13. Crescita e limiti dell`economia statunitense (1938-2009)

Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009)
13. Crescita e limiti dell’economia statunitense
(1938-2009)
13.1
La dinamica della popolazione (1940-2008)
Tra il 1946 e gli ultimi anni Cinquanta, negli USA si verificò un autentico baby boom
dovuto alla combinazione di alcune condizioni molto particolari quali:
a) il ricongiungimento delle coppie lungamente separate dalla guerra;
b) la celebrazione di numerosi matrimoni dovuti a una congiuntura economica
favorevole a un netto miglioramento degli standard di vita;
c) un calo della mortalità infantile, collegato a un miglioramento della qualità della vita
della popolazione meno abbiente.
Nel censimento del 1940 i bambini di età inferiore ai cinque anni erano 10,5 milioni
(8% della popolazione). Vent’anni dopo, nel 1960, erano quasi raddoppiati (20,3
milioni), costituendo l’11.3%.
Tabella 13.1 Dinamica della popolazione secondo i censimenti decennali
(1940-2008)
Anni
Popolazione (milioni)
Indici
Indici a catena
1940
132,6
100
1950
152,3
114,8
114,8
1960
180,7
136,3
118,6
1970
205,0
154,6
113,4
1980
227,7
171,7
111,0
1990
250,1
188,6
109,8
2000
282,1
212,7
112,8
2008
304,2
229,4
109,7**
Fonte: A. Maddison in http://ggdc.net/maddison. ** Indice calcolato su base decennale
Nel periodo 1940-2008, la popolazione di nessuno dei paesi economicamente più
avanzati ha avuto una crescita demografica paragonabile a quella statunitense (+
1
L’Europa verso il mercato globale
129,2%). Gli abitanti del Giappone (+ 74,6%) sono stati i più dinamici, seguiti dai
francesi (+ 56%), dagli italiani (+ 31,1%), dagli inglesi (+ 26,3%) e, infine, a grande
distanza, dai tedeschi (+ 18%), cresciuti di circa un settimo rispetto agli americani.
L’accelerazione statunitense di fine XX secolo, dopo un trentennio di progressivo
declino del ritmo di aumento, si spiega con una ripresa dell’immigrazione – soprattutto
dal Messico e dai Caraibi – dopo un sessantennio di ermetica chiusura agli stranieri.
Negli Usa, oggi, gli immigrati rappresentano circa il 15% della popolazione attiva e la
loro costante crescita influenza i livelli dei salari, mantenendoli stabili o addirittura
riducendoli. Un terzo dei nuovi venuti manca del diploma di scuola secondaria sicché,
negli ultimi trent’anni, la manodopera poco istruita è cresciuta, mentre quella colta e
specializzata è divenuta relativamente rara. La bassa età media (26 anni nel 2000) degli
ispanici e la loro alta natalità inducono a ipotizzare che nel 2025 saranno un quarto di
tutta la popolazione del Paese e che, nel 2050, arriveranno a costituirne un terzo.
In sessantotto anni, dunque, non solo gli americani sono più che raddoppiati (+
129,2%), ma si sono anche distribuiti diversamente nelle nove regioni del Paese
cambiandone la fisionomia demografica. Il fattore dominante della rinnovata geografia
umana statunitense è dato dalla ricerca di un lavoro presso imprese che, dagli anni
Ottanta in avanti, aprirono reparti e nuove sedi lontano dai luoghi originari
ottocenteschi e primo novecenteschi dell’industrializzazione.
I dati riuniti nella tabella 13.2 danno conto tanto della dinamica generale e particolare
della popolazione, quanto del mutato peso relativo delle nove macroregioni del grande
paese, in stretta relazione con il progredire o il regredire delle attività economiche che
vi si svolgono. Sull’arco di sessantasei anni, quattro macroregioni (vedi carta degli Stati
Uniti) in ordine progressivo: South Atlantic (la costa affacciata sull’Atlantico da
Washington a Miami); West South Central (Kentucky, Tennessee, Alabama,
Mississippi, Arkansas, Luisiana, Oklahoma, Texas); Mountain (Montana, Idaho,
Wyoming, Colorado, New Mexico, Arizona, Utah, Nevada) e Pacific (Washington,
Oregon, California, Alaska, Hawaii), ma specialmente le ultime due, crebbero a ritmi
assai più sostenuti delle altre. Fino agli anni Cinquanta, i maggiori centri urbani del
2
Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009)
Paese erano concentrati nel Nordest e nel Midwest e la gerarchia urbana era dominata
da New York, Chicago e Philadelphia.
Tabella 13.2 Popolazione a quattro epoche, valori assoluti in milioni, indici
di aumento % rispetto al 1940, peso % relativo di ogni regione
Regioni
1940 indice
1. New England
peso%
1960 indice
peso%
1980 indice
peso%
2006 indice
peso%
8,4
100
6,4
10,5 125
5,9
12,3 146
5,6
14,2 169
4,7
2. Middle Atlantic
27,5
100
20,9
34,2 124
19,1
36,8 134
16,9
40,4 147
13,4
3. South Atlantic
17,8
100
13,5
25,9 145
14,5
34,6 194
15,8
57,8 325
19,2
4. East North Central
26,6
100
20,2
36,2 136
20,2
41,2 155
18,9
46,3 174
15,4
5.West North Central
13,5
100
10,3
15,4 114
8,6
17,0 126
7,8
20,0 148
6,6
6. East South Central
10,8
100
8,2
12,0 111
6,7
14,0 130
6,4
17,9 166
5,9
7. West South Central
13,1
100
9,9
16,9 129
9,4
22,0 168
10,1
34,6 264
11,5
8. Mountain
4,2
100
3,2
162
3,8
10,5 250
4,8
21,4 509
7,1
9. Pacific
9,7
100
7,4
21,2 218
11,8
29,8 307
13,7
48,7 502
16,2
Totali
131,6 100
100
6,8
179,1 136
100
218,2 168
100
301,3 229
Fonti: Calendario Atlante De Agostini, Novara, Anni: 1948, 1962, 1983 e 2009, alla voce Stati
Uniti, Popolazione. I totali differiscono da quelli della tabella 13.1, senza tuttavia pregiudicare i
pesi relativi di ogni regione.
Tra gli anni Sessanta e Settanta, una crescente porzione di quella popolazione cominciò
ad allontanarsi dalle grandi metropoli per insediarsi nei suburbi o in altri stati, così
abbattendo la base fiscale imponibile delle amministrazioni cittadine e mettendone in
crisi i bilanci1. Dagli ultimi anni Settanta, stati e contee del Sud e dell’Ovest
investirono risorse per sostenere le economie locali e le università fecero altrettanto per
incoraggiare l’alta formazione e lo sviluppo di professioni specialistiche. Nel lungo
andare, gli stanziamenti per incoraggiare le imprese a trasferirsi o impiantarsi nelle città
e negli stati periferici premiarono il Sud e l’Ovest, anche perché le imposte locali erano
basse e i vincoli ambientali più permissivi. Alla fine del Novecento, nove delle quindici
maggiori città del paese si sono sviluppate nella vasta zona che si estende da Phoenix in
Arizona e Jacksonville in Florida, a Huston, Dallas e San Antonio nel Texas, fino alla
1
nel 1975 il comune di New York rischiò di fallire.
3
100
L’Europa verso il mercato globale
costa del Pacifico (Los Angeles, San Diego, San José e San Francisco in California).
Le maggiori città sono ormai diventate consolidated metropolitan areas ad alta densità
d’abitanti, affollate da una popolazione dispersa in vasti arcipelaghi di suburbi.
Tabella 13.3 Principali città, 1950-2000, popolazione in milioni
(e gerarchia)
1950
7.9
(1)
3.6
(2)
2.1
(3)
2.0
(4)
1.9
(5)
0.95 (6)
0.91 (7)
0.86 (8)
0.80 (9)
0.80 (10)
0.78 (11)
0.67 (12)
New York
Chicago
Philadelphia
Los Angeles
Detroit
Baltimore
Cleveland
St Louis
Washington DC
Boston
San Francisco
Pittsburg
2000
8.0
(1)
2.9
(3)
1.5
(5)
3.7
(2)
0.95 (10)
0,65 (17)
0.48 (33)
0.35 (49)
0.57 (21)
0.59 (20)
0.77 (13)
0.34 (53)
Fonte: Ph. Jenkins, A History of the United States. Third Edition, New York 2007, p. 252
4
Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009)
13.2
I durevoli effetti istituzionali del New Deal
Durante il quinquennio 1933-38, per fronteggiare le emergenze economiche e sociali
nei maggiori settori d’intervento (lavori pubblici, agricoltura, credito, assicurazioni,
comunicazioni, RELAZIONI INDUSTRIALI, sicurezza sociale, casa, e altri ancora), il
presidente Roosevelt attivò ventuno agenzie governative maggiori e molte altre
minori, cambiando radicalmente le funzioni e la percezione dello Stato federale, fino
allora in sostanza assente sul piano politico amministrativo ed economico.
Tabella 13.4 Principali Agenzie federali del New Deal, 1933-38
1933 National Recovery
Federal Deposit Insurance
National Youth
Administr.
Corp.
Administration
Civilian Conservation Corps
Federal Emergency Relief
National Labor Relations
Admin.
Board
Home Owners Loan
Social Security Board
Tennessee Valley Auctority
Corporation
Agricoltural Adjustement
1934 Federal Housing
Rural Electrification
Administr.
Administration
Administration
Public Works Administration
Securities and Exchange
1937 Farm Security
Commission
Administration
Federal Communications
United States Housing
Commiss.
Authority
1935 Works Progress
1938 Federal Crop Insurance
Administration
Corp.
Commodity Credit Corporation
Farm Credit Administration
Fonte: Ph. Jenkins, A History of the United States. Third Edition, New York 2007, p. 218
In pochi anni (1933-38), Washington concentrò un grande potere d’intervento
nell’economia e nella società e le dimensioni dell’amministrazione pubblica centrale
esplosero. Il New Deal fu anzitutto una rivoluzione della pubblica amministrazione che
integrò secondo metodi meritocratici competenze e funzioni prima sconosciute e, fra
l’altro, portò alla ribalta anche scienziati e tecnici cattolici ed ebrei. Lo Stato intervenne
nell’economia realizzando grandi opere pubbliche, come l’elettrificazione diffusa
anche lontano dalle città, creando il Welfare State a vantaggio della manodopera senza
5
L’Europa verso il mercato globale
lavoro e riordinando l’agricoltura con l’Agricoltural Adjustement Act. Negli anni
Trenta, la spesa del governo federale arrivò a rappresentare il 6% del PIL.
La grande maggioranza della popolazione appoggiava la politica governativa. La vera
opposizione al New Deal venne dalla Corte Suprema che osteggiò ogni limitazione dei
diritti di proprietà privata e delle obbligazioni liberamente stipulate. Un concetto
quest’ultimo esteso sino a comprendere ogni norma regolativa delle condizioni di
lavoro.
L’approvazione del National Labor Relation Act (o Wagner Act) fu di fondamentale
importanza per le relazioni industriali. Promosse la razionalizzazione dei settori del
commercio e dell’industria fissando i salari minimi e il tetto massimo delle ore di
lavoro settimanali. Fondò un’agenzia governativa: la National Labor Relations Board
(NLRB), col potere d’organizzare elezioni per permettere ai lavoratori d’esprimere
l’intenzione d’essere rappresentati da un sindacato. In un discorso tenuto al Senato del
maggio 1937 Roosevelt dichiarò: «The right to bargain collectively is at the bottom of
social justice for the worker, as well as the sensible conduct of business affairs. The
denial or observance of this right means the difference between despotism and
democracy».
I sindacalisti dei maggiori settori industriali (miniere, siderurgia, metalmeccanica) si
unirono nel Commitee for Industrial Organisation (CIO), mobilitando gli operai con
scioperi che raccolsero crescenti adesioni. Gli iscritti ai sindacati triplicarono tra il ’33 e
il ’38 e raddoppiarono dal ’38 al ’47. Dopo la guerra, molte imprese pagavano salari
analoghi a quelli patteggiati dai sindacati con le grandi società per evitare che i loro
dipendenti vi s’iscrivessero. Nel 1947, circa 13 milioni di operai e impiegati aderivano
a un sindacato e la collaborazione fra Stato e associazioni sindacali aveva nettamente
migliorato il tenore di vita della manodopera, ma aveva anche alimentato nei
conservatori l’idea che, dall’estero, si preparasse una «rivoluzione comunista».
Tra il ’49 e il ’50, la bomba atomica dei russi, la vittoria di Mao Zedong nella guerra
civile in Cina e lo scoppio della guerra di Corea accentuarono l’idea sempre più diffusa
di una minacciosa crescita del comunismo. La risposta dell’America più conservatrice
6
Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009)
fu una purga anticomunista che sarebbe durata fino al 1956, divenuta celebre come
«Maccartismo», avendo come protagonista politico l’oscuro senatore repubblicano del
Wisconsin Joseph McCarthy, che avviò la sua caccia alle streghe da una lista di 205
impiegati del Dipartimento di Stato accusati di comunismo.
In breve, la presa sull’immaginario collettivo americano divenne enorme e governo e
investigatori privati arrivarono a devastare la vita quotidiana di migliaia d’impiegati
pubblici, di docenti e di membri delle associazioni più diverse, compresi i sindacati.
Molti imprenditori assoldarono poliziotti privati per scoprire se tra i loro dipendenti ci
fossero comunisti. Anche i sindacati più battaglieri furono sospettati di comunismo e,
in un clima di crescente paranoia, McCarthy descrisse il conflitto come un confronto
all’ultimo sangue tra l’ateismo comunista e la civiltà cristiana. Il senatore del
Wisconsin uscì di scena nel dicembre del ’54, condannato dal Senato per iniziativa del
presidente repubblicano D. Eisenhower.
Lo stato federale degli anni Cinquanta, anche a causa della mobilitazione per la guerra
di Corea, ma soprattutto per fronteggiare la Guerra Fredda contro l’URSS, ampliò
ulteriormente i ruoli del personale. Nel 1940 Washington impiegava 1,1 milioni di
persone e 3,4 milioni lavoravano per i singoli stati e le comunità locali. Nel 1960 gli
uni sommati agli altri erano arrivati a essere 8,8 milioni e divennero addirittura 15
milioni alla metà degli anni Settanta, pari al 7% della popolazione. Alla moltiplicazione
dei dipendenti pubblici (+ 233% in 35 anni) concorse anche un aumento delle forze
armate (2,5 milioni nel 1960), che non sarebbero mai scese sotto i due milioni fino al
1990.
Nel 1965, nell’ambito del miglioramento della sicurezza sociale (Social Security Act),
il presidente L.B. Johnson fece approvare l’istituzione di «Medicare», un programma
pubblico federale di assistenza che garantì la copertura sanitaria a quasi tutti i cittadini
di almeno 65 anni e ai bambini poveri, privi del sostegno dei genitori, ai disabili, ai non
vedenti. Con la stessa legge, ogni Stato fu tenuto ad attivare un’assistenza integrativa:
«Medicaid» per alcune categorie di poveri. Nel tempo, l’uno e l’altro programma
pubblici sono stati arricchiti di competenze e integrati con i sistemi di copertura
assicurativa privata. Nella sua forma attuale, la sanità statunitense è la più costosa del
7
L’Europa verso il mercato globale
mondo (16% del PIL). Con l’approvazione da parte del Senato (21 dicembre 2009), la
riforma proposta dal presidente Obama garantirà assistenza a 31 milioni di cittadini
privi di copertura e regolerà più equamente i rapporti fra assicurati e assicurazioni
private.
13.3
Integrazione razziale, movimenti giovanili, pacifismo e reazioni politiche
(1940-75)
Tra il 1940 e il 1970, cinque milioni di neri si trasferirono dal Sud a Nord, lasciando il
settore primario, nel quale la meccanizzazione faceva passi da gigante eliminando
manodopera, per trasferirsi nelle città del Nord-Est in cerca di lavoro nell’industria. Il
nodo della segregazione razziale venne al pettine fra il 1957 (Eisenhower mandò le
truppe federali in un liceo di Little Rock, nell’Arkansas, per garantire l’ingresso
impedito dalla Guardia Nazionale locale a nove studenti neri) e il 1964, quando il
parlamento votò il Civil Rights Act che emancipava i neri, e l’anno dopo, quando passò
il Voting Right Act che moltiplicò gli elettori di colore nelle votazioni federali, statali e
locali; leggi entrambe volute dal presidente L.B. Johnson.
Le sentenze dei giudici favorevoli alla de-segregazione e le leggi quadro del 1964 e ’65
imponevano un radicale cambio di mentalità. Uno dei movimenti neri più numerosi di
attivisti era capeggiato dal carismatico giovane pastore evangelico Martin Luther King,
che s’ispirava allo stile non violento di Gandhi. Egli, che aveva un grande seguito
(premio Nobel per la pace nel 1964) e sfidava i movimenti violenti che facevano
guerriglia nei ghetti urbani, fu assassinato a Memphis nel marzo del 1968. Dal 1969, il
presidente R. Nixon promosse la completa integrazione in tutte le scuole del paese,
scavalcando i governatori dei singoli stati e suscitando forti resistenze, specie nel Sud.
Contemporaneamente, i movimenti per l’integrazione dei neri si collegarono con quelli
giovanili che nei campus universitari contestavano le forme di alienazione legate al
dominio del sistema capitalistico che, a loro giudizio, aveva generato una società
interamente dedita alla produzione e al consumo di massa. Neri e giovani universitari
confluirono nel vasto movimento di contestazione alla guerra nel Vietnam che, oltre
8
Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009)
agli afroamericani, coinvolse portoricani, chicanos (immigrati dal Messico), natives,
asiatici, femministe, gay e lesbiche, poveri e pacifisti. Non si dimentichi che, tra il 1964
e il ’75, quando l’ultimo americano lasciò Saigon, nel Vietnam del Sud furono schierati
8,7 milioni di soldati americani e che circa 58.000 di loro non tornarono vivi.
La controcultura giovanile nasceva dal rifiuto dell’autoritarismo, del conservatorismo e
del puritanesimo per fare spazio a pacifismo, egualitarismo e libertà sessuale. Musica
(il rock and roll), uso di droghe psichedeliche, abbigliamento trasandato e provocatorio,
popolarità delle religioni orientali, vita in comunità promiscue furono altrettante forme
di sfida alla fredda razionalità puritana. I figli del baby boom appartenenti alla classe
media, e in genere molto più istruiti dei loro genitori, rifiutarono i modelli della società
benestante dalla quale provenivano.
Il massimo della tensione fu raggiunto fra il 1970, quando le truppe statunitensi
invasero la Cambogia, e il 1971, quando occuparono il Laos. Nei campus universitari
vi furono scioperi e dimostrazioni e ci scapparono anche alcuni morti in scontri con le
forze dell’ordine. La rivolta dei neri - molti dei quali si erano convertiti all’Islam divenne violenta, con centinaia di sommosse in tutto il Paese. Una miscela di processi
fuori controllo colpiva l’immaginazione dell’opinione pubblica e ne induceva la
maggioranza a vedere il futuro con pessimismo. Una guerra nel lontano Oriente era
ormai persa (1975). Le spese militari all’estero non cessavano d’aumentare e quelle per
le forze di polizia statali e federali impegnate nei ghetti neri facevano altrettanto, sicché
i bilanci pubblici erano stabilmente in rosso. Il dollaro perdeva valore rispetto al marco
tedesco e allo jen giapponese e l’inflazione continuava a lievitare. Le grandi imprese
estere acquistavano partecipazioni e controlli d’imprese statunitensi o impiantavano
fabbriche grazie alla caduta di valore della moneta americana. Dal 1973, la crescita dei
prezzi delle materie prime, specie del petrolio, abbatté il potere d’acquisto dei
lavoratori dipendenti statunitensi. Una disoccupazione in aumento dopo decenni di
quasi pieno impiego accentuò un senso collettivo d’insicurezza.
9
L’Europa verso il mercato globale
Tabella 13.5 Presidenti degli Stati Uniti dal 1933
Franklin D. Roosevelt
Harry S. Truman
Dwigth D. Eisenhower
John F. Kennedy
Lyndon B. Johnson
Richard M. Nixon
Gerald F. Ford
James E. Carter
Ronald Reagan
George W. Bush
William J. Clinton
George W. Bush jr.
Barak H. Obama
1933-45
1945-53
1953-61
1961-63
1963-69
1969-74
1974-77
1977-81
1981-89
1989-93
1993-01
2001-08
2008-12
Democratico
Democratico
Repubblicano
Democratico
Democratico
Repubblicano
Repubblicano
Democratico
Repubblicano
Repubblicano
Democratico
Repubblicano
Democratico
La risposta politica al clima di confusione di principi e valori patriottici e di declino
della reputazione di grande potenza, capofila della civiltà occidentale, non si fece
attendere. Il comportamento elettorale dei sempre più numerosi elettori degli stati del
Sud, molti dei quali vi si erano trasferiti per lavoro, si orientò sempre più verso i
repubblicani, a cominciare dalle elezioni dei governatori e delle assemblee legislative.
Se nel 1968 il repubblicano Richard Nixon prevalse di un soffio sul democratico
Hubert Humphrey (31,8 contro 31,2% dei suffragi), quattro anni dopo stravinse
(47,2%) su George McGovern (29,2%), ma non riuscì a completare il suo mandato a
causa dello scandalo politico del Watergate: un abuso di potere da parte della sua
amministrazione, messo in atto per indebolire l’opposizione dei movimenti pacifisti e
del Partito Democratico. Gli effetti dello scandalo permisero al democratico Jimmy
Carter (40,8%) di prevalere seppur di poco su Gerald Ford (39,2) che non fu rieletto.
13.4
La dinamica economica nel lungo andare (1938-1975)
Dalla vigilia della seconda guerra mondiale ai giorni nostri, l’economia statunitense ha
attraversato quattro cicli distinti – due brevi e due lunghi - e si trova oggi alle prese con
una crisi di enorme portata iniziata nel 2007. I primi due cicli (l’uno breve 1938-47 e
l’altro lungo 1948-75) si svolsero all’insegna di tassi di sviluppo economico prima
d'allora e fino a oggi insuperati negli USA. Il terzo ciclo (1975-1988), annunciato da
10
Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009)
decisi rialzi dei prezzi internazionali delle materie prime – il petrolio principalmente –
causando ristagno produttivo, disoccupazione e inflazione (stagflazione, cioè
stagnazione + inflazione), comportò gravi deficit della bilancia commerciale e dei conti
pubblici e si chiuse con una severa crisi di borsa (1987-88).
Il quarto (1988-2007) ha coinciso con l’avvio di una profonda trasformazione degli
assetti economici e sociali del maggior paese occidentale. Mentre la Guerra Fredda, già
attenuata da accordi di limitazione delle armi nucleari (1970), svaniva per l’implosione
dell’URSS (1989-91), gli Stati Uniti smisero di essere il principale creditore
dell’economia mondiale per trasformarsi nel giro di pochi anni nel maggior debitore
(13.703 miliardi di $ nel giugno 2008). Dal 2007 una crisi economica di portata globale
è esplosa nel mondo creditizio e finanziario statunitense, trasmettendosi dalle banche
alle borse e, da queste, all’economia reale interna ed estera, con tragici effetti
sull’impiego dei fattori, a cominciare dal lavoro (precariato e disoccupazione), e sulla
distribuzione sempre più diseguale del minor reddito prodotto (caduta della domanda,
indebitamenti, fallimenti).
(Billions of Chained 2005 Dollars)
Real Gross Domestic Product (GDPCA)
14,000
12,000
10,000
8,000
6,000
4,000
2,000
0
1920
1930
1940
1950
1960
1970
1980
1990
Shared areas indicate US recessions.
2009 research.stlouisfed.org
Source: US Department of Commerce: Bureau of Economic Analysis
11
2000
2010
L’Europa verso il mercato globale
Il primo ciclo (1938-1947) coincise con un decennio di grande sviluppo. Il PIL
crebbe al ritmo medio del + 6,6% annuo. Il principale motore della domanda fu il
governo federale che continuò a finanziare sia le politiche economiche del New Deal
(1933-44), sia quel poderoso sforzo che, tra il ’41 e il ’45, fece degli USA un
gigantesco cantiere straordinariamente efficiente. Grazie a un eccezionale sforzo
produttivo, gli USA approvvigionarono di materiale bellico anche le potenze alleate
in guerra contro Germania, Italia e Giappone. La spesa federale ammontò a poco più
di 100 miliardi di dollari in cinque anni e gli effetti sull’economia del paese furono
impressionanti. Verso il 1945, il PIL era cresciuto in termini reali del 70% rispetto al
1939, cancellando la disoccupazione.
Nel 1946, il primo anno di pace, vi fu una caduta del 10% del PIL. Le politiche
economiche e sociali dei presidenti democratici Roosevelt (1933-1944) e Truman
(1945-52) promossero una spettacolare redistribuzione della ricchezza verso il basso,
che rese la società americana molto più egualitaria di quanto fosse mai stata. Una
sostenuta crescita dei salari, inaugurata durante la guerra, permise a decine di milioni
di americani dei quartieri periferici urbani e delle campagne povere di vivere in
condizioni economiche decenti.
La grande ricchezza concentratasi fra i primi del Novecento e l’autunno del ’29 nelle
mani di alcune decine di famiglie opulente, dalla fine degli anni ’20 era stata
sottoposta a un’energica cura dimagrante:
•
il crollo di Wall Street aveva tagliato i patrimoni finanziari. Nel 1929 il 70%
dei dividendi distribuiti prima della crisi dalle società quotate era stato
incassato dall’1% degli azionisti;
•
un’imposta federale progressiva sul reddito, votata durante il primo mandato
di Roosevelt, portò la morsa del prelievo sui redditi individuali al 63% e poi
addirittura al 79%;
•
l’inasprimento delle imposte di successione ridusse considerevolmente i
patrimoni ereditati.
Con l’attenuarsi della crisi e l’avvio di un rapido sviluppo, dal 1941 la politica
economica di forte spesa statale guadagnò un crescente consenso anche presso
12
Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009)
l’elettorato repubblicano. L’attivazione di un fondo pensione per i pubblici
dipendenti e l’assicurazione contro la disoccupazione divennero norme irrevocabili.
Anche i sindacati erano ormai una realtà accettata nell’economia della nazione.
Dal 1947 cominciò a diffondersi la costruzione di piccole case indipendenti nelle
lontane periferie dei centri abitati, dove stavano aprendo le catene di supermarket e
cresceva e prosperava un ceto medio prima inesistente, fatto di lavoratori dipendenti
manuali e intellettuali, i cui salari erano così alti da permetter loro di esonerare le
mogli dal lavoro fuori di casa. Per di più, l’abitare in periferia supponeva che ogni
menage possedesse almeno un’automobile. I consumi delle famiglie divennero la
quota maggiore della domanda aggregata. Un radicale capovolgimento, insomma,
stava spostando verso il basso il fulcro dell’economia.
Gli anni d’oro dell’economia americana (1948-1973) coincisero con lo sviluppo
dell’Europa occidentale e del Giappone. Nel biennio 1948-49, mentre di qua
dall’Atlantico cominciava a funzionare il piano Marshall (vedi addietro p. 211), le
grandi imprese industriali e di grande distribuzione statunitensi completarono il
ritorno a un’economia civile facendo degli Stati Uniti la locomotiva dell’economia
mondiale e favorendo nei paesi dell’Europa occidentale uno sviluppo economico
impensabile nell’immediato dopoguerra. Anche la cultura americana si riversò
all’estero. Nei paesi del blocco occidentale la tecnologia, le tecniche gestionali e
produttive e i modelli di consumo furono statunitensi.
La crescita economica degli USA (in media + 2,4% annuo del PIL, Tab. 9.3, pag.
218) si spiega con un costante aumento della produttività (+ 3% medio annuo dal
1937 al 1973) e dell’impiego del fattore lavoro. I 54 milioni di posti di lavoro
esistenti nel ’45 divennero 63 (+ 16.6%) nel 1950. In breve tempo, l’accumulo di
tecnologie e d’innovazioni produttive derivate dalla ricerca e sviluppo (R&S)
collegata alla guerra si diffuse nell’industria nazionale e, di là, rimbalzò anche
all’estero in Europa occidentale e in Giappone. Le large corporations USA
ampliarono i loro centri di ricerca con personale d’alta professionalità, realizzando un
salto di scala dopo il 1945. Nel 1940 impiegavano circa 80.000 ricercatori, nel 1960
13
L’Europa verso il mercato globale
erano decuplicati e divennero addirittura 1,5 milioni nel 1970. L’agenzia antitrust,
nell’impedire rigorosamente la collusione fra large corporations per il controllo del
mercato le costrinse a muoversi isolatamente, puntando sui rispettivi centri di ricerca
scientifica e sulla collaborazione con dipartimenti e laboratori universitari. In tal
modo, favorì anche una circolazione di cervelli, che sempre più numerosi uscivano
dalle università e arrivavano già formati dall’estero.
Nei secondi anni Quaranta e nei Cinquanta, mentre l’inflazione abbatteva di un terzo
il potere d’acquisto del dollaro, maturò un generale consenso sugli strumenti di
politica economica da utilizzare per cercare di correggere il comportamento globale
del sistema economico. Il primo consisteva nei controlli della massa monetaria
affidati alla FEDERAL RESERVE. Allargando o restringendo la mole delle riserve
obbligatorie che le banche dovevano accantonare a garanzia dei depositi della
clientela, la banca centrale incoraggiava o scoraggiava il credito: la matrice
d’investimenti e consumi. Inoltre, comprando o vendendo titoli del debito pubblico,
la FED aumentava o diminuiva l’offerta di moneta.
Il secondo strumento di politica economica era la manovra sulle aliquote di prelievo
fiscale.
Aumentando
o
diminuendo
le
imposte
sui
redditi
personali,
l’amministrazione poteva frenare o incoraggiare la domanda. Il terzo strumento di
controllo e correzione dell’economia nazionale era la manovra di bilancio federale.
Ormai tramontato il mito del pareggio tra entrate e uscite, economisti accademici e
imprenditori vedevano nel bilancio statale uno strumento per regolare la spesa interna
aggregata. In tempi d’inflazione, un eccedit di bilancio avrebbe attenuato la spinta
inflativa. Per contro, un deficit di bilancio (coperto con prestiti) era in grado di
contrastare una congiuntura deflativa (ristagno o calo della domanda e dei prezzi).
Non la teoria, dunque, ma piuttosto le dinamiche economiche reali del sistema di
mercato definirono i nuovi mezzi d’intervento statale.
Dal 1949 al ’61, complice la guerra di Corea (1950-53) e il lancio del satellite russo
Sputnik (1957), che rivelò la superiorità dell’URSS nel campo dei missili a
lunghissima gittata, per l’80% le risorse federali per la ricerca furono impiegate nel
comparto difensivo. Dal 1961 al ’65 (presidenti i democratici J.F. Kennedy e L.B.
14
Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009)
Johnson) le spese in armamenti precipitarono al 50%, comprese le risorse destinate al
settore spaziale (NASA), e a quel livello rimasero fino al 1981. Investimenti
crescenti in ricerca civile, assieme a un continuo ampliamento degli impianti,
accrebbero la produttività del lavoro e abbatterono la disoccupazione maschile,
realizzando condizioni vicine al pieno impiego della manodopera.
Nel periodo 1948-73, mentre il reddito reale medio annuo da lavoro dipendente
raddoppiava, anche i redditi da rendite e da profitti aumentarono in proporzione,
sicché la ripartizione relativamente egualitaria creata dalla pressione fiscale
progressiva negli anni ’30 e ’40 non subì apprezzabili mutamenti. Di pari passo, vi fu
una democratizzazione economica della società americana. Nel 1955 la maggioranza
delle famiglie aveva un’auto, simbolo di uno status acquisito e di successo personale,
e nel 70% delle abitazioni private c’era un telefono.
Tabella 13.6 Automobili immatricolate 1940-80
1940
1950
1960
1970
1980
27.165.826
40.339.077
61.671.390
89.243.557
121.600.843
(100)
(148)
(227)
(329)
(448)
Fonte: N. Rosemberg - D. Mowery, Path of Innovation: Tecnological Change
in 20th-Cwentury America, Cambridge U.P., 1998
Gli effetti dell’accordo di Bretton Woods (1944) avevano fatto dimenticare il caos
valutario internazionale dei primi anni Trenta (vedi p. 209), ancorando le relazioni
commerciali e finanziarie internazionali al dollaro convertibile in oro, che per molti
decenni avrebbe permesso agli USA di dominare l’economia mondiale. Gli
industriali americani investirono miliardi di dollari all’estero, facendo del paese il
maggior creditore al mondo. Mentre Europa occidentale e Giappone ricostruivano e
ampliavano le loro economie, gli imprenditori statunitensi stabilivano forti presidi
industriali in Europa occidentale. Le monete estere entravano e uscivano liberamente
dagli USA, sicché Wall Street divenne il mercato finanziario più affollato
d’investitori esteri. I risparmiatori tornarono a puntare sulle azioni e, poco più di
15
L’Europa verso il mercato globale
vent’anni dopo il crollo del ’29, credito e finanza USA riebbero prestigio. La classe
media riprese a investire in borsa per lucrare utili dal boom delle imprese
manifatturiere, tecnologiche e di servizi. Al crescente numero di privati investitori
(20 milioni nel 1970) si aggiunsero i fondi comuni d’investimento delle banche.
L’immaginario collettivo prevalso nel ventennio 1930-49, contraddistinto da
sacrifici, privazioni e guerra, virò verso l’ottimismo e il desiderio di appropriarsi di
una gamma di beni e servizi il cui consumo spesso aveva un alto valore simbolico.
Un confronto con le dotazioni domestiche delle famiglie di alcuni paesi europei
nell’anno 1960 mostra la precocità dell’economia nordamericana in fatto di
produzioni e consumi di massa. L’elettrificazione quasi completata nel 1950, grazie
agli investimenti in infrastrutture del New Deal, stava favorendo una diffusione
capillare degli elettrodomestici.
Tabella 13.7 Servizi e apparecchi domestici privati delle famiglie di sei
paesi nell’anno 1960 (percentuali di tutte le famiglie)
Acqua corrente calda e fredda
Lavabiancheria
Frigorifero
Macchina da cucire elettrica
Automobile
USA
Regno Unito
Francia
93
73
90
45
77
77
45
30
12
35
41
32
41
14
40
Germania
Ovest.
34
36
52
10
26
Italia
24
8
30
5
20
Fonte: C. Freeman and F. Luoçã, As Time Goes By. From the Industrial Revolution to the
Information Revolution, Oxford University Press, Oxford 2001, Table 8.12, p. 290
Gli americani compravano televisori come trent’anni prima i loro padri avevano
comprato apparecchi radio. Nel 1952 la Columbia Record Company produsse con
successo un disco di plastica da far girare sul radiogrammofono. Nel 1957 comparve
la rivoluzionaria macchina fotografica Polaroid, che sviluppava e stampava le foto
scattate qualche minuto prima. Le auto private entrarono in concorrenza con le
ferrovie sulle lunghe distanze. I cibi congelati, già comparsi trent’anni prima,
cambiarono i consumi di milioni di persone che possedevano un frigo. L’aria
condizionata, impiantata negli uffici pubblici e privati, divenne un elettrodomestico
16
Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009)
diffusissimo nelle case e un segno sociale di distinzione, come prima lo era stato il
televisore. Le carte di credito Visa e MasterCard cominciarono a diffondersi creando
moneta virtuale aggiuntiva e permettendo a istituti bancari pionieri di aprire un
nuovo promettente settore.
Le grandi imprese americane per un quarantennio fabbricarono e vendettero prodotti
destinati a una crescente massa di consumatori la cui domanda aggregata non cessava
di crescere. Per la prima volta nella storia del paese, una riduzione della disparità dei
redditi fra lavoratori manuali, quadri intellettuali e professionisti migliorò la qualità
della vita sociale e culturale.
Tabella 13.8 Principali elettrodomestici introdotti tra 1950 e 1989
Anni Cinquanta
Frigo a due scomparti
Televisione
Anni Sessanta
Televisione a colori
Lavastoviglie
Anni Settanta
Forno a microonde
Pompa di calore
Asciugabiancheria
Condizionatore
centralizzato
Convettore termico
Tritarifiuti
Compattatore di
rifiuti
Robot frullatore
Lavatrice automatica
Condizionamento
d’aria
Anni Ottanta
Home computer
Televisore ad ampio
schermo
Videoregistratore
Lettore CD
Antenna satellitare
Fonte: N. Rosemberg - D. Mowery, Path of Innovation, cit.
In quegli stessi decenni, nel settore agricolo delle big farms si ebbero incrementi di
produttività largamente superiori a quelli dell’industria. La popolazione impiegata
nel settore conobbe una considerevole riduzione per effetto dell’attrazione esercitata
sulla manodopera dall’industria e dai servizi in costante espansione, oltre che dalla
sostituzione nelle campagne del fattore lavoro con tecnologie sempre più avanzate.
Anche le imprese agricole diminuirono di numero, mentre ne crescevano le
dimensioni (più terra coltivata). Il resto lo fece l’uso di macchine più potenti e veloci,
di sementi selezionate e di dosi quintuple di concimi chimici sulla stessa base
coltivabile, rispetto a quelle sparse degli anni Venti e Trenta. Le rese del grano per
ettaro raddoppiarono, quelle del mais triplicarono. Lo stesso quantitativo di cotone
greggio fu ottenuto con un quinto delle ore di lavoro necessarie rispetto a prima del
17
L’Europa verso il mercato globale
1940. Per di più, i diretti coltivatori indipendenti calarono da 5,6 a 2,6 milioni fra il
1950 e il 1975, mentre il volume delle produzioni cresceva e il governo federale
continuava a sostenere i redditi degli agricoltori, con prezzi minimi garantiti. Dal
1960 in poi la crescita della produttività, connessa con la ristrutturazione del settore,
permise di sopravanzare con le esportazioni le importazioni, garantendo un saldo
attivo alla bilancia commerciale agricola americana.
Tabella 13.9 Popolazione residente e numero di occupati nell’agricoltura
americana (1940-1980)
Anni
1940
1950
1960
1970
1980
Popolazione
agricola
(milioni)
30.547
23.048
15.635
9.712
6.051
% su tutta la
popolazione
USA
23.2
15.3
8.7
4.8
2.7
Aziende
agricole
(milioni)
6.102
5.648
3.963
2.949
2.433
Occupati
(milioni)
10.9
9.9
7.1
4.5
3.7
Fonte: United States Departement of Commerce, Bureau of the Census, Historical Statistics of the
United States
La moltiplicazione degli scambi di merci accelerò anche la produzione e vendita dei
servizi per merito di campagne pubblicitarie radiofoniche, televisive e sui giornali
come mai prima era accaduto. I viaggi turistici, gli svaghi - soprattutto il cinema e il
teatro -, l’istruzione superiore (intesa come investimento), le comunicazioni sociali
(radio, televisione e giornali), la diffusione di catene d’alberghi, ristoranti, lavanderie
a gettoni e librerie pubbliche non cessarono di moltiplicarsi a partire dal New
England e dalla California. Anche i servizi pubblici furono riorganizzati per essere
prestati a grandi masse di utenti con una crescita della spesa federale e statale.
18
Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009)
13.5
Verso la crisi e nella crisi (1973-87)
Nella seconda metà degli anni Sessanta, la politica sociale della Great Society
intrapresa dal presidente democratico L.B. Johnson, assieme alla spesa pubblica
ingente per la guerra in Vietnam e agli aumenti di salario ottenuti da operai e
impiegati nel biennio 1968-69, causò un processo inflazionistico (troppa moneta e
carte di credito in circolazione) che sfiorò la soglia del 6% annuo nel 1970. Nel ’71 il
nuovo presidente R. Nixon ereditò un’inflazione all’8%. L’EMBARGO dei paesi arabi
esportatori di petrolio (1973) in risposta alla guerra arabo-israeliana del Kippur
complicò le cose. Una combinazione inedita d’iperinflazione (a due cifre su base
annuale), bassa crescita economica e alta disoccupazione produssero la
«stagflazione». Il cartello dei maggiori produttori di petrolio (OPEC) non cessò di
alzare i prezzi, che culminarono nel triennio 1978-80 e accesero una fiammata
inflazionistica (14,8% annuo negli USA nel 1980) nei paesi importatori, dove ormai
cominciava a prevalere un’ideologia conservatrice orientata a «mettere ordine in casa
propria», come sosteneva dal 1979 il primo ministro inglese Margaret Thatcher,
lasciando fare al mercato: il grande taumaturgo invocato dai politici liberali e dagli
economisti liberisti.
Dal gennaio 1981 il neopresidente repubblicano Ronald Reagan si accinse a mettere
ordine nella casa americana dichiarando: «Nella crisi che stiamo attraversando il
governo non è la soluzione del nostro problema, il governo è il problema». Egli pose
una serie di questioni:
•
l’amministrazione pubblica federale era pletorica. Il numero d’impiegati e
burocrati andava ridotto;
•
lo stato sociale ereditato dal New Deal costava troppo;
•
l’imposizione fiscale progressiva gravava sui redditi più alti, indebolendo
risparmio e investimenti e intralciando il funzionamento del libero mercato;
•
bisognava ridurre le funzioni dell’amministrazione federale (licenziamenti e
soppressione di uffici);
•
deregolamentare il funzionamento dei mercati.
19
L’Europa verso il mercato globale
Le soluzioni furono presto identificate a partire dalla Laffer curve, la semplice
costatazione dell’economista A.B. Laffer, già fatta peraltro da J.M. Keynes e molti
secoli prima da un filoso arabo, che al crescere delle aliquote del prelievo fiscale
sulla ricchezza prodotta le entrate pubbliche calavano. Dunque, un minor prelievo
avrebbe più che proporzionalmente accresciuto le entrate e lasciato nelle tasche dei
contribuenti più risparmio che, investito, avrebbe prodotto ricchezza.
La formula usata per sintetizzare l’insieme di provvedimenti liberisti fu Supply-side
economics o economia dell’offerta, per effetto della quale ci si aspettava «più crescita
con meno Stato». Se il taglio delle imposte federali fu prontamente approvato da un
Congresso a maggioranza democratica, il governo di Ronald Reagan mancò
clamorosamente l’obiettivo di abbattere la spesa pubblica, che addirittura fu gonfiata
da spese militari aggiuntive di svariati miliardi di dollari per il progetto di difesa
missilistica antiURSS, Strategic Defense Initiative (SDI), che i media chiamarono
«Guerre stellari».
Il divario crescente (deficit) nel bilancio pubblico statunitense fra entrate in calo
(minore gettito fiscale) e uscite in crescita (maggiore spesa pubblica militare) ebbe
effetti vistosi sia sull’economia interna, sia su quelle dei maggiori partner economici
degli USA.
La necessità di finanziare l’enorme deficit pubblico federale (> 5% del PIL) mise in
moto i mercati finanziari interni ed esteri. La domanda pubblica di risorse fece
aumentare il rendimento dei bond americani (titoli del debito pubblico). Un
imponente flusso di capitali esteri finì nelle casse del Tesoro bisognoso di liquidità.
La domanda di dollari da parte d’investitori esteri rivalutò la moneta americana
causando un crollo delle esportazioni e un boom delle importazioni. Le industrie
manifatturiere del Nord-Est ristagnavano e l’agricoltura entrò in seria crisi. Il calo del
prezzo del petrolio danneggiò i produttori texani. Salari e stipendi diminuirono e il
tasso di disoccupazione dal 5-6% degli anni 1978-79 balzò a più del 10% nel 198283. Negli stessi anni, un americano su quattro fu classificato come povero. Il
disavanzo della bilancia commerciale, che nel 1985 toccò i 170 miliardi, assieme al
crescente fabbisogno di denaro per finanziare un enorme debito pubblico (da 900
20
Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009)
miliardi di $ nel 1981 a 2.800 a fine mandato Reagan nel 1989) trasformarono in
breve il maggiore paese creditore del mondo nel più grande debitore: nel secondo
semestre 2009, la somma del debito estero statunitense pubblico e privato (famiglie e
imprese) è pari al 370% del PIL.
E, tuttavia, il liberismo reganiano favorì un ritorno di fiducia nei consumatori e negli
investitori, tagliò programmi federali giudicati inutili, ridimensionò un poco la
burocrazia governativa, mantenne basso il costo del denaro (TUS della FED),
controllò la massa monetaria e non ostacolò il crescente flusso d’immigrati in cerca
di lavoro, riconoscendoli come una componente fondamentale per la crescita
dell’economia. Solo i repubblicani più conservatori rimproverarono a Reagan di non
avere impedito che gli Stati Uniti perdessero il controllo dei loro mercati finanziari a
favore degli stranieri.
Dai primi anni Ottanta, l’industria automobilistica giapponese accentuò la sua
penetrazione negli USA e il grande settore cotoniero conobbe un declino frenato solo
dall’adozione di tecnologie innovative a metà degli anni Novanta. La politica supplyside reganiana aveva portato stabilmente in deficit la bilancia commerciale e,
soprattutto, aveva mancato l’obiettivo di accrescere risparmio e investimenti,
entrambi per contro diminuiti e sostituiti da quelli esteri. Fra l’altro, la
deregolamentazione delle Savings and Loan institutions (S&Ls, Casse di risparmio
locali), i cui depositi erano garantiti dal governo federale, diffuse in molte piccole
banche pratiche speculative delle quali era difficile valutare i rischi. Fra il 1988 e il
’91, vi furono fallimenti a catena di numerose S&Ls che costrinsero il governo a
intervenire a difesa dei depositanti, con un appesantimento delle uscite federali e dei
deficit del bilancio pubblico.
13.6
L’aggiustamento del sistema: la «New Economy» (1988-2006)
Nel 1994, il presidente democratico Clinton e il Congresso a maggioranza
repubblicana vararono il NAFTA, un’unione doganale con Canada e Messico che
creò un mercato comune di 450 milioni di abitanti. Invece di proteggersi
21
L’Europa verso il mercato globale
dall’aggressività delle maggiori economie estere (Giappone e Germania, cui in
seguito si sarebbe aggiunta la Cina), aderendo alle richieste dei sindacati favorevoli a
una politica protezionista, gli Stati Uniti avevano scelto di percorrere le strada della
liberalizzazione. Contemporaneamente proseguiva senza soste un grande processo di
mergers and acquisitions (fusioni e incorporazioni d’imprese), con il duplice scopo
di attenuare la concorrenza e lucrare sulla vendita di attività acquisite, giudicate non
abbastanza produttive. Fin dagli anni Ottanta, le grandi e medie imprese americane
erano state travolte dall’esigenza di informatizzare i processi produttivi, di
comunicazione e gestione. Il controllo numerico computerizzato, i codici a barre
identificativi dei prodotti, le fibre ottiche come autostrade della comunicazione (dal
fax alle e-mail), il pc su ogni scrivania e i telefoni cellulari trasformarono
l’organizzazione delle imprese.
Il risultato di un salto organizzativo imprenditoriale e sociale fu il taglio brutale di
milioni di posti di lavoro (blue and white collar) che spazzò via quanti mancavano di
una cultura tecnica aggiornata o aggiornabile, di un buon livello d’istruzione o di
posizioni protette (come la burocrazia pubblica e le forze armate). Globalizzazione e
tecnologia informatica accelerarono e cambiarono il modo di fare affari, mentre gli
USA e le altre grandi potenze industriali promuovevano un abbassamento delle
barriere doganali come strumento di sviluppo economico. I loro sforzi, molti dei
quali realizzati dopo il 1995 tramite il WTO (World Trade Organisation), ebbero
successo.
Negli anni Ottanta, in California, una nuova generazione giovane e creativa aveva
cominciato a lavorare a una grande rivoluzione tecnologica - l’informatica – che
presto sarebbe divenuta un gigantesco mercato commerciale di massa. Quando
computer, microelettronica (microprocessori) e telecomunicazioni raggiunsero
adeguati livelli d’interazione, d’efficienza e di sostenibilità economica su larga scala,
una galassia (constellation) di metodi produttivi e di prodotti innovativi cominciò a
operare come il nuovo motore di sviluppo dell’economia statunitense, sostituendo il
paradigma fordista invalso da un’ottantina d’anni. Ingredienti del nuovo corso il
personal computer (Macintosh di Apple Inc. lanciato nel 1984) e Internet. La massa
22
Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009)
critica fu raggiunta a metà degli anni Novanta, quando negli USA c’erano ormai 109
milioni di pc, nell’UE ce n’erano 50 e 25 in Giappone.
La dinamica della «distruzione creatrice», identificata dal celebre economista J.A.
SCHUMPETER nei primi anni Dieci del Novecento, rivedeva all’opera imprenditori
creativi, inventori di nuovi modi di produrre e di nuovi prodotti e servizi. A sostenere
le neonate imprese innovative in rapida crescita, con alta redditività potenziale e in
cerca di capitali, intervennero istituti finanziari (venture capitalist) pronti a
sottoscrivere quote di capitale sufficienti a ottenere la maggioranza della società e a
prenderne la conduzione. Di pari passo, il capitalismo distruttore espelleva
dall’economia individui e imprese incapaci d’innovare. Il prezzo più pesante fu
pagato dagli operai «fordisti» a fine carriera delle regioni di prima industrializzazione
della costa atlantica. Dopo gli operai toccò agli impiegati, a partire dai più anziani,
incitati a pre-pensionarsi quando non furono letteralmente cacciati. Per la prima volta
dalla fine della seconda guerra mondiale, i colletti bianchi delle big corporations
videro minacciato il loro posto di lavoro.
La deregolamentazione reganiana ebbe un impatto analogo. Interi quadri impiegatizi
delle grandi imprese furono smantellati mentre i dirigenti trasformavano le società in
imprese competitive low-cost. Le ore passate a lavorare dai sopravvissuti alla
decimazione aumentarono considerevolmente a scapito del tempo per la famiglia e
per lo svago. Il computer portatile e il cellulare divennero strumenti di lavoro sempre
all’opera, in casa e in automobile. Gran parte delle funzioni svolte dai quadri alti
impiegatizi fu affidata a consulenti esterni dai compensi altissimi. A mano a mano
che le società organizzavano una parte delle loro produzioni fuori dei confini
nazionali e le importazioni di beni di largo consumo aumentavano, gli iscritti ai
sindacati diminuivano di pari passo con stipendi e salari. Alla fine del XX secolo,
solo il 12 % circa dei lavoratori dipendenti – esclusi gli operai agricoli – aveva una
tessera sindacale.
13.7
La «grande crisi» d’inizio XXI secolo
23
L’Europa verso il mercato globale
Dall’agosto 2007, l’economia statunitense fu coinvolta per gradi in una crisi bancaria
e finanziaria rapidamente trasformatasi in recessione - netta caduta del PIL - che ha
causato anche una crescente disoccupazione (dal 4,8% del febbraio 2008 al 9,7%
nell’agosto 2009). Diffusasi per gradi anche negli altri paesi industrializzati, dal 15
settembre 2008 (fallimento della primaria banca d’affari americana Lehman
Brothers) il sistema bancario internazionale è paralizzato dalla perdita di fiducia. Nel
2007, fu sottovalutata la crisi dei subprime mortgages (i mutui ipotecari) concessi a
quanti non garantivano di pagare puntualmente le rate. Si trattava del settore
creditizio a più alto rischio di insolvibilità dal quale, fin dagli ultimi mesi del 2006,
erano arrivati crescenti segnali di difficoltà.
La genesi del processo
Dal 1997 alla fine del 2006, negli USA ci fu un boom edilizio eccezionale per durata
e intensità. I prezzi delle case aumentarono in media del 7% (deflazionato) l’anno dal
1998 al 2005. Nel biennio 2004-05 i prezzi ebbero un picco per effetto della
pressione sulla domanda di case esercitato dal gran numero di titolari di mutui
subprime stipulati - dal 2004 in poi il 10% di tutti i contratti di mutuo - concessi a
richiedenti fino allora esclusi perché incapaci di garantire il puntuale pagamento
rateale del canone mensile (capitale e interesse).
Costoro si impegnavano in operazioni finanziarie di carattere speculativo il cui
rendimento dipendeva dal continuo aumento dei prezzi delle case. I titolari di mutui
subprime per un paio d’anni sul capitale ricevuto pagavano un tasso di lancio ridotto
e fisso. Dall’inizio del terzo anno, il tasso diventava variabile ed era indicizzato in
base a un tasso espresso dal mercato monetario. La sostenibilità dell’ammontare delle
rate, sensibilmente cresciuto, dipendeva dagli aumenti del prezzo delle case. Se,
all’inizio del terzo anno, il debitore non riusciva a pagare puntualmente, restituiva in
anticipo il capitale ottenuto stipulando un nuovo contratto di mutuo subprime di
maggiore importo, in virtù dell’accresciuto valore del suo immobile, e la differenza
fra i due mutui era da lui percepita come un guadagno.
24
Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009)
Il ribasso del costo del denaro deciso nel 2001 da Greenspan (il capo della Federal
Reserve) e proseguito fino al 2004, moltiplicò il ricorso a mutui prime (concessi a
persone solvibili) facendo lievitare la domanda. La rigidità dell’offerta di case (serve
tempo per costruirle) causò una crescita del 20% dei prezzi entro il 2003. Da allora,
ai mutui ipotecari stipulati dalle banche con individui e famiglie capaci di sostenerne
il peso economico si aggiunsero quelli concessi a debitori a rischio di solvibilità.
Dalla metà del 2003 all’inizio del 2007, su tutti i mutui accordati, la percentuale di
subprime passò dal 3% circa al 12-13% nel triennio 2005-07. La domanda aggiuntiva
fece impennare i prezzi, che arrivarono a un + 55% nel 2006 rispetto al 2001. A
mano a mano che i prezzi salivano, cresceva anche la concessione di mutui subprime
in un clima di sfrenato ottimismo. Nell’agosto 2002 il presidente G.W. Bush aveva
incitato a stipulare mutui, dichiarando che, per chi mancava del denaro per comprare
casa, procedura e documentazione andavano semplificate. I capitali per finanziare i
compratori a basso reddito sarebbero stati forniti da Fannie Mae e Freddie Mac, due
grandi istituti creditizi sponsorizzati dal governo che stipulavano mutui ipotecari e
recuperavano liquidità cartolarizzandoli sul mercato secondario. Presi insieme, nel
2005, con risorse proprie pari a 64 miliardi di $, Fannie Mae e Freddie Mac avevano
concesso mutui subprime per 5.600 miliardi. Nel tempo, nessuna istituzione
finanziaria può evitare di fallire con un quoziente di 87,5 tra crediti concessi e
capitali propri (5.600 : 64).
Le condizioni monetarie e finanziarie eccezionalmente favorevoli cominciarono a
tramontare quando, tra il 2004 e il 2006, la FED alzò il tasso d’interesse diciassette
volte a piccole tappe (+ 0,25% ogni volta), portandolo dall’1 al 5,25%, così da
evitare un surriscaldamento dell’economia. Il costo del denaro più caro da un lato
rallentò e, poi, bloccò la crescita dei prezzi delle case, dall’altro, rese insostenibile il
pagamento delle rate di mutui subprime, portando al fallimento le famiglie meno
abbienti (negli USA fallisce anche chi non è imprenditore). Contemporaneamente, la
domanda di nuovi mutui si esaurì, essendo venute meno le condizioni favorevoli
(basso costo del denaro e prezzi in crescita delle case). Il circolo virtuoso si trasformò
in un circolo vizioso: rate più pesanti, aumento delle percentuali d’insolvenza sui
25
L’Europa verso il mercato globale
mutui, vendita di case requisite ai debitori morosi o falliti e ulteriore discesa dei
prezzi dei moltissimi immobili offerti in vendita. Le difficoltà si allargarono in breve
anche alle famiglie economicamente più solide, minacciate da rate mensili sempre
più onerose perché il costo del denaro continuava a crescere.
L’effetto di contagio
All’inizio, nel 2007, la crisi era nordamericana e sociale. Secondo il Fondo
Monetario Internazionale (FMI), le perdite causate dalle difficoltà del mercato
immobiliare e dei mutui ipotecari (la bolla speculativa non era ancora esplosa)
ammontavano a circa 500 miliardi di $: un’inezia rispetto al patrimonio delle
famiglie americane, valutato in più di 60.000 miliardi. In realtà, e senza dare troppo
nell’occhio, il potenziale distruttivo dei subprime era stato capillarmente diffuso nel
sistema bancario e finanziario mondiale attraverso il meccanismo chiamato originate
and distribute. Un principio opposto a quello tradizionalmente osservato dalle
banche commerciali detto originate and hold, vale a dire chi concede mutui ne
mantiene la titolarità e il controllo fino alla scadenza, per quanto lontana essa sia.
Dopo che nel 1999, presidente W.J. Clinton, fu votato il Gramm-Leach-Bliley Act,
una radicale riforma bancaria che spazzò via il Banking Act approvato dal Congresso
nel 1933, che proibiva alle banche commerciali di comprare e vendere titoli azionari,
si passò a un nuovo sistema evolutosi clandestinamente nel corso degli ultimi
decenni e, dal 1999, enormemente cresciuto grazie a tre processi concomitanti:
•
la deregolamentazione (Gramm-Leach-Bliley Act);
•
l’innovazione tecnologica (vendita dei crediti a media lunga scadenza per
ottenere liquidità);
•
la crescente mobilità internazionale del capitale finanziario (i titoli derivati
dai mutui prime e subprime erano scambiati sul mercato interbancario
mondiale).
Le banche, con la CARTOLARIZZAZIONE, «impacchettavano» i mutui da loro concessi
e li vendevano a società create ad hoc che, a loro volta, emettevano titoli (Mortgage
Backed Securities o MBS) in svariate tranches, facendoli poi valutare dalle AGENZIE
26
Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009)
DI RATING
che ne misuravano il rischio. Il rischio di credito era così trasferito
all’intera platea degli investitori internazionali (banche e società finanziarie) che
acquistavano le azioni MBS. Il sistema funzionava come un moto perpetuo: le
banche si liberavano del rischio di credito vendendolo e incassavano liquidità
utilizzata per concedere altri mutui, i cui crediti a loro volta sarebbero poi stati
«impacchettati» e venduti. La diffusione del modello originate and distribuite
propagò crediti rischiosi nel vasto mercato finanziario globale grazie alle lusinghiere
valutazioni (tripla A) da parte delle agenzie di rating, spesso colluse con le banche.
Si trattava di prodotti difficilmente vendibili ai singoli investitori, che le banche
sistemavano nei loro fondi d’investimento senza che i clienti se ne avvedessero. Con
le cartolarizzazioni il rischio era stato disseminato nel mercato mondiale. Chi aveva
comprato a mani basse quei titoli «tossici»? Banche, fondi hedge (speculativi), fondi
monetari e compagnie d’assicurazioni.
La caduta dei prezzi degli immobili e l’aumento da uno a 5,25% del TUS (tasso
ufficiale di sconto) bloccarono il mercato delle cartolarizzazioni. Non ci furono più
compratori per quel genere di titoli (MBS) e i relativi prezzi crollarono. A causa dei
nuovi principi contabili (mark to market), che imponevano di valutare ai valori di
Borsa i titoli che detenevano, le banche iniziarono a registrare perdite molto pesanti
(sia sui titoli posseduti, sia sui dividendi non incassati). Nell’aprile 2007, la New
Century Financial, uno dei maggiori operatori sul mercato dei mutui, subprime fallì.
Le perdite accumulate dagli istituti come la New Century Financial si diffusero
rapidamente a cascata, contagiando i titoli derivati dai mutui e paralizzandone il
mercato. Il flusso di liquidità assicurato al sistema da quel genere di operazioni
improvvisamente cessò. La complessità dei prodotti derivati è tale da impedire agli
investitori di misurare l’impatto negativo della crisi del mercato immobiliare sui loro
portafogli titoli.
Una crisi di fiducia si propagò rapidamente in Europa, partendo da Londra. Le
maggiori banche che avevano acquistato a piene mani titoli MBS statunitensi
scoprirono di essere nell’occhio di un ciclone bancario e finanziario divenuto
internazionale. Il mercato interbancario interno ed estero sul quale le banche operano
27
L’Europa verso il mercato globale
senza interruzione, prestando e prendendo a prestito liquidità, si paralizzò e smise di
funzionare per una seria crisi di fiducia. Il 9 agosto 2007, il giorno in cui scoppiò il
panico nel mondo bancario, la Banca Centrale Europea (ECB) iniettò nel sistema
(prestandoli alle banche) liquidità per 95 miliardi e la Federal Reserve americana
immise 24 miliardi di $. Da allora in poi, le banche centrali si sono completamente
sostituite al mercato interbancario e hanno dovuto adattare e modificare i parametri
d’intervento in tempo reale, in modo da stabilizzare più volte il sistema finanziario
internazionale.
Gli interventi concertati delle banche centrali dei diversi paesi economicamente
avanzati non ha evitato fallimenti fra le banche più fragili e, all’inizio, molti
pensarono che l’emergenza creditizia derivasse da problemi di liquidità. Col passare
del tempo, ci si rese conto che il sistema bancario internazionale era precipitato in
una crisi di fiducia d’eccezionale gravità e che l’euforia finanziaria dei primi anni del
nuovo millennio era fondata su di un modello speculativo fallimentare.
Il passare del tempo non fece che aggravare la situazione. Nel sistema bancario
mondiale dominava il panico e si moltiplicarono i salvataggi di banche da parte dei
governi. Così, dopo una prima stima (2007) delle perdite a 945 miliardi di dollari,
due terzi dei quali a carico delle banche, proposta dal Fondo Monetario
Internazionale (FMI), a un anno di distanza (2008) la stessa istituzione valutò le
perdite 4.000 miliardi, per due terzi sopportate dalle banche.
Dall’autunno 2008, i governi dovettero abbandonare i singoli salvataggi bancari e
adottare misure globali fondate su due livelli d’intervento:
•
estendere a tutti i titolari di depositi bancari la garanzia sui loro risparmi;
•
favorire iniezioni massicce di capitali per rafforzare gli indeboliti patrimoni
delle banche.
E tuttavia, dal terzo trimestre 2008, gli operatori di borsa si convinsero che
l’economia mondiale stava entrando in recessione, a cominciare dai paesi
industrializzati; recessione che avrebbe contagiato anche quelli in via di sviluppo. Il
fallimento di Lehman Brothers (15 settembre 2008) dimezzò l’indice mondiale delle
borse (- 50%) e affondò di più del 70% quello settoriale delle banche.
28
Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009)
Gli operatori di un «piccolo» settore del credito statunitense – i mutui subprime –
avendo ignorato ogni elementare prudenza, con un effetto valanga, hanno causato
una crisi globale. Molto più che nel passato, questa crisi ha generato un diffuso
sentimento d’ingiustizia nei paesi più avanzati come in quelli del terzo mondo. Le
radici del terremoto risiedono tanto in difetti strutturali di una finanza predatoria che
non ha ben misurato i rischi, quanto nella mancanza di regolazione e controlli del
settore creditizio e finanziario statunitense. I nefasti effetti trasmessi dalla crisi di
fiducia e di liquidità sull’economia reale (crollo della domanda e disoccupazione per
molte decine di milioni di persone nei paesi OCSE) cominciano solo dal secondo
semestre 2009 a manifestarsi nella loro crudezza.
Da ultimo, la crisi sembra intimamente legata anche a un eccesso dottrinario: la
convinzione diffusa nella maggioranza degli economisti (il mainstream disciplinare)
che le proprietà d’autoregolazione dei mercati (laissez-faire, laissez-passer) bastino a
mantenere in equilibrio i sistemi e che le istituzioni pubbliche debbano astenersi
dall’intervenire nelle relazioni economiche, salvo invocare il ritorno del diritto e della
politica quando il sistema, dissestato, deraglia.
29
14. Bilanci e prospettive
14.1 Bilancio delle economie del Terzo Mondo
Prima della rivoluzione industriale, cioè fino all’inizio del XVIII secolo, i livelli di vita
del futuro Terzo Mondo e quelli del futuro Occidente sviluppato non erano troppo
diversi. C’è persino chi ha sostenuto (P. Bairoch) che il divario dei redditi tra i due
gruppi a quel tempo non superasse il 10% a favore dei bianchi. Il rapporto prese a
peggiorare dal 1830 in avanti, quando in Inghilterra l’industrializzazione superò un
punto di non ritorno e nel continente europeo (Belgio) comparvero le prime fabbriche
dotate di macchine a vapore utilizzate da grandi imprese verticalmente integrate.
È interessante mettere il Prodotto Nazionale Lordo reale (corretto dalle distorsioni
dovute al potere d’acquisto delle monete) dei paesi sviluppati occidentali sia in
rapporto con quelli dei paesi del Terzo Mondo a economia di mercato, sia con quelli
dei paesi in assoluto più indigenti (Etiopia, Nepal e Burundi), comparandoli lungo un
periodo che va dal 1830 al principio del terzo millennio (2008).
La disparità di reddito fra paesi sviluppati e paesi del Terzo Mondo a economia di
mercato (colonna 1) non cambiò significativamente fino al 1860, l’epoca entro la
quale si concluse la prima rivoluzione industriale in un piccolo gruppo di paesi
occidentali. La forbice si allargò con decisione tra il 1860 e il 1913 (da poco meno
del doppio a più del quadruplo) quando la Grande Guerra chiuse la seconda
rivoluzione industriale, né smise di ampliarsi fino al 1938, allorché giunse al
tramonto la lunga epoca coloniale. Se in poco più di un secolo (1830-1938),
insomma, la disparità fra paesi sviluppati e paesi del Terzo Mondo a economia di
mercato triplicò (3,2 volte), dal 1950 (5,7) al 2008 (11,6), un periodo di tumultuoso
sviluppo economico, il ritmo di distanziamento fra economie di vertice ed economie
31
L’Europa verso il mercato globale
in crescita andò attenuandosi, registrando un semplice raddoppio (2,03), con evidenti
segnali di «frenata» dal 1980 in poi.
Tabella 14.1 Disparità del Prodotto Nazionale reale pro capite
(e indici 1830 = 100) tra Terzo Mondo e paesi sviluppati
--------------------------------------------------------------------------------------------------------
Paesi sviluppati occidentali
Paesi più sviluppati
in rapporto ai Paesi
in rapporto ai Paesi
del Terzo Mondo
più poveri
a economia di mercato
del Terzo Mondo
------------------------------------------------------------------------------------------------_
1830
1,6 (100)
2,8 (100)
1860
1,7 (106)
4,5 (161)
1913
4,1 (256)
10,4 (371)
1938
5,1 (319)
11,9 (425)
1950
5,7 (356)
19,0 (678)
1960
6,5 (406)
25,5 (911)
1970
8,4 (525)
31,0 (1.107)
1980
8,5 (531)
37,0 (1.321)
1995
10,3 (644)
49,0 (1.750)
2008
11,6 (725)
80,0 (2.857)
------------------------------------------------------------------------------------------------Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo, vittorie e insuccessi dal XVI secolo a
oggi, Torino, 1999, vol. II, tab. 177, p. 1514; World Bank, World Development Indicators,
Database (luglio 2009).
Non riesce difficile immaginare che, d’ora in poi, il ritmo d’apertura della forbice
rallenterà ulteriormente, sino a fermarsi (come avvenne nel decennio della crisi
petrolifera), per poi addirittura invertire la tendenza sotto l’effetto dello sviluppo,
nel Terzo Mondo, di nuovi protagonisti come Messico, Brasile, Turchia,
Indonesia, e della maturità di economie sviluppatesi fra 1950 e 1980, che
mireranno soprattutto a un equilibrato mantenimento dello statu quo ante.
I valori della colonna 2 danno conto della sostanziale inefficacia della politica
internazionale (ONU) tesa a correggere la disparità crescente fra «primo mondo»
e quello degli ultimi paesi del Terzo (Etiopia, Nepal e Burundi), sempre più
lontani dalla soglia della modernità, convenzionalmente misurata in ricchezza
prodotta. E tuttavia, benché nel trentacinquennio 1960-1995 si sia verificata
32
Bilanci e prospettive
un’apprezzabile decelerazione del ritmo di distanziamento tra le economie al top
e quelle poverissime, ultime della lista mondiale della ricchezza prodotta pro
capite, dal ’95 al 2008 il divario ha ripreso a crescere, e ciò nonostante i paesi
ricchi siano cresciuti a un ritmo medio annuo del solo 1,5%.
E tuttavia, benché ai giorni nostri il divario abbia assunto dimensioni paradossali
ed eticamente e politicamente insostenibili, il processo di distanziamento ha
mantenuto un ritmo costante nel lungo andare: fra 1830 e 1938 la disparità
(11,9/2,8) peggiorò di 4,2 volte. Tra il 1950 e il 2008 (80/19) il quoziente è
identico (4,2), ma è stato misurato su un ben minore numero di anni (58) rispetto
ai 108 del primo periodo considerato. Se ne può dunque concludere che dalla
metà del secolo scorso gli ultimi se la passano sempre peggio rispetto ai primi e
che di recente (1995-2008) la loro precaria condizione peggiora a un ritmo più
sostenuto (+ 4,8% annuo di aggravamento della distanza, rispetto al + 3,5% del
periodo 1950-95). Se fra le due guerre (1913-1938) la crisi del commercio
internazionale rallentò considerevolmente il divario economico Nord-Sud del
mondo (da 10,4 a 11,9 volte il GDP pro capite), la globalizzazione esplosa dalla
metà degli anni Ottanta in avanti, nell’accrescere vistosamente la mole di merci e
servizi scambiati, ha quasi raddoppiato la distanza tra ricchi e poveri del mondo
(da 49 a 80 volte).
14.2
I campioni dell’economia «globale»
Non v’è dubbio che il processo di globalizzazione avviato dai bianchi fin dal XV
secolo, rilanciato con veemenza nel XIX, e deragliato tragicamente nel ventennio
fra le due guerre mondiali scatenate dagli europei, sia tornato d’attualità fin dalla
fine della seconda guerra mondiale, avendo come banditori gli Stati Uniti
d’America, la potenza militare ed economica rivelatasi decisiva in entrambi i
conflitti.
La misura convenzionale del livello di globalizzazione è data dal crescente
volume complessivo delle merci esportate ogni anno, qua e là colpito da
33
L’Europa verso il mercato globale
ripiegamenti dovuti a crisi settoriali o macroregionali come quella capitata in
Asia orientale negli ultimi anni del secolo scorso, o più generali e durature come
quella esplosa nel terzo quadrimestre del 2008: la crisi più estesa e pesante
accaduta da duecento anni a questa parte.
Per misurare le tendenze profilatesi fino all’anno 2008 conviene considerare i
contributi delle diverse aree economiche del pianeta all’ampliamento del volume
di merci uscite dai confini dei paesi produttori. Infatti, è ipotizzabile che esista
una relazione diretta fra tendenziale aumento o diminuzione delle esportazioni di
ogni paese o di ogni macroregione economica e lo stato di salute della rispettiva
economia. I dati relativi al quinquennio 2000-2004 e ai singoli anni 2004 e 2008
sembrano assai istruttivi in proposito.
Tabella 14.2 Contributo di paesi e aree economiche alla crescita delle
esportazioni di merci (in percentuali di dollari correnti)
------------------------------------------------------------------------------------------------2000-2004
2004
2008
------------------------------------------------------------------------------------------------Mondo
100
100
100
Paesi sviluppati
67,2
68,1
56
Resto del Mondo
32,8
31,9
44
Unione Europea dei 25 41,4
43,1
36,2
NAFTA*
16,8
14,5
12,9
(USA)
(10,7)
(9,0)
(8,2)
Giappone
5,5
6,2
5,0
Cina
5,0
6,5
9,0
CSI**
2,5
2,9
4,5
Totali
71,2
73,2
67,6
Paesi poveri
28,8
26,8
32,4
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------*Canada, USA e Mexico; ** Paesi dell’Europa dell’Est e Russia (ex URSS). Fonte:UNSD,
International Trade Statistics Yearbook 2009.
Il significato delle informazioni è chiaro. Dall’inizio del nuovo millennio, la
ricchezza esportata dai paesi sviluppati (un po’ più di due terzi di tutte le
esportazioni) è in netto declino e gli effetti nefasti della peggiore crisi che si sia
mai data potrebbero accelerare tale tendenza. Anche la vecchia Europa
34
Bilanci e prospettive
dell’Unione a 25 appare in declino. Benché conservi la posizione di primato, il
suo sostegno alla globalizzazione dei mercati è nettamente calato nel
quinquennio 2004-2008. Lo stesso vale per la triade Canada, USA e Mexico
(NAFTA) e per il Giappone. Una dinamica opposta di sviluppo sostenuto delle
esportazioni contraddistingue le economie ex comuniste cinese e dell’Europa
orientale. Nell’insieme, i paesi approdati a uno sviluppo economico maturo nella
seconda metà del Novecento, dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso
stanno vistosamente rallentando il loro contributo alla globalizzazione.
Il Terzo Mondo, a economia di mercato e non, sta invece dando sostanziosi
contributi alla crescita delle esportazioni, come del resto si conviene a economie
che dagli anni Ottanta del XX secolo crescono a ritmi altissimi, aumentando fra
l’altro la loro quota di merci tecnologicamente avanzate. La crescita del PIL per
macroaree economiche non è meno istruttiva perché permette di misurare i
differenziali tra economie e di proiettarli verso il prossimo futuro.
Tabella 14.3 Crescita del GDP annuale (%) per aree economiche e paesi del
mondo, 2004-2008
2004
2007
2008
UE dell’euro
2,0
2,7
0,7
Stati Uniti
4,4
2,1
0,4
Africa
5,1
6,3
5,2
CSI*
8,2
8,1
5,6
Developing Asia
7,8
10,6
7,6
Cina
10,1
13,0
9,0
India
6,9
9,4
7,3
Middle East
5,5
6,2
5,4
Brasile
5,0
5,7
5,1
Mondo
5,1
5,2
3,0
_________________________________________________________________
* Europa dell’Est e Russia ex URSS; Fonti: IMF, World Economic Outlook.
L’Unione Europea si conferma l’economia di gran lunga meno dinamica del
pianeta. Gli stessi Stati Uniti, ben più attivi degli europei occidentali nella
produzione della ricchezza, si situano al di sotto dei livelli medi calcolati per ogni
35
L’Europa verso il mercato globale
altra macroarea, compreso il continente nero, e nell’insieme per il mondo intero.
La globalizzazione sta insomma compromettendo e alterando i tradizionali
equilibri fra paesi e macroaree, mantenutisi relativamente stabili fin verso la fine
del secolo scorso.
Esiste una qualche terapia per risvegliare le economie della vecchia Europa
occidentale dalle popolazioni sempre più vecchie e conservatrici? Qualche
stimolo potrà venire dalle «giovani» economie ex comuniste dell’Europa
centrale, in fuga dalla Russia, da poco accolte nell’Unione Europea e dalla
Turchia, candidata a entrarvi nei prossimi anni, ma occorrerà armarsi di pazienza,
tanto è ampio il differenziale dei redditi e dei consumi pro capite delle nazioni
entrate da poco e ancora esterne alla zona euro (vedi supra, 10.3).
Un trattamento stimolante e correttivo dall’interno dei paesi fondatori
dell’Unione, assieme al controllo dell’inflazione, potrebbe consistere in una
perseverante politica dei redditi, volta a invertire il processo di polarizzazione
della ricchezza e di sperequazione crescente tra i ceti sociali, pericolosamente
accentuatasi nell’ultimo quarto di secolo, con effetti sociali, economici e culturali
fortemente disgregativi. I governi degli stati per lo sviluppo del lontano Oriente,
da quelli delle piccole tigri a quelli dei giganti Cina e India, dove l’economia sta
tumultuosamente progredendo a grandi passi, saggiamente perseguono politiche
perequative della distribuzione della ricchezza, con positivi effetti sia sui livelli
dei consumi interni, sia sulla propensione al risparmio delle popolazioni.
Per concludere, conviene tornare ai movimenti di merci nello scenario
dell’economia globale. Per l’anno 2006, l’ultimo esente dalle nefaste influenze
della crisi in seguito apparsa tra New York e Chicago, la classifica – in valori
assoluti – dei primi dieci paesi esportatori del mondo elenca otto vecchie
conoscenze su dieci, tra le quali hanno fatto irruzione il Canada, strettamente
legato agli USA nel NAFTA, e il dragone cinese da un ventennio in qua
collezionista di primati.
Per «pesare» l’economia dei singoli paesi conviene ponderare i volumi assoluti di
ricchezza esportata con l’ammontare delle rispettive popolazioni. Si ottiene così
36
Bilanci e prospettive
un indice relativo e comparabile d’abilità nel produrre dei surplus di beni – che
riguarda circa un terzo della popolazione mondiale – rispetto alla capacità di
assorbimento della domanda interna e alla maestria nel piazzarli all’estero,
fidelizzando i compratori.
Tabella 14.4 Primi dieci paesi esportatori nel 2006 (dollari USA correnti)
Graduatoria
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Paesi (%)* Miliardi di $
Germania (86)
1.112
USA (78)
1.038
Cina (93)
969
Giappone (90)
650
Francia (79)
490
Olanda (65)
462
Regno Unito (74)
448
Italia (86)
411
Canada (54)
390
Belgio (79)
354
Popolazione**
82,5
301,6
1.320,0
127,7
61,7
16,3
61,0
59,4
33,0
10,6
$ pro capite
11.090
3.441
734
5.050
7.942
28.368
7.261
6.912
11.818
33.396
Graduatoria
4
9
10
8
5
2
6
7
3
1
* Percentuale di esportazioni tecnologicamente avanzate;
** Espressa in milioni.
Fonte: WTO, Statistics, Country Profile, dati integrati con calcoli dell’Autore.
La graduatoria di destra, che elenca cifre omogenee e comparabili, quasi capovolge
quella di sinistra, basata sui valori assoluti. L’unico paese che mantiene la stessa
posizione nelle due liste è la Francia (5). Addirittura, l’ultimo della graduatoria di
sinistra diventa di gran lunga il primo in quella di destra. Il piccolo Belgio - incalzato
da vicino dall’altrettanto piccola Olanda - primo paese industriale in ordine di tempo
dell’Europa continentale, che alla vigilia della grande guerra (1910) contribuiva
all’export mondiale con il 7,3 per cento (vedi supra, § 5.1.1) e ora vi concorre con il
3,1%, nel 2006 ha venduto all’estero una quantità di ricchezza pro capite di poco
inferiore al PIL per abitante dello stesso anno (34.458 dollari).
L’Olanda, seconda a distanza dal Belgio, esporta due volte e mezzo la quota per
abitante del primatista mondiale in valore assoluto: la Germania, cinque volte e
mezzo la quota del Giappone e otto volte quella degli Stati Uniti. A parte il Canada,
che si piazza in terza posizione, gli altri tre paesi extraeuropei sono in coda alla
classifica dei valori pro capite e, per di più, sono largamente distanziati da tutti gli
37
L’Europa verso il mercato globale
altri. Se trascuriamo l’ultimo – il dragone cinese – neofito molto aggressivo e
intraprendente del capitalismo e del commercio internazionale, che però sconta un
recentissimo sviluppo assieme a un’immensa popolazione in maggioranza contadina,
colpisce la comune condizione di Stati Uniti e Giappone che, pur esportando grandi
quantità di manufatti industriali d’alta tecnologia, piazzano all’estero solo una piccola
parte della ricchezza da loro prodotta (il 7,1 per cento gli USA e il 13,4 per cento il
Giappone). In conclusione, la vecchia Europa occidentale, con sei paesi sui primi
dieci della classifica delle esportazioni pro capite nel mondo, difende e mantiene un
invidiabile primato.
Il problema è che due terzi (67%) delle esportazioni delle sei economie europee
restano entro i confini dell’Unione mentre, come mostrano efficacemente le
percentuali d’aumento della ricchezza annualmente prodotta nel resto del mondo, i
mercati più dinamici e recettivi si trovano assai lontano di lì e precisamente in quel
Terzo Mondo in parte ex coloniale e del tutto arretrato - tipicamente l’Africa in
silenziosa crescita (vedi Tab. 13.3) - che Alfred Sauvy scorse sull’orizzonte mondiale
mezzo secolo fa.
Conviene, infine, comparare la composizione delle esportazioni (prodotti agricoli,
minerali e manufatti) delle macroaree del mondo per rendersi conto dei rispettivi
livelli relativi di specializzazione settoriale.
Tabella 14.5 Settori di provenienza delle esportazioni, valori percentuali
per macro aree (2006)
Asia
Europa
Nord America
Centro e Sud
America
CSI
Medio Oriente
Africa
Agricoltura
6
9
9
24
Minerali
10
11
14
43
Manifattura
84
80
77
33
7
2
9
67
76
71
26
22
20
Fonte: WTO, Statistics, Country Profile,
38
Bilanci e prospettive
In generale, spicca il primato asiatico delle esportazioni manifatturiere (la maggior
parte ad alta tecnologia) riconducibile all’azione perseverante e convinta degli stati
per lo sviluppo. I mondi extraeuropei emancipatisi dal giogo coloniale entro il 1965
(vedi supra 11.1), a distanza di quasi mezzo secolo, ancora scontano un’arretratezza
sociale, culturale e tecnologica che si riflette nelle attività intraprese nei singoli paesi
dopo che fu raggiunta l’indipendenza politica.
14.4 Un ambiente fuori controllo?
Negli ultimi decenni del XX secolo, ecologisti, fisici dell’atmosfera ed
epidemiologi cominciarono a raccogliere grandi masse di dati empirici attorno al
clima e a riflettere sulle interazioni e interdipendenze fra uomini e ambiente.
Arrivarono così alla conclusione che la crescita di patologie collegate al
peggioramento della qualità dell’aria, dell’acqua e dei suoli, assieme alla fase di
riscaldamento del clima, derivano da un generale e crescente dissesto ambientale
dovuto all’emissione in atmosfera di 23 miliardi di tonnellate annue di anidride
carbonica (CO2), di polveri ultrafini (PM10 e PM2,5), di atomi di metalli pesanti
(piombo, ferro, manganese, cromo, nichel, platino, palladio, rodio che sono
irritativi, allergenici e tossici), di biossido di zolfo (SO2), monossido di carbonio
(CO), biossido di azoto (NO2) e ozono (O3).
Per misurare e comparare il grado di sostenibilità ambientale e i miglioramenti o
peggioramenti della condizione ecologica del mondo, in collaborazione con il
Forum economico mondiale e il Centro Comune di ricerca della Commissione
UE, la Yale e la Columbia University elaborarono un indice: l’Environmental
Performance Index (EPI) che valuta le condizioni ambientali con cinque diversi
scopi operativi:
1. basare i processi decisionali riguardanti l’ambiente su un gran numero di
dati scientifici raccolti sistematicamente;
2. verificare empiricamente l’efficacia delle politiche intraprese;
3. semplificare la misurazione dei risultati raggiunti;
39
L’Europa verso il mercato globale
4. individuare primi e ultimi nella classifica mondiale dei paesi e risalire
alle pratiche migliori usate altrove per risanare l’ambiente;
5. ridurre il conflitto tra crescita del PIL e miglioramenti nella graduatoria
mondiale.
L’indice EPI riassume le informazioni relative a 16 categorie espressive della
qualità della vita umana raggruppate in cinque insiemi. Il primo concerne la
salute collegata all’ambiente (e misura la mortalità infantile, la qualità dell’aria,
dell’acqua potabile nonché le condizioni igieniche). Il secondo valuta la qualità
dell’aria (presenza di particolati nell’aria respirata nelle città, livelli di ozono,
densità di nitrogeni, consumo d’acqua). Il terzo misura la salvaguardia della
biodiversità dell’habitat (protezione delle aree incolte e boschive, salvaguardia
dei caratteri ambientali originari). Il quarto stima la produzione di risorse naturali
(il ritmo di taglio dei boschi, i sussidi per l’agricoltura, l’impoverimento delle
risorse ittiche). L’ultimo accerta la sostenibilità energetica (efficienza energetica,
energia da fonti rinnovabili, CO2 ponderato rispetto al PIL (GDP), Energy
efficiency, renewable energy, CO2 per PIL).
La classifica mondiale dell’indice EPI pubblicata nel 2007 fa riflettere e riserva
alcune sorprese.
Tabella 14.6 Enviromental Performance Index (EPI) 2008, Classifiche
Primi dieci Paesi
1 Svizzera
2 Norvegia
3 Svezia
4
5
6
7
8
9
10
Finlandia
Costa Rica
Austria
Nuova Zelanda
Lituania
Colombia
Francia
Altri Paesi
12 Canada
13 Germania
14 Regno Unito
di Gran Bret.
21 Giappone
24 Italia
28 Russia
39 Stati Uniti
40 Taiwan
55 Olanda
57 Belgio
Fonte: www.aci.org/doclib/20060517_EstyPresentation.PDF-
40
Ultimi dieci Paesi
124 Sudan
125 Bangladesh
126 Burkina Faso
127
128
129
130
131
132
133
Pakistan
Angola
Etiopia
Mali
Mauritania
Taiwan
Niger
Bilanci e prospettive
Tra i primi dieci della classifica figurano sei paesi europei a relativamente bassa
densità di popolazione. Canada, Germania, Regno Unito, Giappone, Italia e
Russia precedono nettamente gli Stati Uniti. I punti deboli delle condizioni
ambientali degli USA, uno dei più ricchi paesi del mondo (6° per reddito pro
capite nel 2008), sono dati da una cattiva qualità dell’aria in progressivo
peggioramento (nel marzo 2001 gli USA emettevano in atmosfera il 36,2% di
tutti gli inquinanti sparsi nell’aria, nelle acque e nei suoli nel mondo) e da una
produzione di risorse naturali inferiori all’ottimo equilibrio. La comparazione dei
livelli di emissioni annue pro capite di biossido di carbonio (CO2, chiamato
anche anidride carbonica) e di ossidi di zolfo (SOx), che sono fra i maggiori
fattori di riscaldamento del clima, d’inquinamento dell’aria e di distruzione degli
alberi, nonché la quantità di energia elettrica consumata nei sette paesi
economicamente più evoluti, permette di osservare che Stati Uniti e Canada in
tutti e tre i confronti presentano i valori nettamente peggiori.
Tabella 13.3 Emissioni in atmosfera di CO2 pro capite (in tonnellate), di
SOx (ossidi di zolfo, in Kg) e consumi di energia elettrica (kWh) dei sette
paesi economicamente più evoluti (dati 2002)
CO2 Ton
SOx Kg
kWh
Stati
Uniti
19,8
Canada
Giappone
Germania
Francia
16,8
9,5
10,1
6,2
Regno
Unito
8,9
Italia
7,5
49,4
76,2
6,7
7,4
9
16,6
11,4
13.228
16.939
8.220
6.742
7.366
6.158
5.447
Fonte: Global Footprint Network, National Footprint Accounts 2008 edition
Il governo statunitense aderì con il presidente Clinton al protocollo di Kyoto
(1997) per meno di un anno, giacché uno dei primi provvedimenti presi dopo
l’insediamento (gennaio 2001) da G.W. Bush fu il ritiro dell’adesione che
impegna le nazioni firmatarie a diminuire di almeno il 5% le rispettive emissioni
dell’anno 1990 - considerato come anno base - nel periodo 2008-2012. Con la
nuova amministrazione di Barak H. Obama, il settore economico della cosiddetta
41
L’Europa verso il mercato globale
«economia verde» sembra avere un possibile futuro, e ciò benché i due terzi
dell’elettricità prodotta nel Paese derivi dalla combustione di fossili (un miliardo
di tonnellate annue di carbone dall’inizio del nuovo secolo e 305 milioni di
tonnellate di petrolio nel 2007): combustibili che gli studiosi considerano i
maggiori responsabili della fase di riscaldamento del clima.
Gli scienziati della natura che approfondiscono le molteplici questioni legate allo
squilibrio crescente fra risorse e consumi globali hanno calcolato la capacità
complessiva del pianeta di sostenere lo sfruttamento delle risorse rinnovabili di
energia, acqua e minerali oltre il livello della quale gli uomini attingono alle
risorse non rinnovabili intaccandone le riserve. Nell’anno 1961, rispetto alla
biocapacità del pianeta, in capo a un anno i consumi di risorse rinnovabili
arrivarono al 55%, come a dire che il complementare 45% fu risparmiato. Anno
dopo anno il consumo non cessò di crescere fino al 1986, quando per la prima
volta l’intero ammontare di risorse rinnovabili fu consumato entro il 31
dicembre. Da allora in poi, il giorno e mese dell’anno in cui le risorse rinnovabili
potevano dirsi interamente consumate cadde sempre prima, intaccando per quote
crescenti le sempre più magre scorte di risorse non rinnovabili.
Nel 2005, le risorse rinnovabili mondiali furono esaurite il 2 ottobre e, dal giorno
dopo alla fine dell’anno (90 giorni), fu sfruttato il patrimonio non rinnovabile
intaccandone irrimediabilmente la consistenza. Nel 2009, nonostante un deciso
rallentamento delle attività produttive e dei consumi per effetto della grande crisi
in corso, il fatidico overshoot day è caduto il 25 settembre: una settimana prima
rispetto al 2005. Di solito non si fa troppo caso al crescente emungimento di
acqua potabile da falde sempre più profonde. In realtà, le scorte sotterranee di
milioni di litri d’acqua continuano a calare perché il ciclo naturale dell’acqua non
assicura il pareggio fra stivaggio delle acque piovane e di quelle prodotte dallo
scioglimento dei ghiacciai e prelievi per i più diversi consumi in superficie.
Qualcosa di simile riguarda la deforestazione, cioè il taglio d’alberi d’alto fusto
utilizzati per una varietà di consumi che vanno dalla pasta di legno per fare carta
alla produzione di mobilio pregiato. Ogni anno scompaiono circa 13 milioni di
42
Bilanci e prospettive
ettari di boschi e foreste. Una superficie pari a quella delle regioni Piemonte,
Valle d’Aosta, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana.
Nell’ultimo trentennio anche la biodiversità (il numero di specie vertebrate
selvatiche esistenti) nel mondo è calata del 30%, il pesce di mare pescato supera
di tre quarti il limite che garantisce il mantenimento dell’equilibrio del
patrimonio ittico. Da ultimo, lo sfruttamento intensivo dei terreni agricoli sta
rendendo sterile il 10% delle coltivazioni. La tecnologia non ci salverà se non
cesseremo di sfruttare l’ambiente con attitudini predatorie. Sta per finire il tempo
in cui è ancora possibile un ravvedimento collettivo, a cominciare dalla civiltà
occidentale che da secoli sfrutta le risorse naturali del pianeta come se fossero
infinite.
43
Aggiornamento Glossario italiano
Banca Centrale Europea (BCE), banca centrale dell’Unione Europea che attua la
politica monetaria per quei sedici paesi dell’Unione che, all’inizio del 2002,
cambiarono le loro monete nazionali con l’euro. Nel 2009 sono: Austria, Belgio,
Cipro, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Malta,
Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna. La BCE fu istituita il 1°
giugno 1998. Ha personalità giuridica autonoma e persegue come scopo principale il
controllo dell’andamento dei prezzi per mantenere stabile il potere d’acquisto della
moneta. Con opportune politiche, controllando la base monetaria e fissando il tasso
d’interesse a medio periodo, essa tende a mantenere il tasso d’inflazione di poco
inferiore al 2% annuo. Inoltre, a parte la stabilità dei prezzi, la BCE sostiene le
politiche economiche nell’Unione per contribuire alla realizzazione degli obiettivi
comuni, coerenti con un’economia di mercato aperta e di libera concorrenza e cioè: il
raggiungimento e mantenimento di un alto livello di occupazione (pieno impiego)
assieme a una crescita economica sostenibile e non inflazionistica.
Bilancia dei pagamenti, differenza tra pagamenti in entrata e in uscita tra un paese e
il resto del mondo. Comprende la Bilancia commerciale (vedi) e le Partite invisibili
(vedi). Costituisce un valido strumento per misurare lo stato di salute economica di
un Paese perché, a parte il segno e il valore del saldo, offre informazioni sulla
struttura produttiva nazionale, sulla situazione congiunturale (comparando i saldi nel
medio periodo), sui fornitori (importazioni) e i clienti (esportazioni), sulla
competitività dei settori produttivi del Paese.
Cartolarizzazione, operazione con la quale la banca che ha concesso un mutuo
ipotecario cede il suo credito ad altri in cambio di liquidità, quando il capitale
prestato è stato solo in parte restituito. L’acquisto del credito è finanziato con
l’emissione di obbligazioni che rendono un tasso d’interesse inferiore a quello pagato
dal mutuatario.
Federal Reserve System (FED), negli Stati Uniti svolge il ruolo di Banca centrale.
Istituito nel 1913, si articola su due livelli: a) 12 banche federali di riserva svolgono
nel rispettivo distretto le funzioni di banca centrale (emissione di moneta, sconto,
anticipi); b) Sono controllate da un consiglio di amministrazione dei Governatori,
composto di sette membri, nominati dal Presidente degli USA con l’approvazione del
45
L’Europa verso il mercato globale
Senato, che siedono in permanenza a Washington e restano in carica 14 anni. La
FED modifica la percentuale delle riserve obbligatorie delle banche affiliate, decide il
Tasso ufficiale di sconto e il tasso d’interesse accordato a depositi a termine; opera
anche sul mercato aperto, drenando moneta o immettendo liquidità nel sistema
secondo le decisioni di politica economica federale.
Finanza internazionale, scambi fra operatori di più paesi di debiti e crediti espressi
in moneta causati dallo scambio internazionale di merci, servizi e capitali alla ricerca
del migliore impiego.
Globalizzazione, processo orientato alla realizzazione di un mercato di dimensione
mondiale, facilitata e promossa dall’abbassamento/eliminazione delle dogane sulle
merci importate. Ne deriva un’omogeneizzazione dei bisogni dei consumatori e
una standardizzazione dei prodotti, mentre si perfezionano di continuo i mezzi e le
reti di comunicazione commerciale e sociale. Le imprese che partecipano alla G.
hanno struttura elastica, dinamica e sono tecnologicamente avanzate, sia per la
produzione, sia per la distribuzione sui diversi mercati nazionali dei loro prodotti. Il
mercato globale, fortemente concorrenziale, costringe le imprese a rivedere di
continuo i loro piani strategici per non trovarsi ai margini o fuori dal gioco degli
scambi.
Juglar Clement (Parigi 1819-1905), nella sua opera principale: Des crises
commerciales et de leur retour périodique en France, en Angleterre et aux EtatsUnis (1889) affrontò la spiegazione delle crisi e delle depressioni economiche
ricorrendo al concetto di ciclo. Per primo identificò in alcune importanti serie
storiche di prezzi, di tassi d’interesse e dei volumi dei depositi bancari, regolarità
cicliche decennali in seguito definite da J.A. Schumpeter cicli Juglar. La sua
interpretazione delle depressioni come inevitabili conseguenze delle espansioni
economiche riecheggia nelle moderne teorie macrodinamiche del ciclo.
Mutuo ipotecario, contratto fra una parte (mutuante) che consegna all’altra
(mutuatario) una somma di denaro che sarà restituita a rate, secondo scadenze
prefissate, in un tempo medio-lungo, con l’aggiunta di un interesse stabilito fra i
contraenti. A garanzia del pagamento, il mutuatario offre una garanzia reale ipoteca - su di un bene immobile che passerà in proprietà del creditore nel caso che
il debitore riesca solo in parte a restituire il capitale avuto in prestito.
Politica dei redditi, in generale, politica economica volta a contenere aumenti dei
prezzi e dei salari per stabilizzare l’economia. In passato, i governi preferivano
ricorrere a misure monetarie e fiscali. L’adozione di una politica dei prezzi fu
raccomandata nel 1962 dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo
come mezzo efficace per controllare l’inflazione dei prezzi.
46
Glossario
Politica economica anticiclica, politica economica volta ad attenuare le fluttuazioni
annuali del reddito nazionale. La spesa pubblica è l'elemento di manovra principale.
Nei periodi di depressione, quando gli investimenti privati vengono meno, il governo
aumenta la spesa pubblica, tanto per mantenere i livelli occupazionali, quanto per
stimolare la ripresa degli investimenti privati. Per contro, in periodi di espansione e di
surriscaldamento dell'economia, la spesa pubblica diminuirà per non contribuire
all'avvio di una spirale inflativa dei prezzi causata da un eccesso di domanda. Le
misure di P.e.a. sono il risultato pratico dell'applicazione dei principi della teoria
macroeconomica formulata da J.M. Keynes attorno alla metà degli anni Trenta, in cui
dimostrò che nel breve periodo le oscillazioni del reddito nazionale, attraverso il
meccanismo del Moltiplicatore (vedi), derivano dagli investimenti privati e dalla
spesa pubblica.
Rating (agenzia di), metodo di classificazione delle obbligazioni (vedi) e delle
imprese e/o degli stati che le emettono. I rating (in lettere dell’alfabeto) sono
periodicamente pubblicati da agenzie specializzate (es. Standard & Poor’s, Moody’s
e Fitch Ratings, ecc.). In base ai R., il mercato stabilisce un premio per il rischio
affrontato da chi acquista i titoli. Un peggioramento del R. aumenta il premio per il
rischio corso dall’investitore e chi emette le obbligazioni dovrà aumentare lo spread
(un tasso d’interesse addizionale) rispetto al tasso medio di mercato per ripagare gli
investitori del maggior rischio che corrono. Un declassamento del R. causa un rialzo
degli interessi applicati ai prestiti in corso, con aumento degli oneri finanziari, e un
deprezzamento dei titoli trattati nelle Borse.
Relazioni industriali, rapporti fra imprese e loro associazioni da una parte e
lavoratori e loro sindacati dall’altra. Un terzo soggetto delle R.I. è lo Stato che in
genere svolge il ruolo di mediatore fra le parti. Le R.I differiscono da paese a paese
secondo i quadri istituzionali, politici ed economici.
Schumpeter Joseph Alois (Moravia 1883-Connecticut 1950), professore di
economia a Czernowitz, Graz e Bonn (1909-31). Nel ’32 emigra negli USA dove
insegna ad Harvard (1932-50). La sua vasta cultura storica, sociologica ed economica
è profusa nelle grandi opere della maturità: Business Cycles (1939); Capitalism,
Socialism and Democracy, entrambi usciti postumi nel 1954. Per primo egli assunse
un approccio dinamico fondato sull’idea che lo sviluppo economico dipenda
principalmente dalle innovazioni tecnologiche introdotte a grappoli dalla ristretta
élite degli imprenditori innovatori. Le innovazioni, finanziate dal credito, sarebbero
stimolate dalle aspettative di un profitto monopolistico da parte degli imprenditori.
47
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