anche dei biologi, dei medici, degli economisti (che probabilmente conoscono principalmente la statistica), forse perfino
degli ingegneri e dei fisici.
Nelle scuole secondarie naturalmente si studiano anche altre discipline scientifiche,
fra le quali la fisica, che usa in modo significativo la matematica. Ma il collegamento fra
leggi fisiche e loro formulazione matematica non è frequentemente occasione per mettere
in evidenza l’uso della matematica, nella fisica ma anche in molte altre e varie discipline,
a partire dall’informatica.
È facile gettare tutta la colpa su Croce e Gentile, ma un esame anche superficiale
della cultura matematica di chi ha seguito scuole superiori in altri Paesi europei o
negli Stati Uniti (forse non in Cina o India), dove Croce e Gentile sono per fortuna
sconosciuti, fa capire che ci deve essere qualche cosa d’altro oltre al disprezzo per la
cultura scientifica. Io credo che si tratti semplicemente della intrinseca difficoltà della
matematica, del suo linguaggio astratto e formale, della sua grande varietà e complessità
(brutta parola oggi molto di moda e usata spesso a sproposito per motivi di immagine,
ma ben adatta a descrivere la matematica). Un elenco dei campi della matematica è
di infinita lunghezza, tanto più se si vogliono considerare anche i collegamenti con altre
scienze e le applicazioni. Ma se anche ci si limita ai primi elementi, ad esempio i numeri,
la difficoltà di capire di che cosa si tratta è notevole, soprattutto per chi non abbia voglia
e tempo di riflettere.
Il progetto Polymath vorrebbe (ambiziosamente) dare un contributo a far capire ai
non specialisti che cosa sia la matematica. Spero di avere fra i lettori qualche umanista,
anche se quanto scrivo è rivolto soprattutto a studenti di scuole secondarie superiori e a
laureati in discipline tecnico-scientifiche. Le conoscenze di matematica acquisite in una
buona scuola secondaria superiore dovrebbero essere sufficienti a capire quanto scrivo,
sia pure con qualche occasionale difficoltà.
Paolo Valabrega
Indice
Parte I
1
Numeri
1.1
Numeri naturali.
Tutti conoscono i numeri interi (e magari anche i numeri decimali con un paio di cifre
dopo la virgola), se non altro per il fatto che li usano continuamente nella vita quotidiana:
• per calcolare i prezzi di ciò che acquistano (1 euro al chilogrammo le pesche)
• per identificare oggetti (ad esempio l’aula 5 di una scuola)
• per contare con un certo ordine, ad esempio i mesi e gli anni (settembre = 9, anno
1876, ovvero pagina 81 di un libro)
• per misurare (10 chilogrammi, 22 metri)
• per calcolare gli interessi (un’obbligazione rende il 3% annuo)
• per telefonare (si compone un numero intero)
• per contare oggetti (2 pillole, una dozzina di uova)
• per identificare con un sistema misto lettere-numeri (il libro catalogato BL 23415)
• ...
Quindi i numeri si usano sia in quanto numeri (1 euro, 22 metri, 3% di interesse, 12
uova,..) sia come etichette quando si vogliano identificare oggetti in quantità superiore
a 4 o 5 pezzi (è più semplice contare le aule di una scuola da 1 a 21 che dare etichette
come A, B, C, . . ., fino a Z).
1.2
Numeri cardinali e ordinali.
I numeri interi hanno due aspetti abbastanza diversi fra loro.
Se ho 12 uova significa che ho un contenitore di uova con 12 posti, ciascuno con
un uovo, e tale numero coincide con il numero di mele in un cesto di 12 mele, o con
il numero di pillole in una confezione di 12 pillole. In sostanza posso immaginare un
contenitore con dei posti nei quali posso mettere oggetti qualsiasi, il numero intero mi
dice quanti sono i posti disponibili. In questo uso il numero intero si chiama cardinale.
Se ho 10 mele anziché 12, ho il numero cardinale 10, che mi dice che ho meno di 12
mele. Quindi i numeri cardinali misurano quanti oggetti si considerano e permettono di
fare confronti di quantità.
1
Ma i numeri interi si possono usare anche per mettere in ordine. Ad esempio supponiamo di dover formare una graduatoria al fine di assegnare un premio. Se ci sono
10 candidati e 2 premi, i candidati vengono messi in ordine: il 1o , il 2o , il 3o , fino al
10o . Non è tanto interessante sapere che i candidati sono 10, quanto sapere chi occupa il
posto 1, ovvero il posto 2 oppure 3. In questo senso i numeri interi si dicono ordinali. Il
numero ordinale 3 segue i numeri ordinali 1 e 2 e non indica qualcosa di più numeroso,
ma qualcosa che viene dopo.
Questo esempio serve a dimostrare che anche in questioni apparentemente semplici
i numeri interi presentano questioni delicate e non facili da chiarire: la differenza fra
ordinali (mettere in ordine) e cardinali (contare).
1.3
Il numero 0.
Anche la funzione del numero 0 (che talvolta non si considera nemmeno fra i numeri
interi) richiede qualche commento. Quando si pensa al numero cardinale 5 si intende
che conta 5 oggetti (5 mele, 5 uova, . . . ); che cosa conta allora il numero 0? Poiché deve
contare meno di 1 oggetto, vuol dire che non ne conta nessuno, cioè che abbiamo un
cestino senza mele, o una confezione di uova le cui uova sono già state tutte mangiate.
Quando un insieme non ha elementi diciamo che è vuoto (simbolo matematico: ∅).
Se invece ordiniamo gli oggetti, ci sembra naturale parlare del primo oggetto (primo
premio) e non dello zeresimo oggetto (espressione che non usa proprio nessuno). Quindi
i numeri interi ordinali potrebbero cominciare da 1. I matematici sono divisi su questo
punto: i logici e gli esperti di fondamenti della matematica preferiscono partire da 0
anche con gli interi ordinali (magari non nei premi) e dire che il primo ordinale è 0.
Non è poi terribile numerare 5 oggetti da 0 a 4 invece che da 1 a 5, vuol solo dire che
0 significa che prima non c’è nulla (l’insieme degli oggetti che vengono prima è vuoto).
Ma altri matematici (soprattutto chi studia l’analisi matematica) preferiscono partire
da 1, in quanto è più naturale, in una lista di elementi, indicare con il numero 1 il primo
elemento, con 2 il secondo, ecc.
Anche gli informatici vivono, spesso a loro danno, un’ambiguità dello stesso tipo:
in certi linguaggi di programmazione si sottintende che gli oggetti che formano una
certa struttura (tecnicamente un vettore) siano etichettati con un indice che parte da 1,
mentre in altri linguaggi si parte da 0. Ciò è spesso sorgente di incomprensioni.
1.3.1
Il numero 0 e la numerazione degli anni.
In realtà scegliere 0 oppure 1 come primo numero può comportare qualche problema.
Un esempio famoso e dibattuto di problema che ha origine nella presenza o assenza dello
0 riguarda la numerazione degli anni. Nessuno si sarebbe preoccupato di sapere che cosa
significa con precisione anno 1907 o 1568 se non ci fosse stato il cambio di millennio. Il
terzo millennio è iniziato il primo gennaio del 2000 o del 2001?
Entrambe le possibilità sono, almeno dal punto di vista teorico, accettabili. La nostra
numerazione parte dalla nascita di Cristo (a differenza di altre che partono ad esempio
dalla creazione del mondo o dall’Egira). Ma l’anno che inizia con la nascita di Cristo (e
2
per semplicità diremo che dura 365 giorni) porta il numero 0 oppure il numero 1? Ha
senso dire che, prima che passino 365 giorni non si è compiuto alcun anno, e quindi il
numero giusto dovrebbe essere 0. Oppure si può anche pensare che la numerazione si
riferisce agli anni mentre scorrono e quindi tra 0 e 365 giorni scorre l’anno con il numero
1. Tuttavia nel mondo antico (e fino al medioevo) non esisteva un simbolo per il numero
0 e il concetto stesso di 0 mancava. Quindi l’anno fra 0 e 365 giorni portava il numero
1 (e il precedente si chiamava anno 1 prima di Cristo, noi diremmo anno −1). Questo
è quanto è stato stabilito nel VI secolo dal matematico e astronomo Dionigi il Piccolo,
vissuto prima che gli Arabi introducessero in Europa il simbolo dello 0, proveniente
dall’India. Si conclude quindi che l’anno che porta il numero 2 si riferisce al periodo
di 365 giorni dopo lo scorrere dell’anno che porta il numero 1, . . . , l’anno che porta il
numero 10 si riferisce allo scorrere del decimo gruppo di 365 giorni e il secondo decennio
dell’era volgare inizia il primo gennaio dell’anno 11. Pertanto l’anno che porta il numero
2000 si riferisce al duemillesimo periodo di 365 giorni dopo la nascita di Cristo, e quindi
il terzo millennio, cioè il terzo gruppo di mille anni, inizia il primo gennaio 2001.
Si noti che i numeri con i quali denotiamo gli anni sono gli ordinali e quindi, quando
diciamo anno 70, intendiamo anno settantesimo. Questo tuttavia non chiarisce completamente la data di inizio del terzo millennio, in quanto esiste, almeno per i matematici,
il difficile da digerire numero ordinale zero.
A questo punto possiamo, con i matematici “fondamentalisti”, decidere che i nostri
numeri naturali sono 0, 1, 2, . . . , n, . . ., ma ci riserviamo in qualche ragionamento di
partire da 1.
Siccome ci sono anche altri numeri interi (i relativi), di cui parleremo in seguito,
chiamiamoli numeri naturali e chiamiamo N la loro collezione (o insieme), mettendoli
fra parentesi graffe quando li consideriamo come insieme di elementi:
N = {0, 1, 2, 3, . . . , n, . . .}.
1.4
Somma e prodotto di numeri naturali.
Fra numeri naturali sono definite due operazioni, la somma e il prodotto. Entrambe
associano ad ogni coppia (m, n) di numeri naturali un terzo numero, m + n nel caso
della somma, mn nel caso del prodotto (talvolta indicato m × n, soprattutto quando si
scrive qualcosa come 2 × 3 per evitare di fare confusione con il numero 23). Si noti che
il prodotto mn può essere definito a partire dalla somma: mn = n + n + n + · · · + n m
volte (3 moltiplicato 4 vuol dire: 4 + 4 + 4).
Non è il caso di ricordare le proprietà (associativa, commutativa,...) della somma e
del prodotto di numeri, che si imparano fin dalle scuole elementari. È solo opportuno
notare che non sono per nulla ovvie. Ad esempio non è evidente che debba valere la
proprietà associativa della somma:
(m + n) + p = n + (m + p)
per ogni m, n, p.
È in certo senso sorprendente che la somma di 3 + 4 = 7 con 6 e la somma di 3 con
4 + 6 = 10 debbano portare allo stesso numero 13, cioè che (3 + 4) + 6 = 3 + (4 + 6) = 13.
3
Si noti che la proprietà associativa della somma permette di eliminare le parentesi
in una somma di tre numeri. In effetti 3 + 4 + 6 senza parentesi non ha alcun significato
perché la somma è definita fra due numeri, non fra tre, ma la proprietà associativa
afferma che se calcolo la somma dei primi due e la aggiungo al terzo, oppure aggiungo
al primo la somma tra il secondo e il terzo il risultato è lo stesso. Cioè afferma che i
due modi di mettere le parentesi portano allo stesso risultato e che quindi le parentesi
si possono togliere e il calcolo si può eseguire nel modo che si preferisce.
Non è parimenti ovvio che valga la proprietà distributiva
m(n + p) = mn + mp
per ogni m, n, p.
Non è cioè ovvio che si abbia 3(4 + 7) = 3 × 4 + 3 × 7, ovvero che si abbia: 3 × 11 =
12 + 21.
La divisione invece si può eseguire solo in alcuni casi: n : m ha senso solo se n è un
multiplo di m (6 : 2 = 3 ha senso, ma 6 : 4 no).
1.5
Ordinamento dei naturali.
I numeri naturali sono anche ordinati: dati due numeri qualsiasi m e n, o m è minore di
n (m < n) oppure n è minore di m (n < m), a meno che m e n siano lo stesso numero
(m = n). In altre parole: o m ≤ n (m minore o eguale di n) ovvero n ≤ m. Si noti che
n è minore di m se esiste un numero r tale che m = n + r. Valgono le seguenti proprietà:
1. m minore o eguale di n e n minore o eguale di p implica anche m minore o eguale
di p, per ogni terna di numeri m, n, p (3 ≤ 5 e 5 ≤ 8 implica 3 ≤ 8);
2. m minore o eguale di n implica anche m + t minore o eguale di n + t, per ogni
terna di numeri m, n, t (3 ≤ 5 implica 3 + 7 ≤ 5 + 7);
3. m minore o eguale di n implica sm minore o eguale di sn per ogni m, n, s (ad
esempio, ponendo s = 2, si ottiene che il doppio di 5 è più piccolo del doppio di 8,
perché 5 è più piccolo di 8).
1.6
Il successore di un numero naturale.
Un altro fatto considerato comunemente ovvio è l’esistenza del successore n + 1 di
ogni numero naturale n. Questa proprietà ha l’interessante conseguenza che, dato un
qualsiasi numero, se ne trova sempre uno più grande. In effetti esiste un numero, cioè
1, che sommato con n, dà come risultato n + 1 e questo significa che n + 1 è maggiore
di n.
Siccome si ha: n < n + 1 < n + 2 < n + 3 < . . ., si deduce che i numeri naturali sono
infiniti e crescono indefinitamente.
4
Si noti che la somma di numeri naturali può essere definita proprio usando il successore:
n + 1 è il successore di n
n + 2 = (n + 1) + 1 è il successore di n + 1
...
2
Insiemi finiti e infiniti.
Il concetto di infinito è (come quello di ordinale e cardinale) particolarmente delicato
da trattare, perché comporta anche proprietà del tutto inaspettate.
2.1
Insiemi finiti.
Cominciamo col discutere di insiemi di numeri che non sono infiniti, ma sono invece
finiti. Ad esempio è finito l’insieme di tutti i numeri naturali che sono minori di un
numero fissato n, cioè l’insieme A = {0, 1, 2, . . . , n − 1} (usiamo le parentesi graffe per
indicare al solito un insieme, o collezione, di oggetti). Un insieme di numeri naturali
può essere finito anche se non si tratta dei primi n numeri, è sufficiente che siano tutti
minori di un numero fissato. Ad esempio l’insieme dei numeri naturali B = {1, 2, . . . ,n}
da 1 a n è finito, come anche C = {2, 4, 9} è finito perché è formato da numeri minori
di 10 (ma non contiene tutti i numeri minori di 10, solo alcuni).
Se un insieme S di numeri è finito si possono contare i suoi elementi e decidere quanti
sono. A questo scopo basta operare nel modo seguente:
• si prende un elemento di S, ad esempio il più piccolo, e gli si assegna un’etichetta
che porta il numero 1 (qui conviene partire da 1 per non confondersi),
• si prende l’elemento più piccolo di S dopo che si è tolto il precedente con etichetta
1, e gli si assegna l’etichetta 2,
• si procede in questo modo fino a esaurire gli elementi di S.
A questo punto si esaminano le etichette: se queste corrispondono ai numeri 1, 2, . . . , n,
l’insieme S ha esattamente n elementi. L’operazione di associare ad ogni numero un’etichetta con un numero da 1 a n ha un nome: si chiama corrispondenza biunivoca.
Una corrispondenza biunivoca fra due insiemi A e B di numeri è una legge che, ad ogni
numero di A, associa uno e un solo numero di B, in modo che
• a due numeri diversi siano associati numeri di B diversi,
• ogni numero di B sia associato a qualcosa.
5
Ad esempio, se A = {5, 8, 3} e B = {0, 1, 2} la seguente legge è biunivoca:
5→1
8→0
3 → 2.
Non è invece biunivoca la legge così definita:
5→0
8→0
3 → 2,
in quanto a 5 e 8 (in A) è associato lo stesso numero 0 (e inoltre 1 in B non è associato
a nulla).
Allora possiamo dire che un insieme S di numeri ha n elementi se è in corrispondenza
biunivoca con l’insieme {1, . . . , n}. Il fatto ovvio, ma non per questo meno interessante,
è il seguente: un insieme di numeri non può avere contemporaneamente n elementi e m
elementi se n è diverso da m (si scrive n 6= m). In pratica non è possibile mettere in
corrispondenza biunivoca gli insiemi {1, 2, . . . , n} e {1, 2, . . . , m} se n ed m sono numeri
diversi fra loro.
Se un insieme ha n elementi diciamo che il suo numero di elementi è misurato dal
numero cardinale n (qui gli interi sono pensati come cardinali, cioè misurano quanti
elementi ci sono in un insieme). E ricordiamo che il numero cardinale 0 ci serve per
contare gli elementi quando non ce ne sono: l’insieme vuoto ∅ ha 0 elementi, cioè nessun
elemento.
Abbiamo visto che gli stessi interi possono essere pensati come ordinali, quando si
abbia a che fare con un elenco ordinato (ad esempio in un teatro c’è sempre la prima
fila di posti, poi la seconda, e qui l’ordine conta, non è detto che basti sapere che le file
sono 30).
2.2
Corrispondenze biunivoche e insiemi infiniti.
Il concetto di corrispondenza biunivoca si può estendere a insiemi con oggetti qualsiasi,
non necessariamente numeri naturali. Ad esempio, se A è un insieme che contiene 12
uova e B è un insieme di 12 mele, si può far corrispondere a ogni uovo una mela, mele
diverse a uova diverse. Quindi A e B sono insiemi con 12 elementi.
Ma il concetto di corrispondenza biunivoca ha senso anche per tutto l’insieme N
dei numeri naturali. Anzi ci può servire per capire meglio che cosa significa la parola
“infinito”.
6
Consideriamo in effetti la seguente legge:
0→0
1→2
2→4
3→6
...
La legge stabilisce che ogni numero n si trasforma nel suo doppio:
n → 2n
È facile vedere che tale legge
1. trasforma numeri diversi in numeri diversi
2. trasforma ogni numero n in un altro numero (il suo doppio) senza eccezioni.
Chiamiamo I l’insieme formato da tutti i numeri pari:
I = {0, 2, 4, 6, . . . , 2n, . . .}
Allora la nostra legge è una corrispondenza biunivoca fra l’insieme N e l’insieme I.
Dobbiamo però notare che I non è un insieme qualsiasi, si tratta di un insieme più piccolo
di N, in quanto gli elementi di I sono anche elementi di N, ma ci sono elementi di N che
non sono in I (i numeri dispari). Dunque l’insieme N può essere messo in corrispondenza
biunivoca con un insieme più piccolo di N (diciamo che I è un sottoinsieme di N e
scriviamo I ⊂ N, e diciamo inoltre che si tratta di un sottoinsieme proprio, cioè mancante
di qualche elemento di N).
Questa proprietà distingue in modo decisivo gli insiemi finiti da quelli infiniti, perché
un insieme con n elementi non può mai essere messo in corrispondenza biunivoca con
un sottoinsieme proprio, mentre gli insiemi infiniti possono. Anzi ha senso addirittura
chiamare infinito un insieme con tale proprietà.
Una storiella molto amata dai matematici fa capire meglio (o peggio?) che cosa
è l’infinito. Un albergo possiede infinite stanze singole, con i numeri 1, 2, . . . , tutte
occupate da clienti. Arriva un nuovo cliente che chiede una stanza. L’albergatore lo
accontenta come segue:
sposta il cliente della stanza 1 nella stanza 2, il cliente della stanza 2 nella stanza 3, . . . ,
e quindi mette il nuovo cliente nella stanza 1, che si è liberata.
Dal punto di vista matematico costruisce una corrispondenza biunivoca fra l’insieme
infinito J = {1, 2, . . . , n, . . .} e il suo sottoinsieme proprio infinito K = {2, 3, . . .}, formato
da tutti i naturali esclusi lo 0 e l’1. Con 10 stanze non sarebbe possibile, il cliente della
stanza numero 10 dovrebbe passare nella stanza successiva, che non esiste e quindi
dovrebbe cambiare albergo.
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3
3.1
Divisione
Divisione con resto.
Abbiamo visto che la divisione fra numeri interi non si può eseguire quasi mai. Tuttavia
è possibile eseguirla se si accetta di ottenere un quoziente ma anche un resto. Più
precisamente, se m e n sono due numeri naturali, esistono altri due numeri naturali q
(quoziente) e r (resto) che godono delle seguenti proprietà:
m = qn + r
0 ≤ r < n (il resto è minore di n)
dove q ed r sono determinati in modo unico (cioè la divisione ha un unico quoziente e
un unico resto).
Non è difficile capire come si prova l’esistenza della divisione cosiddetta euclidea. In
effetti si considerano successivamente i numeri
0n = 0, 1n = n, 2n, 3n, . . .
fino a che non si trova il primo che supera m, sia (q + 1)n. Il precedente dà luogo al
quoziente q. Quanto al resto si ha: r = m − qr. Il resto è 0 quando m è esattamente
divisibile per n.
Esempio. Si divida 37 per 5. Si considerano succesivamente i numeri
1×5=5
2 × 5 = 10
.................
9 × 5 = 45
e si nota che
7 × 5 = 35 < 37
8 × 5 = 40 > 37
Di qui si deduce che il quoziente è q = 7. Poiché 37 − 7 × 5 = 37 − 35 = 2, il resto è 2,
cioè: 37 = 7 × 5 + 2.
3.2
Numeri primi e fattorizzazione.
Un numero naturale maggiore o eguale a 1 si dice primo se è divisibile solo per se stesso
e per 1. Esempi: 1, 2, 3, 5, 7, 31 sono primi, 4 = 2 × 2 non è primo.
Ogni numero naturale n maggiore di 1 si può esprimere come prodotto di numeri
primi, i cosiddetti fattori primi di n:
n = p × q × · · · × r,
8
dove p, q, . . . , r sono tutti numeri primi diversi da 1. Può capitare che non siano tutti
distinti fra loro; ad esempio si può avere p = q. In questo caso scriviamo n = p2 × · · · × r
invece di n = p × p × · · · × r.
Esempi:
10 = 2 × 5
20 = 22 × 5
72 = 23 × 32
Come si può vedere che ogni numero naturale n > 1 si fattorizza?
Prima di procedere ricordiamo due proprietà molto importanti dei numeri naturali:
I. se A è un insieme qualsiasi, anche infinito, ma non vuoto, di numeri naturali,
esso contiene sempre un numero che è più piccolo di ogni altro nell’insieme (il
cosiddetto minimo);
II. se un numero m è prodotto di due fattori r e s entrambi maggiori di 1, allora m
è maggiore di r e di s (m > r, m > s).
In effetti si ha:
m = rs = s + s + s + · · · + s (r volte)
ed inoltre
s + s = s + (1 + · · · + 1),
dove l’1 in parentesi è ripetuto s volte. Ma si ha:
s < s + 1 < s + 2 = (s + 1) + 1 < · · ·
Se ne deduce che
s < s + s < s + s + s < · · · < s + s + · · · + s (r volte) = rs.
Ciò prova che rs è maggiore di s, cioè del secondo fattore. Ma rs = sr (per la
proprietà commutativa del prodotto) e quindi la stessa dimostrazione prova che rs > r.
Supponiamo dunque che esistano numeri interi maggiori di 1 che non si possono
scomporre nel prodotto di fattori primi. Allora esiste il più piccolo di tali numeri (in
base alla proprietà I), e chiamiamolo n. Il numero n non è esso stesso primo perché i
numeri primi si scompongono in fattori primi, con un fattore soltanto, cioè il numero
stesso. Quindi n è il prodotto di due numeri p e q maggiori di 1. Per la proprietà II p e
q sono minori di n, e quindi ognuno dei due è prodotto di primi. Ne segue che anche n
deve essere prodotto di primi:
n = prodotto dei primi che fattorizzano p e di quelli che fattorizzano q.
La dimostrazione precedente è basata su un ragionamento per assurdo. Ciò significa
che si suppone per assurdo che quanto affermiamo (la nostra tesi) sia falso, e di qui
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deduciamo una conseguenza che contraddice qualche proprietà (nota e vera) dei numeri.
Allora la tesi non può essere falsa. Nel nostro caso abbiamo supposto per assurdo
che ci siano interi non fattorizzabili e abbiamo dedotto che il più piccolo intero non
fattorizzabile deve in realtà essere fattorizzabile. Quindi non può esistere il più piccolo
intero non fattorizzabile, la qual cosa contraddice il fatto che ogni insieme non vuoto di
numeri naturali ammette il più piccolo elemento.
Una volta che si è fissato il numero n, i suoi fattori primi sono determinati in modo
unico, cioè non sono possibili due fattorizzazioni diverse. Questa è una proprietà di non
facilissima dimostrazione che non discutiamo.
I numeri primi pongono molte interessanti domande, alcune abbastanza semplici,
altre così difficili che nessuno è riuscito a dare risposte soddisfacenti e complete.
Una prima domanda riguarda la quantità di numeri primi: quanti ce ne sono in
totale? O almeno: sono in numero finito o infinito?
La risposta a questa domanda è abbastanza semplice (i primi sono infiniti), ma
richiede un ragionamento per assurdo.
3.2.1
Ci sono infiniti numeri primi.
Supponiamo dunque che ci sia un numero finito di primi (n in totale) e mettiamoli in
ordine: p1 < p2 < p3 : · · · < pn . Questo vuol dire che non ci sono numeri primi dopo il
numero pn . Facciamo ora vedere che questo è impossibile, cioè che questa ipotesi conduce
a una contraddizione con proprietà note dei numeri, in particolare con la scomposizione
in fattori primi. Consideriamo perciò il numero naturale p = p1 p2 p3 . . . pn + 1. Tale
numero non può essere primo in quanto è più grande di tutti i numeri primi esistenti.
Quindi p si deve scomporre in fattori primi, cioè p deve essere il prodotto di alcuni
dei numeri primi che lo precedono e che abbiamo elencato. Ma, se dividiamo p per p1 ,
oppure per p2 , . . . otteniamo sempre come resto 1; cioè p non è divisibile per nessuno
dei numeri primi che lo precedono, ovvero non è divisibile per nessun numero primo.
Ma tutti i numeri non primi ammettono una scomposizione in fattori primi, mentre
noi abbiamo costruito un numero non primo che non rispetta la nota proprietà della
scomposizione in fattori primi. Quindi un tale numero p non primo non può esistere.
Resta soltanto, per evitare l’esistenza di un tale p, la possibilità che i numeri primi siano
infiniti.
3.2.2
Ragionamenti per assurdo.
La struttura del nostro ragionamento per assurdo è la seguente:
a. supponiamo che i primi siano n in totale
b. da a. segue che un certo p da noi costruito non è primo
c. deduciamo che p si può scomporre in fattori primi
d. nessun primo divide p
10
e. p non si può scomporre
f. resta contraddetta la proprietà di scomposizione in fattori primi di ogni numero
non primo
g. l’ipotesi a. è assurda e i primi sono quindi in numero infinito.
Osservazione.
Il ragionamento precedente permette anche di costruire nuovi primi. Ad esempio è
noto che 2,3,5 sono primi. Quindi sono primi anche:
7 = 2 × 3 + 1,
31 = 2 × 3 × 5 + 1,
211 = 2 × 3 × 5 × 7 + 1.
3.2.3
Congetture sui primi.
Altre questioni riguardanti i numeri primi sono molto più difficili da trattare anche se
si possono enunciare in forma molto semplice. Citeremo soltanto la celebre congettura
di Goldbach (che risale al 1742 e non ha ancora avuto una risposta completa): è vero
che ogni numero pari è somma di due numeri primi?
La risposta è facile per i numeri più piccoli:
2=1+1
4=2+2
6=3+3
8=3+5
10 = 5 + 5
12 = 5 + 7.
Naturalmente con un computer si può arrivare molto più lontano e avere risposta
per numeri pari molto grandi (milioni o miliardi), ma una risposta valida in generale
non si conosce. Cioè non si sa dimostrare che la congettura è vera per ogni numero pari
ma non si sa nemmeno trovare un numero pari che non sia somma di due primi.
4
Rappresentazione in base 10.
Il nostro modo di scrivere i numeri naturali è basato sul fatto che usiamo i simboli
0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9.
Ogni numero si può scrivere usando i dieci simboli (incluso lo 0 che, come abbiamo
visto, è una scoperta di grande rilievo). Ma che cosa significa scrivere 5407? Si tratta
soltanto di un modo abbreviato per scrivere
5 volte mille + 4 volte 100 + 0 volte 10 + 7
11
ovvero
5 × 1000 + 4 × 100 + 0 × 10 + 7,
o anche, ricordando che 1000 = 103 , 100 = 102 , 10 = 101 , 1 = 100 ,
5 × 103 + 4 × 102 + 0 × 101 + 7 × 100 .
In altre parole i numeri hanno una rappresentazione decimale: si usano solo i simboli
dei numeri da 0 a 9 (minori di 10) e le potenze di 10. Le cifre vengono allineate
eliminando le potenze di 10 e la loro posizione dice quale potenza di dieci (invisibile)
moltiplicano: in 5407 il 4, che occupa il terzo posto da destra, moltiplica 102 , mentre 0,
che occupa il secondo posto da destra, moltiplica 101 .
In generale, se un numero intero n si esprime come segue:
n = a × 105 + b × 104 + c × 103 + d × 102 + e × 101 + f × 100 ,
noi scriviamo in forma abbreviata abcdef .
Bisogna solo far attenzione al fatto che non esiste la cifra 10, cioè che
10 × 102 + 3 × 101 + 0 × 100
non si scrive mettendo in fila le sue tre cifre 10 3 0, ma osservando che in realtà è il
numero 1 × 103 + 0 × 102 + 3 × 101 + 0 × 100 , cioè 1030 (con quattro cifre).
Si noti che usiamo nei nostri ragionamenti il numero 10, ma non come cifra: dieci è
semplicemente 1 per dieci + 0 per (dieci elevato a 0).
Osserviamo inoltre che nella rappresentazione decimale le cifre acquistano significato
in base alla loro posizione:
31 = 3 × 102 + 1 × 100
è completamente diverso da
13 = 1 × 102 + 3 × 100 .
Non è obbligatorio usare dieci simboli per denotare le cifre da 0 a 9. Ad esempio si può
immaginare di avere solo 2 simboli, uno per lo zero (0) e uno per l’uno (1). In questo
caso si avrà la numerazione binaria. Ad esempio il numero che in forma decimale si
scrive 23 in forma binaria si scrive 10111. Basta osservare che il ruolo del numero 10
è ora assunto dal numero 2 e che quindi occorre considerare le successive potenze di 2.
Quindi si ha:
ventitré = 1 × 24 + 0 × 23 + 1 × 22 + 1 × 21 + 1 × 20 .
Le formule precedenti sono tuttavia scritte in modo non ancora corretto, perché il simbolo 2 non esiste, ci sono soltanto 0 e 1 e il numero due, in numerazione binaria ha la
stessa rappresentazione del dieci in forma decimale: due = 10 = 1 × (due)1 + 0 × (due)0 .
È quindi meglio scrivere, in forma binaria:
ventitrè = 1 × 104 + 0 × 103 + 1 × 102 + 1 × 101 + 1 × 100
12
dove 10 non significa dieci (nel senso usuale che noi diamo a questa parola) ma due.
Se invece abbiamo a disposizione dodici simboli, 0, 1, 2, . . . , 9, a, b, dove a è il simbolo
per il numero che chiamiamo comunemente dieci e b è il simbolo per il numero che
chiamiamo comunemente undici, avremo la numerazione in base dodici. Il numero scritto
24 in base dodici, ad esempio, coincide con il numero che noi chiamiamo comunemente
ventotto, cioè scritto 28 in base dieci (perché?).
5
Principio di induzione.
Quando si debba dimostrare una proprietà che riguarda un numero finito di numeri si
può procedere all’esame di tutti i casi possibili, magari con l’aiuto di un computer se i
casi sono molti.
5.1
L’esempio della somma dei primi n numeri interi.
Se si desidera dimostrare che la somma 1 + 2 + 3 + 4 + 5 + 6 + 7 + 8 + 9 + 10 dei primi
10 numeri a partire da 1 vale 55, basta eseguire la somma. E lo stesso vale se si chiede
di calcolare la somma dei numeri interi da 4 a 10, osservando tuttavia che, essendo nota
la somma da 1 a 10 ma anche quella da 1 a 3, che è 6, si può ottenere la risposta con
una sottrazione: 55 − 6 = 49.
Ma come si può procedere se la richiesta è di provare che la somma 1+2+3+. . .+n dei
primi n numeri vale n(n + 1)/2 per ogni intero n? Non è ovviamente possibile esaminare
tutti i casi, nemmeno con l’ausilio di un computer, che è solo in grado di esaminare un
numero finito, per quanto grande, di casi. Occorre quindi un ragionamento astratto,
valido per ogni numero n.
Nel caso specifico della somma dei primi n numeri ci sono più modi di procedere, ma
è particolarmente interessante quello che si basa sul principio di induzione.
Osserviamo quindi che, se n vale 1, se cioè vogliamo calcolare la somma fermandoci
al primo addendo, il risultato è pronto, cioè 1, e che tale risultato è in accordo con la
formula generale:
1(1 + 1)
.
1=
2
Supponiamo ora di avere dimostrato la nostra formula per un valore di n, cioè supponiamo che per un certo numero n fissato si sappia che
1 + 2 + 3 + ··· + n =
n(n + 1)
2
Riusciamo da questo risultato a dedurre informazioni per l’intero successivo n + 1?
La formula che ancora non abbiamo dimostrato, relativa a n + 1, afferma che
1 + 2 + 3 + · · · + n + (n + 1) =
13
(n + 1)(n + 2)
2
(è la nostra formula in cui n è sostituito da n + 1). Noi sappiamo già che
1 + 2 + 3 + ··· + n =
n(n + 1)
.
2
Vediamo di aggiungere ancora il termine mancante n + 1:
1 + 2 + 3 + · · · + n + (n + 1) =
n(n + 1)
+ (n + 1).
2
A sinistra abbiamo semplicemente la somma dei primi n+1 numeri, a destra una formula
che non è quella desiderata. Tuttavia possiamo riaggiustarla cercando di farla diventare
quello che vogliamo, usando le proprietà delle operazioni fra numeri:
1 + 2 + 3 + · · · + n + (n + 1) =
n(n + 1)
+ (n + 1) =
2
n(n + 1) + 2(n + 1)
=
2
(n + 1)(n + 2)
.
(raccoglimento a fattor comune di n + 1) =
2
Quest’ultima è esattamente la formula che noi cerchiamo. Noi abbiamo quindi dimostrato che:
(riduzione al denominatore comune 2) =
• la nostra formula è valida quando n vale 1;
• se la formula è valida per un certo n fissato, automaticamente è valida anche per
il suo successore n + 1.
È sufficiente tutto ciò per dimostrare che la formula vale per ogni numero n? Supponiamo (per assurdo) che esista almeno un numero (ovviamente maggiore di 1) che non
rispetta la formula. Fra tutti i numeri di questo tipo prendiamo il più piccolo (abbiamo
visto che esiste sempre), diciamo m. Quindi ci troviamo in questa situazione:
1 + 2 + 3 + · · · + m è diverso da
m(m + 1)
(e non sappiamo quanto valga)
2
ma si ha:
m(m − 1)
2
(perché m − 1 è più piccolo di m e quindi la formula vale).
Ma noi abbiamo dimostrato che, se la formula vale per un certo intero (ad esempio
proprio m − 1) allora vale anche per l’intero che lo segue, cioè nel nostro caso m. Ma
allora si deve avere
m(m + 1)
1 + 2 + 3 + ··· + m =
2
e questo è assurdo (perché contrario all’ipotesi che la formula non valga per m). Non
resta che la possibilità che un tale m non esista, cioè che la formula valga sempre.
1 + 2 + 3 + · · · + (m − 1) =
14
Il principio da noi usato in questa dimostrazione si può enunciare in generale:
Principio di induzione
sia data una proprietà relativa a tutti i numeri interi maggiori o eguali a 1 e si supponga
che
• la proprietà sia valida per l’intero n = 1,
• se la proprietà è valida per un certo n, allora è valida anche per il suo immediato
successore n + 1.
Allora segue che la proprietà vale per ogni numero intero n maggiore o uguale a 1.
La dimostrazione coincide con quella fatta nell’esempio: se ci sono dei numeri che
non soddisfano la proprietà, si prenda il più piccolo; la proprietà vale per il numero che
lo precede, . . .
Si noti che il principio di induzione si può dimostrare anche per i numeri maggiori o
uguali a 2, oppure a 3,. . . , basta partire da n = 2 oppure 3 anziché da 1.
5.1.1
L’esempio della serie geometrica
Questa tecnica di dimostrazione si applica a molti problemi. Ad esempio si può dimostrare che
1
1 − n+1
1
1
1
1
2
1 + 1 + 2 + 3 + ··· + n =
1 , per ogni n ≥ 1.
2
2
2
2
1−
2
La dimostrazione richiede di provare che:
• la formula vale per n = 1:
1
3
1−
1
1
3
4 = 4 =3×2=3
1+ 1 =1+ = =
1
1
2
2
2
4 1
2
1−
2
2
• se la formula vale per n allora vale anche per il suo successore n + 1: . . .
(Esercizio suggerito al lettore: si scopra, e provi, una formula analoga, quando il numero
1/2 sia sostituito da un numero x tale che 0 < x < 1).
5.1.2
Diseguaglianza di Bernoulli.
Si può anche dimostrare la cosiddetta diseguaglianza di Bernoulli:
1. (1 + x)n ≥ 1 + nx per ogni n ≥ 1, se x è un numero maggiore di −1
2. (1 + x)n > 1 + nx per ogni n ≥ 2.
Per dimostrarla basta ragionare come segue:
15
1. per n = 1: (1 + x)1 = 1 + 1x
2. per n = 2: (1 + x)2 = 1 + 2x + x2 ≥ 1 + 2x
3. supponiamo che sia vera per un certo intero n ≥ 2, cioè che si abbia (1 + x)n >
1+nx e cerchiamo di provare che è vera per n+1, cioè che (1+x)n+1 ≥ 1+(n+1)x.
Ma si ha (usando il fatto che vale per n):
(1 + x)n+1 = (1 + x)n (1 + x) ≥ (1 + nx)(1 + x) = 1 + (n + 1)x + nx2 ≥ 1 + (n + 1)x.
Osservazione. Il principio di induzione funziona molto bene quando si debba dimostrare
una proprietà sulla quale si ha un’informazione essenziale: si pensa di conoscere una
formula che la esprime. Nel primo esempio che abbiamo esaminato abbiamo chiesto di
provare che 1 + 2 + 3 + · · · + n vale [n(n + 1)]/2, non abbiamo chiesto di calcolare la
somma 1+2+3+· · ·+n senza indicare il risultato. Ma come si può arrivare a indovinare
il risultato prima di dare una dimostrazione, in modo da avere pronta la formula per
l’induzione? Molto spesso il risultato non si indovina affatto, e quando si indovina è
perché
• si sono esaminati molti esempi, traendone una (presunta) regola generale;
• si è arrivati al risultato per altra via e l’induzione serve da conferma;
• la formula da dimostrare è molto semplice e ragionevole;
• ...
Ad esempio la formula per la somma dei primi interi fu scoperta (nel primo Ottocento)
dal matematico Gauss, con un ragionamento ingegnoso, che suona più o meno così:
La somma dei primi n interi secondo Gauss
Se n è pari, raggruppiamo i numeri da 1 a n in coppie, la prima coppia contiene 1 e
n, la cui somma è n + 1; la seconda coppia contiene 2 e n − 1, la cui somma vale sempre
n + 1; finché non arriviamo all’ultima coppia n/2 e (n/2) + 1. Poi cerchiamo di contare
quante sono le coppie (1, n), (2, n − 1), . . .. È molto evidente che le coppie sono tante
quanti i numeri da 1 a n/2, cioè esattamente n/2. Se ho coppie di numeri con somma
n + 1, la somma totale vale (n/2)(n + 1), che, a parte il modo in cui è scritta, coincide
con la formula cercata; in effetti (n/2)(n + 1) = n(n + 1)/2
Se n è dispari il ragionamento è di poco diverso dal precedente.
6
Digressione su come affrontare con la matematica
alcuni problemi concreti
La matematica è un utile strumento per risolvere molti problemi concreti. Spesso si
tratta di una matematica abbastanza semplice: una equazione di primo o al massimo
16
secondo grado, un sistema di due o tre equazioni di primo grado, un uso intelligente delle
proporzioni o della matematica discreta, che insegna a lavorare con gli insiemi formati
da un numero finito di elementi e a contarne gli elementi. Un passo ulteriore è l’uso
delle derivate e degli integrali, che però possono essere utili quando si studino problemi
di difficoltà maggiore, nei quali non ci si imbatte tutti i giorni (ad esempio la traiettoria
di una palla lanciata in aria, o il moto dei pianeti).
I problemi più semplici e concreti hanno tuttavia una difficoltà iniziale: si tratta
di questioni provenienti dalla vita di tutti i giorni e sono formulati in un linguaggio
non direttamente adatto alla risoluzione matematica. La vera difficoltà è dunque la
traduzione in linguaggio matematico, magari con l’individuazione della incognita che
permette di arrivare rapidamente a una soluzione chiara. Vediamo alcuni esempi.
6.1
Calcolo dell’interesse.
Tutti sanno che cosa è l’interesse percepito da chi acquista azioni, obbligazioni, BOT o
anche lascia il suo denaro su un conto corrente. È quindi facile stabilire che 10.000 euro
investiti al 3% annuo danno un interesse di 3/100 ogni euro, ovvero di 3 euro ogni 100
euro investiti per ogni anno, e quindi di 300 euro, in quanto 10.000 = 100 × 100. Ma
la questione è meno semplice se si domanda quanto interesse si ricava in due anni. Ci
sono due possibilità:
1. dopo il primo anno si ritirano i 300 euro di interesse e si lasciano solo i 10.000; in
tal caso l’interesse alla fine del secondo anno continua ad essere di 300 euro;
2. i 300 euro di interesse ottenuti il primo anno si lasciano investiti; in tal caso
il capitale investito diventa di 10.300 euro e quindi rende i 3/100 di quest’ultima
somma, cioè 10.300 × 3/100 = 309 euro. Dunque dopo due anni si saranno ricavati
609 euro di interesse.
Si conclude che, nel secondo caso, il capitale di 10.000 euro cresce a 10.300 euro dopo
un anno e a 10.609 euro dopo due anni. A questo punto si potrà provare la curiosità di
sapere a quanto cresce dopo n anni, ovvero quale interesse complessivo si sarà incassato
dopo n anni. Inoltre sarebbe interessante trovare una formula che permetta di calcolare
la crescita di un capitale qualsiasi, diciamo X euro.
Cominciamo a ragionare su un capitale semplice, pari a 1 (un euro, o se dà fastidio
una somma così piccola, un milione di euro, fa lo stesso). Dopo un anno va aumentato
di 3/100 e quindi diventa 1,03 = 1 + 3/100 × 1. Dopo due anni diventa
1,03 + 3/100 × 1,03.
17
Si noti a questo punto che la nostra operazione consiste, ogni anno, nel prendere il
numero dell’anno precedente e aggiungergli 3/100:
1 + 0,03 = 1,03 dopo un anno
1,03 + 1,03 × 3/100 = 1,03 × (1 + 0,03) = 1,032 dopo due anni
1,032 + 1,032 × 3/100 = 1,032 × (1 + 0,03) = 1,033 dopo tre anni
. . . = 1,03n dopo n anni.
Quindi abbiamo una formula generale: il capitale di 1 euro dopo n anni diventa 1,03n
euro. Possiamo ad esempio stabilire dopo quanti anni il capitale raddoppia: occorre che
si abbia 1,03n = 2, cioè n = log 2 : log 1,03 (che non è un numero intero di anni). Il
capitale in effetti diventa quasi doppio (1,97 circa) dopo 23 anni e poco più che doppio
(2,03 circa) dopo 24 anni.
Possiamo anche rispondere alla domanda sull’interesse: quanto ho incassato di interesse su 1 euro dopo 10 anni? Poiché in banca mi trovo 1,34 euro, l’interesse è pari a
0,34 euro, cioè il 34 per cento (34 centesimi di euro per ogni euro).
E se il mio capitale iniziale è pari a X euro? Ognuno degli X euro diventa 1,03n e
quindi in totale avrò X ×1,03n euro. La somma di 100.000 euro dopo 5 anni diventa circa
100.000×1,16 euro cioè 116.000 euro. E se l’interesse è pari al 5% quanto diventano dopo
8 anni 180.000 euro? Basta calcolare 180.000 × 1,058 ≈ 180.000 × 1,477 = 265.860 euro.
6.1.1
Nota sulla formula X × 1,03n e sulla sua dimostrazione mediante il
principio di induzione.
Abbiamo calcolato questa formula in modo euristico, cioè esaminando i primi casi (due
o tre anni) e cercando di ricavarne una legge generale. Se vogliamo una buona dimostrazione, è proprio il caso di usare il principio di induzione, perché la formula deve essere
valida per ogni intero n e inoltre è già nota con fortissima speranza che sia corretta.
Osserviamo allora che la formula vale per n = 1 (l’abbiamo già visto). Supponiamo
quindi che sia valida per un certo intero n, cioè che dopo un certo numero n di anni si
ottenga effettivamente un capitale pari a X × 1,03n , ed esaminiamo che cosa avviene
con il passare di un ulteriore anno, cioè dopo n + 1 anni. Se il capitale investito vale
X × 1,03n e gli aggiungo il 3 per cento ottengo:
X × 1,03n + X × 1,03n × 3 : 100 = X × 1,03n × (1 + 0,03) = X × 1,03n × 1,03
che, per le proprietà delle potenze, è proprio X ×1,03n+1 , cioè proprio la formula cercata
per n + 1 anni. Per il principio di induzione la formula vale per ogni intero n.
6.1.2
Nota sulle formule relative all’inflazione (con le loro inverse).
Questa stessa formula si può utilizzare per rispondere a una domanda apparentemente
diversa: se ogni anno si registra un’inflazione del 3%, quale sarà l’inflazione complessiva
dopo n anni? Ovvero, se il prezzo di 1 euro al chilo del pane aumenta ogni anno del
3%, quanto costerà il pane dopo n anni? Si osservi che dopo un anno diventa 1,03,
18
dopo due anni bisogna aggiungere i 3/100 di 1,03, ecc. Quindi si otterrà di nuovo 1,03n ,
moltiplicato per 2 se il pane parte dal prezzo di 2 euro. Il prezzo del pane quindi
raddoppia dopo circa 23 anni.
Supponiamo di sapere che oggi il pane costa 2 euro al chilo e che 10 anni fa costava 0,5
euro. Supponendo che l’inflazione sia sempre stata costante, qual è il tasso di inflazione
negli ultimi 10 anni? Se ogni anno il prezzo del pane fosse aumentato del 3%, in 10
anni sarebbe diventato 0,5 × (1,03)10 = 0,67 euro, se l’inflazione fosse stata del 5% il
prezzo attuale sarebbe 0,5 × (1,05)10 = 0,814 euro. Operando per tentativi, abbiamo
qualche speranza di scoprire il tasso di inflazione, ma non esiste una formula che ce lo
dice subito? Chiamiamo x il tasso di inflazione incognito, o meglio indichiamo con x le
cifre decimali (due o tre) da scrivere dopo 1 nel calcolo dell’inflazione. Allora il prezzo
dopo 10 anni diventa 0,5 × (1,x)10 = 2. Il calcolo di x richiede di risolvere l’equazione
(1,x)10 = 2/0,5 = 4. È quindi chiaro che occorre utilizzare le radici e cercare il numero
incognito 1,x che elevato alla decima potenza dà 4. Si tratta proprio della radice decima
di 4, e si vede (magari usando la calcolatrice o le tavole) che si tratta di 1,149, dal che
deduciamo che l’inflazione annua è stata pari a 14,9%, ovvero un bene che costa un euro
passa in un anno al nuovo prezzo di 1+0,149 = 1,149 euro.
6.2
Interesse dei BOT.
Il calcolo dell’interesse si fa più complicato quando si acquista un BOT, perché il BOT
non accredita un interesse alla scadenza, ma viene venduto ad un prezzo più basso di
100 per poi essere rimborsato a 100. Se ad esempio un BOT a un anno viene venduto
a 95 euro per ogni cento nominali e rimborsato a 100 dopo un anno, qual è l’interesse?
Sembrerebbe di 5 euro ogni cento, cioè del 5%, ma non è così. In effetti l’acquirente non
investe 100 euro ma soltanto 95 e quindi ricava dopo un anno 5 euro di interesse su di
un capitale di 95 euro. Il valore corretto è quindi 5 : 97 = 0,0526 cioè il 5,26%. Quando
il BOT sia invece, ad esempio, semestrale, ecco come si può ragionare. Supponiamo
di pagare 97 euro un BOT semestrale acquistato il primo gennaio che alla scadenza
(il 30 giugno) sarà rimborsato al valore di 100 euro. Noi abbiamo dunque investito
97 euro e ricavato 3 euro dopo 6 mesi, cioè dopo mezzo anno; abbiamo pertanto un
interesse pari a 3 : 97 = 3,09, cioè pari al 3,09 per cento. Siccome l’anno è il doppio del
semestre, potremmo affermare che abbiamo ottenuto un interesse pari al 6,18%. In realtà
l’interesse è maggiore perché viene incassato dopo 6 mesi e quindi potrei teoricamente
investire i 100 euro ottenuti in nuovi BOT per altri sei mesi. Occorre poi osservare che
un calcolo più preciso non assegna al periodo 1 gennaio-30 giugno metà dell’anno, perché
si tratta di 181 giorni, che formano una parte pari a 181 : 365 = 0,49589 dell’anno di
365 giorni. Allora per essere più precisi si potrebbe dire che il nostro interesse annuo è
pari al 3,09 × 365 : 181 = 3,09 : 0,49589 = 6,23%.
19
6.3
6.3.1
Certi tipi di movimento
Un problema che richiede di risolvere una semplice equazione di primo
grado
Un’equazione di primo grado si scrive nella forma: ax + b = 0 dove a, b sono due numeri
e a 6= 0. La soluzione di tale equazione è x = −b/a. Ma il problema più difficile è la
scelta dell’incognita x.
Ecco il problema. Le ruote anteriori di un trattore hanno una circonferenza di 2
metri, mentre quelle posteriori sono più grandi e hanno circonferenza pari a 2,5 metri.
Dopo un certo tempo le ruote anteriori hanno compiuto 100 giri completi più di quelle
posteriori. Quanti metri ha percorso il trattore? Si noti che il numero di metri percorsi
dal trattore si può far coincidere con il percorso delle ruote anteriori: ogni giro completo
vuol dire un avanzamento del trattore di 2 metri. Ma anche un giro completo delle ruote
posteriori significa un avanzamento del trattore, precisamente di 2,5 metri. Occorre
quindi osservare che
• un avanzamento di 2 metri significa un giro completo delle ruote anteriori e un
giro incompleto delle ruote posteriori, che avanzano solo di due metri;
• un avanzamento di 2,5 metri significa un giro completo delle ruote posteriori e un
giro più qualcosa delle ruote anteriori.
Invece un avanzamento di 10 metri significa 5 giri completi delle ruote anteriori e solo 4
giri completi delle ruote posteriori.
Il nostro problema richiede di trovare il numero incognito di metri percorsi quando
le ruote anteriori hanno percorso 100 giri più delle posteriori. Si potrebbe in un primo
momento accettare il suggerimento implicito del problema e scegliere come incognita x
tale numero di metri percorsi. Siccome le ruote anteriori percorrono due metri ogni giro,
quindi 4 metri ogni due giri, ecc., si può affermare che percorrono x metri in x/2 giri,
in quanto x = 2 × x/2. Contemporaneamente le ruote posteriori percorrono gli stessi
metri, ma meno giri. Precisamente, se i metri percorsi sono x e ogni giro vale 2,5 metri,
i giri delle ruote posteriori sono x : 2,5. Si sa che la differenza vale 100 giri e quindi
posso impostare l’equazione seguente:
x
x
= 100 +
.
2
2,5
Dobbiamo quindi risolvere un’equazione di grado uno nell’incognita x = numero di metri
percorsi dalle ruote anteriori.
Si può riscrivere come:
x
x
−
= 100
2 2,5
ovvero
!
1
1
x
−
= 100
2 2,5
20
o anche (ricordando che 1/2 = 0,5 e 1/2,5 = 0,4):
x(0,5 − 0,4) = 0,1x = 100.
Se ne deduce che x = 100 : 0,1 = 100 : (1/10) = 100 × 10 = 1000.
Quindi il trattore ha percorso x = 1000 metri. In effetti 1000 metri vogliono dire
500 giri delle ruote anteriori e 400 = 500 − 100 delle posteriori.
Si può tuttavia non accettare il suggerimento del problema e scegliere un’incognita
diversa, ad esempio il numero y di giri compiuti dalle ruote anteriori quando questi siano
100 più dei giri delle ruote posteriori. Siccome un giro vuol dire 2 metri per le ruote
anteriori. y giri vuol dire 2y metri per le ruote anteriori. Se il trattore percorre 2y metri,
anche le ruote posteriori percorrono 2y metri, ma il numero di giri si ottiene dividendo
per 2,5, cioè 2y : 2,5. Il problema ci dice che la differenza fra i numeri di giri è 100:
y−
2y
= 100
2,5
Quindi si ottiene:
y=
100
100
=
= 500.
1 − 2/2,5
0,2
Cioè i giri sono 500 e i metri sono 1000.
Si può tuttavia osservare che la scelta di y = giri delle ruote anteriori non è felice
perché produce calcoli con il numero 2/2,5. Se provassimo a scegliere l’incognita z =
numero dei giri delle ruote posteriori, avremmo forse speranza di avere a che fare con il
numero 2,5/2, che è migliore per i calcoli.
In effetti, mentre le ruote posteriori compiono z giri e quindi 2,5z metri, le ruote
anteriori percorrono sempre 2,5z metri ma (2,5/2) giri = 1,25z giri. Quindi possiamo
scrivere l’equazione:
1,25z = z + 100
cioè
0,25z = 100
ovvero z = 100/0,25 = 400
Cioè le ruote posteriori percorrono 400 giri e quindi 400 × 2,5 = 1000 metri.
Nota sulla necessità di usare nel problema anche i numeri decimali. I numeri considerati nel problema sono interi (100 giri, 2 metri) oppure decimali (2,5 metri). Ma
quand’anche fossero tutti interi (le ruote anteriori avessero circonferenza di 3 metri, ad
esempio), non si potrebbe fare a meno di introdurre anche qualche numero decimale.
Già è necessario far uso del numero 1/2 = 0,5 ma la scelta di 3 metri peggiorerebbe la
situazione, perché si dovrebbe trattare il numero 1/3 = 0,333333 . . . che è addirittura
decimale illimitato.
Resta quindi provato che anche per la risoluzione di semplici problemi aventi dati
espressi con numeri interi è necessario conoscere i numeri decimali, e due o tre cifre dopo
la virgola possono non bastare.
21
6.3.2
Un problema in cui sembra mancare un’incognita.
Anche questo problema richiede di saper risolvere le equazioni di primo grado e di saper
trovare l’incognita migliore. Ma ha anche un altro interesse: a prima vista si potrebbe
pensare che manchi un dato, la velocità di uno dei due treni. Ma la risoluzione ci fa
capire che sarebbe un dato del tutto inutile, la distanza cercata è indipendente dalle
velocità dei due treni.
Le stazioni A e B distano 300 chilometri e dalla stazione A parte il treno T1 verso
la stazione B mentre dalla stazione B parte il treno T2 verso la stazione A. I due treni
partono contemporaneamente e il treno T1 viaggia a velocità doppia dell’altro. A che
distanza da A si incontrano?
Il problema ci invita a scegliere come incognita x la distanza da A del punto di
incontro. Non conosciamo la velocità del treno T1 quindi siamo costretti a indicarla con
una lettera, ad esempio v. La velocità del treno T2 sarà la metà, cioè v/2. Al momento
dell’incontro i due treni avranno viaggiato per lo stesso tempo, diciamo t, anch’esso
incognito per il momento. Quindi il treno T1 avrà percorso uno spazio pari a tv (tempo
per la velocità) e il treno T2 uno spazio pari alla metà di tv. Cioè mentre il treno T1
percorre lo spazio x = tv il secondo treno percorre uno spazio metà. La somma dei
due spazi percorsi vale 300 chilometri, perché è la distanza di A da B. Quindi abbiamo
l’equazione:
x + x/2 = 300,
cioè
3x/2 = 300.
Ne segue che x vale 200 chilometri.
Si noti che non ha alcuna importanza sapere qual è la velocità dei due treni, basta
conoscere il loro rapporto. Ciò significa che si incontrano a 200 chilometri da A quando
T1 viaggia a 100 all’ora e T2 a 50 all’ora, ma anche se le velocità sono 40 e 20 chilometri
all’ora oppure 400 e 200 chilometri all’ora. Invece il momento in cui si incontrano dipende
dalla velocità; ad esempio, se viaggiano a 200 e 100 chilometri all’ora si incontrano dopo
un’ora, se viaggiano a 100 e 50 chilometri all’ora si incontrano dopo due ore, ma sempre
nello stesso punto.
6.4
Dall’interesse annuo ai limiti.
Abbiamo visto che un capitale di 1 euro, investito al 3%, dopo n anni diventa (1,03)n
euro. Proviamo ora a considerare le cose da un punto di vista differente. Abbiamo
sempre un capitale di 1 euro, ma riusciamo a trovare il modo di investirlo al 100%: dopo
un anno incassiamo 2 euro, 1 euro di capitale e 1 secondo euro di interesse. Se siamo
molto avidi possiamo anche cercare di farci pagare l’interesse dopo 6 mesi. Quindi dopo
6 mesi otteniamo:
1 euro = capitale
1/2 euro = interesse.
22
In totale abbiamo
1 + 1/2 = 3/2 euro.
Nei secondi sei mesi dell’anno il nostro capitale investito è pari a 1 + 1/2 = 3/2 euro e
quindi diventa
1
1
1 2
3 3/2
+
= 1+
1+
= 1+
euro.
2
2
2
2
2
Se riusciamo a farci pagare l’interesse dopo 4 mesi, cioè un terzo di anno, dopo un
anno otteniamo (1 + 1/3)3 euro. Se l’interesse del 100% viene pagato ogni mese in un
anno otteniamo (1 + 1/12)12 euro. Quindi dopo 1 anno il nostro capitale maggiorato
dell’interesse del 100% diventa (1 + 1/n)n euro se l’interesse viene pagato ogni n-esimo
di anno. Si potrebbe pensare che, facendosi pagare l’interesse sempre più spesso, ogni
giorno, ogni ora, ogni secondo, . . . , la somma incassata diventi sempre più grande,
crescendo indefinitamente. Invece non è affatto così: anche con interessi pagati ad ogni
istante non riesco a raggiungere la somma di 3 euro, anzi resto al di sotto di 2,72 euro.
Questo fatto sembra inspiegabile, se non ci venisse in aiuto la matematica.
Noi siamo interessati a capire come cresce la somma che ci è dovuta (capitale +
interesse) al crescere di n. Se vogliamo dire la cosa in modo approssimativo (o meglio,
insensato) ma adatto a colpire l’immaginazione, vogliamo capire che cosa capita quando
n diventa infinitamente grande.
Occorre quindi cercare di dare un senso all’espressione quando n diventa infinitamente grande. Per fare ciò senza far intervenire concetti privi di senso possiamo chiederci
quali informazioni abbiamo sulla grandezza di (1 + 1/n)n quando n sia
• più grande di 10
• più grande di 100
• più grande di 10 000 000
• più grande di . . .
La nostra tabella potrebbe farci comprendere qualcosa del comportamento del nostro
interesse. In realtà noi vogliamo capire di più: come mai il nostro numero (1 + 1/n)n
si avvicina indefinitamente a un numero che è di pochissimo più piccolo di 2,72? Provvisoriamente ammettiamo che avvenga proprio questo, che (1 + 1/n)n si avvicini, al
crescere di n, a un numero che (non sapendo quanto vale con esattezza) indicheremo
per il momento con una lettera, cioè e, e cerchiamo di tradurre questa sensazione di
avvicinamento a e nel linguaggio della matematica.
Se vogliamo capire a fondo questo concetto e, in conclusione riuscire a calcolare
l’interesse annuo se viene calcolato istante per istante, occorre una digressione.
23
7
7.1
Digressione sui numeri relativi, razionali, reali.
Numeri relativi.
Abbiamo finora parlato di numeri naturali e, di fatto, anche di numeri decimali. Ad
esempio 2,72 è un numero decimale. Ma i numeri decimali compaiono anche quando
si faccia la spesa (1,20 euro per un chilo di pomodori) e quindi non è proprio possibile
evitarli, anche se non si provi alcun interesse per il numero e. Allo stesso modo è molto
difficile evitare i numeri negativi, se si vuole utilizzare correttamente un termometro e
distinguere le temperature sopra e sotto lo 0, oppure se si vogliono indicare metri sopra
o sotto il livello del mare.
Resta quindi inteso che oltre all’insieme N dei numeri naturali, si considera anche
l’insieme Z dei numeri interi relativi 0, 1, −1, 2, −2, . . . , cioè l’insieme dei naturali e dei
loro opposti (dove 0 compare una sola volta perché −0 = 0).
Se si vuole dare una buona (e semplice) definizione matematica dell’insieme Z dei
numeri interi relativi, si può dire che un numero relativo è una coppia (m,n) di numeri
naturali. Precisamente i numeri positivi sono le coppie (1, n), i numeri negativi sono
invece le coppie (0, n), con l’intesa che la coppia (1, 0) e la coppia (0, 0) rappresentano
lo stesso numero, cioè 0. In pratica:
(1, 7) = 7
(0, 7) = −7
(Si noti che si tratta di una convenzione usata in informatica).
Fra queste coppie sono definite la somma a + b e il prodotto ab, con le stesse proprietà della somma e del prodotto di numeri naturali, con una importante aggiunta: la
differenza di due numeri relativi è sempre ammessa. Cioè: 2 − 5 non ha senso in N ma
in Z dà come risultato il numero negativo −3. Precisamente, se a = (1, n), b = (1, q), si
pone:
a + b = (1, n + q)
ab = (1, nq).
Analogamente si pone:
(0, n) + (0, q) = (0, n + q)
(0, n)(0, q) = (1, nq)
(si ricordi che il prodotto di due negativi è positivo)
e anche
(1, n)(0,q) = (0, nq)
(si ricordi che il prodotto di un positivo e di un negativo è negativo).
Più delicata è la definizione di somma di due coppie (1,n) e (0,q):
(1, n) + (0, q) = (1, n − q)
(1, n) + (0, q) = (0, q − n)
(1, n) + (0, q) = (1,0) = (0,0)
24
se n > q
se n < q
se n = q.
Si noti che stiamo solo stabilendo che
3 + (−2) = +1
2 + (−3) = −1
4 + (−4) = 0
Si osservi poi che la coppia (0, 0) sommata con ogni altra coppia, in base alla definizione di somma, la lascia invariata, cioè ha la stessa funzione del numero naturale
0.
Possiamo quindi usare la nostra definizione di numero relativo come coppia per vedere
che la differenza è sempre ben definita. Cominciamo con il dire che il numero (1, n) e il
numero (0, n) sono l’uno l’opposto dell’altro. In effetti si ha:
(1, n) + (0, n) = (0,0)
scriveremo: (1, n) = −(0, n), (0,n) = −(1,n)
Quindi:
(1, n) − (1, m) = (1, n) + (0, m) = (1, n − m)
(1, n) − (1, m) = (0, m − n)
se n > m,
se m > n
La coppia (1, n) si identifica con il numero naturale n (o +n per ricordarci che trattiamo numeri con segno), mentre la coppia (0, m) si chiama numero intero negativo ed è
indicata con il simbolo −m. Si noti che, in base a quanto abbiamo detto sull’opposto,
si ha: −n = opposto di n. In Z è anche definito un ordine:
1. (1, n) > 0
(n 6= 0)
2. (0, n) < 0
(n 6= 0)
3. il numero relativo r è minore del numero relativo s se s − r > 0.
Una volta che si è capita l’identificazione di (1, n) con il numero +n e di (0, m) con
il numero −m, i numeri relativi si possono trattare nel modo usuale, noto a tutti.
7.2
Numeri razionali.
Oltre all’insieme Z la matematica considera anche l’insieme Q dei numeri razionali, cioè
delle frazioni m/n dove m ed n sono due numeri relativi e inoltre n 6= 0. Ad esempio
2/3 è un numero razionale, come pure −2/3. Anche i numeri razionali si possono
introdurre mediante coppie, questa volta di relativi. Cioè un numero razionale è una
coppia (m, n) di numeri relativi tali che n 6= 0. Si ricordi a questo proposito che due
frazioni apparentemente diverse m/n, p/q rappresentano lo stesso numero razionale se si
ha mq = np (21/45 = 7/15 in quanto 21 × 15 = 45 × 7). Si noti che il numero razionale
m/1 = 2m/2 = −m/(−1) = · · · si identifica con il numero intero m. In particolare
1/1 = 1, 0/1 = 0.
25
Riguardo ai numeri razionali ricordiamo soltanto che anche fra questi sono definiti
la somma e il prodotto:
m
+
n
m
·
n
p
mq + np
2(mq + np)
=
=
= ···
q
nq
2nq
!
p
mp
2mp
=
=
= ···
q
nq
2nq
!
È facile vedere che hanno le stesse proprietà della somma e del prodotto di numeri
interi (associativa, commutativa, . . . ). In particolare si ha:
m
m
+0= ,
n
n
m
m
×1= .
n
n
L’opposto di m/n è il numero (−m)/n , cioè si ha: (−m)/n = −(m/n) (che denoteremo sempre −m/n, senza parentesi). Il reciproco (o inverso) di m/n, con m 6= 0, è
n/m. Quindi si può sempre eseguire la divisione fra un numero razionale qualsiasi e un
numero razionale non nullo: (m/n) : (p/q) = (mq)/(np), con p 6= 0. In particolare esiste
l’inverso di ogni intero n 6= 0, cioè 1/n.
Fra numeri razionali è ben definito un ordine:
1. se m, n, p, q sono quattro numeri interi positivi, m/n < p/q vuol dire che mq < np;
2. ogni negativo è minore di 0 e di ogni positivo;
3. fra due negativi l’ordine è capovolto: −2/3 < −1/2 in quanto 2/3 > 1/2.
7.2.1
Numeri razionali e proprietà archimedea.
Abbiamo visto che, dati due numeri naturali non nulli qualsiasi n, m, con n minore di
m, è sempre possibile trovare un multiplo di n che supera m. Che cosa significa questa
proprietà per i numeri razionali?
Prima di tutto fissiamo due numeri razionali maggiori di 0, siano m/n, p/q, tali che
m/n < p/q. Allora esiste un multiplo r(m/n) = m/n + m/n + m/n + · · · (r volte) di
m/n che supera p/q. Come si trova il numero r? Occorre che si abbia: rmq > np, cioè
bisogna trovare un multiplo r(mq) di mq che sia più grande del numero intero positivo
np. Ma questa è semplicemente la proprietà archimedea per i numeri naturali.
La proprietà archimedea ha la conseguenza seguente:
se fissiamo un numero razionale K > 0 a nostro piacere, esiste un numero intero n0 tale
che n > K per ogni n > n0 .
Basta in effetti osservare che esiste un multiplo n0 = n0 × 1 di 1 che supera K e che
ogni n > n0 è anche maggiore di K.
Questa proprietà si esprime dicendo che il limite per n tendente all’infinito di n è
più infinito, ovvero che la successione (1, 2, 3, . . . , n, . . .) tende a +∞; in formula:
lim n = +∞
n→+∞
26
7.2.2
Limiti di successioni.
Una successione di numeri (razionali) è un insieme di numeri che vengono identificati
con indici interi 1, 2, . . . , n, . . .. Ad esempio (1, 4, 9, 16, . . . , n2 , . . .) è una successione (i
suoi elementi sono i quadrati degli interi), come anche (1, 1/2, 1/3, . . . , 1/n2 , . . .) (i suoi
elementi sono gli inversi degli interi). In generale una successione si indica così:
(a1 , a2 , a3 , . . . , an , . . .).
E si può dare una definizione generale di limite infinito:
la successione (a1 , a2 , a3 , . . . , an , . . .) tende a più infinito quando, scelto a piacere un
numero razionale positivo K, esiste un intero n0 tale che, per ogni n > n0 , si abbia
an > K; brevemente si scrive:
lim an = +∞
n→+∞
Anche la successione (1, 4, 9, 16, . . . , n2 , . . .) tende a +∞. In effetti, assegniamo un
numero positivo K a nostro piacere e osserviamo che, se n è maggiore di K, allora anche
n2 è maggiore di K, in quanto n2 è maggiore di n (a partire da n = 2). Scegliamo allora
n0 = K e vediamo che, se n è maggiore di n0 = K, si ha di sicuro n2 maggiore di K.
Invece la successione (1/n) ha un comportamento completamente diverso quando
n tende all’infinito. Precisamente, dato un numero razionale positivo arbitrario ε, è
possibile trovare un numero n0 tale che, se n è maggiore di n0 , allora 1/n è minore
di ε. In effetti, basta scegliere n0 = qualsiasi numero che superi 1/ε (si ricordi che
ogni razionale non nullo ammette inverso) e osservare che n maggiore di n0 implica
1/n < 1/n0 < 1/ε.
In pratica gli elementi della successione diventano piccoli a piacere, ovvero si avvicinano indefinitamente a 0, se n cresce indefinitamente, e si scrive:
lim
n→+∞
1
= 0.
n
Ciò vuol dire che
• se si sceglie ε = 0,1, si trova n0 = 10, sicché per n maggiore di 10 si ha 1/n < 0,1
• se si sceglie ε = 0,01, si trova n0 = 100, sicché per n maggiore di 100 si ha
1/n < 0,01
• se si sceglie ε = 0,001, si trova n0 = 1000, sicché per n maggiore di 1000 si ha
1/n < 0,001
• ...
Non dimentichiamo però di osservare che tutto ciò si può fare grazie a proprietà dei
numeri razionali:
• un numero n0 > 1/ε si trova grazie alla proprietà archimedea
27
• 1/ε esiste perché ogni razionale non nullo ammette reciproco
• se un razionale q è maggiore di un altro razionale p, allora 1/p > 1/q (le diseguaglianze si capovolgono se si passa ai reciproci).
Quest’ultima proprietà merita di essere esaminata un po’ più a fondo. Ricordiamoci
che le diseguaglianze si conservano se vengono moltiplicate per un numero positivo:
q > p si trasforma, se si moltiplica per il numero positivo 1/(pq) , nella diseguaglianza
q × 1/(pq) = 1/p > p × 1/(pq) = 1/q. E questo è proprio ciò che volevamo ottenere.
Una successione può anche tendere a un limite diverso da zero e da infinito, cioè può
avvicinarsi indefinitamente a un numero razionale qualsiasi. Ad esempio la successione
(1, 1 + 1/2, 1 + 1/3, 1 + 1/4, . . . , 1 + 1/n, . . .)
tende a 1 quando n tende all’infinito. Questo significa che, preso a piacere un numero
razionale positivo ε, esiste un intero n0 tale che la distanza di 1 + 1/n da 1 sia minore
di ε. In formule: 1 − ε minore di 1 + 1/n minore di 1 + ε , ovvero |1 + 1/n − 1| minore
di ε. Siccome |1 + 1/n − 1| = |1/n| = 1/n (perché si tratta di numero positivo), basta
trovare n0 tale che 1/n0 < 1/ε e di questo abbiamo discusso poche righe sopra.
Si noti che abbiamo messo un segno di valore assoluto |1 + 1/n − 1| del tutto inutile
perché all’interno c’è un numero positivo. Ma la definizione di limite deve tener conto
anche della possibilità di numeri negativi; ad esempio il lettore provi che
lim an = −2 se an = −2 − 1/n,
n→+∞
mentre
lim an = 0 se an = (−1)n /n.
n→+∞
7.2.3
Un passo avanti sul numero e
Possiamo a questo punto dire che il numero e (sempre che esista) è il limite per n tendente
all’infinito di (1 + 1/n)n , ma non siamo ancora in grado di capire come calcolare tale
limite. In effetti, per concludere che
lim
n→+∞
1
1+
n
n
=e
occorre dimostrare che, assegnato un numero arbitrario positivo ε, esiste un numero
n0 > 0 tale che, se n è maggiore di n0 , allora e − ε < (1 + 1/n)n < e + ε. Questa via
diretta non è in realtà facile da seguire perché per ora e è una lettera di cui sappiamo
ben poco.
7.3
Rappresentazione decimale dei razionali.
Quanto alla rappresentazione decimale dei numeri razionali, si ragiona come si è visto
per la scrittura dei naturali in base 10. Consideriamo ad esempio il numero razionale
21/50 e operiamo come segue:
28
1. cerchiamo il più grande intero n che sia minore o eguale di 21/50. Si vede subito
che si tratta di 0.
2. Fra i numeri 0 + 0/10, 0 + 1/10, 0 + 2/10, . . . , 0 + 9/10 si sceglie il più grande fra
quelli che non superano 21/50, cioè 4/10.
3. Fra i numeri 0+4/10+0/100, 0+4/10+1/100, 0+4/10+2/100, . . . , 0+4/10+9/100
si scelga il più grande fra quelli che non superano 21/50, ottenendo 0+4/10+2/100.
Poiché 0 + 4/10 + 2/100 è proprio eguale a 21/50, abbiamo trovato la rappresentazione
decimale: 21/50 = 0,42.
Si può provare a vedere, con la stessa tecnica, che 214/500 = 0,428.
Tuttavia bisogna osservare che non tutti i numeri razionali si possono rappresentare
in forma decimale con un numero finito di cifre dopo la virgola. Ad esempio questo non
avviene per il semplicissimo numero razionale 1/3. In effetti si ha:
1
<1
3
1
0,3 < < 0,4
3
1
0,33 < < 0,34
3
···
1
0,333333333 < < 0,333333334
3
···
0<
e il nostro numero non coincide con nessuna rappresentazione decimale finita. Diremo
che la sua rappresentazione decimale ha infiniti 3 dopo la virgola. Il lettore può provare
che anche 2/9 e 7/3 hanno infinite cifre dopo la virgola.
Nota. Si può vedere il numero 1/3 dal punto di vista dei limiti e osservare che la
successione 0,3, 0,33, 0,333, . . . ha come limite per n tendente all’infinito proprio 1/3.
Seconda nota. Ogni razionale ha una rappresentazione decimale, ma è vero anche il
viceversa (almeno quando le cifre decimali sono in numero finito; se sono infinite occorre
esaminare come si succedono). Ad esempio il numero 3,65 è in realtà il razionale 3 +
6/10 + 5/100 = 365/100.
7.4
Insufficienza dei razionali e necessità dei numeri reali.
Purtroppo i numeri decimali sono ancora insufficienti a trattare i problemi che ci può
capitare di dover affrontare. Il caso più noto ma anche più difficile da discutere riguarda
la circonferenza, in quanto il rapporto fra la lunghezza della circonferenza e la lunghezza
del diametro è un numero non razionale, chiamato π. Ma per questo fatto occorrono nozioni di matematica molto più elevate di quelle che stiamo utilizzando. Dovremo quindi
cercare esempi più semplici di numeri non razionali, senza affrontare per il momento il
numero e, anch’esso abbastanza difficile.
29
7.4.1
Lato e diagonale di un quadrato e radice quadrata di 2.
È noto fin dai tempi di Pitagora, quindi oltre 2500 anni fa, che il lato e la diagonale di
un quadrato non sono commensurabili, cioè è impossibile trovare un segmento S tale
che S + S + · · · + S (n volte S), cioè nS, sia eguale al lato e che S + S + · · · + S
(m volte), ovvero mS, sia eguale alla diagonale. Che cosa ha a che fare questo con
l’inadeguatezza dei numeri razionali? Supponiamo che il lato del quadrato sia lungo 1 e
che la diagonale L sia lunga l (centimetri, metri, non ha importanza). Allora, grazie al
teorema di Pitagora, l2 = 1 + 1 = 2 (il quadrato costruito sulla diagonale è doppio del
quadrato costruito sul lato). Quindi l è un numero che ha come quadrato 2. Se esistesse
un segmento S di lunghezza s tale che
ns = 1
ms = l
si avrebbe anche s = 1/n e quindi l = m/n. Cioè esisterebbe un numero razionale m/n
tale che (m/n)2 = 2. Purtroppo tale numero razionale non esiste, come è facile vedere
con il seguente ragionamento.
7.4.2
Inesistenza della radice quadrata di 2.
Supponiamo per assurdo che esista, cioè che si possa avere m2 = 2n2 , dove m e n
sono due numeri naturali. Possiamo supporre, a costo di una semplificazione dei fattori
comuni, che m e n siano privi di fattori comuni. Scomponiamo m e n in fattori primi;
siccome i fattori di m2 si ottengono elevando al quadrato i fattori di m, e m2 , che è
eguale a 2n2 , deve avere il fattore 2 perché la scomposizione è unica, anche m deve
avere il fattore 2. Allora m2 contiene il fattore 2 elevato ad una potenza pari, mentre
n, e quindi anche n2 , non ha di sicuro il fattore 2. Dunque il primo membro ha nella
sua scomposizione un fattore 2 elevato a potenza pari e il secondo membro il fattore 2
elevato a 1. Questo contraddice l’unicità della scomposizione in fattori. Ne concludiamo
che un numero razionale m/n tale che (m/n)2 = 2 non esiste. Quindi, se ci limitiamo ai
numeri razionali, dobbiamo rinunciare alla radice quadrata di 2. Ed è facile vedere che
dobbiamo rinunciare anche alla radice quadrata di 3, di 5, di 6, . . . , di 14, di 15, . . . (e
di qualunque numero intero che non sia un quadrato perfetto, come 4, 9, 16, . . . ), come
pure alla radice cubica di 2, 3 , 4, . . . (e a infinite altre radici).
7.4.3
Inflazione e radice quadrata di 2.
Forse non ha effetti sconvolgenti per nessuno sapere che il lato e la diagonale del quadrato
non hanno un sottomultiplo comune, a causa del fatto che non esiste la radice di 2.
Ma un po’ di disturbo lo può produrre la seguente osservazione. Supponiamo che ci sia
durante un periodo di due anni inflazione costante (ed elevata) ma ignota. Noi sappiamo
soltanto, in base a statistiche, che il 1o gennaio del 2005 i pomodori costano un euro
al chilo e che il 31 dicembre 2006 costano 2 euro al chilo. L’aumento complessivo in
due anni è del 100%, ovviamente. Ma siamo in grado di calcolare l’inflazione annua,
30
supposto che sia costante? Si potrebbe pensare che sia la metà del 100%, cioè del 50%,
ma un semplice calcolo ci smentisce. In effetti, se l’inflazione è pari al 50%, in due
anni 1 euro diventa (1,50)2 = 2,25 euro, non 2 euro. Possiamo anche fare dei tentativi,
provando ad esempio con il 40%, ma (1,40)2 = 1,96, e quindi il 40% è troppo poco,
come il 45% è troppo mentre il 41% è troppo poco. È inutile cambiare le cifre decimali
(0,50, 0,40, 0,45, 0,41, . . .) perché nessuna andrà mai bene a causa della inesistenza del
numero radice quadrata di 2. In effetti, se l’inflazione è pari a x%, cioè se i pomodori
dopo un anno costano 1 + x/100, allora dopo due anni costano (1 + x/100)2 ; poiché
sappiamo che√il risultato è 2, ovvero (1 + x/100)2 = 2, dobbiamo cercare il numero
1 + x/100 = 2. Ma il secondo membro non esiste, almeno fra i numeri razionali, e
quindi non possiamo sperare di trovare un paio di cifre decimali da mettere al posto di
x, ma nemmeno tre o quattro cifre, nell’ipotesi che l’inflazione possa essere pari al 41,5%
o al 42,3%. Siccome l’inflazione in realtà esiste, forse occorre trovare nuovi numeri che
la descrivano meglio dei razionali.
Si noti anche il fatto seguente: se il costo di qualcosa passa da 1 a 2 euro in due anni,
l’inflazione sarà all’incirca del quarantuno e mezzo per cento, anche se non abbiamo il
valore esatto. Ma supponiamo di voler calcolare come aumenta il prezzo di un immobile
in 5 anni, sapendo che l’inflazione fa passare i pomodori da 1 a 2 euro in due anni.
Se l’immobile costa 200.000 euro, dopo due anni costerà 400.000 euro. Ma dopo 5?
Poiché 5 si ottiene da 2 moltiplicando per 2,5, si potrebbe pensare che il costo diventi
400.000 × 2,5 euro = 1.000.000 di euro. In realtà il calcolo esatto dice che 1 euro dopo
5 anni diventa (1 + x/100)5 , se l’inflazione costante è pari a x per cento. Se diamo
all’inflazione il valore del 41% otteniamo che i prezzi si moltiplicano per 5,57 e quindi
200.000 euro diventano 1.114.000 euro: se invece la valutiamo al 41,5% otteniamo che
i prezzi si moltiplicano per 5,67 e quindi l’immobile costerà 1.134.000. Se per caso
ho acquistato nel 2005 ma il pagamento avviene nel 2010 tenendo conto
√ dell’inflazione
sarebbe proprio meglio sapere quanto vale questo fantomatico numero 2, per scoprire
che l’immobile deve costare (circa) 1.131.400 euro.
Si noti che se ragioniamo su un periodo di 3, o di 5 anni, anziché di 2, dovremo
constatare che non esistono la radice cubica e quinta di 2, cioè numeri adatti a descrivere
l’inflazione.
I numeri mancanti si possono naturalmente introdurre: formeranno l’insieme R dei
numeri reali. Fra questi ci saranno le radici quadrate di 2, 3, 5, . . . e anche molti (infiniti)
altri numeri, fra i quali il numero π, rapporto fra la lunghezza della circonferenza e il
suo diametro e il numero e che si ottiene calcolando l’interesse istante per istante.
√ Riprendiamo in esame la radice
√ quadrata di 2. Abbiamo visto che 1,41 è minore di
2, mentre 1,42 è maggiore√di 2; si potrebbe perfezionare
la nostra approssimazione
√
facendo vedere che 1,414 < 2, mentre 1,415 > 2. Si può quindi pensare che i nuovi
numeri si trovino mediante approssimazioni con razionali. Questo fatto è sostanzialmente vero, ma non può essere utilizzato finché non si dica che cosa è un numero reale,
perché non è possibile approssimare un oggetto inesistente.
Ci sono modi diversi di introdurre l’insieme R dei numeri reali. Uno di questi risale
al matematico dell’Ottocento Dedekind, che definì i reali mediante le cosiddette sezioni
31
dell’insieme dei razionali (le sezioni di Dedekind).
7.5
Come definire la radice quadrata di 2.
Tornando alla radice di 2, osserviamo che non possiamo considerare il numero razionale
m/n che ha quadrato 2, ma possiamo considerare tutti i numeri razionali positivi che
hanno quadrato minore di 2. Fra questi avremo: 1, 1,4, 1,41, 1,414, 1,4142 (e infiniti
altri numeri). Mettiamoli tutti insieme e poi aggiungiamo tutti i numeri negativi (anche
se hanno quadrato maggiore di 2). Otteniamo un insieme (non vuoto) A di numeri
razionali. Consideriamo poi l’insieme B di tutti gli altri numeri razionali, cioè di quelli
che sono positivi e hanno quadrato maggiore di 2. La coppia (A,B) ha le seguenti
proprietà:
• tutti i numeri razionali sono considerati, cioè ogni numero razionale appartiene ad
A oppure a B;
• un numero razionale appartiene ad A oppure a B ma non a entrambi (A e B si
dicono disgiunti);
• sia A sia B contengono almeno un numero razionale.
Si noti che, dato comunque un intero positivo n, è possibile trovare un numero s in B e
un numero r in A tali che s − r < 1/n , cioè A e B sono insiemi contigui di numeri. Se
ad esempio n = 100, prenderemo
s = 1,415
r = 1,414
La loro differenza vale
√ 0,001 ed è ovviamente minore di un centesimo.
Noi chiameremo 2 la coppia (A, B) di insiemi di numeri razionali. La
√ cosa può
apparire incomprensibile, o almeno ardita. Ma si noti che il nostro numero 2 si identifica molto bene mediante (A,B). Basta cercare in A il più grande intero, che sarà 1, in
quanto 12 < 2 < 22 . Poi si cercherà il più grande fra i numeri razionali 1,1, 1,2, . . . , 1,9
che appartiene ad A, e sarà 1,4, in quanto (1,4)2 < 2 < (1,5)2 . Si passerà poi al più
grande fra i numeri 1,41, 1,42, . . . , 1,49 che
√ appartiene ad A (e sarà 1,41). In questo
modo riusciamo ad avvicinarci al numero 2 con approssimazioni successive e potremo
avvicinarci alla distanza desiderata (meno di un millesimo, meno di un decimillesimo,
√
. . . ). Occorre solo dire che nessuna delle approssimazioni
coincide
con
2, poiché le
√
approssimazioni sono numeri razionali, mentre 2 non lo è.
Il nostro numero mancante è dunque una coppia (A, B) di particolari insiemi di
numeri razionali.
I numeri reali sono sezioni di Dedekind.
Possiamo ora dare una definizione generale di numero reale: un numero reale è una
coppia (A, B) di sottoinsiemi di numeri razionali con le proprietà seguenti:
32
• tutti i numeri razionali sono considerati, cioè ogni numero razionale appartiene ad
A oppure a B;
• un numero razionale appartiene ad A oppure a B ma non a entrambi (A e B si
dicono disgiunti);
• sia A sia B contengono almeno un numero razionale.
Una simile coppia (A, B) si chiama sezione di Dedekind dell’insieme dei numeri
razionali (i numeri razionali vengono tagliati in due parti).
Si noti che è ancora vero che, dato comunque un intero positivo n, è possibile trovare
un numero s in B e un numero r in A tali che s − r < 1/n , cioè A e B sono insiemi
contigui di numeri.
In questo modo possiamo identificare molti nuovi numeri:
1. la radice quadrata di 5 si ottiene mettendo in B i numeri positivi con quadrato
maggiore di 5 e in A tutti gli altri;
2. la radice cubica di 28 si ottiene mettendo in B i numeri positivi con cubo maggiore
di 28 e in A tutti gli altri;
3. un qualsiasi numero razionale r si ottiene mettendo in A i numeri minori o uguali
a r e in B tutti gli altri, oppure in A i numeri minori di r e in B quelli maggiori o
uguali a r; in questo caso abbiamo due possibilità, che però possiamo considerare
equivalenti (permettiamo lo√spostamento da A a B o viceversa di un solo numero
razionale);
√ si noti che per 2 questo problema non si pone, il numero spostabile
sarebbe 2, ma in campo razionale non esiste, non sta né in A né in B.
D’ora in poi identificheremo il numero razionale r con la coppia (A, B), dove in A
stanno i razionali minori o uguali a r, in B tutti gli altri.
Molti altri numeri reali si possono ottenere, come ad esempio il rapporto π fra la
lunghezza della circonferenza e quella del suo raggio, oppure il numero e, ma in questi
casi occorrono molte più nozioni di quelle che stiamo usando.
7.6
Operazioni fra reali.
I numeri reali si possono sommare e moltiplicare, come gli interi e i razionali.
7.6.1
Somma
Supponiamo di avere due numeri reali, r = (A, B) e s = (C, D). Allora possiamo
considerare la coppia che denotiamo con il simbolo (A + C, B + D) così definita:
• in A + C mettiamo tutti i numeri della forma a + c, con a in A e c in C;
• in B + D mettiamo tutti i numeri della forma b + d, con b in B e d in D.
33
È piuttosto
√ facile
√ vedere che (A + C,B + D) è ancora un numero reale. Ad esempio il
numero 2 + 3 si definisce come coppia (M, N) di sottoinsiemi, dove
• N contiene i numeri razionali x + y, con x positivo e tale che x2 > 2, y positivo e
tale che y 2 > 3;
• M contiene tutti gli altri numeri razionali.
Ad esempio in M mettiamo −4, 0, 1,4 + 1,7 = 3,1, . . . (si noti che 1,4 ha quadrato minore
di 2 e 1,7 ha quadrato minore di 3); in N mettiamo 1,5 + 1,8 = 3,3, ma anche 10, 400,
30.000.000 (perché?).
Quanto al numero reale 0, esso coincide con il numero razionale 0, ovvero con la
coppia che contiene da una parte i numeri razionali positivi e dall’altra quelli negativi
(e lo 0 dove sta?). Si vede facilmente che lo 0, sommato con ogni altro reale, lo lascia
invariato.
Possiamo ora definire facilmente l’opposto −(A, B) di un numero reale (A,B). Il
numero −(A,B) è la coppia che denoteremo per ora (M, N) così definita:
• in M mettiamo tutti gli opposti dei razionali contenuti in B
• in N mettiamo tutti gli altri numeri razionali.
Lasciamo al lettore la verifica delle proprietà che caratterizzano le sezioni di Dedekind
(ogni razionale è considerato, ogni m è minore di ogni n, . . . ). Non è difficile vedere che
si ha: (A,B) + (M,N) = 0.
7.6.2
Prodotto
Per il prodotto di reali occorre qualche maggiore avvertenza. Supponiamo per semplicità
che r = (A,B) e s = (C,D) e che sia B sia D contengano solo razionali positivi. Noi
definiamo una nuova coppia (U,V), che chiamiamo prodotto, come segue:
• in V mettiamo tutti i prodotti di elementi di B per elementi di D;
• in U mettiamo tutti gli altri numeri.
√ √
Anche in questo caso si vede che si ottiene un numero reale. Ad esempio 2 3 si
ottiene mettendo in V i numeri 1,5 × 1,7, 1,6 × 1,7, 23 × 56, . . ., mentre in U ci saranno
i numeri −2, 0, 1, 1,4 × 1,7, 1,2 × 0,6, . . .
Qualche problema si presenta se nell’insieme B o nell’insieme D ci sono numeri
ra√ √
zionali negativi. Cerchiamo solo di capire come si può definire il prodotto (− √2)√ 3
mediante una coppia (U,V). Il modo più semplice consiste nell’usare il numero 2 3,
già definito, e poi farne l’opposto.
Anche il reciproco di un reale (A,B) non nullo si definisce facilmente, nell’ipotesi che
in B ci siano solo numeri positivi: nella classe superiore si mettono i razionali 1/b, b ∈ B,
nella classe inferiore tutti gli altri. Se in B ci sono numeri negativi, si opera come per√il
prodotto, passando al reciproco dell’opposto di (A,B). Ad esempio il reciproco di − 2
34
√
si può ottenere come opposto del reciproco di 2. Lasciamo al lettore la verifica del
fatto che il prodotto di un numero reale per il suo reciproco è la coppia (U,V), dove in
U stanno i numeri razionali minori o uguali a 1, in V gli altri, cioè la coppia (U,V) che
noi identifichiamo con il numero 1.
7.6.3
Proprietà delle operazioni
Le operazioni fra numeri reali godono delle solite ben note proprietà, associativa, commutativa, distributiva, . . .
Si noti che, come conseguenza delle proprietà delle operazioni si deducono le regole
dei segni e il principio di annullamento per il prodotto. Siano in effetti r e s due numeri
reali; allora si ha:
1. (−r)s = −(rs) = r(−s)
2. (−r)(−s) = rs
3. (principio di annullamento del prodotto) rs = 0 se e soltanto se r = 0 oppure
s = 0, senza escludere che siano 0 sia r sia s
Ad esempio, per dimostrare che 0r = 0 si osserva che
(−r)s = (0 − r)s = 0r + (−r)s
e quindi che
(−r)s = 0r + (−r)s
Sommando a entrambi i membri l’opposto −((−r)s) di (−r)s (che esiste per quanto
abbiamo detto) si ottiene:
(−r)s − (−r)s = 0r + (−r)s − (−r)s
cioè
0 = 0r + 0 = 0r
e quindi:
0r = 0
(si noti che nelle somme di tre numeri non ci siamo preoccupati di mettere parentesi
perché vale la proprietà associativa).
Questa proprietà ci può servire per dimostrare la 1. In effetti si ha:
0 = 0s = (r − r)s = rs + (−r)s
e quindi (−r)s è proprio l’opposto di rs, cioè quel numero che sommato con rs dà come
risultato 0 (attenzione: qui ammettiamo che ogni numero abbia un solo opposto; non è
ovvio e si dovrebbe dimostrare).
35
7.6.4
Ordine
I numeri interi e razionali sono ordinati. Per quanto riguarda i reali, basta porre (A,B) <
(C,D) se l’insieme
almeno un elemento che sta in B.
√
√ C contiene
Ad esempio 2 < 3 in quanto il numero razionale 1,5 appartiene a B (il suo
quadrato supera 2) ma anche a C (il suo quadrato non supera 3).
I numeri positivi sono quelli maggiori di 0, i negativi quelli minori di 0.
Nota. Se (A,B) è un numero razionale q, allora q lo mettiamo per convenzione in A.
È bensì vero che se si considera la coppia (C,D) dove in A ci sono i razionali minori di
q mentre in D ci sono quelli maggiori o eguali a q, allora in A troviamo un numero che
non sta in C, ma la coppia (C,D) non la consideriamo, in quanto q è rappresentato da
(A,B).
7.6.5
Rappresentazione decimale dei numeri reali
Finora abbiamo trattato i numeri reali come oggetti un po’ strani, coppie (A,B) dove
A e B sono insiemi di numeri razionali. La rappresentazione decimale serve a capire
meglio che sono numeri nel senso comune del termine. Supponiamo di avere un numero,
cioè una coppia (A,B), e per semplicità ammettiamo che in A ci siano razionali positivi.
Cerchiamo il più grande intero che appartiene ad A, e sia n. Quindi fra i numeri
n,1, n,2, . . . , n,9 cerchiamo il più grande appartenente ad A, e sia n,p1 . Quindi fra i
numeri n,p1 1, . . . , n,p1 9 cerchiamo il più grande in A, e sia n,p1 p2 , e così via. In altre
parole il nostro numero reale r = (A,B) soddisfa alle proprietà seguenti:
n≤r <n+1
n,p1 ≤ r < n,p1 + 1 = n +
p1 + 1
10
···
I successivi numeri p1 , p2 , . . . sono le cifre decimali del numero reale r, i numeri a sinistra di r nella tabella sono le sue approssimazioni per difetto, quelli a destra le sue
approssimazioni per eccesso.
√
Ad esempio il numero 2 ha la rappresentazione decimale 1,4142 . . . in quanto
√
1< 2<2
√
1,4 < 2 < 1,5
√
1,41 < 2 < 1,42
···
In che cosa differisce la rappresentazione decimale di un numero reale da quella
di un razionale? Tutti e due possono avere infinite cifre decimali (0,3333. . . = 1/3)
ma i numeri razionali hanno soltanto rappresentazioni decimali periodiche (gruppi di
cifre che si ripetono), i reali hanno successioni di cifre del tutto arbitrarie (lasciamo la
dimostrazione, non facile, al lettore).
36
7.6.6
Principio di Archimede per i numeri reali
Anche per i numeri reali vale il principio di Archimede, che può ad esempio essere
enunciato così:
dato un reale positivo qualsiasi r = (A,B), esiste un intero n che lo supera.
Basta per dimostrarlo prendere un razionale nell’insieme B e quindi un intero che lo
superi.
Naturalmente si può anche affermare che, dati due reali r, s positivi, con r < s,
esiste un multiplo di r che supera s.
7.6.7
Estremo superiore e inferiore e classi contigue di numeri reali
Supponiamo di avere due insiemi (non vuoti) I ed E formati di numeri reali con le
proprietà seguenti:
• ogni elemento di I è minore di ogni elemento di E
• preso comunque un numero intero positivo n, esistono un elemento β in E e un
elemento α in I tali che β − α < 1/n.
In tal caso I ed E si dicono classi contigue ed esiste uno e un solo numero reale γ tale
che
α ≤ γ ≤ β.
Tale numero γ si dice elemento di separazione fra I ed E.
La dimostrazione dell’esistenza dell’elemento di separazione non è semplice ed è
costituita dalla costruzione esplicita di tale numero come sezione di Dedekind. Noi ci
limitiamo ad affermare che tale elemento esiste.
√
Esempio: le approssimazioni per difetto e per √
eccesso di 2 sono due classi contigue
che hanno come elemento di separazione proprio 2.
Si noti che nell’insieme dei numeri razionali l’elemento di separazione di classi
√ contigue non è detto che esista: le approssimazioni per eccesso e per difetto di 2 sono
classi contigue di numeri razionali ma il loro elemento di separazione, fra i razionali, non
esiste.
Consideriamo ora un insieme S di numeri reali e supponiamo che esista un numero
reale K tale che, per ogni s in S, si abbia s ≤ K. Diciamo che un numero H è un
maggiorante (o confine superiore) di S se per ogni s in S, si ha s ≤ H (ad esempio K è
un maggiorante, ma anche K +1, K +700, . . .). Un insieme S avente dei confini superiori
si dice superiormente limitato.
Esempio. L’insieme S = {1/2, 1/3, 1/4, . . . , 1/n, . . .} dei reciproci di tutti i numeri
naturali da 2 in poi ammette il confine superiore K = 1/2, ma anche H = 1, oppure
10, oppure 500.000. Invece l’insieme S0 = {2, 4, 6, 8, . . . , 2n, . . .} dei numeri pari non
ammette alcun confine superiore, per il principio di Archimede.
Si può dimostrare, usando il principio delle classi contigue, che fra i maggioranti di
S ne esiste uno, diciamo L, più piccolo di ogni altro maggiorante. Cioè:
37
• L ≥ s, per ogni s;
• se H ≥ s per ogni s, allora H ≥ L.
Un tale numero L si chiama estremo superiore di S (L = sup S). Per trovare L basta
costruire il numero reale (A,B) così definito:
• classe inferiore A = insieme di tutti i razionali che sono minori o eguali di qualche
s in S
• classe superiore B = insieme di tutti gli altri razionali (cioè i maggioranti di S).
È facile vedere che L = (A,B).
L’esistenza dell’estremo superiore, come elemento di separazione delle classi contigue,
è caratteristica dell’insieme dei numeri reali. L’insieme√S dei reali positivi con quadrato
minore di 2 ammette come estremo superiore il solito 2, che fra i razionali non esiste.
In modo del tutto analogo si prova che, se un insieme T di numeri reali ammette dei
confini inferiori o minoranti K (numeri più piccoli di ogni elemento di T), allora esiste
un numero G che è il più grande dei confini inferiori (e si chiama estremo inferiore).
Nota. L’elemento di separazione di due classi contigue (I,E) è in realtà l’estremo
superiore dell’insieme I o anche l’estremo inferiore di E.
A questo punto siamo in grado di dire qualcosa di più sul numero e.
7.6.8
Limiti di successioni reali e qualche maggiore informazione sul numero
reale e
Il nostro obbiettivo è provare che esiste il limn→+∞ (1 + 1/n)n (nel senso già discusso
per i razionali), cioè che, fissato a nostro piacere un numero reale positivo ε, esiste un
numero intero N tale che, per ogni n > N , e − ε < (1 + 1/n)n < e + ε ovvero, se si
preferisce, la distanza di (1 + 1/n)n da e è minore di ε.
Si potrebbe essere tentati di proporre il ragionamento seguente: se si deve avere
e − ε < (1 + 1/n)n < e + ε allora si deve anche avere
n+1
=
loge (e − ε) < loge (1 + 1/n) = n loge (1 + 1/n) = n loge
n
n[loge (n + 1) − loge (n)] < loge (e + ε)
n
Ma arrivati a questo punto ci si blocca. Senza contare il fatto che usiamo con disinvoltura
i logaritmi in base e e le loro proprietà solo per il fatto che ci ricordiamo di averle viste
nelle scuole superiori, ma in realtà senza sapere che cosa è il numero e e forse nemmeno
che cosa è il logaritmo. Occorre percorrere un’altra via, peraltro molto più interessante
e istruttiva (proposta ad esempio nel trattato di Analisi matematica di Tricomi).
Riprendiamo in esame i numeri en = (1 + 1/n)n = ((n + 1)/n)n ; questi formano
una successione, cioè una collezione di numeri in corrispondenza biunivoca con i numeri
interi da 1 in poi:
e1 = 2, e2 = (3/2)2 , e3 = (4/3)3 , . . . , en = (1 + 1/n)n , en+1 = [1 + 1/(n + 1)]n+1 , . . .
38
Dai primi valori si può congetturare che ogni numero della successione sia più piccolo di
quello che lo segue:
e1 = 2 < e2 = (3/2)2 = 9/4 < e3 = (4/3)3 = 64/27
Proviamo a vedere se per caso questo non sia vero per ogni numero n ≥ 1. Si osservi
allora che si può anche scrivere
en = [(n + 1)/n]n
Quindi si ha:
n + 2 n+1
1
= n+
=
n+1
n
n+1
n
n+1
en+1
en
!n+1
(n + 1)2 − 1
(n + 1)2
n+1−1
n+1
=
!n+1
(n + 1)2 − 1
(n + 1)2
1
1−
n+1
!n+1
=
1
1−
(n + 1)2
1
1−
n+1
(Si noti che n(n +2) = n2 +2n +1 − 1 = (n +1)2 − 1). Ora applichiamo la diseguaglianza
di Bernoulli (già discussa come formula che si prova per induzione) con x = −1/(n + 1)2
e otteniamo
!n+1
1
n+1
1
1−
>1−
=1−
2
2
(n + 1)
(n + 1)
n+1
che è esattamente la diseguaglianza en+1 > en .
Il passo successivo consiste nel provare che en = (1 + 1/n)n è un numero compreso
sempre fra 2 e 3. Per fare questo consideriamo i soli numeri (e6 , e12 , e18 , . . . , e6m , . . .),
cioè quelli con indice multiplo di 6. Si noti che si ha:
1
e6m
=
6m
6m + 1
m 6
1
1−
6m + 1
=
m 6
Se si applica la solita utilissima diseguaglianza di Bernoulli con x = −1/(6m + 1) si
ottiene
6
1
m
5m + 1 6
> 1−
=
e6m
6m + 1
6m + 1
Perciò si ha:
6
6m + 1 6
6
e6m <
<
< 2,986 < 3
5m + 1
5
Prendiamo ora un elemento en qualsiasi e sia m un intero tale che n < 6m (si usi il
principio di Archimede). Allora si ha: en < e6m < 3, cioè ogni elemento della successione
è minore di 3.
39
A questo punto applichiamo il principio dell’estremo superiore: l’insieme E dei numeri en = (1 + 1/n)n ammette 3 come confine superiore e quindi ha estremo superiore,
che chiameremo e. Vogliamo ora provare che tale numero è il limite della successione.
Prendiamo un numero ε positivo arbitrario e cerchiamo un intero N tale che per ogni
n > N si abbia e − ε < en < e + ε. Ma il numero e − ε non è un confine superiore di
E, e quindi esiste un indice N , tale che e − ε < eN . Ma se n > N , ogni elemento en è
maggiore di eN e quindi si ha:
e − ε < eN < e (= estremo superiore) < e + ε
E questo è esattamente ciò che dovevamo dimostrare.
Si tratta di un esempio particolarmente interessante e significativo, in quanto si
riesce a vedere che il limite esiste, pur senza calcolarlo esattamente, grazie alla proprietà
dell’estremo superiore.
Se poi si vuole una rappresentazione decimale di e occorrono ragionamenti più raffinati. Non è difficile far vedere che ogni en , a partire da un certo intero n, è maggiore
di 2,71 e minore di 2,72, ma già la terza cifra decimale richiede qualche sforzo ulteriore.
In realtà i matematici sono in grado di calcolare migliaia di cifre anzi qualsiasi cifra si
desideri, ma a costo di calcoli che potrebbero richiedere anni, o secoli, o millenni (anche
con un computer).
8
Ancora limiti.
Abbiamo visto i limiti delle successioni per n tendente all’infinito. Si possono però
considerare anche limiti di tipo diverso.
8.1
La velocità.
Se percorriamo in auto l’autostrada Torino – Milano, che ha una lunghezza di circa 130
chilometri, e viaggiamo per un’ora, possiamo dire che la nostra velocità è di 130 km/h.
Ma un esame più attento potrebbe farci vedere le cose in modo diverso. Può capitare
che nei primi 66 chilometri la velocità sia di 180 km/h (anche se vietato), ma che poi ci
siano rallentamenti. Quale sarà la velocità di percorrenza dei secondi 64 chilometri?
Prima di tutto occorre stabilire in quanto tempo vengono percorsi i primi 66 chilometri. Poiché la velocità è di 180 chilometri in un’ora, cioè di 3 chilometri ogni minuto, 66
chilometri vengono percorsi in 22 minuti. Siccome in totale si impiega un’ora, i secondi
64 chilometri si percorrono in 38 minuti. Quindi abbiamo 64 chilometri e 38 minuti.
Qual è la velocità, che viene espressa in chilometri all’ora? In un minuto si percorreranno
64/38 chilometri e in un’ora (64/38) × 60 chilometri, cioè 101,05 chilometri. La velocità
nel secondo tratto è dunque di 101,05 km/h. È quindi impreciso dire che la velocità
è di 130 km/h, questa è solo la velocità media. È ancora più impreciso (e inadatto a
descrivere che cosa avviene sulla strada) se la velocità cambia molte volte: 140 km/h nei
primi 3 chilometri, 125 km/h nei successivi 35, . . . È molto più valida una descrizione
diversa della velocità: dividiamo il tratto di autostrada in tratti molto corti, magari di
40
un chilometro ciascuno, oppure di 100 metri, e vediamo che cosa avviene in ciascuno.
Possiamo spingerci oltre e dividere in tratti di 1 metro, 1 centimetro, 1 millimetro e fare
un ragionamento simile a quello che ci ha portati al numero e e all’interesse istante per
istante: troveremo la velocità istante per istante.
Supponiamo dunque di fissare un istante t0 , compreso fra l’istante iniziale 0, in cui
si inizia il viaggio e quello finale, dopo un’ora di viaggio. Vogliamo cercare di dare un
senso al concetto di velocità all’istante t0 . Prendiamo allora un intervallo di tempo che
chiameremo ∆t, di estremi t0 e t, e calcoliamo lo spazio percorso in questo intervallo di
tempo. Se al tempo t0 abbiamo percorso lo spazio s0 e al tempo t abbiamo percorso lo
spazio s, lo spazio percorso fra i due tempi è ∆s = s − s0 . Quindi la velocità (media) è
pari allo spazio percorso diviso per il tempo impiegato: velocità v = ∆s/∆t.
Se vogliamo calcolare la velocità all’istante t0 occorre restringere l’intervallo ∆t successivamente, facendolo avvicinare a 0. Purtroppo però questa espressione è un po’ vaga
e va precisata. Noi diremo che la velocità v0 all’istante t0 è il limite per t tendente a
t0 della velocità al tempo t, cioè v(t) = ∆s/∆t. Questo significa che, preso un numero
positivo ε arbitrario, è possibile trovare un numero positivo δ tale che, se 0 6= |∆t| < δ,
allora |∆s/∆t − v0 | < ε. In parole povere possiamo rendere ∆s/∆t vicino quanto vogliamo a v0 pur di ridurre abbastanza la lunghezza dell’intervallo di tempo nel quale
calcoliamo la velocità (si noti che ∆t deve essere 6= 0, in quanto si trova al denominatore
di una frazione).Scriveremo:
∆s
= v0
lim
t→t0 ∆t
Supponiamo di essere muniti di un contachilometri e di un orologio e quindi di
poter valutare la spazio percorso allo scorrere del tempo. Ad esempio supponiamo che
lo spazio in chilometri percorso dall’auto vari col tempo (in ore) secondo la legge (o
funzione) seguente:
s(t) = 120t2 .
Ciò vuol dire che
dopo
dopo
dopo
dopo
t = 1 minuto = 1/60 di ora si sono percorsi 120/602 = 12/360 = 0,03333 . . . km
t = 10 minuti = 1/6 di ora si sono percorsi 120/36 = 3,3333 . . . km
t = 20 minuti = 1/3 di ora si sono percorsi 120/9 = 13,3333 . . . km
t = 1 ora si sono percorsi 120 km . . .
Quale sarà la velocità all’istante t0 = 15 minuti (= 1 quarto d’ora)?
Dobbiamo calcolare il seguente limite:
120(0,25 + ∆t)2 − 120(0,25)2
120(∆t)2 + 60∆t
lim
= lim
= lim (120∆t + 60)
∆t→0
∆t→0
∆t→0
∆t
∆t
Vogliamo dimostrare che si ottiene una velocità di 60 km/h. Per vedere questo fatto
occorre fissare un numero positivo arbitrario ε e cercare un numero positivo δ tale che,
se 0 6= |∆t| < δ, allora 60 − ε < 120∆t + 60 < 60 + ε , cioè −ε < 120∆t < ε; è chiaro
che se |∆t| < ε/120 , cioè −ε/120 < ∆t < ε/120, otteniamo le diseguaglianze richieste.
Quindi basta scegliere δ = ε/120.
41
Ad esempio, se ε = 0,01, occorrerà scegliere δ = 0,01/120, mentre ε = 0,0001 darà
luogo alla scelta δ = 0,0001/120.
8.2
Velocità e derivate.
La velocità istante per istante si ottiene calcolando la velocità media fra l’istante t e
l’istante t + ∆t, che è il quoziente fra due quantità
• lo spazio percorso al tempo t + ∆t meno lo spazio percorso al tempo t,
• l’intervallo di tempo trascorso, cioè ∆t.
Quindi si calcola il limite della velocità media quando l’intervallo di tempo tende a 0.
Se lo spazio percorso al tempo t è una funzione s(t) del tempo t, diciamo che la velocità
è la derivata dello spazio s(t) rispetto al tempo t. Quindi la derivata è un particolare
caso di limite.
Per qualsiasi funzione che dipenda da una variabile t (tempo o altro) si può definire la
derivata. Se s(t) è una funzione di t, nel senso che per ogni valore di t resta individuato
un ben preciso valore di s(t), si definisce la derivata di s(t) come
s((t + ∆t) − s(t)
∆t→0
∆t
lim
Ciò ha senso anche se non si tratta di spazi percorsi e di velocità. Si consideri ad
esempio la funzione che ad ogni istante t associa la quantità v(t) = velocità di un’auto
(aereo, nave, bicicletta,..) in quell’istante. Allora anche v(t) ha una derivata, che si
chiama accelerazione.
8.3
et e la sua derivata.
C’è una derivata che è particolarmente interessante, quella della funzione che ad ogni
numero t associa il numero et . Noi sappiamo che cosa significa 2t , se t è un numero intero
o anche razionale, e anche 2,7t , o 2,71t , . . . Possiamo quindi dare un senso a et considerando le successive approssimazioni decimali
√ di e elevate alle successive approssimazioni
decimali del numero reale t. Ad esempio e 2 si può approssimare mediante
2
2,71,4
2,711,41
···
Con un po’ di fatica si può√poi passare a considerare una sezione di Dedekind e avere
una corretta definizione di e 2 e, con la stessa tecnica, di et . Non è alla portata di questo
testo, ma si può dimostrare che la derivata di et coincide con et stessa, cioè si ha:
et+∆t − et
lim
= et
∆t→0
∆t
42
È anche possibile dimostrare che la derivata della funzione beat , dove a, b sono due
qualsiasi numeri reali, coincide con baeat . Ad esempio, la derivata di e3t è 3e3t , la derivata
di 5e3t è 15e3t .
Ed ecco un’applicazione interessante di questa proprietà dell’esponenziale et .
8.4
Derivate, numero e, radioattività.
Il decadimento radioattivo è un processo di emissione di particelle da parte di alcuni
nuclei atomici non stabili, che ha come risultato di raggiungere uno stato di stabilità.
Ogni atomo contiene un nucleo formato da
• protoni, con carica elettrica positiva
• neutroni, privi di carica elettrica.
Contiene inoltre elettroni carichi negativamente.
I protoni tenderebbero a respingersi, in quanto hanno la stessa carica positiva, ma
sono tenuti insieme da una forza, detta forza nucleare forte. In certi casi il nucleo è
instabile, perché la forza nucleare forte e quella di repulsione non sono in equilibrio.
Allora il nucleo tende ad emettere particelle, che possono produrre perdita di energia o
anche modificazioni chimiche dell’elemento. Gli elementi radioattivi furono scoperti e
studiati oltre un secolo fa da Becquerel e dai coniugi Curie. Fra gli elementi radioattivi
ci sono, ad esempio, l’uranio, il plutonio, il tecnezio, lo iodio, il cesio, questi ultimi ben
noti dopo il disastro di Chernobil.
Quanti atomi decadono in ogni intervallo di tempo? La questione è piuttosto interessante perché ci dice quando l’emissione di particelle (o raggi) cessa, o almeno diventa
molto modesta. In particolare è di estremo interesse sapere quando una data quantità
di sostanza radioattiva si dimezza, perché dopo due dimezzamenti diventa un quarto,
dopo tre diventa un ottavo, . . . , dopo dieci dimezzamenti diventa circa un millesimo di
quella presente all’origine. Se il tempo in cui si dimezza è di 24.000 anni, come nel caso
del plutonio, forse è meglio non saperlo. Ma se si tratta di tecnezio, che si dimezza in
sei ore, o di iodio 131, che si dimezza in otto giorni, si può capire che la riduzione a
un millesimo avviene in due giorni e mezzo per l’uno e in due mesi e mezzo per l’altro
(perché?).
Ebbene, per via sperimentale si è potuto stabilire che il numero di decadimenti, cioè
di emissioni di particelle, che avvengono in un intervallo di tempo ∆t è proporzionale al
numero di atomi presenti e anche all’intervallo di tempo. Se il numero di atomi presenti
è la funzione N (t) del tempo t, allora la variazione del numero di atomi nell’intervallo di
tempo ∆t è N (t + ∆t) − N (t) = −λN (t)∆t dove il fattore di proporzionalità, indicato
con −λ, è una quantità negativa perché la quantità di sostanza radioattiva diminuisce.
Allora possiamo scrivere
N (t + ∆t) − N (t)
= −λN (t)
∆t
e passando al limite per ∆t tendente a 0, possiamo concludere che la derivata N 0 (t) è
proporzionale a −λN (t):
N 0 (t) = −λN (t).
43
Ma noi conosciamo una funzione la cui derivata è proporzionale alla funzione stessa:
N (t) = N0 e−λt ,
dove N0 è il numero di atomi presenti al tempo t = 0. Quindi possiamo descrivere il
decadimento radioattivo con una funzione matematica, grazie all’esistenza del numero e.
La conoscenza della quantità λ, che si calcola attraverso esperimenti per ogni elemento
radioattivo, ci permette di stabilire quanto ci vuole perché lo iodio o il cesio o il plutonio
si dimezzi. Basta in effetti risolvere l’equazione
N0 e−λt = 0,5N0
che ha come soluzione t = (loge 2)/λ.
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