Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009) 13. Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009) 13.1 La dinamica della popolazione (1940-2008) Tra il 1946 e gli ultimi anni Cinquanta, negli USA si verificò un autentico baby boom dovuto alla combinazione di alcune condizioni molto particolari quali: a) il ricongiungimento delle coppie lungamente separate dalla guerra; b) la celebrazione di numerosi matrimoni dovuti a una congiuntura economica favorevole a un netto miglioramento degli standard di vita; c) un calo della mortalità infantile, collegato a un miglioramento della qualità della vita della popolazione meno abbiente. Nel censimento del 1940 i bambini di età inferiore ai cinque anni erano 10,5 milioni (8% della popolazione). Vent’anni dopo, nel 1960, erano quasi raddoppiati (20,3 milioni), costituendo l’11.3%. Tabella 13.1 Dinamica della popolazione secondo i censimenti decennali (1940-2008) Anni Popolazione (milioni) Indici Indici a catena 1940 132,6 100 1950 152,3 114,8 114,8 1960 180,7 136,3 118,6 1970 205,0 154,6 113,4 1980 227,7 171,7 111,0 1990 250,1 188,6 109,8 2000 282,1 212,7 112,8 2008 304,2 229,4 109,7** Fonte: A. Maddison in http://ggdc.net/maddison. ** Indice calcolato su base decennale Nel periodo 1940-2008, la popolazione di nessuno dei paesi economicamente più avanzati ha avuto una crescita demografica paragonabile a quella statunitense (+ 1 L’Europa verso il mercato globale 129,2%). Gli abitanti del Giappone (+ 74,6%) sono stati i più dinamici, seguiti dai francesi (+ 56%), dagli italiani (+ 31,1%), dagli inglesi (+ 26,3%) e, infine, a grande distanza, dai tedeschi (+ 18%), cresciuti di circa un settimo rispetto agli americani. L’accelerazione statunitense di fine XX secolo, dopo un trentennio di progressivo declino del ritmo di aumento, si spiega con una ripresa dell’immigrazione – soprattutto dal Messico e dai Caraibi – dopo un sessantennio di ermetica chiusura agli stranieri. Negli Usa, oggi, gli immigrati rappresentano circa il 15% della popolazione attiva e la loro costante crescita influenza i livelli dei salari, mantenendoli stabili o addirittura riducendoli. Un terzo dei nuovi venuti manca del diploma di scuola secondaria sicché, negli ultimi trent’anni, la manodopera poco istruita è cresciuta, mentre quella colta e specializzata è divenuta relativamente rara. La bassa età media (26 anni nel 2000) degli ispanici e la loro alta natalità inducono a ipotizzare che nel 2025 saranno un quarto di tutta la popolazione del Paese e che, nel 2050, arriveranno a costituirne un terzo. In sessantotto anni, dunque, non solo gli americani sono più che raddoppiati (+ 129,2%), ma si sono anche distribuiti diversamente nelle nove regioni del Paese cambiandone la fisionomia demografica. Il fattore dominante della rinnovata geografia umana statunitense è dato dalla ricerca di un lavoro presso imprese che, dagli anni Ottanta in avanti, aprirono reparti e nuove sedi lontano dai luoghi originari ottocenteschi e primo novecenteschi dell’industrializzazione. I dati riuniti nella tabella 13.2 danno conto tanto della dinamica generale e particolare della popolazione, quanto del mutato peso relativo delle nove macroregioni del grande paese, in stretta relazione con il progredire o il regredire delle attività economiche che vi si svolgono. Sull’arco di sessantasei anni, quattro macroregioni (vedi carta degli Stati Uniti) in ordine progressivo: South Atlantic (la costa affacciata sull’Atlantico da Washington a Miami); West South Central (Kentucky, Tennessee, Alabama, Mississippi, Arkansas, Luisiana, Oklahoma, Texas); Mountain (Montana, Idaho, Wyoming, Colorado, New Mexico, Arizona, Utah, Nevada) e Pacific (Washington, Oregon, California, Alaska, Hawaii), ma specialmente le ultime due, crebbero a ritmi assai più sostenuti delle altre. Fino agli anni Cinquanta, i maggiori centri urbani del 2 Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009) Paese erano concentrati nel Nordest e nel Midwest e la gerarchia urbana era dominata da New York, Chicago e Philadelphia. Tabella 13.2 Popolazione a quattro epoche, valori assoluti in milioni, indici di aumento % rispetto al 1940, peso % relativo di ogni regione Regioni 1940 indice 1. New England peso% 1960 indice peso% 1980 indice peso% 2006 indice peso% 8,4 100 6,4 10,5 125 5,9 12,3 146 5,6 14,2 169 4,7 2. Middle Atlantic 27,5 100 20,9 34,2 124 19,1 36,8 134 16,9 40,4 147 13,4 3. South Atlantic 17,8 100 13,5 25,9 145 14,5 34,6 194 15,8 57,8 325 19,2 4. East North Central 26,6 100 20,2 36,2 136 20,2 41,2 155 18,9 46,3 174 15,4 5.West North Central 13,5 100 10,3 15,4 114 8,6 17,0 126 7,8 20,0 148 6,6 6. East South Central 10,8 100 8,2 12,0 111 6,7 14,0 130 6,4 17,9 166 5,9 7. West South Central 13,1 100 9,9 16,9 129 9,4 22,0 168 10,1 34,6 264 11,5 8. Mountain 4,2 100 3,2 162 3,8 10,5 250 4,8 21,4 509 7,1 9. Pacific 9,7 100 7,4 21,2 218 11,8 29,8 307 13,7 48,7 502 16,2 Totali 131,6 100 100 6,8 179,1 136 100 218,2 168 100 301,3 229 Fonti: Calendario Atlante De Agostini, Novara, Anni: 1948, 1962, 1983 e 2009, alla voce Stati Uniti, Popolazione. I totali differiscono da quelli della tabella 13.1, senza tuttavia pregiudicare i pesi relativi di ogni regione. Tra gli anni Sessanta e Settanta, una crescente porzione di quella popolazione cominciò ad allontanarsi dalle grandi metropoli per insediarsi nei suburbi o in altri stati, così abbattendo la base fiscale imponibile delle amministrazioni cittadine e mettendone in crisi i bilanci1. Dagli ultimi anni Settanta, stati e contee del Sud e dell’Ovest investirono risorse per sostenere le economie locali e le università fecero altrettanto per incoraggiare l’alta formazione e lo sviluppo di professioni specialistiche. Nel lungo andare, gli stanziamenti per incoraggiare le imprese a trasferirsi o impiantarsi nelle città e negli stati periferici premiarono il Sud e l’Ovest, anche perché le imposte locali erano basse e i vincoli ambientali più permissivi. Alla fine del Novecento, nove delle quindici maggiori città del paese si sono sviluppate nella vasta zona che si estende da Phoenix in Arizona e Jacksonville in Florida, a Huston, Dallas e San Antonio nel Texas, fino alla 1 nel 1975 il comune di New York rischiò di fallire. 3 100 L’Europa verso il mercato globale costa del Pacifico (Los Angeles, San Diego, San José e San Francisco in California). Le maggiori città sono ormai diventate consolidated metropolitan areas ad alta densità d’abitanti, affollate da una popolazione dispersa in vasti arcipelaghi di suburbi. Tabella 13.3 Principali città, 1950-2000, popolazione in milioni (e gerarchia) 1950 7.9 (1) 3.6 (2) 2.1 (3) 2.0 (4) 1.9 (5) 0.95 (6) 0.91 (7) 0.86 (8) 0.80 (9) 0.80 (10) 0.78 (11) 0.67 (12) New York Chicago Philadelphia Los Angeles Detroit Baltimore Cleveland St Louis Washington DC Boston San Francisco Pittsburg 2000 8.0 (1) 2.9 (3) 1.5 (5) 3.7 (2) 0.95 (10) 0,65 (17) 0.48 (33) 0.35 (49) 0.57 (21) 0.59 (20) 0.77 (13) 0.34 (53) Fonte: Ph. Jenkins, A History of the United States. Third Edition, New York 2007, p. 252 4 Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009) 13.2 I durevoli effetti istituzionali del New Deal Durante il quinquennio 1933-38, per fronteggiare le emergenze economiche e sociali nei maggiori settori d’intervento (lavori pubblici, agricoltura, credito, assicurazioni, comunicazioni, RELAZIONI INDUSTRIALI, sicurezza sociale, casa, e altri ancora), il presidente Roosevelt attivò ventuno agenzie governative maggiori e molte altre minori, cambiando radicalmente le funzioni e la percezione dello Stato federale, fino allora in sostanza assente sul piano politico amministrativo ed economico. Tabella 13.4 Principali Agenzie federali del New Deal, 1933-38 1933 National Recovery Federal Deposit Insurance National Youth Administr. Corp. Administration Civilian Conservation Corps Federal Emergency Relief National Labor Relations Admin. Board Home Owners Loan Social Security Board Tennessee Valley Auctority Corporation Agricoltural Adjustement 1934 Federal Housing Rural Electrification Administr. Administration Administration Public Works Administration Securities and Exchange 1937 Farm Security Commission Administration Federal Communications United States Housing Commiss. Authority 1935 Works Progress 1938 Federal Crop Insurance Administration Corp. Commodity Credit Corporation Farm Credit Administration Fonte: Ph. Jenkins, A History of the United States. Third Edition, New York 2007, p. 218 In pochi anni (1933-38), Washington concentrò un grande potere d’intervento nell’economia e nella società e le dimensioni dell’amministrazione pubblica centrale esplosero. Il New Deal fu anzitutto una rivoluzione della pubblica amministrazione che integrò secondo metodi meritocratici competenze e funzioni prima sconosciute e, fra l’altro, portò alla ribalta anche scienziati e tecnici cattolici ed ebrei. Lo Stato intervenne nell’economia realizzando grandi opere pubbliche, come l’elettrificazione diffusa anche lontano dalle città, creando il Welfare State a vantaggio della manodopera senza 5 L’Europa verso il mercato globale lavoro e riordinando l’agricoltura con l’Agricoltural Adjustement Act. Negli anni Trenta, la spesa del governo federale arrivò a rappresentare il 6% del PIL. La grande maggioranza della popolazione appoggiava la politica governativa. La vera opposizione al New Deal venne dalla Corte Suprema che osteggiò ogni limitazione dei diritti di proprietà privata e delle obbligazioni liberamente stipulate. Un concetto quest’ultimo esteso sino a comprendere ogni norma regolativa delle condizioni di lavoro. L’approvazione del National Labor Relation Act (o Wagner Act) fu di fondamentale importanza per le relazioni industriali. Promosse la razionalizzazione dei settori del commercio e dell’industria fissando i salari minimi e il tetto massimo delle ore di lavoro settimanali. Fondò un’agenzia governativa: la National Labor Relations Board (NLRB), col potere d’organizzare elezioni per permettere ai lavoratori d’esprimere l’intenzione d’essere rappresentati da un sindacato. In un discorso tenuto al Senato del maggio 1937 Roosevelt dichiarò: «The right to bargain collectively is at the bottom of social justice for the worker, as well as the sensible conduct of business affairs. The denial or observance of this right means the difference between despotism and democracy». I sindacalisti dei maggiori settori industriali (miniere, siderurgia, metalmeccanica) si unirono nel Commitee for Industrial Organisation (CIO), mobilitando gli operai con scioperi che raccolsero crescenti adesioni. Gli iscritti ai sindacati triplicarono tra il ’33 e il ’38 e raddoppiarono dal ’38 al ’47. Dopo la guerra, molte imprese pagavano salari analoghi a quelli patteggiati dai sindacati con le grandi società per evitare che i loro dipendenti vi s’iscrivessero. Nel 1947, circa 13 milioni di operai e impiegati aderivano a un sindacato e la collaborazione fra Stato e associazioni sindacali aveva nettamente migliorato il tenore di vita della manodopera, ma aveva anche alimentato nei conservatori l’idea che, dall’estero, si preparasse una «rivoluzione comunista». Tra il ’49 e il ’50, la bomba atomica dei russi, la vittoria di Mao Zedong nella guerra civile in Cina e lo scoppio della guerra di Corea accentuarono l’idea sempre più diffusa di una minacciosa crescita del comunismo. La risposta dell’America più conservatrice 6 Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009) fu una purga anticomunista che sarebbe durata fino al 1956, divenuta celebre come «Maccartismo», avendo come protagonista politico l’oscuro senatore repubblicano del Wisconsin Joseph McCarthy, che avviò la sua caccia alle streghe da una lista di 205 impiegati del Dipartimento di Stato accusati di comunismo. In breve, la presa sull’immaginario collettivo americano divenne enorme e governo e investigatori privati arrivarono a devastare la vita quotidiana di migliaia d’impiegati pubblici, di docenti e di membri delle associazioni più diverse, compresi i sindacati. Molti imprenditori assoldarono poliziotti privati per scoprire se tra i loro dipendenti ci fossero comunisti. Anche i sindacati più battaglieri furono sospettati di comunismo e, in un clima di crescente paranoia, McCarthy descrisse il conflitto come un confronto all’ultimo sangue tra l’ateismo comunista e la civiltà cristiana. Il senatore del Wisconsin uscì di scena nel dicembre del ’54, condannato dal Senato per iniziativa del presidente repubblicano D. Eisenhower. Lo stato federale degli anni Cinquanta, anche a causa della mobilitazione per la guerra di Corea, ma soprattutto per fronteggiare la Guerra Fredda contro l’URSS, ampliò ulteriormente i ruoli del personale. Nel 1940 Washington impiegava 1,1 milioni di persone e 3,4 milioni lavoravano per i singoli stati e le comunità locali. Nel 1960 gli uni sommati agli altri erano arrivati a essere 8,8 milioni e divennero addirittura 15 milioni alla metà degli anni Settanta, pari al 7% della popolazione. Alla moltiplicazione dei dipendenti pubblici (+ 233% in 35 anni) concorse anche un aumento delle forze armate (2,5 milioni nel 1960), che non sarebbero mai scese sotto i due milioni fino al 1990. Nel 1965, nell’ambito del miglioramento della sicurezza sociale (Social Security Act), il presidente L.B. Johnson fece approvare l’istituzione di «Medicare», un programma pubblico federale di assistenza che garantì la copertura sanitaria a quasi tutti i cittadini di almeno 65 anni e ai bambini poveri, privi del sostegno dei genitori, ai disabili, ai non vedenti. Con la stessa legge, ogni Stato fu tenuto ad attivare un’assistenza integrativa: «Medicaid» per alcune categorie di poveri. Nel tempo, l’uno e l’altro programma pubblici sono stati arricchiti di competenze e integrati con i sistemi di copertura assicurativa privata. Nella sua forma attuale, la sanità statunitense è la più costosa del 7 L’Europa verso il mercato globale mondo (16% del PIL). Con l’approvazione da parte del Senato (21 dicembre 2009), la riforma proposta dal presidente Obama garantirà assistenza a 31 milioni di cittadini privi di copertura e regolerà più equamente i rapporti fra assicurati e assicurazioni private. 13.3 Integrazione razziale, movimenti giovanili, pacifismo e reazioni politiche (1940-75) Tra il 1940 e il 1970, cinque milioni di neri si trasferirono dal Sud a Nord, lasciando il settore primario, nel quale la meccanizzazione faceva passi da gigante eliminando manodopera, per trasferirsi nelle città del Nord-Est in cerca di lavoro nell’industria. Il nodo della segregazione razziale venne al pettine fra il 1957 (Eisenhower mandò le truppe federali in un liceo di Little Rock, nell’Arkansas, per garantire l’ingresso impedito dalla Guardia Nazionale locale a nove studenti neri) e il 1964, quando il parlamento votò il Civil Rights Act che emancipava i neri, e l’anno dopo, quando passò il Voting Right Act che moltiplicò gli elettori di colore nelle votazioni federali, statali e locali; leggi entrambe volute dal presidente L.B. Johnson. Le sentenze dei giudici favorevoli alla de-segregazione e le leggi quadro del 1964 e ’65 imponevano un radicale cambio di mentalità. Uno dei movimenti neri più numerosi di attivisti era capeggiato dal carismatico giovane pastore evangelico Martin Luther King, che s’ispirava allo stile non violento di Gandhi. Egli, che aveva un grande seguito (premio Nobel per la pace nel 1964) e sfidava i movimenti violenti che facevano guerriglia nei ghetti urbani, fu assassinato a Memphis nel marzo del 1968. Dal 1969, il presidente R. Nixon promosse la completa integrazione in tutte le scuole del paese, scavalcando i governatori dei singoli stati e suscitando forti resistenze, specie nel Sud. Contemporaneamente, i movimenti per l’integrazione dei neri si collegarono con quelli giovanili che nei campus universitari contestavano le forme di alienazione legate al dominio del sistema capitalistico che, a loro giudizio, aveva generato una società interamente dedita alla produzione e al consumo di massa. Neri e giovani universitari confluirono nel vasto movimento di contestazione alla guerra nel Vietnam che, oltre 8 Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009) agli afroamericani, coinvolse portoricani, chicanos (immigrati dal Messico), natives, asiatici, femministe, gay e lesbiche, poveri e pacifisti. Non si dimentichi che, tra il 1964 e il ’75, quando l’ultimo americano lasciò Saigon, nel Vietnam del Sud furono schierati 8,7 milioni di soldati americani e che circa 58.000 di loro non tornarono vivi. La controcultura giovanile nasceva dal rifiuto dell’autoritarismo, del conservatorismo e del puritanesimo per fare spazio a pacifismo, egualitarismo e libertà sessuale. Musica (il rock and roll), uso di droghe psichedeliche, abbigliamento trasandato e provocatorio, popolarità delle religioni orientali, vita in comunità promiscue furono altrettante forme di sfida alla fredda razionalità puritana. I figli del baby boom appartenenti alla classe media, e in genere molto più istruiti dei loro genitori, rifiutarono i modelli della società benestante dalla quale provenivano. Il massimo della tensione fu raggiunto fra il 1970, quando le truppe statunitensi invasero la Cambogia, e il 1971, quando occuparono il Laos. Nei campus universitari vi furono scioperi e dimostrazioni e ci scapparono anche alcuni morti in scontri con le forze dell’ordine. La rivolta dei neri - molti dei quali si erano convertiti all’Islam divenne violenta, con centinaia di sommosse in tutto il Paese. Una miscela di processi fuori controllo colpiva l’immaginazione dell’opinione pubblica e ne induceva la maggioranza a vedere il futuro con pessimismo. Una guerra nel lontano Oriente era ormai persa (1975). Le spese militari all’estero non cessavano d’aumentare e quelle per le forze di polizia statali e federali impegnate nei ghetti neri facevano altrettanto, sicché i bilanci pubblici erano stabilmente in rosso. Il dollaro perdeva valore rispetto al marco tedesco e allo jen giapponese e l’inflazione continuava a lievitare. Le grandi imprese estere acquistavano partecipazioni e controlli d’imprese statunitensi o impiantavano fabbriche grazie alla caduta di valore della moneta americana. Dal 1973, la crescita dei prezzi delle materie prime, specie del petrolio, abbatté il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti statunitensi. Una disoccupazione in aumento dopo decenni di quasi pieno impiego accentuò un senso collettivo d’insicurezza. 9 L’Europa verso il mercato globale Tabella 13.5 Presidenti degli Stati Uniti dal 1933 Franklin D. Roosevelt Harry S. Truman Dwigth D. Eisenhower John F. Kennedy Lyndon B. Johnson Richard M. Nixon Gerald F. Ford James E. Carter Ronald Reagan George W. Bush William J. Clinton George W. Bush jr. Barak H. Obama 1933-45 1945-53 1953-61 1961-63 1963-69 1969-74 1974-77 1977-81 1981-89 1989-93 1993-01 2001-08 2008-12 Democratico Democratico Repubblicano Democratico Democratico Repubblicano Repubblicano Democratico Repubblicano Repubblicano Democratico Repubblicano Democratico La risposta politica al clima di confusione di principi e valori patriottici e di declino della reputazione di grande potenza, capofila della civiltà occidentale, non si fece attendere. Il comportamento elettorale dei sempre più numerosi elettori degli stati del Sud, molti dei quali vi si erano trasferiti per lavoro, si orientò sempre più verso i repubblicani, a cominciare dalle elezioni dei governatori e delle assemblee legislative. Se nel 1968 il repubblicano Richard Nixon prevalse di un soffio sul democratico Hubert Humphrey (31,8 contro 31,2% dei suffragi), quattro anni dopo stravinse (47,2%) su George McGovern (29,2%), ma non riuscì a completare il suo mandato a causa dello scandalo politico del Watergate: un abuso di potere da parte della sua amministrazione, messo in atto per indebolire l’opposizione dei movimenti pacifisti e del Partito Democratico. Gli effetti dello scandalo permisero al democratico Jimmy Carter (40,8%) di prevalere seppur di poco su Gerald Ford (39,2) che non fu rieletto. 13.4 La dinamica economica nel lungo andare (1938-1975) Dalla vigilia della seconda guerra mondiale ai giorni nostri, l’economia statunitense ha attraversato quattro cicli distinti – due brevi e due lunghi - e si trova oggi alle prese con una crisi di enorme portata iniziata nel 2007. I primi due cicli (l’uno breve 1938-47 e l’altro lungo 1948-75) si svolsero all’insegna di tassi di sviluppo economico prima d'allora e fino a oggi insuperati negli USA. Il terzo ciclo (1975-1988), annunciato da 10 Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009) decisi rialzi dei prezzi internazionali delle materie prime – il petrolio principalmente – causando ristagno produttivo, disoccupazione e inflazione (stagflazione, cioè stagnazione + inflazione), comportò gravi deficit della bilancia commerciale e dei conti pubblici e si chiuse con una severa crisi di borsa (1987-88). Il quarto (1988-2007) ha coinciso con l’avvio di una profonda trasformazione degli assetti economici e sociali del maggior paese occidentale. Mentre la Guerra Fredda, già attenuata da accordi di limitazione delle armi nucleari (1970), svaniva per l’implosione dell’URSS (1989-91), gli Stati Uniti smisero di essere il principale creditore dell’economia mondiale per trasformarsi nel giro di pochi anni nel maggior debitore (13.703 miliardi di $ nel giugno 2008). Dal 2007 una crisi economica di portata globale è esplosa nel mondo creditizio e finanziario statunitense, trasmettendosi dalle banche alle borse e, da queste, all’economia reale interna ed estera, con tragici effetti sull’impiego dei fattori, a cominciare dal lavoro (precariato e disoccupazione), e sulla distribuzione sempre più diseguale del minor reddito prodotto (caduta della domanda, indebitamenti, fallimenti). (Billions of Chained 2005 Dollars) Real Gross Domestic Product (GDPCA) 14,000 12,000 10,000 8,000 6,000 4,000 2,000 0 1920 1930 1940 1950 1960 1970 1980 1990 Shared areas indicate US recessions. 2009 research.stlouisfed.org Source: US Department of Commerce: Bureau of Economic Analysis 11 2000 2010 L’Europa verso il mercato globale Il primo ciclo (1938-1947) coincise con un decennio di grande sviluppo. Il PIL crebbe al ritmo medio del + 6,6% annuo. Il principale motore della domanda fu il governo federale che continuò a finanziare sia le politiche economiche del New Deal (1933-44), sia quel poderoso sforzo che, tra il ’41 e il ’45, fece degli USA un gigantesco cantiere straordinariamente efficiente. Grazie a un eccezionale sforzo produttivo, gli USA approvvigionarono di materiale bellico anche le potenze alleate in guerra contro Germania, Italia e Giappone. La spesa federale ammontò a poco più di 100 miliardi di dollari in cinque anni e gli effetti sull’economia del paese furono impressionanti. Verso il 1945, il PIL era cresciuto in termini reali del 70% rispetto al 1939, cancellando la disoccupazione. Nel 1946, il primo anno di pace, vi fu una caduta del 10% del PIL. Le politiche economiche e sociali dei presidenti democratici Roosevelt (1933-1944) e Truman (1945-52) promossero una spettacolare redistribuzione della ricchezza verso il basso, che rese la società americana molto più egualitaria di quanto fosse mai stata. Una sostenuta crescita dei salari, inaugurata durante la guerra, permise a decine di milioni di americani dei quartieri periferici urbani e delle campagne povere di vivere in condizioni economiche decenti. La grande ricchezza concentratasi fra i primi del Novecento e l’autunno del ’29 nelle mani di alcune decine di famiglie opulente, dalla fine degli anni ’20 era stata sottoposta a un’energica cura dimagrante: • il crollo di Wall Street aveva tagliato i patrimoni finanziari. Nel 1929 il 70% dei dividendi distribuiti prima della crisi dalle società quotate era stato incassato dall’1% degli azionisti; • un’imposta federale progressiva sul reddito, votata durante il primo mandato di Roosevelt, portò la morsa del prelievo sui redditi individuali al 63% e poi addirittura al 79%; • l’inasprimento delle imposte di successione ridusse considerevolmente i patrimoni ereditati. Con l’attenuarsi della crisi e l’avvio di un rapido sviluppo, dal 1941 la politica economica di forte spesa statale guadagnò un crescente consenso anche presso 12 Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009) l’elettorato repubblicano. L’attivazione di un fondo pensione per i pubblici dipendenti e l’assicurazione contro la disoccupazione divennero norme irrevocabili. Anche i sindacati erano ormai una realtà accettata nell’economia della nazione. Dal 1947 cominciò a diffondersi la costruzione di piccole case indipendenti nelle lontane periferie dei centri abitati, dove stavano aprendo le catene di supermarket e cresceva e prosperava un ceto medio prima inesistente, fatto di lavoratori dipendenti manuali e intellettuali, i cui salari erano così alti da permetter loro di esonerare le mogli dal lavoro fuori di casa. Per di più, l’abitare in periferia supponeva che ogni menage possedesse almeno un’automobile. I consumi delle famiglie divennero la quota maggiore della domanda aggregata. Un radicale capovolgimento, insomma, stava spostando verso il basso il fulcro dell’economia. Gli anni d’oro dell’economia americana (1948-1973) coincisero con lo sviluppo dell’Europa occidentale e del Giappone. Nel biennio 1948-49, mentre di qua dall’Atlantico cominciava a funzionare il piano Marshall (vedi addietro p. 211), le grandi imprese industriali e di grande distribuzione statunitensi completarono il ritorno a un’economia civile facendo degli Stati Uniti la locomotiva dell’economia mondiale e favorendo nei paesi dell’Europa occidentale uno sviluppo economico impensabile nell’immediato dopoguerra. Anche la cultura americana si riversò all’estero. Nei paesi del blocco occidentale la tecnologia, le tecniche gestionali e produttive e i modelli di consumo furono statunitensi. La crescita economica degli USA (in media + 2,4% annuo del PIL, Tab. 9.3, pag. 218) si spiega con un costante aumento della produttività (+ 3% medio annuo dal 1937 al 1973) e dell’impiego del fattore lavoro. I 54 milioni di posti di lavoro esistenti nel ’45 divennero 63 (+ 16.6%) nel 1950. In breve tempo, l’accumulo di tecnologie e d’innovazioni produttive derivate dalla ricerca e sviluppo (R&S) collegata alla guerra si diffuse nell’industria nazionale e, di là, rimbalzò anche all’estero in Europa occidentale e in Giappone. Le large corporations USA ampliarono i loro centri di ricerca con personale d’alta professionalità, realizzando un salto di scala dopo il 1945. Nel 1940 impiegavano circa 80.000 ricercatori, nel 1960 13 L’Europa verso il mercato globale erano decuplicati e divennero addirittura 1,5 milioni nel 1970. L’agenzia antitrust, nell’impedire rigorosamente la collusione fra large corporations per il controllo del mercato le costrinse a muoversi isolatamente, puntando sui rispettivi centri di ricerca scientifica e sulla collaborazione con dipartimenti e laboratori universitari. In tal modo, favorì anche una circolazione di cervelli, che sempre più numerosi uscivano dalle università e arrivavano già formati dall’estero. Nei secondi anni Quaranta e nei Cinquanta, mentre l’inflazione abbatteva di un terzo il potere d’acquisto del dollaro, maturò un generale consenso sugli strumenti di politica economica da utilizzare per cercare di correggere il comportamento globale del sistema economico. Il primo consisteva nei controlli della massa monetaria affidati alla FEDERAL RESERVE. Allargando o restringendo la mole delle riserve obbligatorie che le banche dovevano accantonare a garanzia dei depositi della clientela, la banca centrale incoraggiava o scoraggiava il credito: la matrice d’investimenti e consumi. Inoltre, comprando o vendendo titoli del debito pubblico, la FED aumentava o diminuiva l’offerta di moneta. Il secondo strumento di politica economica era la manovra sulle aliquote di prelievo fiscale. Aumentando o diminuendo le imposte sui redditi personali, l’amministrazione poteva frenare o incoraggiare la domanda. Il terzo strumento di controllo e correzione dell’economia nazionale era la manovra di bilancio federale. Ormai tramontato il mito del pareggio tra entrate e uscite, economisti accademici e imprenditori vedevano nel bilancio statale uno strumento per regolare la spesa interna aggregata. In tempi d’inflazione, un eccedit di bilancio avrebbe attenuato la spinta inflativa. Per contro, un deficit di bilancio (coperto con prestiti) era in grado di contrastare una congiuntura deflativa (ristagno o calo della domanda e dei prezzi). Non la teoria, dunque, ma piuttosto le dinamiche economiche reali del sistema di mercato definirono i nuovi mezzi d’intervento statale. Dal 1949 al ’61, complice la guerra di Corea (1950-53) e il lancio del satellite russo Sputnik (1957), che rivelò la superiorità dell’URSS nel campo dei missili a lunghissima gittata, per l’80% le risorse federali per la ricerca furono impiegate nel comparto difensivo. Dal 1961 al ’65 (presidenti i democratici J.F. Kennedy e L.B. 14 Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009) Johnson) le spese in armamenti precipitarono al 50%, comprese le risorse destinate al settore spaziale (NASA), e a quel livello rimasero fino al 1981. Investimenti crescenti in ricerca civile, assieme a un continuo ampliamento degli impianti, accrebbero la produttività del lavoro e abbatterono la disoccupazione maschile, realizzando condizioni vicine al pieno impiego della manodopera. Nel periodo 1948-73, mentre il reddito reale medio annuo da lavoro dipendente raddoppiava, anche i redditi da rendite e da profitti aumentarono in proporzione, sicché la ripartizione relativamente egualitaria creata dalla pressione fiscale progressiva negli anni ’30 e ’40 non subì apprezzabili mutamenti. Di pari passo, vi fu una democratizzazione economica della società americana. Nel 1955 la maggioranza delle famiglie aveva un’auto, simbolo di uno status acquisito e di successo personale, e nel 70% delle abitazioni private c’era un telefono. Tabella 13.6 Automobili immatricolate 1940-80 1940 1950 1960 1970 1980 27.165.826 40.339.077 61.671.390 89.243.557 121.600.843 (100) (148) (227) (329) (448) Fonte: N. Rosemberg - D. Mowery, Path of Innovation: Tecnological Change in 20th-Cwentury America, Cambridge U.P., 1998 Gli effetti dell’accordo di Bretton Woods (1944) avevano fatto dimenticare il caos valutario internazionale dei primi anni Trenta (vedi p. 209), ancorando le relazioni commerciali e finanziarie internazionali al dollaro convertibile in oro, che per molti decenni avrebbe permesso agli USA di dominare l’economia mondiale. Gli industriali americani investirono miliardi di dollari all’estero, facendo del paese il maggior creditore al mondo. Mentre Europa occidentale e Giappone ricostruivano e ampliavano le loro economie, gli imprenditori statunitensi stabilivano forti presidi industriali in Europa occidentale. Le monete estere entravano e uscivano liberamente dagli USA, sicché Wall Street divenne il mercato finanziario più affollato d’investitori esteri. I risparmiatori tornarono a puntare sulle azioni e, poco più di 15 L’Europa verso il mercato globale vent’anni dopo il crollo del ’29, credito e finanza USA riebbero prestigio. La classe media riprese a investire in borsa per lucrare utili dal boom delle imprese manifatturiere, tecnologiche e di servizi. Al crescente numero di privati investitori (20 milioni nel 1970) si aggiunsero i fondi comuni d’investimento delle banche. L’immaginario collettivo prevalso nel ventennio 1930-49, contraddistinto da sacrifici, privazioni e guerra, virò verso l’ottimismo e il desiderio di appropriarsi di una gamma di beni e servizi il cui consumo spesso aveva un alto valore simbolico. Un confronto con le dotazioni domestiche delle famiglie di alcuni paesi europei nell’anno 1960 mostra la precocità dell’economia nordamericana in fatto di produzioni e consumi di massa. L’elettrificazione quasi completata nel 1950, grazie agli investimenti in infrastrutture del New Deal, stava favorendo una diffusione capillare degli elettrodomestici. Tabella 13.7 Servizi e apparecchi domestici privati delle famiglie di sei paesi nell’anno 1960 (percentuali di tutte le famiglie) Acqua corrente calda e fredda Lavabiancheria Frigorifero Macchina da cucire elettrica Automobile USA Regno Unito Francia 93 73 90 45 77 77 45 30 12 35 41 32 41 14 40 Germania Ovest. 34 36 52 10 26 Italia 24 8 30 5 20 Fonte: C. Freeman and F. Luoçã, As Time Goes By. From the Industrial Revolution to the Information Revolution, Oxford University Press, Oxford 2001, Table 8.12, p. 290 Gli americani compravano televisori come trent’anni prima i loro padri avevano comprato apparecchi radio. Nel 1952 la Columbia Record Company produsse con successo un disco di plastica da far girare sul radiogrammofono. Nel 1957 comparve la rivoluzionaria macchina fotografica Polaroid, che sviluppava e stampava le foto scattate qualche minuto prima. Le auto private entrarono in concorrenza con le ferrovie sulle lunghe distanze. I cibi congelati, già comparsi trent’anni prima, cambiarono i consumi di milioni di persone che possedevano un frigo. L’aria condizionata, impiantata negli uffici pubblici e privati, divenne un elettrodomestico 16 Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009) diffusissimo nelle case e un segno sociale di distinzione, come prima lo era stato il televisore. Le carte di credito Visa e MasterCard cominciarono a diffondersi creando moneta virtuale aggiuntiva e permettendo a istituti bancari pionieri di aprire un nuovo promettente settore. Le grandi imprese americane per un quarantennio fabbricarono e vendettero prodotti destinati a una crescente massa di consumatori la cui domanda aggregata non cessava di crescere. Per la prima volta nella storia del paese, una riduzione della disparità dei redditi fra lavoratori manuali, quadri intellettuali e professionisti migliorò la qualità della vita sociale e culturale. Tabella 13.8 Principali elettrodomestici introdotti tra 1950 e 1989 Anni Cinquanta Frigo a due scomparti Televisione Anni Sessanta Televisione a colori Lavastoviglie Anni Settanta Forno a microonde Pompa di calore Asciugabiancheria Condizionatore centralizzato Convettore termico Tritarifiuti Compattatore di rifiuti Robot frullatore Lavatrice automatica Condizionamento d’aria Anni Ottanta Home computer Televisore ad ampio schermo Videoregistratore Lettore CD Antenna satellitare Fonte: N. Rosemberg - D. Mowery, Path of Innovation, cit. In quegli stessi decenni, nel settore agricolo delle big farms si ebbero incrementi di produttività largamente superiori a quelli dell’industria. La popolazione impiegata nel settore conobbe una considerevole riduzione per effetto dell’attrazione esercitata sulla manodopera dall’industria e dai servizi in costante espansione, oltre che dalla sostituzione nelle campagne del fattore lavoro con tecnologie sempre più avanzate. Anche le imprese agricole diminuirono di numero, mentre ne crescevano le dimensioni (più terra coltivata). Il resto lo fece l’uso di macchine più potenti e veloci, di sementi selezionate e di dosi quintuple di concimi chimici sulla stessa base coltivabile, rispetto a quelle sparse degli anni Venti e Trenta. Le rese del grano per ettaro raddoppiarono, quelle del mais triplicarono. Lo stesso quantitativo di cotone greggio fu ottenuto con un quinto delle ore di lavoro necessarie rispetto a prima del 17 L’Europa verso il mercato globale 1940. Per di più, i diretti coltivatori indipendenti calarono da 5,6 a 2,6 milioni fra il 1950 e il 1975, mentre il volume delle produzioni cresceva e il governo federale continuava a sostenere i redditi degli agricoltori, con prezzi minimi garantiti. Dal 1960 in poi la crescita della produttività, connessa con la ristrutturazione del settore, permise di sopravanzare con le esportazioni le importazioni, garantendo un saldo attivo alla bilancia commerciale agricola americana. Tabella 13.9 Popolazione residente e numero di occupati nell’agricoltura americana (1940-1980) Anni 1940 1950 1960 1970 1980 Popolazione agricola (milioni) 30.547 23.048 15.635 9.712 6.051 % su tutta la popolazione USA 23.2 15.3 8.7 4.8 2.7 Aziende agricole (milioni) 6.102 5.648 3.963 2.949 2.433 Occupati (milioni) 10.9 9.9 7.1 4.5 3.7 Fonte: United States Departement of Commerce, Bureau of the Census, Historical Statistics of the United States La moltiplicazione degli scambi di merci accelerò anche la produzione e vendita dei servizi per merito di campagne pubblicitarie radiofoniche, televisive e sui giornali come mai prima era accaduto. I viaggi turistici, gli svaghi - soprattutto il cinema e il teatro -, l’istruzione superiore (intesa come investimento), le comunicazioni sociali (radio, televisione e giornali), la diffusione di catene d’alberghi, ristoranti, lavanderie a gettoni e librerie pubbliche non cessarono di moltiplicarsi a partire dal New England e dalla California. Anche i servizi pubblici furono riorganizzati per essere prestati a grandi masse di utenti con una crescita della spesa federale e statale. 18 Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009) 13.5 Verso la crisi e nella crisi (1973-87) Nella seconda metà degli anni Sessanta, la politica sociale della Great Society intrapresa dal presidente democratico L.B. Johnson, assieme alla spesa pubblica ingente per la guerra in Vietnam e agli aumenti di salario ottenuti da operai e impiegati nel biennio 1968-69, causò un processo inflazionistico (troppa moneta e carte di credito in circolazione) che sfiorò la soglia del 6% annuo nel 1970. Nel ’71 il nuovo presidente R. Nixon ereditò un’inflazione all’8%. L’EMBARGO dei paesi arabi esportatori di petrolio (1973) in risposta alla guerra arabo-israeliana del Kippur complicò le cose. Una combinazione inedita d’iperinflazione (a due cifre su base annuale), bassa crescita economica e alta disoccupazione produssero la «stagflazione». Il cartello dei maggiori produttori di petrolio (OPEC) non cessò di alzare i prezzi, che culminarono nel triennio 1978-80 e accesero una fiammata inflazionistica (14,8% annuo negli USA nel 1980) nei paesi importatori, dove ormai cominciava a prevalere un’ideologia conservatrice orientata a «mettere ordine in casa propria», come sosteneva dal 1979 il primo ministro inglese Margaret Thatcher, lasciando fare al mercato: il grande taumaturgo invocato dai politici liberali e dagli economisti liberisti. Dal gennaio 1981 il neopresidente repubblicano Ronald Reagan si accinse a mettere ordine nella casa americana dichiarando: «Nella crisi che stiamo attraversando il governo non è la soluzione del nostro problema, il governo è il problema». Egli pose una serie di questioni: • l’amministrazione pubblica federale era pletorica. Il numero d’impiegati e burocrati andava ridotto; • lo stato sociale ereditato dal New Deal costava troppo; • l’imposizione fiscale progressiva gravava sui redditi più alti, indebolendo risparmio e investimenti e intralciando il funzionamento del libero mercato; • bisognava ridurre le funzioni dell’amministrazione federale (licenziamenti e soppressione di uffici); • deregolamentare il funzionamento dei mercati. 19 L’Europa verso il mercato globale Le soluzioni furono presto identificate a partire dalla Laffer curve, la semplice costatazione dell’economista A.B. Laffer, già fatta peraltro da J.M. Keynes e molti secoli prima da un filoso arabo, che al crescere delle aliquote del prelievo fiscale sulla ricchezza prodotta le entrate pubbliche calavano. Dunque, un minor prelievo avrebbe più che proporzionalmente accresciuto le entrate e lasciato nelle tasche dei contribuenti più risparmio che, investito, avrebbe prodotto ricchezza. La formula usata per sintetizzare l’insieme di provvedimenti liberisti fu Supply-side economics o economia dell’offerta, per effetto della quale ci si aspettava «più crescita con meno Stato». Se il taglio delle imposte federali fu prontamente approvato da un Congresso a maggioranza democratica, il governo di Ronald Reagan mancò clamorosamente l’obiettivo di abbattere la spesa pubblica, che addirittura fu gonfiata da spese militari aggiuntive di svariati miliardi di dollari per il progetto di difesa missilistica antiURSS, Strategic Defense Initiative (SDI), che i media chiamarono «Guerre stellari». Il divario crescente (deficit) nel bilancio pubblico statunitense fra entrate in calo (minore gettito fiscale) e uscite in crescita (maggiore spesa pubblica militare) ebbe effetti vistosi sia sull’economia interna, sia su quelle dei maggiori partner economici degli USA. La necessità di finanziare l’enorme deficit pubblico federale (> 5% del PIL) mise in moto i mercati finanziari interni ed esteri. La domanda pubblica di risorse fece aumentare il rendimento dei bond americani (titoli del debito pubblico). Un imponente flusso di capitali esteri finì nelle casse del Tesoro bisognoso di liquidità. La domanda di dollari da parte d’investitori esteri rivalutò la moneta americana causando un crollo delle esportazioni e un boom delle importazioni. Le industrie manifatturiere del Nord-Est ristagnavano e l’agricoltura entrò in seria crisi. Il calo del prezzo del petrolio danneggiò i produttori texani. Salari e stipendi diminuirono e il tasso di disoccupazione dal 5-6% degli anni 1978-79 balzò a più del 10% nel 198283. Negli stessi anni, un americano su quattro fu classificato come povero. Il disavanzo della bilancia commerciale, che nel 1985 toccò i 170 miliardi, assieme al crescente fabbisogno di denaro per finanziare un enorme debito pubblico (da 900 20 Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009) miliardi di $ nel 1981 a 2.800 a fine mandato Reagan nel 1989) trasformarono in breve il maggiore paese creditore del mondo nel più grande debitore: nel secondo semestre 2009, la somma del debito estero statunitense pubblico e privato (famiglie e imprese) è pari al 370% del PIL. E, tuttavia, il liberismo reganiano favorì un ritorno di fiducia nei consumatori e negli investitori, tagliò programmi federali giudicati inutili, ridimensionò un poco la burocrazia governativa, mantenne basso il costo del denaro (TUS della FED), controllò la massa monetaria e non ostacolò il crescente flusso d’immigrati in cerca di lavoro, riconoscendoli come una componente fondamentale per la crescita dell’economia. Solo i repubblicani più conservatori rimproverarono a Reagan di non avere impedito che gli Stati Uniti perdessero il controllo dei loro mercati finanziari a favore degli stranieri. Dai primi anni Ottanta, l’industria automobilistica giapponese accentuò la sua penetrazione negli USA e il grande settore cotoniero conobbe un declino frenato solo dall’adozione di tecnologie innovative a metà degli anni Novanta. La politica supplyside reganiana aveva portato stabilmente in deficit la bilancia commerciale e, soprattutto, aveva mancato l’obiettivo di accrescere risparmio e investimenti, entrambi per contro diminuiti e sostituiti da quelli esteri. Fra l’altro, la deregolamentazione delle Savings and Loan institutions (S&Ls, Casse di risparmio locali), i cui depositi erano garantiti dal governo federale, diffuse in molte piccole banche pratiche speculative delle quali era difficile valutare i rischi. Fra il 1988 e il ’91, vi furono fallimenti a catena di numerose S&Ls che costrinsero il governo a intervenire a difesa dei depositanti, con un appesantimento delle uscite federali e dei deficit del bilancio pubblico. 13.6 L’aggiustamento del sistema: la «New Economy» (1988-2006) Nel 1994, il presidente democratico Clinton e il Congresso a maggioranza repubblicana vararono il NAFTA, un’unione doganale con Canada e Messico che creò un mercato comune di 450 milioni di abitanti. Invece di proteggersi 21 L’Europa verso il mercato globale dall’aggressività delle maggiori economie estere (Giappone e Germania, cui in seguito si sarebbe aggiunta la Cina), aderendo alle richieste dei sindacati favorevoli a una politica protezionista, gli Stati Uniti avevano scelto di percorrere le strada della liberalizzazione. Contemporaneamente proseguiva senza soste un grande processo di mergers and acquisitions (fusioni e incorporazioni d’imprese), con il duplice scopo di attenuare la concorrenza e lucrare sulla vendita di attività acquisite, giudicate non abbastanza produttive. Fin dagli anni Ottanta, le grandi e medie imprese americane erano state travolte dall’esigenza di informatizzare i processi produttivi, di comunicazione e gestione. Il controllo numerico computerizzato, i codici a barre identificativi dei prodotti, le fibre ottiche come autostrade della comunicazione (dal fax alle e-mail), il pc su ogni scrivania e i telefoni cellulari trasformarono l’organizzazione delle imprese. Il risultato di un salto organizzativo imprenditoriale e sociale fu il taglio brutale di milioni di posti di lavoro (blue and white collar) che spazzò via quanti mancavano di una cultura tecnica aggiornata o aggiornabile, di un buon livello d’istruzione o di posizioni protette (come la burocrazia pubblica e le forze armate). Globalizzazione e tecnologia informatica accelerarono e cambiarono il modo di fare affari, mentre gli USA e le altre grandi potenze industriali promuovevano un abbassamento delle barriere doganali come strumento di sviluppo economico. I loro sforzi, molti dei quali realizzati dopo il 1995 tramite il WTO (World Trade Organisation), ebbero successo. Negli anni Ottanta, in California, una nuova generazione giovane e creativa aveva cominciato a lavorare a una grande rivoluzione tecnologica - l’informatica – che presto sarebbe divenuta un gigantesco mercato commerciale di massa. Quando computer, microelettronica (microprocessori) e telecomunicazioni raggiunsero adeguati livelli d’interazione, d’efficienza e di sostenibilità economica su larga scala, una galassia (constellation) di metodi produttivi e di prodotti innovativi cominciò a operare come il nuovo motore di sviluppo dell’economia statunitense, sostituendo il paradigma fordista invalso da un’ottantina d’anni. Ingredienti del nuovo corso il personal computer (Macintosh di Apple Inc. lanciato nel 1984) e Internet. La massa 22 Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009) critica fu raggiunta a metà degli anni Novanta, quando negli USA c’erano ormai 109 milioni di pc, nell’UE ce n’erano 50 e 25 in Giappone. La dinamica della «distruzione creatrice», identificata dal celebre economista J.A. SCHUMPETER nei primi anni Dieci del Novecento, rivedeva all’opera imprenditori creativi, inventori di nuovi modi di produrre e di nuovi prodotti e servizi. A sostenere le neonate imprese innovative in rapida crescita, con alta redditività potenziale e in cerca di capitali, intervennero istituti finanziari (venture capitalist) pronti a sottoscrivere quote di capitale sufficienti a ottenere la maggioranza della società e a prenderne la conduzione. Di pari passo, il capitalismo distruttore espelleva dall’economia individui e imprese incapaci d’innovare. Il prezzo più pesante fu pagato dagli operai «fordisti» a fine carriera delle regioni di prima industrializzazione della costa atlantica. Dopo gli operai toccò agli impiegati, a partire dai più anziani, incitati a pre-pensionarsi quando non furono letteralmente cacciati. Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, i colletti bianchi delle big corporations videro minacciato il loro posto di lavoro. La deregolamentazione reganiana ebbe un impatto analogo. Interi quadri impiegatizi delle grandi imprese furono smantellati mentre i dirigenti trasformavano le società in imprese competitive low-cost. Le ore passate a lavorare dai sopravvissuti alla decimazione aumentarono considerevolmente a scapito del tempo per la famiglia e per lo svago. Il computer portatile e il cellulare divennero strumenti di lavoro sempre all’opera, in casa e in automobile. Gran parte delle funzioni svolte dai quadri alti impiegatizi fu affidata a consulenti esterni dai compensi altissimi. A mano a mano che le società organizzavano una parte delle loro produzioni fuori dei confini nazionali e le importazioni di beni di largo consumo aumentavano, gli iscritti ai sindacati diminuivano di pari passo con stipendi e salari. Alla fine del XX secolo, solo il 12 % circa dei lavoratori dipendenti – esclusi gli operai agricoli – aveva una tessera sindacale. 13.7 La «grande crisi» d’inizio XXI secolo 23 L’Europa verso il mercato globale Dall’agosto 2007, l’economia statunitense fu coinvolta per gradi in una crisi bancaria e finanziaria rapidamente trasformatasi in recessione - netta caduta del PIL - che ha causato anche una crescente disoccupazione (dal 4,8% del febbraio 2008 al 9,7% nell’agosto 2009). Diffusasi per gradi anche negli altri paesi industrializzati, dal 15 settembre 2008 (fallimento della primaria banca d’affari americana Lehman Brothers) il sistema bancario internazionale è paralizzato dalla perdita di fiducia. Nel 2007, fu sottovalutata la crisi dei subprime mortgages (i mutui ipotecari) concessi a quanti non garantivano di pagare puntualmente le rate. Si trattava del settore creditizio a più alto rischio di insolvibilità dal quale, fin dagli ultimi mesi del 2006, erano arrivati crescenti segnali di difficoltà. La genesi del processo Dal 1997 alla fine del 2006, negli USA ci fu un boom edilizio eccezionale per durata e intensità. I prezzi delle case aumentarono in media del 7% (deflazionato) l’anno dal 1998 al 2005. Nel biennio 2004-05 i prezzi ebbero un picco per effetto della pressione sulla domanda di case esercitato dal gran numero di titolari di mutui subprime stipulati - dal 2004 in poi il 10% di tutti i contratti di mutuo - concessi a richiedenti fino allora esclusi perché incapaci di garantire il puntuale pagamento rateale del canone mensile (capitale e interesse). Costoro si impegnavano in operazioni finanziarie di carattere speculativo il cui rendimento dipendeva dal continuo aumento dei prezzi delle case. I titolari di mutui subprime per un paio d’anni sul capitale ricevuto pagavano un tasso di lancio ridotto e fisso. Dall’inizio del terzo anno, il tasso diventava variabile ed era indicizzato in base a un tasso espresso dal mercato monetario. La sostenibilità dell’ammontare delle rate, sensibilmente cresciuto, dipendeva dagli aumenti del prezzo delle case. Se, all’inizio del terzo anno, il debitore non riusciva a pagare puntualmente, restituiva in anticipo il capitale ottenuto stipulando un nuovo contratto di mutuo subprime di maggiore importo, in virtù dell’accresciuto valore del suo immobile, e la differenza fra i due mutui era da lui percepita come un guadagno. 24 Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009) Il ribasso del costo del denaro deciso nel 2001 da Greenspan (il capo della Federal Reserve) e proseguito fino al 2004, moltiplicò il ricorso a mutui prime (concessi a persone solvibili) facendo lievitare la domanda. La rigidità dell’offerta di case (serve tempo per costruirle) causò una crescita del 20% dei prezzi entro il 2003. Da allora, ai mutui ipotecari stipulati dalle banche con individui e famiglie capaci di sostenerne il peso economico si aggiunsero quelli concessi a debitori a rischio di solvibilità. Dalla metà del 2003 all’inizio del 2007, su tutti i mutui accordati, la percentuale di subprime passò dal 3% circa al 12-13% nel triennio 2005-07. La domanda aggiuntiva fece impennare i prezzi, che arrivarono a un + 55% nel 2006 rispetto al 2001. A mano a mano che i prezzi salivano, cresceva anche la concessione di mutui subprime in un clima di sfrenato ottimismo. Nell’agosto 2002 il presidente G.W. Bush aveva incitato a stipulare mutui, dichiarando che, per chi mancava del denaro per comprare casa, procedura e documentazione andavano semplificate. I capitali per finanziare i compratori a basso reddito sarebbero stati forniti da Fannie Mae e Freddie Mac, due grandi istituti creditizi sponsorizzati dal governo che stipulavano mutui ipotecari e recuperavano liquidità cartolarizzandoli sul mercato secondario. Presi insieme, nel 2005, con risorse proprie pari a 64 miliardi di $, Fannie Mae e Freddie Mac avevano concesso mutui subprime per 5.600 miliardi. Nel tempo, nessuna istituzione finanziaria può evitare di fallire con un quoziente di 87,5 tra crediti concessi e capitali propri (5.600 : 64). Le condizioni monetarie e finanziarie eccezionalmente favorevoli cominciarono a tramontare quando, tra il 2004 e il 2006, la FED alzò il tasso d’interesse diciassette volte a piccole tappe (+ 0,25% ogni volta), portandolo dall’1 al 5,25%, così da evitare un surriscaldamento dell’economia. Il costo del denaro più caro da un lato rallentò e, poi, bloccò la crescita dei prezzi delle case, dall’altro, rese insostenibile il pagamento delle rate di mutui subprime, portando al fallimento le famiglie meno abbienti (negli USA fallisce anche chi non è imprenditore). Contemporaneamente, la domanda di nuovi mutui si esaurì, essendo venute meno le condizioni favorevoli (basso costo del denaro e prezzi in crescita delle case). Il circolo virtuoso si trasformò in un circolo vizioso: rate più pesanti, aumento delle percentuali d’insolvenza sui 25 L’Europa verso il mercato globale mutui, vendita di case requisite ai debitori morosi o falliti e ulteriore discesa dei prezzi dei moltissimi immobili offerti in vendita. Le difficoltà si allargarono in breve anche alle famiglie economicamente più solide, minacciate da rate mensili sempre più onerose perché il costo del denaro continuava a crescere. L’effetto di contagio All’inizio, nel 2007, la crisi era nordamericana e sociale. Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), le perdite causate dalle difficoltà del mercato immobiliare e dei mutui ipotecari (la bolla speculativa non era ancora esplosa) ammontavano a circa 500 miliardi di $: un’inezia rispetto al patrimonio delle famiglie americane, valutato in più di 60.000 miliardi. In realtà, e senza dare troppo nell’occhio, il potenziale distruttivo dei subprime era stato capillarmente diffuso nel sistema bancario e finanziario mondiale attraverso il meccanismo chiamato originate and distribute. Un principio opposto a quello tradizionalmente osservato dalle banche commerciali detto originate and hold, vale a dire chi concede mutui ne mantiene la titolarità e il controllo fino alla scadenza, per quanto lontana essa sia. Dopo che nel 1999, presidente W.J. Clinton, fu votato il Gramm-Leach-Bliley Act, una radicale riforma bancaria che spazzò via il Banking Act approvato dal Congresso nel 1933, che proibiva alle banche commerciali di comprare e vendere titoli azionari, si passò a un nuovo sistema evolutosi clandestinamente nel corso degli ultimi decenni e, dal 1999, enormemente cresciuto grazie a tre processi concomitanti: • la deregolamentazione (Gramm-Leach-Bliley Act); • l’innovazione tecnologica (vendita dei crediti a media lunga scadenza per ottenere liquidità); • la crescente mobilità internazionale del capitale finanziario (i titoli derivati dai mutui prime e subprime erano scambiati sul mercato interbancario mondiale). Le banche, con la CARTOLARIZZAZIONE, «impacchettavano» i mutui da loro concessi e li vendevano a società create ad hoc che, a loro volta, emettevano titoli (Mortgage Backed Securities o MBS) in svariate tranches, facendoli poi valutare dalle AGENZIE 26 Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009) DI RATING che ne misuravano il rischio. Il rischio di credito era così trasferito all’intera platea degli investitori internazionali (banche e società finanziarie) che acquistavano le azioni MBS. Il sistema funzionava come un moto perpetuo: le banche si liberavano del rischio di credito vendendolo e incassavano liquidità utilizzata per concedere altri mutui, i cui crediti a loro volta sarebbero poi stati «impacchettati» e venduti. La diffusione del modello originate and distribuite propagò crediti rischiosi nel vasto mercato finanziario globale grazie alle lusinghiere valutazioni (tripla A) da parte delle agenzie di rating, spesso colluse con le banche. Si trattava di prodotti difficilmente vendibili ai singoli investitori, che le banche sistemavano nei loro fondi d’investimento senza che i clienti se ne avvedessero. Con le cartolarizzazioni il rischio era stato disseminato nel mercato mondiale. Chi aveva comprato a mani basse quei titoli «tossici»? Banche, fondi hedge (speculativi), fondi monetari e compagnie d’assicurazioni. La caduta dei prezzi degli immobili e l’aumento da uno a 5,25% del TUS (tasso ufficiale di sconto) bloccarono il mercato delle cartolarizzazioni. Non ci furono più compratori per quel genere di titoli (MBS) e i relativi prezzi crollarono. A causa dei nuovi principi contabili (mark to market), che imponevano di valutare ai valori di Borsa i titoli che detenevano, le banche iniziarono a registrare perdite molto pesanti (sia sui titoli posseduti, sia sui dividendi non incassati). Nell’aprile 2007, la New Century Financial, uno dei maggiori operatori sul mercato dei mutui, subprime fallì. Le perdite accumulate dagli istituti come la New Century Financial si diffusero rapidamente a cascata, contagiando i titoli derivati dai mutui e paralizzandone il mercato. Il flusso di liquidità assicurato al sistema da quel genere di operazioni improvvisamente cessò. La complessità dei prodotti derivati è tale da impedire agli investitori di misurare l’impatto negativo della crisi del mercato immobiliare sui loro portafogli titoli. Una crisi di fiducia si propagò rapidamente in Europa, partendo da Londra. Le maggiori banche che avevano acquistato a piene mani titoli MBS statunitensi scoprirono di essere nell’occhio di un ciclone bancario e finanziario divenuto internazionale. Il mercato interbancario interno ed estero sul quale le banche operano 27 L’Europa verso il mercato globale senza interruzione, prestando e prendendo a prestito liquidità, si paralizzò e smise di funzionare per una seria crisi di fiducia. Il 9 agosto 2007, il giorno in cui scoppiò il panico nel mondo bancario, la Banca Centrale Europea (ECB) iniettò nel sistema (prestandoli alle banche) liquidità per 95 miliardi e la Federal Reserve americana immise 24 miliardi di $. Da allora in poi, le banche centrali si sono completamente sostituite al mercato interbancario e hanno dovuto adattare e modificare i parametri d’intervento in tempo reale, in modo da stabilizzare più volte il sistema finanziario internazionale. Gli interventi concertati delle banche centrali dei diversi paesi economicamente avanzati non ha evitato fallimenti fra le banche più fragili e, all’inizio, molti pensarono che l’emergenza creditizia derivasse da problemi di liquidità. Col passare del tempo, ci si rese conto che il sistema bancario internazionale era precipitato in una crisi di fiducia d’eccezionale gravità e che l’euforia finanziaria dei primi anni del nuovo millennio era fondata su di un modello speculativo fallimentare. Il passare del tempo non fece che aggravare la situazione. Nel sistema bancario mondiale dominava il panico e si moltiplicarono i salvataggi di banche da parte dei governi. Così, dopo una prima stima (2007) delle perdite a 945 miliardi di dollari, due terzi dei quali a carico delle banche, proposta dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), a un anno di distanza (2008) la stessa istituzione valutò le perdite 4.000 miliardi, per due terzi sopportate dalle banche. Dall’autunno 2008, i governi dovettero abbandonare i singoli salvataggi bancari e adottare misure globali fondate su due livelli d’intervento: • estendere a tutti i titolari di depositi bancari la garanzia sui loro risparmi; • favorire iniezioni massicce di capitali per rafforzare gli indeboliti patrimoni delle banche. E tuttavia, dal terzo trimestre 2008, gli operatori di borsa si convinsero che l’economia mondiale stava entrando in recessione, a cominciare dai paesi industrializzati; recessione che avrebbe contagiato anche quelli in via di sviluppo. Il fallimento di Lehman Brothers (15 settembre 2008) dimezzò l’indice mondiale delle borse (- 50%) e affondò di più del 70% quello settoriale delle banche. 28 Crescita e limiti dell’economia statunitense (1938-2009) Gli operatori di un «piccolo» settore del credito statunitense – i mutui subprime – avendo ignorato ogni elementare prudenza, con un effetto valanga, hanno causato una crisi globale. Molto più che nel passato, questa crisi ha generato un diffuso sentimento d’ingiustizia nei paesi più avanzati come in quelli del terzo mondo. Le radici del terremoto risiedono tanto in difetti strutturali di una finanza predatoria che non ha ben misurato i rischi, quanto nella mancanza di regolazione e controlli del settore creditizio e finanziario statunitense. I nefasti effetti trasmessi dalla crisi di fiducia e di liquidità sull’economia reale (crollo della domanda e disoccupazione per molte decine di milioni di persone nei paesi OCSE) cominciano solo dal secondo semestre 2009 a manifestarsi nella loro crudezza. Da ultimo, la crisi sembra intimamente legata anche a un eccesso dottrinario: la convinzione diffusa nella maggioranza degli economisti (il mainstream disciplinare) che le proprietà d’autoregolazione dei mercati (laissez-faire, laissez-passer) bastino a mantenere in equilibrio i sistemi e che le istituzioni pubbliche debbano astenersi dall’intervenire nelle relazioni economiche, salvo invocare il ritorno del diritto e della politica quando il sistema, dissestato, deraglia. 29 14. Bilanci e prospettive 14.1 Bilancio delle economie del Terzo Mondo Prima della rivoluzione industriale, cioè fino all’inizio del XVIII secolo, i livelli di vita del futuro Terzo Mondo e quelli del futuro Occidente sviluppato non erano troppo diversi. C’è persino chi ha sostenuto (P. Bairoch) che il divario dei redditi tra i due gruppi a quel tempo non superasse il 10% a favore dei bianchi. Il rapporto prese a peggiorare dal 1830 in avanti, quando in Inghilterra l’industrializzazione superò un punto di non ritorno e nel continente europeo (Belgio) comparvero le prime fabbriche dotate di macchine a vapore utilizzate da grandi imprese verticalmente integrate. È interessante mettere il Prodotto Nazionale Lordo reale (corretto dalle distorsioni dovute al potere d’acquisto delle monete) dei paesi sviluppati occidentali sia in rapporto con quelli dei paesi del Terzo Mondo a economia di mercato, sia con quelli dei paesi in assoluto più indigenti (Etiopia, Nepal e Burundi), comparandoli lungo un periodo che va dal 1830 al principio del terzo millennio (2008). La disparità di reddito fra paesi sviluppati e paesi del Terzo Mondo a economia di mercato (colonna 1) non cambiò significativamente fino al 1860, l’epoca entro la quale si concluse la prima rivoluzione industriale in un piccolo gruppo di paesi occidentali. La forbice si allargò con decisione tra il 1860 e il 1913 (da poco meno del doppio a più del quadruplo) quando la Grande Guerra chiuse la seconda rivoluzione industriale, né smise di ampliarsi fino al 1938, allorché giunse al tramonto la lunga epoca coloniale. Se in poco più di un secolo (1830-1938), insomma, la disparità fra paesi sviluppati e paesi del Terzo Mondo a economia di mercato triplicò (3,2 volte), dal 1950 (5,7) al 2008 (11,6), un periodo di tumultuoso sviluppo economico, il ritmo di distanziamento fra economie di vertice ed economie 31 L’Europa verso il mercato globale in crescita andò attenuandosi, registrando un semplice raddoppio (2,03), con evidenti segnali di «frenata» dal 1980 in poi. Tabella 14.1 Disparità del Prodotto Nazionale reale pro capite (e indici 1830 = 100) tra Terzo Mondo e paesi sviluppati -------------------------------------------------------------------------------------------------------- Paesi sviluppati occidentali Paesi più sviluppati in rapporto ai Paesi in rapporto ai Paesi del Terzo Mondo più poveri a economia di mercato del Terzo Mondo ------------------------------------------------------------------------------------------------_ 1830 1,6 (100) 2,8 (100) 1860 1,7 (106) 4,5 (161) 1913 4,1 (256) 10,4 (371) 1938 5,1 (319) 11,9 (425) 1950 5,7 (356) 19,0 (678) 1960 6,5 (406) 25,5 (911) 1970 8,4 (525) 31,0 (1.107) 1980 8,5 (531) 37,0 (1.321) 1995 10,3 (644) 49,0 (1.750) 2008 11,6 (725) 80,0 (2.857) ------------------------------------------------------------------------------------------------Fonte: P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo, vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, Torino, 1999, vol. II, tab. 177, p. 1514; World Bank, World Development Indicators, Database (luglio 2009). Non riesce difficile immaginare che, d’ora in poi, il ritmo d’apertura della forbice rallenterà ulteriormente, sino a fermarsi (come avvenne nel decennio della crisi petrolifera), per poi addirittura invertire la tendenza sotto l’effetto dello sviluppo, nel Terzo Mondo, di nuovi protagonisti come Messico, Brasile, Turchia, Indonesia, e della maturità di economie sviluppatesi fra 1950 e 1980, che mireranno soprattutto a un equilibrato mantenimento dello statu quo ante. I valori della colonna 2 danno conto della sostanziale inefficacia della politica internazionale (ONU) tesa a correggere la disparità crescente fra «primo mondo» e quello degli ultimi paesi del Terzo (Etiopia, Nepal e Burundi), sempre più lontani dalla soglia della modernità, convenzionalmente misurata in ricchezza prodotta. E tuttavia, benché nel trentacinquennio 1960-1995 si sia verificata 32 Bilanci e prospettive un’apprezzabile decelerazione del ritmo di distanziamento tra le economie al top e quelle poverissime, ultime della lista mondiale della ricchezza prodotta pro capite, dal ’95 al 2008 il divario ha ripreso a crescere, e ciò nonostante i paesi ricchi siano cresciuti a un ritmo medio annuo del solo 1,5%. E tuttavia, benché ai giorni nostri il divario abbia assunto dimensioni paradossali ed eticamente e politicamente insostenibili, il processo di distanziamento ha mantenuto un ritmo costante nel lungo andare: fra 1830 e 1938 la disparità (11,9/2,8) peggiorò di 4,2 volte. Tra il 1950 e il 2008 (80/19) il quoziente è identico (4,2), ma è stato misurato su un ben minore numero di anni (58) rispetto ai 108 del primo periodo considerato. Se ne può dunque concludere che dalla metà del secolo scorso gli ultimi se la passano sempre peggio rispetto ai primi e che di recente (1995-2008) la loro precaria condizione peggiora a un ritmo più sostenuto (+ 4,8% annuo di aggravamento della distanza, rispetto al + 3,5% del periodo 1950-95). Se fra le due guerre (1913-1938) la crisi del commercio internazionale rallentò considerevolmente il divario economico Nord-Sud del mondo (da 10,4 a 11,9 volte il GDP pro capite), la globalizzazione esplosa dalla metà degli anni Ottanta in avanti, nell’accrescere vistosamente la mole di merci e servizi scambiati, ha quasi raddoppiato la distanza tra ricchi e poveri del mondo (da 49 a 80 volte). 14.2 I campioni dell’economia «globale» Non v’è dubbio che il processo di globalizzazione avviato dai bianchi fin dal XV secolo, rilanciato con veemenza nel XIX, e deragliato tragicamente nel ventennio fra le due guerre mondiali scatenate dagli europei, sia tornato d’attualità fin dalla fine della seconda guerra mondiale, avendo come banditori gli Stati Uniti d’America, la potenza militare ed economica rivelatasi decisiva in entrambi i conflitti. La misura convenzionale del livello di globalizzazione è data dal crescente volume complessivo delle merci esportate ogni anno, qua e là colpito da 33 L’Europa verso il mercato globale ripiegamenti dovuti a crisi settoriali o macroregionali come quella capitata in Asia orientale negli ultimi anni del secolo scorso, o più generali e durature come quella esplosa nel terzo quadrimestre del 2008: la crisi più estesa e pesante accaduta da duecento anni a questa parte. Per misurare le tendenze profilatesi fino all’anno 2008 conviene considerare i contributi delle diverse aree economiche del pianeta all’ampliamento del volume di merci uscite dai confini dei paesi produttori. Infatti, è ipotizzabile che esista una relazione diretta fra tendenziale aumento o diminuzione delle esportazioni di ogni paese o di ogni macroregione economica e lo stato di salute della rispettiva economia. I dati relativi al quinquennio 2000-2004 e ai singoli anni 2004 e 2008 sembrano assai istruttivi in proposito. Tabella 14.2 Contributo di paesi e aree economiche alla crescita delle esportazioni di merci (in percentuali di dollari correnti) ------------------------------------------------------------------------------------------------2000-2004 2004 2008 ------------------------------------------------------------------------------------------------Mondo 100 100 100 Paesi sviluppati 67,2 68,1 56 Resto del Mondo 32,8 31,9 44 Unione Europea dei 25 41,4 43,1 36,2 NAFTA* 16,8 14,5 12,9 (USA) (10,7) (9,0) (8,2) Giappone 5,5 6,2 5,0 Cina 5,0 6,5 9,0 CSI** 2,5 2,9 4,5 Totali 71,2 73,2 67,6 Paesi poveri 28,8 26,8 32,4 ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------*Canada, USA e Mexico; ** Paesi dell’Europa dell’Est e Russia (ex URSS). Fonte:UNSD, International Trade Statistics Yearbook 2009. Il significato delle informazioni è chiaro. Dall’inizio del nuovo millennio, la ricchezza esportata dai paesi sviluppati (un po’ più di due terzi di tutte le esportazioni) è in netto declino e gli effetti nefasti della peggiore crisi che si sia mai data potrebbero accelerare tale tendenza. Anche la vecchia Europa 34 Bilanci e prospettive dell’Unione a 25 appare in declino. Benché conservi la posizione di primato, il suo sostegno alla globalizzazione dei mercati è nettamente calato nel quinquennio 2004-2008. Lo stesso vale per la triade Canada, USA e Mexico (NAFTA) e per il Giappone. Una dinamica opposta di sviluppo sostenuto delle esportazioni contraddistingue le economie ex comuniste cinese e dell’Europa orientale. Nell’insieme, i paesi approdati a uno sviluppo economico maturo nella seconda metà del Novecento, dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso stanno vistosamente rallentando il loro contributo alla globalizzazione. Il Terzo Mondo, a economia di mercato e non, sta invece dando sostanziosi contributi alla crescita delle esportazioni, come del resto si conviene a economie che dagli anni Ottanta del XX secolo crescono a ritmi altissimi, aumentando fra l’altro la loro quota di merci tecnologicamente avanzate. La crescita del PIL per macroaree economiche non è meno istruttiva perché permette di misurare i differenziali tra economie e di proiettarli verso il prossimo futuro. Tabella 14.3 Crescita del GDP annuale (%) per aree economiche e paesi del mondo, 2004-2008 2004 2007 2008 UE dell’euro 2,0 2,7 0,7 Stati Uniti 4,4 2,1 0,4 Africa 5,1 6,3 5,2 CSI* 8,2 8,1 5,6 Developing Asia 7,8 10,6 7,6 Cina 10,1 13,0 9,0 India 6,9 9,4 7,3 Middle East 5,5 6,2 5,4 Brasile 5,0 5,7 5,1 Mondo 5,1 5,2 3,0 _________________________________________________________________ * Europa dell’Est e Russia ex URSS; Fonti: IMF, World Economic Outlook. L’Unione Europea si conferma l’economia di gran lunga meno dinamica del pianeta. Gli stessi Stati Uniti, ben più attivi degli europei occidentali nella produzione della ricchezza, si situano al di sotto dei livelli medi calcolati per ogni 35 L’Europa verso il mercato globale altra macroarea, compreso il continente nero, e nell’insieme per il mondo intero. La globalizzazione sta insomma compromettendo e alterando i tradizionali equilibri fra paesi e macroaree, mantenutisi relativamente stabili fin verso la fine del secolo scorso. Esiste una qualche terapia per risvegliare le economie della vecchia Europa occidentale dalle popolazioni sempre più vecchie e conservatrici? Qualche stimolo potrà venire dalle «giovani» economie ex comuniste dell’Europa centrale, in fuga dalla Russia, da poco accolte nell’Unione Europea e dalla Turchia, candidata a entrarvi nei prossimi anni, ma occorrerà armarsi di pazienza, tanto è ampio il differenziale dei redditi e dei consumi pro capite delle nazioni entrate da poco e ancora esterne alla zona euro (vedi supra, 10.3). Un trattamento stimolante e correttivo dall’interno dei paesi fondatori dell’Unione, assieme al controllo dell’inflazione, potrebbe consistere in una perseverante politica dei redditi, volta a invertire il processo di polarizzazione della ricchezza e di sperequazione crescente tra i ceti sociali, pericolosamente accentuatasi nell’ultimo quarto di secolo, con effetti sociali, economici e culturali fortemente disgregativi. I governi degli stati per lo sviluppo del lontano Oriente, da quelli delle piccole tigri a quelli dei giganti Cina e India, dove l’economia sta tumultuosamente progredendo a grandi passi, saggiamente perseguono politiche perequative della distribuzione della ricchezza, con positivi effetti sia sui livelli dei consumi interni, sia sulla propensione al risparmio delle popolazioni. Per concludere, conviene tornare ai movimenti di merci nello scenario dell’economia globale. Per l’anno 2006, l’ultimo esente dalle nefaste influenze della crisi in seguito apparsa tra New York e Chicago, la classifica – in valori assoluti – dei primi dieci paesi esportatori del mondo elenca otto vecchie conoscenze su dieci, tra le quali hanno fatto irruzione il Canada, strettamente legato agli USA nel NAFTA, e il dragone cinese da un ventennio in qua collezionista di primati. Per «pesare» l’economia dei singoli paesi conviene ponderare i volumi assoluti di ricchezza esportata con l’ammontare delle rispettive popolazioni. Si ottiene così 36 Bilanci e prospettive un indice relativo e comparabile d’abilità nel produrre dei surplus di beni – che riguarda circa un terzo della popolazione mondiale – rispetto alla capacità di assorbimento della domanda interna e alla maestria nel piazzarli all’estero, fidelizzando i compratori. Tabella 14.4 Primi dieci paesi esportatori nel 2006 (dollari USA correnti) Graduatoria 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Paesi (%)* Miliardi di $ Germania (86) 1.112 USA (78) 1.038 Cina (93) 969 Giappone (90) 650 Francia (79) 490 Olanda (65) 462 Regno Unito (74) 448 Italia (86) 411 Canada (54) 390 Belgio (79) 354 Popolazione** 82,5 301,6 1.320,0 127,7 61,7 16,3 61,0 59,4 33,0 10,6 $ pro capite 11.090 3.441 734 5.050 7.942 28.368 7.261 6.912 11.818 33.396 Graduatoria 4 9 10 8 5 2 6 7 3 1 * Percentuale di esportazioni tecnologicamente avanzate; ** Espressa in milioni. Fonte: WTO, Statistics, Country Profile, dati integrati con calcoli dell’Autore. La graduatoria di destra, che elenca cifre omogenee e comparabili, quasi capovolge quella di sinistra, basata sui valori assoluti. L’unico paese che mantiene la stessa posizione nelle due liste è la Francia (5). Addirittura, l’ultimo della graduatoria di sinistra diventa di gran lunga il primo in quella di destra. Il piccolo Belgio - incalzato da vicino dall’altrettanto piccola Olanda - primo paese industriale in ordine di tempo dell’Europa continentale, che alla vigilia della grande guerra (1910) contribuiva all’export mondiale con il 7,3 per cento (vedi supra, § 5.1.1) e ora vi concorre con il 3,1%, nel 2006 ha venduto all’estero una quantità di ricchezza pro capite di poco inferiore al PIL per abitante dello stesso anno (34.458 dollari). L’Olanda, seconda a distanza dal Belgio, esporta due volte e mezzo la quota per abitante del primatista mondiale in valore assoluto: la Germania, cinque volte e mezzo la quota del Giappone e otto volte quella degli Stati Uniti. A parte il Canada, che si piazza in terza posizione, gli altri tre paesi extraeuropei sono in coda alla classifica dei valori pro capite e, per di più, sono largamente distanziati da tutti gli 37 L’Europa verso il mercato globale altri. Se trascuriamo l’ultimo – il dragone cinese – neofito molto aggressivo e intraprendente del capitalismo e del commercio internazionale, che però sconta un recentissimo sviluppo assieme a un’immensa popolazione in maggioranza contadina, colpisce la comune condizione di Stati Uniti e Giappone che, pur esportando grandi quantità di manufatti industriali d’alta tecnologia, piazzano all’estero solo una piccola parte della ricchezza da loro prodotta (il 7,1 per cento gli USA e il 13,4 per cento il Giappone). In conclusione, la vecchia Europa occidentale, con sei paesi sui primi dieci della classifica delle esportazioni pro capite nel mondo, difende e mantiene un invidiabile primato. Il problema è che due terzi (67%) delle esportazioni delle sei economie europee restano entro i confini dell’Unione mentre, come mostrano efficacemente le percentuali d’aumento della ricchezza annualmente prodotta nel resto del mondo, i mercati più dinamici e recettivi si trovano assai lontano di lì e precisamente in quel Terzo Mondo in parte ex coloniale e del tutto arretrato - tipicamente l’Africa in silenziosa crescita (vedi Tab. 13.3) - che Alfred Sauvy scorse sull’orizzonte mondiale mezzo secolo fa. Conviene, infine, comparare la composizione delle esportazioni (prodotti agricoli, minerali e manufatti) delle macroaree del mondo per rendersi conto dei rispettivi livelli relativi di specializzazione settoriale. Tabella 14.5 Settori di provenienza delle esportazioni, valori percentuali per macro aree (2006) Asia Europa Nord America Centro e Sud America CSI Medio Oriente Africa Agricoltura 6 9 9 24 Minerali 10 11 14 43 Manifattura 84 80 77 33 7 2 9 67 76 71 26 22 20 Fonte: WTO, Statistics, Country Profile, 38 Bilanci e prospettive In generale, spicca il primato asiatico delle esportazioni manifatturiere (la maggior parte ad alta tecnologia) riconducibile all’azione perseverante e convinta degli stati per lo sviluppo. I mondi extraeuropei emancipatisi dal giogo coloniale entro il 1965 (vedi supra 11.1), a distanza di quasi mezzo secolo, ancora scontano un’arretratezza sociale, culturale e tecnologica che si riflette nelle attività intraprese nei singoli paesi dopo che fu raggiunta l’indipendenza politica. 14.4 Un ambiente fuori controllo? Negli ultimi decenni del XX secolo, ecologisti, fisici dell’atmosfera ed epidemiologi cominciarono a raccogliere grandi masse di dati empirici attorno al clima e a riflettere sulle interazioni e interdipendenze fra uomini e ambiente. Arrivarono così alla conclusione che la crescita di patologie collegate al peggioramento della qualità dell’aria, dell’acqua e dei suoli, assieme alla fase di riscaldamento del clima, derivano da un generale e crescente dissesto ambientale dovuto all’emissione in atmosfera di 23 miliardi di tonnellate annue di anidride carbonica (CO2), di polveri ultrafini (PM10 e PM2,5), di atomi di metalli pesanti (piombo, ferro, manganese, cromo, nichel, platino, palladio, rodio che sono irritativi, allergenici e tossici), di biossido di zolfo (SO2), monossido di carbonio (CO), biossido di azoto (NO2) e ozono (O3). Per misurare e comparare il grado di sostenibilità ambientale e i miglioramenti o peggioramenti della condizione ecologica del mondo, in collaborazione con il Forum economico mondiale e il Centro Comune di ricerca della Commissione UE, la Yale e la Columbia University elaborarono un indice: l’Environmental Performance Index (EPI) che valuta le condizioni ambientali con cinque diversi scopi operativi: 1. basare i processi decisionali riguardanti l’ambiente su un gran numero di dati scientifici raccolti sistematicamente; 2. verificare empiricamente l’efficacia delle politiche intraprese; 3. semplificare la misurazione dei risultati raggiunti; 39 L’Europa verso il mercato globale 4. individuare primi e ultimi nella classifica mondiale dei paesi e risalire alle pratiche migliori usate altrove per risanare l’ambiente; 5. ridurre il conflitto tra crescita del PIL e miglioramenti nella graduatoria mondiale. L’indice EPI riassume le informazioni relative a 16 categorie espressive della qualità della vita umana raggruppate in cinque insiemi. Il primo concerne la salute collegata all’ambiente (e misura la mortalità infantile, la qualità dell’aria, dell’acqua potabile nonché le condizioni igieniche). Il secondo valuta la qualità dell’aria (presenza di particolati nell’aria respirata nelle città, livelli di ozono, densità di nitrogeni, consumo d’acqua). Il terzo misura la salvaguardia della biodiversità dell’habitat (protezione delle aree incolte e boschive, salvaguardia dei caratteri ambientali originari). Il quarto stima la produzione di risorse naturali (il ritmo di taglio dei boschi, i sussidi per l’agricoltura, l’impoverimento delle risorse ittiche). L’ultimo accerta la sostenibilità energetica (efficienza energetica, energia da fonti rinnovabili, CO2 ponderato rispetto al PIL (GDP), Energy efficiency, renewable energy, CO2 per PIL). La classifica mondiale dell’indice EPI pubblicata nel 2007 fa riflettere e riserva alcune sorprese. Tabella 14.6 Enviromental Performance Index (EPI) 2008, Classifiche Primi dieci Paesi 1 Svizzera 2 Norvegia 3 Svezia 4 5 6 7 8 9 10 Finlandia Costa Rica Austria Nuova Zelanda Lituania Colombia Francia Altri Paesi 12 Canada 13 Germania 14 Regno Unito di Gran Bret. 21 Giappone 24 Italia 28 Russia 39 Stati Uniti 40 Taiwan 55 Olanda 57 Belgio Fonte: www.aci.org/doclib/20060517_EstyPresentation.PDF- 40 Ultimi dieci Paesi 124 Sudan 125 Bangladesh 126 Burkina Faso 127 128 129 130 131 132 133 Pakistan Angola Etiopia Mali Mauritania Taiwan Niger Bilanci e prospettive Tra i primi dieci della classifica figurano sei paesi europei a relativamente bassa densità di popolazione. Canada, Germania, Regno Unito, Giappone, Italia e Russia precedono nettamente gli Stati Uniti. I punti deboli delle condizioni ambientali degli USA, uno dei più ricchi paesi del mondo (6° per reddito pro capite nel 2008), sono dati da una cattiva qualità dell’aria in progressivo peggioramento (nel marzo 2001 gli USA emettevano in atmosfera il 36,2% di tutti gli inquinanti sparsi nell’aria, nelle acque e nei suoli nel mondo) e da una produzione di risorse naturali inferiori all’ottimo equilibrio. La comparazione dei livelli di emissioni annue pro capite di biossido di carbonio (CO2, chiamato anche anidride carbonica) e di ossidi di zolfo (SOx), che sono fra i maggiori fattori di riscaldamento del clima, d’inquinamento dell’aria e di distruzione degli alberi, nonché la quantità di energia elettrica consumata nei sette paesi economicamente più evoluti, permette di osservare che Stati Uniti e Canada in tutti e tre i confronti presentano i valori nettamente peggiori. Tabella 13.3 Emissioni in atmosfera di CO2 pro capite (in tonnellate), di SOx (ossidi di zolfo, in Kg) e consumi di energia elettrica (kWh) dei sette paesi economicamente più evoluti (dati 2002) CO2 Ton SOx Kg kWh Stati Uniti 19,8 Canada Giappone Germania Francia 16,8 9,5 10,1 6,2 Regno Unito 8,9 Italia 7,5 49,4 76,2 6,7 7,4 9 16,6 11,4 13.228 16.939 8.220 6.742 7.366 6.158 5.447 Fonte: Global Footprint Network, National Footprint Accounts 2008 edition Il governo statunitense aderì con il presidente Clinton al protocollo di Kyoto (1997) per meno di un anno, giacché uno dei primi provvedimenti presi dopo l’insediamento (gennaio 2001) da G.W. Bush fu il ritiro dell’adesione che impegna le nazioni firmatarie a diminuire di almeno il 5% le rispettive emissioni dell’anno 1990 - considerato come anno base - nel periodo 2008-2012. Con la nuova amministrazione di Barak H. Obama, il settore economico della cosiddetta 41 L’Europa verso il mercato globale «economia verde» sembra avere un possibile futuro, e ciò benché i due terzi dell’elettricità prodotta nel Paese derivi dalla combustione di fossili (un miliardo di tonnellate annue di carbone dall’inizio del nuovo secolo e 305 milioni di tonnellate di petrolio nel 2007): combustibili che gli studiosi considerano i maggiori responsabili della fase di riscaldamento del clima. Gli scienziati della natura che approfondiscono le molteplici questioni legate allo squilibrio crescente fra risorse e consumi globali hanno calcolato la capacità complessiva del pianeta di sostenere lo sfruttamento delle risorse rinnovabili di energia, acqua e minerali oltre il livello della quale gli uomini attingono alle risorse non rinnovabili intaccandone le riserve. Nell’anno 1961, rispetto alla biocapacità del pianeta, in capo a un anno i consumi di risorse rinnovabili arrivarono al 55%, come a dire che il complementare 45% fu risparmiato. Anno dopo anno il consumo non cessò di crescere fino al 1986, quando per la prima volta l’intero ammontare di risorse rinnovabili fu consumato entro il 31 dicembre. Da allora in poi, il giorno e mese dell’anno in cui le risorse rinnovabili potevano dirsi interamente consumate cadde sempre prima, intaccando per quote crescenti le sempre più magre scorte di risorse non rinnovabili. Nel 2005, le risorse rinnovabili mondiali furono esaurite il 2 ottobre e, dal giorno dopo alla fine dell’anno (90 giorni), fu sfruttato il patrimonio non rinnovabile intaccandone irrimediabilmente la consistenza. Nel 2009, nonostante un deciso rallentamento delle attività produttive e dei consumi per effetto della grande crisi in corso, il fatidico overshoot day è caduto il 25 settembre: una settimana prima rispetto al 2005. Di solito non si fa troppo caso al crescente emungimento di acqua potabile da falde sempre più profonde. In realtà, le scorte sotterranee di milioni di litri d’acqua continuano a calare perché il ciclo naturale dell’acqua non assicura il pareggio fra stivaggio delle acque piovane e di quelle prodotte dallo scioglimento dei ghiacciai e prelievi per i più diversi consumi in superficie. Qualcosa di simile riguarda la deforestazione, cioè il taglio d’alberi d’alto fusto utilizzati per una varietà di consumi che vanno dalla pasta di legno per fare carta alla produzione di mobilio pregiato. Ogni anno scompaiono circa 13 milioni di 42 Bilanci e prospettive ettari di boschi e foreste. Una superficie pari a quella delle regioni Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana. Nell’ultimo trentennio anche la biodiversità (il numero di specie vertebrate selvatiche esistenti) nel mondo è calata del 30%, il pesce di mare pescato supera di tre quarti il limite che garantisce il mantenimento dell’equilibrio del patrimonio ittico. Da ultimo, lo sfruttamento intensivo dei terreni agricoli sta rendendo sterile il 10% delle coltivazioni. La tecnologia non ci salverà se non cesseremo di sfruttare l’ambiente con attitudini predatorie. Sta per finire il tempo in cui è ancora possibile un ravvedimento collettivo, a cominciare dalla civiltà occidentale che da secoli sfrutta le risorse naturali del pianeta come se fossero infinite. 43 Aggiornamento Glossario italiano Banca Centrale Europea (BCE), banca centrale dell’Unione Europea che attua la politica monetaria per quei sedici paesi dell’Unione che, all’inizio del 2002, cambiarono le loro monete nazionali con l’euro. Nel 2009 sono: Austria, Belgio, Cipro, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna. La BCE fu istituita il 1° giugno 1998. Ha personalità giuridica autonoma e persegue come scopo principale il controllo dell’andamento dei prezzi per mantenere stabile il potere d’acquisto della moneta. Con opportune politiche, controllando la base monetaria e fissando il tasso d’interesse a medio periodo, essa tende a mantenere il tasso d’inflazione di poco inferiore al 2% annuo. Inoltre, a parte la stabilità dei prezzi, la BCE sostiene le politiche economiche nell’Unione per contribuire alla realizzazione degli obiettivi comuni, coerenti con un’economia di mercato aperta e di libera concorrenza e cioè: il raggiungimento e mantenimento di un alto livello di occupazione (pieno impiego) assieme a una crescita economica sostenibile e non inflazionistica. Bilancia dei pagamenti, differenza tra pagamenti in entrata e in uscita tra un paese e il resto del mondo. Comprende la Bilancia commerciale (vedi) e le Partite invisibili (vedi). Costituisce un valido strumento per misurare lo stato di salute economica di un Paese perché, a parte il segno e il valore del saldo, offre informazioni sulla struttura produttiva nazionale, sulla situazione congiunturale (comparando i saldi nel medio periodo), sui fornitori (importazioni) e i clienti (esportazioni), sulla competitività dei settori produttivi del Paese. Cartolarizzazione, operazione con la quale la banca che ha concesso un mutuo ipotecario cede il suo credito ad altri in cambio di liquidità, quando il capitale prestato è stato solo in parte restituito. L’acquisto del credito è finanziato con l’emissione di obbligazioni che rendono un tasso d’interesse inferiore a quello pagato dal mutuatario. Federal Reserve System (FED), negli Stati Uniti svolge il ruolo di Banca centrale. Istituito nel 1913, si articola su due livelli: a) 12 banche federali di riserva svolgono nel rispettivo distretto le funzioni di banca centrale (emissione di moneta, sconto, anticipi); b) Sono controllate da un consiglio di amministrazione dei Governatori, composto di sette membri, nominati dal Presidente degli USA con l’approvazione del 45 L’Europa verso il mercato globale Senato, che siedono in permanenza a Washington e restano in carica 14 anni. La FED modifica la percentuale delle riserve obbligatorie delle banche affiliate, decide il Tasso ufficiale di sconto e il tasso d’interesse accordato a depositi a termine; opera anche sul mercato aperto, drenando moneta o immettendo liquidità nel sistema secondo le decisioni di politica economica federale. Finanza internazionale, scambi fra operatori di più paesi di debiti e crediti espressi in moneta causati dallo scambio internazionale di merci, servizi e capitali alla ricerca del migliore impiego. Globalizzazione, processo orientato alla realizzazione di un mercato di dimensione mondiale, facilitata e promossa dall’abbassamento/eliminazione delle dogane sulle merci importate. Ne deriva un’omogeneizzazione dei bisogni dei consumatori e una standardizzazione dei prodotti, mentre si perfezionano di continuo i mezzi e le reti di comunicazione commerciale e sociale. Le imprese che partecipano alla G. hanno struttura elastica, dinamica e sono tecnologicamente avanzate, sia per la produzione, sia per la distribuzione sui diversi mercati nazionali dei loro prodotti. Il mercato globale, fortemente concorrenziale, costringe le imprese a rivedere di continuo i loro piani strategici per non trovarsi ai margini o fuori dal gioco degli scambi. Juglar Clement (Parigi 1819-1905), nella sua opera principale: Des crises commerciales et de leur retour périodique en France, en Angleterre et aux EtatsUnis (1889) affrontò la spiegazione delle crisi e delle depressioni economiche ricorrendo al concetto di ciclo. Per primo identificò in alcune importanti serie storiche di prezzi, di tassi d’interesse e dei volumi dei depositi bancari, regolarità cicliche decennali in seguito definite da J.A. Schumpeter cicli Juglar. La sua interpretazione delle depressioni come inevitabili conseguenze delle espansioni economiche riecheggia nelle moderne teorie macrodinamiche del ciclo. Mutuo ipotecario, contratto fra una parte (mutuante) che consegna all’altra (mutuatario) una somma di denaro che sarà restituita a rate, secondo scadenze prefissate, in un tempo medio-lungo, con l’aggiunta di un interesse stabilito fra i contraenti. A garanzia del pagamento, il mutuatario offre una garanzia reale ipoteca - su di un bene immobile che passerà in proprietà del creditore nel caso che il debitore riesca solo in parte a restituire il capitale avuto in prestito. Politica dei redditi, in generale, politica economica volta a contenere aumenti dei prezzi e dei salari per stabilizzare l’economia. In passato, i governi preferivano ricorrere a misure monetarie e fiscali. L’adozione di una politica dei prezzi fu raccomandata nel 1962 dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo come mezzo efficace per controllare l’inflazione dei prezzi. 46 Glossario Politica economica anticiclica, politica economica volta ad attenuare le fluttuazioni annuali del reddito nazionale. La spesa pubblica è l'elemento di manovra principale. Nei periodi di depressione, quando gli investimenti privati vengono meno, il governo aumenta la spesa pubblica, tanto per mantenere i livelli occupazionali, quanto per stimolare la ripresa degli investimenti privati. Per contro, in periodi di espansione e di surriscaldamento dell'economia, la spesa pubblica diminuirà per non contribuire all'avvio di una spirale inflativa dei prezzi causata da un eccesso di domanda. Le misure di P.e.a. sono il risultato pratico dell'applicazione dei principi della teoria macroeconomica formulata da J.M. Keynes attorno alla metà degli anni Trenta, in cui dimostrò che nel breve periodo le oscillazioni del reddito nazionale, attraverso il meccanismo del Moltiplicatore (vedi), derivano dagli investimenti privati e dalla spesa pubblica. Rating (agenzia di), metodo di classificazione delle obbligazioni (vedi) e delle imprese e/o degli stati che le emettono. I rating (in lettere dell’alfabeto) sono periodicamente pubblicati da agenzie specializzate (es. Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch Ratings, ecc.). In base ai R., il mercato stabilisce un premio per il rischio affrontato da chi acquista i titoli. Un peggioramento del R. aumenta il premio per il rischio corso dall’investitore e chi emette le obbligazioni dovrà aumentare lo spread (un tasso d’interesse addizionale) rispetto al tasso medio di mercato per ripagare gli investitori del maggior rischio che corrono. Un declassamento del R. causa un rialzo degli interessi applicati ai prestiti in corso, con aumento degli oneri finanziari, e un deprezzamento dei titoli trattati nelle Borse. Relazioni industriali, rapporti fra imprese e loro associazioni da una parte e lavoratori e loro sindacati dall’altra. Un terzo soggetto delle R.I. è lo Stato che in genere svolge il ruolo di mediatore fra le parti. Le R.I differiscono da paese a paese secondo i quadri istituzionali, politici ed economici. Schumpeter Joseph Alois (Moravia 1883-Connecticut 1950), professore di economia a Czernowitz, Graz e Bonn (1909-31). Nel ’32 emigra negli USA dove insegna ad Harvard (1932-50). La sua vasta cultura storica, sociologica ed economica è profusa nelle grandi opere della maturità: Business Cycles (1939); Capitalism, Socialism and Democracy, entrambi usciti postumi nel 1954. Per primo egli assunse un approccio dinamico fondato sull’idea che lo sviluppo economico dipenda principalmente dalle innovazioni tecnologiche introdotte a grappoli dalla ristretta élite degli imprenditori innovatori. Le innovazioni, finanziate dal credito, sarebbero stimolate dalle aspettative di un profitto monopolistico da parte degli imprenditori. 47 Novantanove opere per scoprire e approfondire Aldcroft, D.H., (1992), L’economia europea dal 1914 a oggi, Roma-Bari. 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