Stagione 2012-2013 Martedì 27 novembre 2012, ore 20.30 Alberto Miodini pianoforte Ivan Rabaglia violino Enrico Bronzi violoncello Sala Verdi del Conservatorio Trio di Parma Ciclo integrale dei Trii di Dvořák - II Trio n. 2 in sol minore op. 26 Trio n. 3 in fa minore op. 65 5 Consiglieri di turno Direttore Artistico Paolo Arcà Lodovico Barassi Alberto Conti Sponsor istituzionali Con il contributo di per i 150 anni del Quartetto Con il patrocinio di Sponsor ciclo Beethoven Soggetto di rilevanza regionale È vietato, senza il consenso dell’artista, fare fotografie e registrazioni, audio o video, anche con il cellulare. Iniziato il concerto, si può entrare in sala solo alla fine di ogni composizione. Si raccomanda di: • disattivare le suonerie dei telefoni e ogni altro apparecchio con dispositivi acustici; • evitare colpi di tosse e fruscii del programma; • non lasciare la sala fino al congedo dell’artista. Il programma è pubblicato sul nostro sito web dal venerdì precedente il concerto. Antonin Dvořák (Nelahozeves 1841 - Praga 1904) Trio n. 2 in sol minore op. 26 (ca. 33’) I. Allegro moderato II. Largo III. Scherzo IV. Allegro non tanto Anno di composizione: 1876 Prima esecuzione: Turnow (Liberec), 29 giugno 1879 Trio n. 3 in fa minore op. 65 (ca. 43’) I. Allegro ma non troppo II. Allegro grazioso III. Poco adagio IV. Allegro con brio Anno di composizione: 1883 Prima esecuzione: Mlada Boleslav, 27 ottobre 1883 All’epoca del centenario della nascita di Dvořák, nel 1941, il musicologo inglese Gerald Abraham faceva una considerazione che rimane valida anche oggi: «La nostra concezione della personalità musicale di Dvořák, se è basata principalmente su, diciamo, la Sinfonia “Dal nuovo mondo” e quella in sol maggiore, sul Quartetto in fa maggiore “Americano”, sulle Danze slave e l’Ouverture Carnaval, è pressoché falsa quanto potrebbe esserlo una caricatura che riducesse una persona coi baffi a un solo mustacchio». I motivi della ancor oggi scarsa comprensione della musica di uno degli autori più versatili, produttivi e complessi dell’Ottocento risiede forse nella difficoltà a collocare in maniera adeguata Praga nella cultura europea moderna. In effetti è solo dal 1993, con la nascita dell’attuale Repubblica, che la popolazione della Boemia, della Moravia e della Slesia meridionale ha trovato finalmente un assetto politico autonomo e indipendente, dopo oltre quattro secoli. L’intero arco della vita di Dvořák si è sviluppato all’interno del dominio asburgico, che è sembrato ai cechi ancora più insopportabile e frustrante dopo la riforma costituzionale del 1867, conosciuta come l’Ausgleich, secondo la quale la parte ungherese dell’Impero acquistava pari dignità e autonomia rispetto a quella viennese. La questione nazionale ha innervato l’intera vita culturale di Praga nell’Ottocento e la figura di Dvořák è sempre stata giudicata a seconda della declinazione di questo tema all’interno della sua produzione. In realtà il tasso di nazionalismo della sua musica, specie di quella strumentale, non è così semplice da misurare. Il fenomeno è ulteriormente complicato dall’immagine rustica e naïve volutamente costruita nel corso del tempo dall’artista per proteggere e nascondere una personalità ben consapevole dei propri mezzi e assolutamente determinata a forgiare uno stile e un linguaggio originale. Il risultato è stato che Dvořák, uno dei massimi artisti boemi di tutti i tempi, sia stato considerato un musicista nazionale (ovvero, di genere) al di fuori dei confini del proprio paese, mentre all’interno la sua figura, malgrado l’enorme popolarità della sua musica, è stata oggetto di aspre e astiose polemiche dalla fine dell’Ottocento in poi. La musica da camera di Dvořák, per esempio, è in gran parte poco conosciuta e sopravvive all’ombra di pochi capolavori, ammirati soprattutto per le caratteristiche “nazionali” delle melodie e del ritmo. In realtà, sono proprio i requisiti “internazionali” a conferire ai lavori di Dvořák un rilievo notevole nella musica europea del secondo Ottocento. La prima produzione degli anni Sessanta rivela per esempio un giovane autore romantico di esuberante talento, impegnato a trasferire nelle forme tradizionali della musica da camera le travolgenti esperienze fatte con i poemi sinfonici di Liszt e soprattutto con le opere di Wagner. Nei lavori sopravvissuti alla severa autocritica di Dvořák, che ha distrutto o nascosto molta della musica scritta in quella fase della sua vita artistica, una critica superficiale o interessata ha creato il luogo comune del musicista immaturo e provinciale, ancora incapace di padroneggiare il linguaggio classico. L’aspetto prolisso della forma e la scarsa definizione di un asse armonico principale, viceversa, erano il frutto non dell’ignoranza, bensì dell’eccesso di sperimentalismo. Il giovane Dvořák sentiva la necessità di esprimersi con la sconvolgente libertà del linguaggio di Wagner, ma non intendeva rinunciare alle forme tradizionali della musica classica, incarnata soprattutto dal quartetto per archi. Questo forte senso di appartenenza a una tradizione significava per lui vivere la modernità in maniera molto conflittuale. La tensione tra passato e futuro si rispecchiava in lavori contraddittori e a volte poco equilibrati, che lo stesso Dvořák ha eliminato dalla sua produzione ufficiale. La lunga fase della ricerca di una propria identità artistica arriva a una svolta nel 1873, l’anno che segna il matrimonio con Anna Cermakova e la separazione artistica dalla figura di Smetana. Allontanandosi dalla musica e dal teatro dell’eroe indiscusso della sua giovinezza, Dvořák inizia un cammino che lo porterà nel giro di pochi anni alla conoscenza di Brahms e al riconoscimento internazionale del suo lavoro. Il Secondo Trio con pianoforte appartiene appunto a questa nuova fase di convalescenza, dopo la violenta ma necessaria malattia infantile del wagnerismo. In una certa misura è significativo che Dvořák abbia pensato al Trio in sol minore di Smetana, un lavoro scritto in circostanze analoghe, per esprimere il dolore per la perdita della prima figlia Josefa, una povera creatura vissuta soltanto un paio di giorni nel settembre del 1875. A differenza del capolavoro di Smetana, però, il Trio di Dvořák ha un carattere più riflessivo ed elegiaco che drammatico. Ma soprattutto la scrittura manifesta il desiderio di conferire all’espressione dolorosa una forma più logica e razionale, soprattutto nei due movimenti esterni. L’“Allegro moderato” iniziale è una forma di sonata ben organizzata attorno a due temi di natura diversa, ma egualmente trascinanti nell’invenzione melodica. Lo sviluppo prende forma attraverso l’intreccio colloquiale di queste due voci principali, ma le spezie più piccanti sono sparse nella ripresa, quando il secondo tema ritorna nella tonalità di sol maggiore, aprendo improvvisamente nel melanconico umore del movimento uno spazio di speranza. La stessa serenità si diffonde dalla bella melodia in mi bemolle maggiore che apre il “Largo”. Il motivo passa dal violoncello al pianoforte e al violino con la dolcezza di un abbraccio, ma diventa più interessante al centro del movimento, quando si trasfigura nella cristallina purezza del registro acuto del pianoforte in una delicata trama di incastri ritmici da carillon. Lo “Scherzo” è giocato su un rapido tema di cinque battute, che crea l’effetto di un ritmo zoppicante. Il Finale ritorna alla solida forma del rondò sonata. La contrapposizione tra sol minore e sol maggiore, che avevamo sentito nell’ultima parte del primo movimento, alimenta anche il finale del lavoro, rivelando l’influenza della musica di Schubert sulla scrittura da camera di Dvořák. Rispetto alle due settimane impiegate per scrivere il Trio in sol minore, la lunga genesi di quello in fa minore op. 65 metteva in luce un travaglio spirituale insospettabile, in un musicista che all’inizio degli anni Ottanta sembrava finalmente baciato da un successo su scala europea. Il lavoro, scritto tra febbraio e marzo del 1883, venne sottoposto immediatamente a una revisione all’indomani della prima esecuzione, licenziando la versione definitiva solo in autunno. Dvořák rimase a lungo incerto anche sulla posizione dei due movimenti interni, risolvendo infine di collocare lo “Scherzo” prima del movimento lento. Ma il segnale forse più evidente dell’insoddisfazione di Dvořák consiste nell’assenza della consueta formula posta a sigillo del manoscritto, Bohu diky!, che in boemo significa “Grazie a Dio”. Qualche motivo per sentirsi un po’ in lite con il Padreterno, il musicista ce l’aveva. Dvořák aveva appena perso l’amatissima madre e allo stesso tempo si trovava a fronteggiare una situazione artistica che lo metteva a disagio. La crescente popolarità, infatti, lo spingeva nelle braccia dei nazionalisti, che vedevano in lui il nuovo campione dell’arte ceca, mentre la stima per Brahms lo induceva a misurarsi sempre più da vicino con la musica tedesca. Dvořák aveva ascoltato da poco il nuovo Trio in do maggiore op. 87 del collega più anziano, che lo aveva notevolmente aiutato, pur con una punta di condiscendenza, negli anni precedenti. Era l’inizio di un confronto e anche di una rivalità artistica culminante in seguito nella Settima Sinfonia, ma che affonda le sue radici nella musica da camera dei primi anni Ottanta. L’inizio dell’“Allegro ma non troppo” richiama infatti l’analogo “Allegro” del Trio di Brahms, che aveva aperto il lavoro con un unisono degli strumenti ad arco soli, lasciando al pianoforte il compito di completare poi la frase. Sarà un caso, ma il punto di partenza dei due Trii è lo stesso, la nota do. Il lavoro di Dvořák però s’inerpica immediatamente su un versante molto più drammatico, con una spettacolare salita su tre ottave, dal sol grave al sovracuto, e un altrettanto spettacolare crescendo dal pianissimo al fortissimo, che gettano sin dall’inizio una luce violenta sul contenuto espressivo della partitura. La costruzione della forma si sviluppa attraverso un raffinato racconto, nel quale i vari elementi architettonici si mescolano in un flusso continuo di ampio respiro. Il materiale tematico compie un lungo viaggio armonico prima di ritornare al fa minore iniziale, toccando tonalità lontanissime come quella di si maggiore e di do diesis minore. La ripresa del tema avviene questa volta con tutta la forza dell’impeto, che all’inizio invece era trattenuto. L’area del primo tema si allarga fino a comprendere vari motivi, come nei grandi lavori di Schubert, e la ripresa ricapitola l’intero viaggio sotto una luce più serena, anche se non pacificata. L’“Allegro grazioso” che prende il posto dello “Scherzo” si presenta nella lontana tonalità di do diesis minore. Il tono tuttavia è piuttosto quello della musica contadina, con un ritmo irregolare segnato dagli accenti spostati, mentre sullo sfondo le terzine degli archi cozzano contro il piede binario del tema. Il trio centrale in maggiore (in forma enarmonica di re bemolle maggiore) si distende in una struggente melodia, che prepara l’intenso lirismo del successivo “Poco Adagio”. Il genio melodico di Dvořák trova qui una varietà di stili espressivi, che vanno dal canto spiegato alla cantilena infantile, dal mormorio quasi parlato al declamato lirico, che raggiunge momenti di violenta e quasi brutale intensità drammatica come nell’episodio agitato in sol diesis minore. Il Finale infine fa piazza pulita di tutto il pittoresco in genere attribuito alla musica di Dvořák. Il ritmo di base è quello di una danza popolare boema, il furiant, tanto spesso usato nei finali dell’autore. Ma anche qui il trattamento è simile a quello delle composizioni “ungheresi” di Brahms, ovvero un’interpretazione colta e per nulla descrittiva della musica popolare. Abbonda per esempio l’uso della emiolia, ossia un ritmo ternario distribuito su due battute, un espediente tipico della musica di Brahms, così come la scrittura strumentale cerca sonorità preziose nella miscela dei registri acuti del pianoforte e delle note ribattute degli archi. Il culmine della tensione viene raggiunto con un tonante accordo di sol bemolle maggiore seguito da una grande pausa, alla maniera di Beethoven, dal quale sgorga finalmente la coda in fa maggiore, venuta a riportare un po’ di pace in uno dei lavori più tesi e drammatici della produzione di Dvořák. Oreste Bossini TRIO DI PARMA Il Trio di Parma si è formato nel 1990 al Conservatorio “Arrigo Boito” di Parma. Si è poi perfezionato con il Trio di Trieste alla Scuola di Musica di Fiesole e all’Accademia Chigiana di Siena. Ha ottenuto importanti riconoscimenti con le affermazioni al Concorso Internazionale “Vittorio Gui” di Firenze, al Concorso Internazionale di Musica da Camera di Melbourne, al Concorso Internazionale ARD di Monaco e al Concorso Internazionale di Musica da Camera di Lione. Inoltre, nel 1994, ha meritato il “Premio Abbiati” dell’Associazione Nazionale della Critica Musicale quale “miglior complesso cameristico”. Ha suonato per le più importanti istituzioni musicali in Italia (Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma, Amici della Musica di Firenze, Unione Musicale di Torino, Gran Teatro La Fenice di Venezia, Unione Musicale di Torino, Giovine Orchestra Genovese, Accademia Filarmonica Romana, ecc.) e all’estero (Philharmonie di Berlino, Carnegie Hall e Lincoln Center di New York, Wigmore Hall di Londra, Konzerthaus di Vienna, Filarmonica di San Pietroburgo, Festival di Lockenhaus, Teatro Coliseo di Buenos Aires, Amburgo, Dublino, Varsavia, Los Angeles, Washington, Barossa Music Festival Adelaide, Rio de Janeiro, San Paolo). Ha collaborato con importanti musicisti quali Vladimir Delman, Carl Melles, Pavel Vernikov, Bruno Giuranna, Alessandro Carbonare, Eduard Brunner; ha partecipato a numerose registrazioni radiofoniche e televisive per la RAI e per diverse emittenti estere (Bayerischer Rundfunk, NDR, WDR, MDR, Radio Bremen, ORT, ABCClassic Australia). Ha inoltre inciso l’integrale dei Trii di Brahms per l’UNICEF, di Beethoven e Ravel per la rivista Amadeus e di Šostakovič per Stradivarius (“miglior disco dell’anno 2008” dalla rivista Classic Voice). Il Trio di Parma, oltre all’impegno didattico in Conservatorio e al Mozarteum di Salisburgo, tiene corsi alla Scuola Superiore Internazionale di Musica da Camera di Duino e alla Scuola di Musica di Fiesole. Ivan Rabaglia suona un violino Giovanni Battista Guadagnini costruito a Piacenza nel 1744 ed Enrico Bronzi un violoncello Vincenzo Panormo costruito a Londra nel 1775. Il Trio è stato ospite della nostra Società nel 1994, 1996, 2010 e nell’aprile 2012 con il primo dei due concerti dedicati all’integrale dei Trii di Dvořák. Prossimo concerto: Martedì 11 dicembre 2012, ore 20.30 Sala Verdi del Conservatorio Amsterdam Baroque Orchestra & Choir Ton Koopman direttore Ormai è diventata una specie di tradizione: il Natale, alla Società del Quartetto, si festeggia con la musica antica. E uno dei punti di riferimento per questo repertorio è senz’altro Ton Koopman, che torna a trovarci con i suoi fedeli artisti del coro e dell’orchestra Amsterdam Baroque. Non ascolteremo però Bach quest’anno, bensì una piccola antologia dei capolavori della musica barocca ispirati dalla liturgia del Natale. Da tempi antichissimi infatti il rito cristiano cattolico accompagnava il racconto dell’incarnazione del Figlio di Dio con canti e suoni, che hanno trovato nel linguaggio musicale del barocco un’epoca d’oro. Nel ricco patrimonio di musica sacra natalizia, Ton Koopman ha scelto un itinerario tra gli autori francesi del Seicento e del Settecento, con l’unica eccezione di Arcangelo Corelli, signore indiscusso della scuola violinistica italiana. Società del Quartetto di Milano - via Durini 24 - 20122 Milano - tel. 02.795.393 www.quartettomilano.it - e-mail: [email protected]