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Dicembre '08
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Novembre '08
Numero Novembre '08
EDITORIALE
Come d’abitudine, novembre è il mese in cui viene annunciato il vincitore del premio “Fuori
dal Mucchio”, assegnato a quello che a nostro avviso è stato il migliore esordio dell’ultima
stagione discografica. Per quest’undicesima edizione, le preferenze della giuria composta
dalla maggior parte del nostro staff (Alessandro Besselva Averame, Gianni Della Cioppa,
Loris Furlan, Federico Guglielmi, Damir Ivic, Giovanni Linke, Francesca Ognibene, Aurelio
Pasini, Elena Raugei, Giorgio Sala, Hamilton Santià, Gianluca Veltri, John Vignola, Fabrizio
Zampighi) e da alcuni addetti ai lavori esterni (Fausto Murizzi di Rockit, Marina Pierri di
Vitaminic, Gianluca Polverari di Radio Città Aperta, Eliseno Sposato di Radio Libera
Bisignano ed Enrico Veronese di “Blow Up”) hanno decretato la seguente classifica: primo,
con quindici voti, “Canzoni da spiaggia deturpata” de Le Luci della Centrale Elettrica, seguito
dall’album omonimo di The Niro (otto voti) e da “Magic Powers” dei Cat Claws (sette
preferenze).
Questo l’elenco di tutti i dischi in concorso:
The Accelerators, “Oddville” (Apple Paint Factory)
Annie Hall, “Cloud Cuckoo Land” (Pippola/Audioglobe)
Atari, “Sexy Games For Happy Families” (Freakhouse-Green Fog/Venus)
Cat Claws, “Magic Powers” (42 Records)
I Cosi, “Accadrà” (Atlantic/Warner)
Dead Elephant, “Lowest Shared Descent” (Robotradio)
Esterina, “Diferoedibotte” (Nopop/EMI)
Fake P, “Fake P” (42 Records)
Il Genio, “Il Genio” (Disastro/Cramps)
Massimo Giangrande, “Apnea” (Fiorirari/Egea)
Hollowblue, “Stars Are Crashing (In My Backyard)” (Midfinger/Venus)
Gli Illuminati, “Prendi la chitarra e prega” (Hit Bit)
Lento, “Earthen” (Supernaturalcat)
Les Fauves, “N.A.L.T. 1 – A Fast Introduction” (Urtovox/Audioglobe)
Lucertulas, “Tragol de rova” (Robotradio)
Le Luci della Centrale Elettrica, “Canzoni da spiaggia deturpata” (La Tempesta/Venus)
My Awesome Mixtape, “My Lonely And Sad Waterloo” (L’Amico
Immaginario-MyHoney/Audioglobe)
N.A.N.O., “Mondo/Madre” (Fosbury/Audioglobe)
Princesa, “JP” (Madcap Collective)
The Styles, “You Love The Styles” (H2O/Sony BMG)
The Niro, “The Niro” (Universal)
Trabant, “Music 4 Losers” (RSVP/Self)
Vanvera, “A Wish Upon A Scar” (Here I Stay)
We Were OnOff, “What Does A Fish Think About Water?” (Green Fog/Venus)
Winter Beach Disco, “After The Fireworks, We’ll Sail” (Black Candy/Audioglobe)
L’album de Le Luci della Centrale Elettrica, al secolo Vasco Brondi, si aggiunge così a “Ogni
città avrà il tuo nome” dei Santa Sangre, “Tempo di vento” di Lalli, “Sussidiario illustrato della
giovinezza” dei Baustelle, “Rise And Fall Of Academic Drifting” dei Giardini di Mirò,
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“Capellirame” dei Valentina Dorme, “The Mistercervello LP” degli es, “Pai Nai” dei Methel &
Lord, “Socialismo tascabile” degli Offlaga Disco Pax, “Setback On The Right Track” dei
Tellaro e “I Am The Creature” dei MiceCars, vincitori - in questo ordine - dal 1998 al 2007. La
premiazione, come sempre, avrà luogo nell’ambito del MEI di Faenza (RA), in programma
l’ultimo week end di questo mese. Un appuntamento a cui saremo come al solito presenti
con un nostro stand, e a cui vi aspettiamo numerosi.
Nel mentre, non ci resta che augurarvi buona lettura di questo nuovo numero di “Fuori dal
Mucchio” on-line e, naturalmente, buoni ascolti.
Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
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Blake/e/e/e
Chiuso il discorso Franklin Delano, Paolo Iocca e Marcella Riccardi hanno scelto di
continuarlo per altre vie, facendo esplodere la loro rielaborazione dell’America in mille rivoli e
imbastardendola con dub, elettronica e quant’altro. Una nuova avventura - inaugurata da
“Border Radio” (Unhip/Audioglobe) - che ci facciamo raccontare dalla voce di Paolo.
Il titolo che avete dato al disco è quasi un manifesto programmatico: il confine non è
solo quello che potrebbe mettere in contatto Italia e Stati Uniti, due universi che se
pure condividono, nel vostro caso, ascolti analoghi, sono frutto di sensibilità diverse,
ma i diversi generi che avete tirato in ballo nel disco. Allo stesso tempo il concetto di
radio rende bene l'idea di questo passare da un genere all'altro, da uno spunto
all'altro, da un umore all'altro...
Le border stations erano potentissime radio Texane che usurpavano, attraverso la potenza
dei loro ripetitori, i confini del Messico. “Border Radio” è un nome che ha una sua valenza
all'interno della tradizione americana, e sarebbe potuto essere un buon titolo anche per i
Franklin Delano. Il concetto però ci affascinava per i significati “devianti” che poteva
assumere, se portato fuori contesto. È stato un po' come il nostro rapporto con l'America.
Cerchi le “radici” e scopri la babilonia di stili da cui ha avuto inizio il country folk – un enorme
frattale in cui ogni ramificazione si sfalda al microscopio in un'infinità di rivoli. Ti ritrovi ad
ascoltare i tamburi voodoo e la lingua creola, le danze dei pellerossa e le gighe irlandesi,
fino a ritrovarti a tracciare mappe che riconducono all'altro lato del globo, invece che nel
cortile di qualche casa specifica. Non potevamo far altro che ripensare tutta la nostra visione
delle cose e il nostro approccio alla musica suonata. “Border Radio” è il frutto di questo
ripensamento e di questa liberazione da “radici” che in realtà non esistono.
La vostra esperienza americana, iniziata con i Franklin Delano, non si è limitata a
concerti, produttori e studi di registrazione. Se non avete messo radici laggiù, è
comunque negli Stati Uniti che nasce questo progetto mi pare di capire, con il
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contributo di musicisti americani. E il disco è uscito solo in un secondo tempo qui in
Italia. Come ci si trova a trasformare un luogo del proprio immaginario in terreno
d'azione?
Il disco è in realtà nato a Bologna, e il nostro batterista precedente ha preso un aereo per
venire a registrare (al Vacuum studio di Bruno Germano). Poi abbiamo deciso di farlo uscire
negli States solo perché i tempi tecnici della distribuzione ci avrebbero obbligato a uno stop
di sei mesi. Certo, non abbiamo mai nascosto che per noi l'Italia è un posto come un altro.
Ma lo sono anche gli Stati Uniti. Pensiamo che la nostra musica possa essere proposta
ovunque nel mondo, senza confini e barriere. Non ci interessa dare più peso alle parole
rispetto alla musica, non raccontiamo storie. Piuttosto i nostri testi sono suggestioni, uno
strumento in più per creare atmosfere in cui gli ascoltatori possano perdersi.
Già nei Franklin Delano il suono era al centro del discorso al pari del songwriting. In
“Border Radio” la manipolazione della materia sonora ha però un ruolo ancora più
determinante, in particolar modo un elemento dub che è presente sia in modo
esplicito (“Holy Dub” e “Dub-Human-Ism”) sia in modo più obliquo (“Holy Yes To The
Sunny Days”). Qual'è il percorso che vi ha portati a esplorare frequenze così
apparentemente lontane?
Già l'ultimo brano pubblicato dai Franklin Delano (la cover di “Adeus Maria Fulo” degli Os
Mutantes, nella compilation a loro dedicata da Madcap Collective nel 2007) aveva una forte
connotazione etnica e dub. È da molto tempo che nei nostri lettori e piatti girano dischi di
musiche “altre”. La ricerca di suoni e idee nuove ci è pian piano esplosa tra le mani e si è
sparsa sugli arrangiamenti. Ci ha spinto a imbracciare nuovi strumenti con una mentalità più
“punk” e perciò libera da regole. Paradossalmente la tradizione ci ha insegnato che gli
strumenti vanno suonati con il cuore, non solo con il cervello e la tecnica.
”New Millennium's Lack Of Self Explication” è un titolo che mi ha colpito molto: al di
là di quella che sembra, a prima vista, una considerazione negativa, in qualche modo
sottende la volontà di mettersi in gioco per cercare di trovare una spiegazione.
Un'attitudine esplorativa che mi pare appartenga alla vostra idea di musica...
Vero. Il titolo è una sintesi del nostro malessere – penso condivisibile ovunque nel mondo
Occidentale. Il nuovo Millennio ci ha per ora portato un sacco di brutte novità, e un gran caos
che cerchiamo di interpretare come possiamo. Francamente, alla data di oggi e cioè a un
passo dalla fine del primo decennio, non è che abbiamo le idee molto più chiare di prima: le
lotte tra estremismi religiosi, le guerre per interessi economici e geopolitici, gli attentati
terroristici, la crisi economica, le nuove forme di schiavitù, lo yuppismo cerebroleso
imperante in Italia – per non parlare, più in piccolo, della crisi del mercato discografico, che
va probabilmente agganciata a una vera e propria crisi dell'ascolto e quindi della saturazione
del tempo quotidiano da dedicare a qualcuno o a qualcosa in modo totale. Stiamo cercando
risposte, ma forse così è sempre stato. Ci piaceva segnalarlo, perché tutti se ne dimenticano
e si perdono nei rivoli del postmoderno globalizzato.
Contatti: www.blakeeee.com
Alessandro Besselva Averame
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Gli Illuminati
Ha entrambi i piedi saldamente piantati negli anni 60 “Prendi la chitarra e prega”, primo disco
(uscito su Hit Bit in solo vinile) dei capitolini Gli Illuminati, e più precisamente negli anni 60
delle cosiddette messe beat, di cui la formazione riprende brani e sonorità in maniera quanto
mai convincente e vitale. Frutto di vero afflato musical-religioso o divertita operazione
punk-situazionista? La risposta ce l’ha data Pierpaolo De Iulis, voce e “guida spirituale” della
band.
Quando, come e, soprattutto, perché nascono gli Illuminati?
La storia degli Illuminati è un po' complessa. Fino a poco fa suonavo in un gruppo punk, i
Transex, con i quali ho realizzato due album e un 45 giri uscito postumo, perché nel
frattempo ci siamo sciolti. L’evento fondamentale per l’inizio dell’avventura degli Illuminati è
stato l'incontro con Tiziano Tarli, autore di un libro molto carino intitolato “Beat italiano” e
dedicato per l'appunto al fenomeno della musica beat in Italia negli anni 60. Fra l’altro lui
quando era un ragazzo abitava nel mio stesso palazzo ad Ascoli Piceno, io al primo piano e
lui al quarto, quindi c'è anche un fattore territoriale che ci lega. Avendo in comune la
passione per certe sonorità, abbiamo deciso di provare a fare musica insieme, ed è nata
questa storia così bizzarra, che in qualche modo ripropone e attualizza le messe beat. Io
sono un collezionista di dischi, ho una vasta raccolta di queste stranezze musicali che sono
appunto le messe beat italiane, dalla primissima – quella del ‘66 – fino a quelle degli anni 70.
Da un punto di vista personale abbiamo opinioni estremamente lontane da quelle che
cantiamo, né abbiamo alcun legame con organizzazioni ecclesiali; siamo un gruppo
assolutamente laico, e se dovessimo definirci saremmo schierati da tutt'altra parte. Troviamo
divertente questa cosa; è debordante, spiazzante, perché la interpretiamo in modo molto
verosimile, senza alcun intento parodistico. La facciamo così bene che, quando finiamo i
concerti, c’è gente che viene da noi e vuole sapere da dove veniamo, chi siamo, se io sono
davvero un religioso, dove possono venirci a vedere, se magari abbiamo una parrocchia di
riferimento. Insomma, diamo un'impostazione estremamente seriosa al tutto; poi, certo,
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dipende anche dalle singole situazioni: per esempio, al “Festival Beat” di Salsomaggiore il
pubblico aveva abbastanza chiaro chi fossimo realmente. Però, insomma, laddove possiamo
cerchiamo di utilizzare queste tattiche di mimetismo un po' situazionista, che rende la cosa
ancora più divertente. Musicalmente la matrice è quella del beat; i brani sono
essenzialmente cover di brani presenti sui dischi originali di queste messe beat, quindi di
gruppi come il Clan Alleluia e i Barritas. Il disegno di questa operazione è di riuscire ad
avere, in qualche modo, una doppia collocazione dal punto di vista di pubblico o di interesse:
una strategia che ci porti ad essere recensiti e a suonare anche in ambiti cattolici. Abbiamo
mandato il nostro materiale a “Famiglia Cristiana”, dove è stato recensito con tanto di
intervista, e anche a dei festival americani di christian-rock, ricevendo risposte entusiastiche.
Il punto, adesso, è quello di lavorare sulla verosimiglianza, al punto da calarci, come nel
metodo Stanislavskij, nel ruolo della catto-band timorata di Dio.
Avete fatto un lavoro particolare anche sui suoni, sulla strumentazione, al momento
di iniziare questo progetto?
Sì, suoniamo solo con una strumentazione vintage, quindi chitarre Vox e Rickenbacker,
basso Hofner... Abbiamo una strumentazione assolutamente d'epoca, insomma. E lo stesso
discorso vale anche per quanto riguarda le tecniche di registrazione. Musicalmente, il
disegno è anche quello di cambiare progressivamente orientamento, spostandoci su un hard
rock psichedelico progressivo con forse un cambio di denominazione, che dovrebbe
diventare Il Volto di Giuda: una sorta di gruppo sullo stile dei primi Metamorfosi, di roccioso
rock hard-progressivo, un po' “Jesus freak”, delle specie di hippie devoti di Gesù, scalzi, con
i capelli lunghi ed enormi crocifissi di legno al collo. Ora si tratta di vedere se riusciremo a
portare avanti la cosa; però devo dire che ogni volta che suoniamo ci divertiamo talmente
tanto, e la gente si diverte con noi, che alla fine diciamo “vabeh, continuiamo con questa
storia” (ride, Ndr).
È interessante questa cosa dell'indurire un po' i suoni perché l'impressione che
avevo avuto ascoltando il disco è che comunque i brani originali fossero un pochino
virati verso il garage, nella vostra interpretazione.
Sì, l'LP è fondamentalmente un disco di garage-beat con sonorità abbastanza rigorose, nei
limiti delle possibilità di spesa. La bontà di un prodotto è maggiore quanto più si riesce a
spendere per la registrazione; noi abbiamo fatto tutto piuttosto in economia, tirando fuori
anche delle buone voci, delle buone armonie vocali, una parte quest’ultima che deve essere
necessariamente curata se si fa un discorso di rock 'devoto', dove comunque il testo e le
armonizzazioni vocali devono emergere forti. Da questo punto di vista credo abbiamo
raggiunto un risultato discreto. Poi, vedremo nei prossimi mesi di cambiare un po' il sound,
per non esaurire in un solo momento questo viaggio all'interno del mondo cattolico musicale:
i gruppi di quell'area seguirono un'evoluzione, c'erano band che suonavano con un'attitudine
cristiana, ma suonavano appunto rock, hard rock, rock psichedelico. Penso ai Metamorfosi
in Italia, ma anche in America vi furono diversi esempi in tal senso. Questa, insomma, è
l’intenzione; anche perché, ripeto, si tratta di un'operazione fondamentalmente ludica, che
non ha finalità al di fuori del divertimento, del piacere dell'esibizione e del compiacimento nel
creare un'operazione verosimile al cento percento: fare un falso d'autore e farlo bene,
essere contento perché la moneta che hai stampato è talmente ben fatta che neanche il
banchiere più esperto potrebbe riconoscerla. Questo è un po' il senso dell'operazione.
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Il disco è uscito solamente su vinile; in un certo senso decidere di fare uscire un
disco solo su vinile indica - anche solo indirettamente – il tipo di pubblico a cui vi
rivolgete.
Sì, sicuramente. Io ho quarant'anni e da venticinque anni sono un collezionista, o meglio un
ricercatore, per cui ho tonnellate di dischi e, di conseguenza, per me l'oggetto di affezione è
quello, è il vinile. I CD, per quanto sia, sono oggetti abbastanza inconsistenti. Poi, diciamo, il
pubblico che potenzialmente può comprare questo tipo di oggetti è quello che acquista
ristampe su vinile, che è appassionato di un certo tipo di supporto. È chiaro che si tratta di
un'operazione per pochi, però proprio per il fatto di volerla rendere il più possibile verosimile,
il tipo di supporto è importante; farla in CD secondo me sarebbe stata una cosa un po' poco
attinente. Io tra l'altro ho un'etichetta discografica, la Rave Up Records, con cui ho stampato
oltre cento dischi, tutti in vinile. Se avessi fatto questa cosa utilizzando come supporto il CD
non so quanto avrei venduto, quanto sarei stato capace di avere un catalogo così ampio;
avendo anche una distribuzione molto piccola penso avrei fatto molta più fatica a vendere
CD che non vinili.
Voi avete anche la pagina MySpace. Chi vi ha contattato di più, fino adesso, che tipo
di persona?
Guarda, direi che il cinquanta percento sono delle persone che ascoltano garage, beat e
dintorni; poi ci sono vari ignari che arrivano incuriositi, ci lasciano complimenti, vengono da
un altro tipo di contesto; infine c'è la componente più interessante, con la quale mi relaziono
abitualmente, che è quella del rock cristiano,e dei veri devoti. Per cui, abbiamo I Raggi di
Maria e altri gruppi che fanno rock cristiano, e anche corali. Nel nostro MySpace non c'è
niente che lasci dedurre che si tratti un'operazione ambigua, per cui il pubblico e i musicisti
cattolici ci contattano, arrivano a noi, e credono che siamo parte della stessa famiglia, della
stessa “parrocchia” appunto.
Fra l'altro ho visto che il primo amico della vostra pagina MySpace è Pierluigi
Giombini, il figlio del maestro Marcello Giombini, il compositore di gran parte delle
prime messe beat.
Tempo fa avevo contattato Marcello Giombini perché volevo coinvolgerlo
nell'operazione-Illuminati; poi, purtroppo, la sua morte ha impedito che la cosa si
concretizzasse. Pierluigi, invece, lo ho conosciuto mentre stavo lavorando a un
documentario sulla musica dance italiana degli anni 80 intitolato “Italo Disco”, perché è
l’autore alcuni dei brani più importanti del periodo, tra cui “I Like Chopin” di Gazebo. Quando
gli ho parlato degli Illuminati lui è stato contentissimo, perché è anche un modo per
omaggiare il padre e il suo lavoro. Siamo rimasti in contatto costante, e forse scriverà dei
pezzi di messa beat per noi.
Prima si parlava della tua etichetta. Come stanno andando le cose?
(Grosse risate, Ndr) Chiaramente, è solo uno dei lavori che faccio, non potrebbe essere
l'unico, dato che la situazione è abbastanza di vacche magre. Il mio problema è che,
trattando di gruppi minori americani degli anni 70 e dei primi anni 80 (quindi punk,
power-pop, glam e cose simili) mi rivolgo principalmente al mercato statunitense; l’ottanta
percento dei dischi che stampo lo vendo in America, il dieci percento in Giappone e il resto
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in Europa. Purtroppo, adesso, con il tracollo del dollaro sull'euro, la situazione è abbastanza
grigia. Personalmente, fino all'entrata dell'euro non avevo avuto nessun problema, anzi
andava tutto molto bene: gli americani compravano i miei dischi con il sorriso sulle labbra
perché la lira era quello che era. Ora invece devi vendere sottocosto, anche perché le spese
di produzione dei dischi sono altissime, specie se si preferisce il vinile al CD. Per fortuna,
nonostante tutto, gli ambiti di nicchia sono in qualche modo tutelati. La Rave Up è una
“one-man-label”: faccio tutto io, dalla grafica ai pacchetti, quindi in qualche modo riesco
comunque a mandare avanti la baracca.
Contatti: www.myspace.com/complessoilluminati
Aurelio Pasini
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Hell Demonio
Gli Hell Demonio sono una delle band di punta della Robotradio di Trento, etichetta di
Stefano Paternoster, artefice negli anni 90 della pregevole fanzine “Equilibrio precario”.
Dopo il deflagrante debutto “Greatest Hits” (2005) di chiara matrice hardcore-noise, il
quintetto veronese nel nuovo album “Discography” (Robotradio-Wallace/Audioglobe) ha
addomesticato il suono, producendo un ibrido tra il punk’n’roll degli Hives, il noise dei Jesus
Lizard e le inflessioni emo dei Fugazi.
A rispondere alle domande è il chitarrista Andrea Signorini.
Gli Hell Demonio nascono nel 2004. Qual è stata la spinta a formare la band e a
ispirare un suono così energico e rabbioso?
Gli Hell Demonio sono nati fondamentalmente dalla nostra voglia di fare del rock’n’roll. Bene
o male suonavamo già tutti in altri progetti e qui volevamo fare qualcosa di più smargiasso e
arrogante. Poi non è che a Verona ci sia così tanto da fare.
Sul vostro MySpace dichiarate, tra le vostre influenze, quelle di Stooges, Germs,
AC/DC, Nation Of Ulysses, Jesus Lizard, Rye Coalition e Fugazi. Nel nuovo lavoro ho
riscontrato come più rilevanti quelle dei Fugazi e degli Hives. Siete d’accordo e quali
dischi dei Fugazi amate di più?
I Fugazi sono sicuramente un punto di riferimento che non è poi prettamente musicale, ma
che in senso più ampio riguarda un certo modo di approcciarsi alla musica. Degli Hives che
ho macinato il primo e il secondo disco, l’ultimo invece l’ho trovato disgustoso, però pezzi
come “A.K.A. Idiot” mi sono rimasti dentro.
Recensendo il nuovo album “Discography” ho scritto che gli Hell Demonio hanno
aggiustato il tiro producendo un suono meno istintivo e più calibrato, che non
rinuncia però alla sua forza d’impatto. Quanto c’è di vero secondo voi in questa
analisi?
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Direi molto; quando abbiamo registrato il primo disco l’abbiamo fatto rapidamente, senza
soffermarci più di tanto a pensare, accompagnati solo dall’entusiasmo di un bambino con un
giocattolo nuovo. Con il secondo disco invece volevamo qualcosa di diverso, sperimentare
mi sembra una parola grossissima in questo caso, ma comunque cambiare.
In Italia i suoni noise sono duri a morire. Penso a gruppi come Il Teatro degli Orrori o
ai vostri compagni d’etichetta Dead Elephant, Putiferio e Lucertulas. Ci sono altri
gruppi italiani, oltre a quelli citati, che ritenete meritevoli di attenzione?
Intanto mi fa piacere vedere come vengano ultimamente sempre apprezzate le uscite del
nostro produttore-mentore Paternoster. La sa lunga quello lì. Comunque in Italia ora come
ora potrei citarti i Rosolina Mar, i But God Create Woman, La Quiete, Death of Anna Karina,
oltre ovviamente ai nostri altri gruppi Afraid! e Rituals. Anche se il mio gruppo italiano
preferito e ormai defunto sono sicuramente i Notorius, di cui consiglio a tutti di reperire la
“Danza dei nervi”. Che disco!
“Hell Demonio” sembrerebbe il nome di un gruppo black metal e invece è quello di
una band noise-rock. Come mai la scelta di questo nome?
Come puoi vedere il nome viene fuori dal nostro spiccato senso dell’umorismo.
Il nuovo disco è stato registrato in Italia e masterizzato a Chicago da Bob Weston,
bassista degli Shellac. Come siete entrati in contatto con lui? Che tipo di persona è?
Lui per noi più che una persona è stata un e-mail. Gli abbiamo scritto, ci ha risposto e ci ha
masterizzato il disco via Internet. Non me la sento di esprimere un giudizio sul caro Bob,
anche se comunque è stata una persona sempre molto disponibile. Qualcuno di noi l’aveva
già conosciuto precedentemente per altre cose durante i concerti, quindi ci siamo messi in
contatto e così è andata. Comunque ha un modo di fare i master e soprattutto di concepire
la musica assolutamente interessante, che secondo noi andrebbe rivalutato, specie in
queste epoche di suoni super-compressi.
Quali sono i vostri ascolti attuali e quali vi hanno colpito maggiormente?
Di recente sto ascoltando un po’ di cose che non superano gli anni 80 e che quindi mi
sembra paradossale chiamarli attuali. Comunque lo farò lo stesso. Un sacco i Can, specie
“Soundtrack”, poi ho scoperto una discreta passione per l’Afro-beat e vado matto per le
compilation “Nuggets”. I miei compagni hanno ascolti che non approvo e che quindi non
riporterò qui.
Tra i prossimi progetti vi è quello di un 7 pollici in presa diretta. Di che si tratta?
Non avendo mai registrato direttamente su bobine, volevamo colmare questa nostra lacuna,
rinunciando finalmente agli orpelli della tecnologia, per ricominciare a fare i dischi come anni
e anni fa.
Contatti: www.helldemonio.com
Gabriele Barone
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Superpartner
Pippola Music è andata a scovare un grazioso sestetto di Lecce e prontamente ha fatto
uscire il suo esordio “Love Hotel”. Melodie appiccicaticce che rievocano Delgados,
Cardigans ma anche Ustmamò. La gradevole voce di Rosita Garzia mantiene alta la loro
rappresentazione già vista del pop. La strada è lastricata però da Francesco Lanferdini,
seconda voce e chitarra, che ci racconta del progetto.
Come vi siete avvicinati alla musica? Il primo approccio: la chitarra regalata da uno
zio, la scoperta d'essere intonati, appassionarsi ad uno strumento.
Mi sono avvicinato alla musica quando avevo sei/ sette anni, grazie ad una tastierina
Bontempi regalatami dai miei genitori. Fu amore a prima vista e l’approccio intuitivo
dell’inizio è rimasto nel tempo: tecnica zero e pochissima teoria, solo tanto orecchio e tanta
passione. A quindici anni arrivò il mio primo strumento a corde, un basso elettrico, quindi
anche la prima band con gli amici del liceo e il primo concerto. E l’addio ai bei voti a scuola.
Qual è secondo voi il fascino del pop?
Il fascino del pop secondo me sta nella forza dell’immediatezza e nella bellezza
dell’essenzialità.
Voi siete un sestetto ma le canzoni le scrivi te. Come nascono?
Le canzoni, almeno per ciò che riguarda la melodia, nascono quasi sempre in modo molto
spontaneo e spesso arrivano all’improvviso, anche nei momenti e nei posti più impensati.
“Supernatural” ad esempio, si manifestò in macchina mentre mi recavo in sala prove! Ma la
canzoni possono anche nascere strimpellando la chitarra o il basso, o programmando
sequenze al computer, non c’è uno schema fisso, è tutto casuale, intuitivo, istintivo.
Siete nati come sestetto o c'è stata una versione meno numerosa dei Superpartner?
Ci siamo formati come duo, e così abbiamo registrato il nostro primo demo, ma la mia idea
è sempre stata quella di formare una band vera e propria con tutti gli elementi necessari per
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suonare le canzoni dal vivo in modo “classico”, più rock’n’roll, senza l’ausilio di computer o
basi. Infatti, ad appena quattro mesi dalla nascita dei Superpartner, il duo si è trasformato in
sestetto.
Vi ci trovereste a cantare in italiano? Secondo me assomigliereste agli Ustmamò.
Penso di sì, e stiamo già facendo qualche esperimento con l’italiano. Conosco abbastanza
bene gli Üstmamò, soprattutto i primi dischi, ma non mi sembra che ci siano molti punti
d’incontro tra noi...
Mentre provate, vi capita di fare canzoni di altri? Di chi?
Quasi mai, abbiamo poco tempo per provare e preferiamo concentrarci sulle nostre canzoni.
La vostra musica non guarda al passato remoto ma a quello prossimo si, che
potrebbe essere riferito agli anni 90 degli Stereolab, dei Delgados e Cardigans. Cosa
vi ha attratto di quelle atmosfere tanto da farle vostre.
I riferimenti sono tanti e guardano in tante direzioni, spaziando tra generi e periodi storici
differenti. Di gruppi come Cardigans e Stereolab mi ha attratto molto quella capacità di unire
sonorità vintage a soluzioni più moderne, oltre, naturalmente, alla bellezza delle canzoni e
delle melodie. I Delgados non li ho mai ascoltati invece.
Dal vivo esiste solo la versione completa del gruppo o andate in giro anche in
versione ridotta? Tu e Rosita, per esempio...
I Superpartner sono composti da sei persone, e andiamo in giro tutti insieme, anche se
sporadicamente è capitato di esibirci con una formazione ridotta, chitarra-voci-tastiere, ma
solo per motivi tecnico/logistici.
Come avete conosciuto Federico Fiumani?
Lo abbiamo conosciuto in occasione di un suo concerto a Squinzano, lo scorso dicembre.
Gli abbiamo dato i nostri CD-R e Federico, dopo averli ascoltati, ci ha proposto di
partecipare a Il Dono, la compilation tributo ai Diaframma. È stato un grande onore per noi
prendere parte a quel tributo! Poi con Federico si è venuto a creare un bel rapporto umano,
ci ha aiutato e stimolato tantissimo, dandoci suggerimenti e dritte preziose. Ha seguito le
registrazioni del disco, ci ha dato la possibilità di aprire un suo concerto a Roma, e, prima
che arrivasse la proposta di Pippola, ci ha anche messo in contatto con la Self.
Pippola Music è stata la prima etichetta che avete contattato?
In realtà è stata Pippola a contattare noi, grazie a MySpace! Siamo stati in contatto anche
con altre etichette prima della proposta di Pippola: Aiuola Dischi, Operà Music, Peteran,
Disastro e Ghost.
Chi vi piacerebbe ascoltare alla radio prima e dopo di voi?
Prima di noi magari Gino Paoli, "Sapore di sale", e subito dopo Richard Sanderson,
“Reality”.
Qual è stata la prima canzone ufficiale del gruppo?
"The Footgirl", che è anche la prima traccia del nostro primo demo, "Microfilm".
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Numero Novembre '08
Cosa unisce, secondo te la vostra band? A parte la musica.
Siamo legati da un bel rapporto di amicizia che si è consolidato anche grazie alla musica.
Passiamo molto tempo insieme, anche nei momenti extra-musicali.
Com'è fatta la vostra sala prove?
Proviamo in uno scantinato sotto il negozio di elettrodomestici di Vincenzo. La sala prove è
completamente invasa da scatole da imballaggio di frigoriferi, lavatrici e televisori.
Avete già canzoni nuove? A che ritmo andate?
Sì, abbiamo delle canzoni nuove ma al momento non ci stiamo lavorando, siamo molto
concentrati sul live che portiamo in giro per il tour di “Love Hotel”.
Dov'è stato registrato il disco e come lavora Stefano Manca, qual è il suo metodo?
Il disco è stato registrato al Sudestudio di Stefano Manca, in aperta campagna salentina, tra
vigneti, palme, gatti e cani. Siamo arrivati in studio con le idee abbastanza chiare dopo un
lavoro minuzioso di pre-produzione in sala prove. Stefano è stato bravissimo a tirare fuori e
a valorizzare il nostro suono, non credo abbia un metodo preciso, lavora d’intuito e
d’ingegno, ha tantissima pazienza e spesso adotta delle soluzioni incredibili pur di ottenere
quello che ha in mente. È un vero artigiano della musica.
Contatti: www.superpartneronline.com
Francesca Ognibene
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Numero Novembre '08
Andrea Liuzza
Melancholia 1
autoprodotto/Goodfellas
Andrea Liuzza ha fatto tutto da solo in questo “Melancholia 1”, così come era avvenuto nel
debutto “Countless Ways For Pressing Flowers”: canzoni, arrangiamenti, registrazione e
grafica. A soli ventitré anni ha le idee piuttosto chiare, e la musica che produce funziona
perfettamente in un regime di autarchia. Vengono in mente, fatte le debite proporzioni,
personaggi come il primo Ed Harcourt o Conor Oberst, la stessa fragilità che sfocia spesso e
volentieri in rabbia espressiva, testi dal sapore autobiografico e – in questo particolare caso un armamentario elettronico che sostiene la linearità delle canzoni senza snaturarne
l’autenticità intimista e anzi suggerendo soluzioni inconsuete (l’andatura proto-klezmer di
“Birdie” con il canonico contrabbasso sostituito dai bassi di una tastiera elettronica). Ma non
è al suono, alle soluzioni insolite, che punta Liuzza, quanto piuttosto alla qualità della
scrittura, che anche quando il passo si fa spedito, le chitarre si concedono pienamente al
rumore e la voce deraglia nella propria disperazione, è il caso di “Wolf”, rimane in primissimo
piano, e in pezzi come lo strumentale “Unborn”, un piano solitario che sfuma verso il silenzio,
mostra apertamente la propria fragilità. Due lati della stessa medaglia che innervano un
brano come “Melancholia”, piano elettrico che sottolinea una melodia timida e piccoli istanti
di stasi e silenzio che si insinuano tra le sferraglianti chitarre e una comune batteria in
quattro quarti..
Contatti: www.andrealiuzza.com
Alessandro Besselva Averame
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Numero Novembre '08
Arbe Garbe
Bek
Musiche Furlane Fuarte
Parte della vivacissima scena friulana, gli Arbe Garbe (ovvero “erba cattiva”) sono attivi da
un quindicennio. La loro travolgente carica live è testimoniata dai tour in tutti gli angoli del
mondo. Cinque sono i brani dell’EP “Bek”, che segna il ritorno del gruppo di Stefano Fattori e
Federico Galvani in un assetto rinnovato, con l’innesto di Roberto Fabrizio alla chitarra e
Oscar Schwander al basso.
Quasi venti minuti di agro-punk, tambureggianti assalti zingari, fisarmonica, mandolino e
violino, superlavoro della sezione fiati (Flavio Zanuttini e Toni Pagnut), per un risultato
sicuramente di notevole vitalità, anche se dalla cifra un po’ troppo omogenea a onta
dell’impeto e della ricchezza d’arrangiamento. È fatale che il folk-ska balcanico (cantato in
friulano e sloveno) qualcosa perda, una volta fissato su tracce. Non si può rimproverare
alcunché a “Bek”, se non il limite che è nel suo atto di nascita: l’adesione a un canone, a un
filone, l’adeguamento a stilemi combat-patchanka un po’ stereotipati. Per il resto, estrema
bravura dei musicisti e buona prova di gruppo.
Decisamente innovativa, anzi entusiasmante, la veste grafica del booklet, nata dalla
campagna in rete lanciata dal gruppo “Disegna una capra per il nuovo disco”. La grafica
argentina Cecilia Ibañez ha curato la confezione, utilizzando con inventiva e in
maniera colorata decine di disegni.
Contatti: www.arbegarbe.com
Gianluca Veltri
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Numero Novembre '08
Caraserena
Ricordarsi di annaffiare
Parco della Musica/Egea
Preceduti da fama improvvisa per un brano benedetto da Fiorello, “Ricatti esistenziali”, il cui
ritornello ormai celebre recita “c’è un problema con le palle di Massimo”, i Caraserena
giungono al debutto su lunga distanza. Ingegnoso e ricercato, l’album del sestetto romano
declina nelle forme più intelligenti la canzone d’intrattenimento, nobile se volete, ma sempre
leggera, fresca e fragrante, costruita con perizia e dedizione d’artigianato. Idea di cura
inclusa nella raccomandazione del titolo – “Ricordarsi di annaffiare” – che ricorre nel pezzo
d’apertura “L’implicazione molecolare”. Qui verrebbero in mente mentori come Battiato e
Tiromancino, ma sono poi altri i padri del gruppo guidato dai fratelli Vanni e Filippo
Trentalance. Sono gli Steely Dan di Donald Fagen, con gli arrangiamenti puliti e scintillanti,
le soluzioni eleganti, il gusto per l’hook che ti accalappia e non ti lascia facilmente; è certo
sound da west coast con le armonie vocali assassine, ariosissime e sventolanti come vele
gonfie. I Caraserena sono musicisti abituati al jazz che fanno pop music, e nei testi c’è la
lezione di Panella ed Elio, ma con un risultato né ermetico, né burlesco. È una terza via al
calembour: sorridente. Fioccano immaginifiche soluzioni letterarie, dagli “svincoli
ammiccanti” alle “zanzare comprensive”, dal “carisma ipertrofico” al “volubile satellite”, gli
ossimori e le allitterazioni. Musica leggera, ma di peso.
Contatti: www.audiotorum.com
Gianluca Veltri
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Numero Novembre '08
Cattive Abitudini
Cosa sei disposto a perdere?
Indie Box/Halidon
Oggi non voglio trattar male i lettori, per cui vi dico subito che ho deciso di evitare ogni gioco
di parole legato al nome del combo veneto. Breve riassunto delle puntate precedenti a
beneficio dei distratti: a metà dei '90 l'Italia si popola di band punk che cantano in italiano, tra
questo spiccano per popolarità e "successo" i Peter Punk. Quando quell'avventura finisce
-anche se c'è stata un'estemporanea reunion a settembre- c'è chi pensa di continuare; il
resto è quello di cui parliamo ora, ovvero Cattive Abitudini e "Cosa sei Disposto a Perdere?",
terzo capitolo di questa storia. Troviamo qui tutto quanto li ha resi noti tra gli appassionati del
genere nostrani: testi che ondeggiano tra il disimpegnato spinto, il resoconto delle avventure
alterate ad "Amsterdam" o l'alcool di "Transaminasi", e l'introspettivo disincantato di "Soldato
Semplice" e "Via dalla Realtà". Non tutto è bianco o nero, ma c'è spazio anche per ricordare
il tempo che non ritorna di "Se Tutti Mollano" o la constatazione di come va oggi la
discografia -"sai che mi frega masterizza sto cd..."- di "Solo Voi", il tutto a velocità sostenuta
e con le chitarre sugli scudi come insegnano i "maestri" Derozer e Pornoriviste. Negli anni
sono migliorati parecchio e non sono più, purtroppo per loro, "la peggiore punk band
italiana". Ma non sono diventati nemmeno la migliore, e rischiano di rimanere imprigionati in
un pur piacevole cliché. A loro, ed ai tanti che affollano i loro live set, la scelta.
Contatti: www.indiebox.org
Giorgio Sala
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Numero Novembre '08
Colore perfetto
Il debutto
La Tempesta/Venus
Proveniente dalla provincia di Perugia, Colore perfetto è un terzetto composto da David
Pollini alla voce e al basso (nonché autore di liriche in bilico fra sentimenti e visionarietà),
Alessandro Fioroni alle chitarre e Stefano Bandera alla batteria. Sulla scia propulsiva della
sponsorizzazione di Moltheni, i ragazzi umbri arrivano al loro primo album,
programmaticamente intitolato “Il debutto” e prodotto, mixato e registrato dall’esperto
Giacomo Fiorenza. La scaletta schiera dieci canzoni, il più delle volte concise e idealmente
suddivise fra episodi maggiormente energici e ballate delicate. Non si fanno rivoluzioni ma il
bilancio parla di mezz’ora di rock emotivo, ben a fuoco e al contempo aperto alle sfumature:
ci si destreggia fra timbriche elettriche e acustiche, mentre organi, vibrafoni, Wurlitzer o
fisarmoniche aggiungono ulteriori sapori a una ricetta già di per sé genuina e nutriente. Il
succitato Umberto Giardini partecipa in maniera attiva nel riuscito singolo per “Un giorno
qualunque” (per il quale si impadronisce addirittura del microfono e firma persino il testo),
nella teatraleggiante “Il muro” oppure nei cori dell’agrodolce “Come se non bastasse” e del
riflessivo, notturno viaggio on the road di “Immobile attendo”. Trattandosi di un esordio, è
logico che la perfezione cromatica vagheggiata dalla sigla sociale prescelta sia ancora da
centrare appieno. Quello che conta è che il progetto è senza dubbio di buona fattura, da
tenere sott’occhio.
Contatti: www.myspace.com/coloreperfetto
Elena Raugei
Pagina 20
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Numero Novembre '08
DJ Fede
Back 2 The Boogie
La Suite
Federico Grazziottin è ormai un veterano della “vera” scena hip hop, almeno di quella che si
è formata successivamente alla prima vera ondata negli anni 90. La perseveranza non gli fa
sicuramente difetto: ha portato avanti la torcia tanto nei momenti di massima esposizione
mediatica del genere quanto in quelli bui - per lui non faceva differenza, visto che non è mai
stato uno di quelli che più di tanto tentasse di cavalcare i fenomeni del momento. Ora,
stiamo infilando un altro (l’ennesimo) periodo in cui dell’hip hop in Italia si parlerà poco, dopo
che negli ultimi anni se n’è parlato perfino troppo. In queste cicliche fluttuazioni, non
possiamo non guardare con simpatia a chi porta avanti deciso un discorso che si basa
sull’insegnamento di chi ha posto le basi della cultura hip hop anni a cavallo tra l’80 e il ’90.
Niente “plasticoni” quindi, niente tamarrate spettacolari e compiacenti; tracce di soul invece,
molto funk campionato, un tocco di jazz giusto per dare un po’ di morbidezza e ogni tanto
qualche esotismo (India e Bollywood). Già fatto, già sentito. Ma è il più onesto standard che
si possa seguire quando si costruisce un disco di hip hop strumentale. A DJ Fede manca
però la classe per entrare nella Seria A, almeno per adesso: le sue costruzioni sono ancora
troppo scolastiche per essere sensuali, le idee sono troppo educate e rispettose per essere
nuove (o almeno sembrare tali). I tentativi di andare oltre, vedi i brani di matrice più
strumentali in cui sono coinvolti Cato e Boosta, sono riusciti a metà: non hanno un impianto
abbastanza robusto per reggere ad un vaglio più vasto. Insomma, giudizio a metà. La
sufficienza è piena. Ma per ambire a qualcosa di più, ci sarebbe ancora strada da
percorrere; un punto da cui partire però c’è in tal senso, ed è “Rugged Club Banger”.
Contatti: www.djfede.com
Damir Ivic
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Numero Novembre '08
Fare Soldi
Sappiamo dove abiti
Riotmaker/Warner
Continuano i divertissement di Pasta degli Amari e Luka Carnifull. Quello che è cambiato, è
il mondo intorno a loro: se prima erano da stolide mosche bianche pasticciare con stilemi
dance ed echi anni 80 nel disinteresse generale, oggi improvvisamente tutto intorno a loro
pare sintonizzato intorno a loro, nel magico mondo indie; mondo che resta, inevitabilmente, il
primo bacino d’attenzione per Riotmaker. Il sospetto è che quindi “Sappiamo dove abiti”
piacerà in giro più del dovuto... o meglio, rischierà di essere una rivelazione, una
dimostrazione di spiazzante ingegno provocatorio, quando invece è esattamente il suo
contrario. Questo album è infatti una raccolta di figurine sonore, assemblate con gusto
vivace e voglia di divertirsi. L’iniziale “Dolo Boys” è probabilmente il pezzo migliore, ma
meritano sicuramente una menzione anche la sognante “Il lato B del mondo” e la percussiva
“Puff Dandy”. Ci sono anche cadute di tono: la cover di “Survivor” di Mike Francis non
aggiunge nulla all’originale, anzi nel rispettarlo eccessivamente le toglie qualcosa, e va bene
usare a fondo le sonorità anni 80 ma col “Palazzo dei cigni” davvero si esagera. In generale,
ci si diverte più che abbastanza, se uno ha poche pretese e soprattutto poca conoscenza
storica della musica. Se invece voi che ascoltate siete un po’ più sgamati e meno (wannabe)
candidi indie adolescenti, emergono i limiti di un lavoro che, lo ripetiamo, è più una
personalissima raccolta di figurine dei titolari del progetto - ma un album di figurine, per
colorato che sia, non vale mai come qualità un libro vero e proprio.
Contatti: www.riotmaker.net
Damir Ivic
Pagina 22
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Numero Novembre '08
Grenouille
Saltando dentro al fuoco
ViaAudio/Jestrai
Se una band navigata come Il Teatro Degli Orrori, con quel disco epocale che è “Dell'impero
delle tenebre”, ha mostrato come la lingua di Dante possa, con le dovute cautele e trattata
nella giusta maniera, scendere a patti senza grossi traumi con le chitarre heavy del grunge e
del noise, non ci si aspettava certo che fosse una formazione all'esordio come i Grenouille a
darci ulteriore conferma in questo senso. E invece è proprio quel che è successo, almeno a
giudicare da un'opera debitrice verso l'esempio musicale di artisti come Alice In Chains e
Sonic Youth ma capace anche di smarcarsi abilmente dalla replica pedissequa e fine a sé
stessa di modelli arcinoti. Il tutto grazie a una scrittura complessa quanto ben calibrata
divisa tra irruenza e narrazione, turbolenze e architetture ibride, ma soprattutto a testi ricolmi
di alienazione metropolitana – Milano la città di provenienza della formazione – e poco
disposti a farsi schiacciare dalle tonnellate di chitarre acide che reggono le impalcature.
Capaci, invece, di diventare un valore aggiunto, per un disco che mostra in generale una
maturità difficilmente riscontrabile in un'opera prima. Che si privilegi l'anima dissonante
(“Babilonia”), le mire punk (“Grosso guaio in Paolo Sarpi”), le obliquità “pop” (“La Gio e io”) o
la pseudo-psichedelia (lo strumentale conclusivo “Moonshine Pub”), il risultato, insomma,
non cambia: “Saltando dentro al fuoco” rimane una graditissima sorpresa. In attesa di
sviluppi futuri che, siamo certi, faranno ancora parlare di questi Grenouille.
Contatti: www.myspace.com/grenouillemusic
Fabrizio Zampighi
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Numero Novembre '08
Il Rumore del Fiore di Carta
Fallen
autoprodotto
Si fa presto a dire post-rock, e ricondurre tutto a talune risapute, cinematiche progressioni
strumentali anglo-americane, come se si trattasse di un genere circoscrivibile e consolidato.
Ma se c’è un’anima che palpita da qualche parte, capitasse anche in un angolo della
provincia di Campobasso, potremmo eludere certi scontati confronti, chiudere gli occhi e
provare semplicemente ad emozionarci. Il Rumore del Fiore di Carta è già nome curioso per
questo quintetto, molisano per l’appunto, con cui provare a ritagliarsi una propria dimensione
creativa e di ricerca attraverso sonorità dal di dentro, malinconiche, senza fretta. “Fallen”,
sempre orgogliosamente autoprodotto persino in doppio vinile, rivela un passo ulteriore al
già apprezzabile “Origami 62”, stavolta più efficace nel focalizzare “lo scontro/incontro tra
delicatezza e rumore, tra digitale ed analogico, tra luce ed ombra”. Un esplicito manifesto
d’intenti della band tutt’altro che presuntuoso, bensì consapevole del proprio stratificato
bagaglio espressivo. Forse per questo le iniziali “Nestor 10”, “Reykjavik”, “Al sapore di
Fisherman”, nello loro lieve narcosi striata d’elettronica, si lasciano preferire al confessato
atto d’amore per i Massimo Volume di “Conto alla rovescia”. Peccati del tutto veniali,
ampiamente riscattati dall’intensità di “Leon 1954” (unico buon momento cantato), dal
disturbato reiterare pianistico e crescendo del brano che dà il titolo all’album, dalle effusioni
electro-acustiche con tromba di “Mira”, da tutti i cinquantuno minuti nelle loro filmiche
sequenze, intrisi di leggerezza, inquietudine e credibile autenticità poetica.
Contatti: www.ilrumoredelfioredicarta.it
Loris Furlan
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Numero Novembre '08
Le-Li
Music Is Not For Grownups
Garrincha Dischi
In una super confezione di finta pelle colorata di verde, la neo-nata etichetta di Matteo
Romagnoli dei 4fiori per Zoe, debutta sul mercato musicale con l’EP di Le-Li, ovvero Elisa
già chitarra degli Almandino Quite Deluxe. Un disco che mostra già il carattere di questa
ragazza che si è lasciata andare tra le montagne vicentine, mentre era sola, in questa sua
espressione tutta femminile, piena di carezze, fate, grandi che non capiscono i piccoli, con la
musica che attraverso una chitarra si trasforma in supereroina. Questo vestito rosa pastello
è però delineato dagli arrangiamenti del buon Matteo Romagnoli che qui si fa chiamare John
e oltre ad arrangiare i brani dà sostegno a Le-Li facendo a metà con i testi, suonando le
tastiere e la chitarra. Quindi possiamo definire questo progetto un duo. Di primo acchito
vengono in mente i Comaneci e non stupisce la presenza tra gli ospiti di una di loro, Jenny
Burnazzi, al violoncello. La batteria è affidata a Francesco Brini (4fiori per Zoe), quando c’è.
Importante il violino di Jacopo Ciani, meraviglioso in “Un regalo strano” dove Elisa canta in
italiano poggiando la voce sulle parole con un movimento soave e sussurrato. Spero che il
disco su lunga distanza previsto per gennaio/febbraio abbia più episodi in italiano visto il
risultato di questo singolo brano in cui la nostra ragazza mette davvero in risalto la sua
unicità. L’EP si chiude con “Pretty Vacant” dei Sex Pistols resa morbidissima con il violino, il
violoncello, la chitarra e la voce della piccola dolce Le-Li con in coro Matteo.
Contatti: www.myspace.com/theworldofleli
Francesca Ognibene
Pagina 25
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Numero Novembre '08
Lonesome Southern Comfort Company
Lonesome Southern Comfort Company
On The Camper
Presi dallo sconforto a ondate regolari a causa dell’immensa mole di dischi poco significativi
- magari ben suonati, da gente che conosce la materia, ma con pochissimi argomenti, e una
urgenza espressiva che o non arriva con sufficiente forza alle nostre orecchie o è proprio
assente - che ci capitano sul lettore, a volte ci scordiamo il motivo che ci ha spinti ad
intraprendere questo mestiere: l’entusiasmo nello scoprire qualcosa di nuovo, magari ancora
da sgrezzare e limare ma illuminato da una incontestabile scintilla creativa. Il debutto degli
svizzeri - di Lugano - Lonesome Southern Comfort Company appartiene alla categoria dei
dischi che colpiscono subito: ingenuo forse, fedele ad un immaginario alt.country che di
certo non avrebbe bisogno di ulteriori seguaci, eppure dotato di una freschezza e di una
schiettezza che non perde tempo a rimirarsi e a cincischiare. Strumenti acustici suonati con
un misto di disillusione e voglia di cambiare un mondo pieno di orrori, ipoteticamente a metà
strada tra gli Okkervil River e i Neutral Milk Hotel, una voce espressiva che veicola una
qualità di scrittura sopra la media, che parla di un’America luogo terribile e crudele dal quale
però si riescono a prendere le distanze con una buona dose di ironia (“Original Choir Of The
Republican Party”), e che allo stesso tempo viene esorcizzata attraverso liberatorie
tempeste di cupezza alla Woven Hand (“Sappony Church”) o echi del primissimo Dylan
(“Blacklisted”). Tutto questo viene affrontato con qualche ingenuità come si è detto, ma
soprattutto con una valanga di argomenti. Procuratevi questo disco.
Contatti: www.onthecamperrecords.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 26
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Numero Novembre '08
Macno
Tutto come prima
La Scala Dischi/Venus
Alla seconda prova, i comaschi Macno confermano la forte contiguità con un rock fatto di
chiaroscuri, a prevalente componente cantautorale. La parentela più prossima del trio, per
essere subito espliciti, è con i Marlene Kuntz, la cui cifra è abbastanza sovente richiamata
(ed è auspicabile per il futuro, unico appunto, un qualche affrancamento dal canone). E
quindi espressionismo elettroacustico, ricami chitarristici alternati a robusti interventi, squarci
di lirismo macerato e tenebroso, esplosioni controllate. I pezzi sono ben congegnati, con il
giusto dosaggio di tensione e aperture. Con qualche sorpresa: “Ultimo giorno d’estate” è uno
smarrimento di psichedelia e Maghreb alla maniera dei Rolling Stones di “Their Satanic
Majesties Request”.
La trama del disco è tutta chitarristica, ed è giocata sugli intrecci delle sei-corde di Saro De
Giacobbe e dell’ex Rosaluna Marco Ambrosi, quest’ultimo produttore dell’album e presente
in tutte le tracce anche come musicista special guest, abbastanza per essere considerato a
tutti gli effetti il quarto Macno. Gli altri due effettivi in organico sono il cantante Mimmiz e il
bassista Alessandro Pace.
Non l’unico amico-ospite, Ambrosi, in un lavoro che si avvale dei contributi del Virginiana
Miller Simone Lenzi, di Lele Battista (già Sintesi), dell’altro ex-Rosaluna Manuel Franco e di
Alessandro Nespoli che fanno la staffetta alla batteria dividendosi gli undici brani. Lorenzo
Ori presta la sua maestria alle manopole.
Contatti: www.macno.it
Gianluca Veltri
Pagina 27
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Numero Novembre '08
Noise Trade Company
Crash Test One
N-Label/Goodfellas
Nati pochi mesi fa su iniziativa di Gianluca Becuzzi, vecchia conoscenza della scena noise
elettronica italiana (ex Pankow, ex Limbo ed ex Kinetix, tra gli altri), e Chiara Migliorini, i
toscani Noise Trade Company ci dicono dove intendono andare a parare fin dall’incipit del
primo brano: una drum-machine indecisa tra senso di attesa e indifferenza statica e folate di
synth che sembrano uscire da qualche oscuro anfratto della Sheffield di trenta anni fa.
Siamo al limite del plagio, dichiarato al punto che in bella evidenza nella tracklist emerge una
cover di “Nag Nag Nag” dei Cabaret Voltaire, rallentata e impigrita ma assolutamente fedele
all’originale, eppure non è quello il punto: con una ironia che da un lato rassicura sulla
volontà precisa di celebrare le proprie origini, senza pretese di calligrafia spacciata per
genialità quindi, e dall’altra depura da possibili tentazioni trendy (l’ultima carrozza del treno
per l’electro è pur sempre allettante), il duo snocciola efficaci slogan (“Waste Your Life, Be
An Artist”), incisivi rumorismi (“High Resolution Caos”, una tempesta magnetica che pare
generata da insetti), una “Ghost Radio” inquieta e notturna quanto basta, una trascinante
“Feel The Beat (You Can)”. Senza prendersi troppo sul serio (l’apecar in copertina) i Noise
Trade Company hanno creato un disco forse un po’ nostalgico e celebrativo dei tempi che
furono ma decisamente godibile: magari non si tratta di vere e proprie “News From The
Past”, tanto per citare un altro brano, ma il divertissement mostra invidiabile solidità.
Contatti: www.myspace.com/noisetradecompany
Alessandro Besselva Averame
Pagina 28
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Numero Novembre '08
Pitch
A Violent Dinner
Savage Jaw
Tanto - e ingiustificatamente - vasta è la mole di uscite italiane che ogni mese invadono il
mercato che è fin troppo facile farsi scappare qualcosa. Nello specifico, un ritorno, se non
inaspettato, per lo meno assai gradito: quello dei Pitch, formazione ravennate guidata dalla
cantante e bassista Alessandra Gismondi e titolare di un paio di album sul finire dello scorso
decennio, e poi sparita. Sapevamo che la Gismondi aveva già da qualche tempo ripreso la
vecchia ragione sociale (pur cambiando l’organico) e avevamo avuto modo di toccare con
mano i primi passi di questa seconda vita, ma l’arrivo di “A Violent Dinner”, pubblicato dalla
piccola etichetta Savage Jaw sul finire del 2007, ci era proprio sfuggito. Rimediamo ora, e lo
facciamo volentieri perché trattasi di un lavoro estremamente piacevole, all’insegna di un
indie-rock orecchiabile e sognante – come, per esempio, in una “Françoise” che paga debito
ai Blonde Redhead – ma non privo di occasionali spigoli e asperità, ben condotto dagli
intrecci delle chitarre (sporche e sul filo della dissonanza, ma mai eccessivamente cattive) e
dalla voce di un’Alessandra che, abbandonato l’italico idioma delle due precedenti prove
sulla lunga distanza, torna all’inglese degli esordi. Non è certo su un campo appena rizollato
che gioca la formazione, ma la classe e il mestiere che sfoggia sono più che sufficienti per
permetterle di portare a casa il risultato senza troppa fatica. Fuor di metafora: pur
muovendosi in contesti sonori ben delimitati, i quattro riescono comunque a dare vita a
canzoni di assoluta gradevolezza, grazie a una indubbia quanto obliqua sensibilità pop e a
un certo buon gusto in fase di arrangiamento-produzione. Forse in alcuni passaggi
dovrebbero mordere un po’ di più, ma siamo certi che dal vivo questo problema non si ponga
minimamente.
Contatti: www.myspace.com/pitchsound
Aurelio Pasini
Pagina 29
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Numero Novembre '08
Rhumornero
Umorismi neri
Arroyo/Venus
Funziona il gioco di parole che dà il nome a questa band pisana formata nel 2005 da
musicisti con una certa esperienza alle spalle (il bassista Antonio Inserillo, già con i Death
SS, il batterista Giacomo Macelloni, ex Prozac + e Super B), ma quando ci si imbatte in frasi
come “Vorrei parlare con Marzullo per dirgli mi faccio domande e non mi do risposte”, ecco,
si comprende la differenza tra le - ottime, lodevoli, senza alcun dubbio in buona fede intenzioni e la possibilità che la scelta dell’italiano nel rock possa non sempre essere
vincente. Chiariamoci, il mestiere della band, la capacità di confezionare un robusto rock
cantato in italiano è tecnicamente ineccepibile, quello che ci sembra manchi è l’ispirazione
non solo nei testi ma anche nelle musiche: di certo la scelta di percorrere strade
ampiamente esplorate nel corso degli ultimi quindici anni non è d’aiuto. In tutto questo
rimane qualche barlume di brillantezza: una “Il deserto” che richiama oscure pagine di prog
italico, azzeccata soprattutto negli intrecci vocali d’altri tempi, e “Il conflitto”, con il suo lento e
ipnotico incedere. Ma è troppo poco per promuovere il progetto, e l’innegabile mestiere non
è sufficiente per far parlare di novità, o di ispirata aderenza ad un canone. Sono ormai troppi
i gruppi tecnicamente bravi e capaci di sfoderare un buon mestiere: per emergere davvero
occorre quel genere di coraggio che pare non essere più molto popolare preso i gruppi della
nostra penisola.
Contatti: www.rhumornero.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 30
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Numero Novembre '08
Rohmer
Rohmer
AMS/BTF
Le note di pianoforte di “Angolo I” paiono scorrere lentamente insieme ai titoli di coda.
Laddove va in dissolvenza il lungo film dei Finisterre (sette dischi dal 1994 e ottimi riscontri
in ambito progressive anche all’estero), prende forma il nuovo progetto Rohmer. Poteva
trattarsi di un seguito fisiologicamente innovativo per la storica prog band ligure, in fondo c’è
sempre un dichiarato intento tra tradizione, modernità e sperimentazione, ed è sempre il
poliedrico e attivissimo bassista-compositore Fabio Zuffanti a condurre l’iniziativa, assieme
ai compagni di sempre Boris Valle (pianoforte), Agostino Macor (tastiere), Mau Di Tollo
(batteria). Ma c’è una nitida consapevolezza nel voltare pagina con coerenza, oltre i luoghi
comuni e l’estetica retrò del progressive convenzionalmente riconosciuto, e Rohmer fa
chiarezza con un nome tutto nuovo. Un nome che riecheggia da subito ambientazioni
filmiche (dichiarato è il riferimento al regista francese Eric Rohmer), supportate da fascinose
commistioni di elettronica e musica contemporanea, delicate tinte jazz e narcosi post-rock.
Nove tracce dalla toccante introspettiva bellezza, impreziosite da efficacissimi inserti di
flauto, viola, tromba e sax, meravigliosamente evocative ed emozionali, per le quali i
suggeriti riferimenti ispirativi di Mark Hollis, Brian Eno, David Sylvian, Sigur Rós e dei
King Crimson più pastorali sembrano assai azzeccati. Lo stupore, del tutto positivo, è anche
la convivenza dell’unico momento cantato (“V.moda reale”) di deliziosa dolcezza romantica
(il riaffiorare delle malie progressive), con l’insistito ipnotico minimalismo di “Elimini-enne”.
Convivenza e convergenza estetica e stilistica che sa di meraviglia, quasi mai riscontrabile
nella maggior parte dei dischi underground odierni.
Contatti: www.myspace.com/rohmerofficial
Loris Furlan
Pagina 31
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Numero Novembre '08
Sea Of Cortez
The Wise Frog Drowned In The Milk
I Dischi di Strade Blu
Ha alle spalle una storia abbastanza travagliata questo esordio dei Sea Of Cortez,
formazione aperta che ruota attorno ai chitarristi Antonio Gramentieri e Mirko Monduzzi:
registrato e completato già da alcuni anni, “The Wise Frog Drowned In The Milk” vede infatti
la luce solo ora a causa di tutta una serie di problemi musicali e – soprattutto – non. Se non
altro, però, l’attesa è stata ricompensata abbondantemente, perché trattasi di un lavoro di
livello fuori dal comune, come inventiva, tecnica e gusto nelle scelte sonore. Affiancati dal
batterista Denis Valentini e dal percussionista Bubi Staffa (ma, nel corso degli anni, hanno
diviso i palchi con nomi del calibro di Howe Gelb, Bill Elm, Hugo Race, John De Leo e Steve
Wynn), Monduzzi e Gramentieri mettono in mostra un talento raro, dando vita a dieci
quadretti interamente strumentali in cui atmosfere desertiche si sposano a sperimentazioni
sintetiche, l’elettronica si incontra col folk e i muri della tradizione vengono abbattuti a colpi di
effetti (tanto sulle sei-corde quanto sulle percussioni), con occasionali interventi di organo
Hammond e fisarmonica – a cura, rispettivamente, degli ospiti Pippo Guarnera e Luca
Bonucci – a rendere il tutto ancora più speciale. Dall’incantevole semplicità dei fraseggi di
“Khabir” alla sferragliante e waitsiana “Flexible Waltz”, dalla ruvida “Air Sickness Bag” al
toccante quadretto acustico di “Then You’re Gone” non vi è un minuto di questo album che
non suoni meno che interessante. In sintesi: il miglior disco strumentale uscito in Italia da
parecchi anni a questa parte; da scoprire e far conoscere assolutamente.
Contatti: www.myspace.com/antoniogramentieri
Aurelio Pasini
Pagina 32
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Numero Novembre '08
Sintomi di Gioia
Segnalibro
autoprodotto
Festeggiano otto anni di vita, un paio di demo CD, la partecipazione a qualche raccolta,
“Alessandria Wave 2001” per esempio ed ora “Segnalibro”, l’album di esordio. Lo rigiro tra le
mani, bella la copertina, meglio ancora la confezione, un digipack che richiama un vinile
apribile. Capatina sul loro sito, una biografia spesa per metà a raccontare i cambi di
formazione, qualche raro concerto e le solite esibizioni via Internet. Insomma tutto nella
norma per una band giovane. Ma quando ascolto “Segnalibro” la sensazione è delle migliori.
Dieci canzoni che si ascoltano con piacere, a metà tra un indie rock mai banalizzato,
luminescenze shoegazing (che coro in “Non puoi”) e divagazioni vagamente post rock. In
questo magma, le liriche assumono una dimensione poetica, non sempre sognante, ma
certamente scombussolata e obliqua (“mi baci con il contagocce, mentre io mi doso con la
benzina della macchina...”, cantano in “Segnalibro”) e il merito è del chitarrista/pianista Luca
Grossi, autore dei testi, che interpreta con trasporto e con una voce sottile, ma impostata.
Oltre al telaio da power pop rock band, esaltato nelle deflagrazioni finali di “Come le scarpe”,
il quartetto inserisce elementi che regalano tocchi di eleganza, come gli archi in “Non puoi”,
“La nebbia”, il vero cantautorato rock e la bellissima “E così” – se ha un senso, direi musica
rock da camera. Non tutto è sempre lucido e sotto controllo, ma la sensazione è che i
Sintomi di Gioia siano qualcosa di più che l’ennesima indie rock band italiana. Siatene
curiosi.
Contatti: www.sintomidigioia.it
Gianni Della Cioppa
Pagina 33
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Numero Novembre '08
Snakehouse
Diabolik Vision
autoprodotto
Arrivano dall’area bergamasca, non hanno sulle spalle una storia da raccontare, sono
quattro ragazzi (beh veramente tre ragazzi ed una ragazza, Jennifer Longo alla batteria) e il
collante che li unisce è la passione per un certo tipo di hard rock blues, dal gusto rétro o
vintage come dicono quelli bravi. Sviluppano questo ardore con semplicità e sincerità, senza
stravolgere le regole del gioco, omaggiando, tra limiti e speranze, i tanti idoli, dipanati in anni
di ascolti, con otto brani, per circa mezz’ora di musica, che chiama in causa tanto i Led
Zeppelin prima maniera, dal taglio blues, quanto i primi, terremotanti Grand Funk Railroad,
rievocati anche nell’armonica del cantante Morgan Carminati, ugola roca e virile, non sempre
duttile come stile necessita. Se il bassista Nicola Mazzucconi è musicista solido e certosino,
è la chitarra di Simone Trevisan, impastata tra riff spezzati ed assolo fluidi e dal tocco
southern, il vero gioiello degli Snakehouse, che in “Don’t You”, “White Table”, “I’m Ready To
Groove”, l’incalzante title track, che apre il CD (confezionato slide) e le spruzzatine funky di
“This Is My Style”, si dimostrano coerenti e degni di attenzione, da parte chi questo genere lo
conosce o, causa anagrafe, lo ha scoperto da poco. In chiusura c’è ‘Ridin’ Of The L&N’,
classico di John Mayall, in chiave boogie-rock, credibile e trascinante, che si ascolta che è
un piacere.
Contatti: www.myspace.com/snakehouseband
Gianni Della Cioppa
Pagina 34
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Numero Novembre '08
Stiv
Blu senape
Strab/Wondemark
Stiv, all’anagrafe Stefano Tirella, già DJ Stiv, è un musicista poliedrico e super-impegnato.
Se un centro si può rintracciare in questo che è il quinto lavoro del musicista fiorentino, al
netto da remix, EP, singoli e altro, è nella scelta di cavalcare più che mai la diversificazione
multiforme, rifiutare di seguire una strada, una sola. Una “ghirlanda di suoni”, la definisce lo
stesso Stiv nel pezzo programmatico (e radiofonico) dell’album, “Incubo – realtà”, sorretto da
un basso dub su tempi down. Nel brano, voce campionata di Jovanotti (fan del Nostro) e nel
video relativo, contributo della pornostar Michelle Ferrari. Simili ritmiche, più pigre e
indolenti, e in levare, vengono riprese in “Proiettile lento”, dalle sonorità distorte e
echeggianti. La pop music purissima ancorché disturbata di “Bradipa” (voce di Margot dei
Rumore Rosa) e l’ossessivo frasario psichedelico e claustrofobico di “Love-Fi” convivono
con le vezzosità wave di “L’amore è geco” e i riff hard di “Corridoi”, confezionati dal
chitarrista Paolo Fazzi insieme all’ospite Riccardo Onori (pure lui jovanottiano), con il
ritornello giocato sulle doppie “corri-dai” e “corridoi”.
È ancora psichedelia e ripetizione, nella traccia di dieci minuti che chiude il disco, “Serena
variabile”, un lungo delirio onirico. Stiv gestisce una consapevolezza post-moderna che
manipola i linguaggi, a partire dalla forma primaria che presiede al discorso musicale: il
suono.
Contatti: www.stiv.it
Gianluca Veltri
Pagina 35
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Numero Novembre '08
Super Sexy Boy 1986
Royal Peacocks
Tornado Ride
Con un nome del genere, e con questa grafica in bicromia, adesso penserete che vi si
cerchi di piazzare qualche reduce dagli edonistici anni 80. Fortunatamente non sono ancora
uscito di senno per cui se a voi il rock dopo i '70 ha detto davvero poco state leggendo nel
posto giusto. Nati nel 2003, non nel 1986, i Super Sexy Boy 1986 vedono in formazione
membri di Speedy Peones e Mudlarks, e come anticipato si dedicano ad un rock'n’roll
devotissimo a nomi quali Sonics, Dead Boys e Heartbreakers. Dopo cinque anni, un demo
mai pubblicato, comparsate nelle compilation di mezzo mondo ma soprattutto tanti concerti,
questi cinque non troppo ragazzi ci presentano "Royal Peacocks", in uscita italiana per
Tornado Ride e oltreoceano per Zodiac Killer. Un piccolo gioiellino che declina il Verbo in
tredici tracce quasi senza soste o cali di tensione. Si parte subito con l'armonica di "Under
My Car" e ci si ferma soltanto quando si arriva al "Planet 86", e in alcuni momenti sembra
quasi che i New York Dolls, quelli veri, siano ritornati in studio. La registrazione è grezza al
punto giusto, la voce di Nikola sa graffiare e farsi potente e la band gira con una precisione
da manuale per diventare la colonna sonora di una stilosa serata di bagordi. Le obiezioni, tra
cui l'immortale "sempre la stessa cosa", di fronte alla qualità qui proposta si fanno davvero
piccole, e ci dispiace solo constatare che, salvo miracoli, in pochi fortunati ascolteranno
"Royal Peacocks". Beati loro.

Contatti: www.myspace.com/tornadorecording
Giorgio Sala
Pagina 36
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Numero Novembre '08
The Groovers
Revolution
Fandango/Audioglobe
Ci sono gruppi che portano avanti il proprio credo “combat” a suon di slogan, proclami,
“compagni” e richiami a un mondo che - purtroppo, per certi versi - non è più quello in cui
viviamo, ed è sempre più scollato dalla realtà quotidiana dei lavoratori (come peraltro in
parte dimostrato dall’ultima tornata elettorale). Altri, invece, nel mondo del lavoro ci si
buttano a capofitto, si sporcano letteralmente le mani e, senza retorica, mettono in musica
quello che vedono, ovvero una realtà fatta di insoddisfazione, fatica e voglia di riscatto.
Appartengono a quest’ultima categoria i Groovers di Michele Anelli, che proprio di questo
parlano nel secondo volume di “canzoni sui nostri tempi” (come da sottotitolo; il primo risale
al 2003): una raccolta di brani pieni di rabbia e di dolore, ma anche pregni di speranza in un
mondo migliore e, finalmente, più a misura d’uomo. Il che, di volta in volta, prende la forma
di ballate notturne avvolte dalle calde note dell’organo Hammond oppure di schegge di rock
grezzo e potente, o ancora di fascinosi bozzetti elettroacustici sporcati di rumore. Magari non
“contaminato” come il suo succitato predecessore, ma neppure facilmente inquadrabile
come classic o “redneck” rock, “Revolution” è un disco importante, perché lontano
dall’omologazione e dall’accettazione passiva delle altrui imposizioni, da un punto di vista sia
musicale che umano e politico; per questo, per una volta, è il caso di lasciare in secondo
piano qualsiasi discussione estetica o di genere e la presenza qualche imperfezione
nell’inglese delle liriche.
Contatti: www.thegroovers.net
Aurelio Pasini
Pagina 37
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Numero Novembre '08
The Radiostars
Endless Morning
autoprodotto
Ai nostri occhi - e alle nostre orecchie - i Radiostars hanno due pregi considerevoli.
Anzitutto fanno dischi seguendo ritmi umani (questo è il loro quarto in una decina d’anni), ma
soprattutto suonano senza curarsi minimamente dei trend del momento, seguendo solo e
soltanto il battito dei loro cuori, che nello specifico viaggiamo a un inconfondibile tempo di
rock’n’roll: a metà strada tra gli anni 50 e certe asperità hard dei 70, senza però dimenticare
la lezione del migliore underground statunitense degli 80. Sballottati tra un decennio e
l’altro? Niente paura, perché alla prova dei fatti la proposta del trio emiliano è tanto semplice
quanto efficace: chitarra a macinare riff essenziali, sezione ritmica pulsante anche nei
momenti meno aggressivi e la voce a completare il cerchio, non mancando di regalarsi
qualche interessante spunto melodico (chi scrive, per esempio, si è più volte ritrovato a
canticchiare il ritornello di “My Garden”). Non c’è molto di nuovo, per dire, in canzoni come la
potente “Will, Frankl And The Truth” o “Nothing Is Possible”, ma è proprio questa classicità
che le porta al di fuori dal tempo e le rende efficaci e divertenti in una maniera che
difficilmente – speriamo – passerà di moda. E “Vowels Poetry”, col suo sapido retrogusto di
frontiera, è senz’altro tra annoverarsi tra le migliori produzioni della band. La quale, per
permettere al neofita come all’habitué di entrare ancora meglio nel proprio mondo, ha
allegato al CD - distribuito con licenza Creative Commons - un DVD contenente tanto brani
dal vivo quanto spezzoni della registrazione del disco, che ci mostrano un gruppo di
musicisti divertente, divertito e (auto)ironico. Cosa che ce li fa apprezzare ancora di più.
Contatti: www.theradiostars.com
Aurelio Pasini
Pagina 38
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Numero Novembre '08
Tormento & Esa
Siamesi Brothers
Siamesi Productions
Come passa il tempo, considerazione numero uno. La considerazione numero due è che è
comunque bello che ci sia chi ancora ci crede, insiste, resiste, va per la sua strada (anche
dopo averne sperimentate altre, all’apparenza assai più comode). Dieci anni fa, più o meno,
un disco in ensemble di Tormento ed Esa avrebbe fatto sensazione: il primo coi Sottotono
l’altro con gli Otierre erano al massimo della popolarità, ma le strade dei due – che sono
fratelli, per chi non lo sapesse – parevano non incrociarsi quasi mai. Oggi finalmente questo
incontro arriva, con un vero e proprio album e non con qualche episodica collaborazione
come in passato. Nel frattempo Sottotono ed Otierre non esistono più e per entrambi, visto
dall’esterno, si ha la sensazione di un grande futuro dietro le spalle, con una carriera che
poteva giocare nella massima divisione ma alla fine è finita relegata nelle serie minori.
Probabile in realtà che i due siano più felici così (e nei testi, lo dicono). Siamo contenti per
loro, davvero, e anzi siamo contenti in generale che per l’ennesima volta si dimostri come ci
sia più contentezza umana nel fuggire le regole più becere e ciniche dello showbiz di
successo. Però da critici ed analisti musicali non possiamo non dire che “Siamesi Brothers”
avrebbe avuto bisogno di un polso forte, di un produttore esterno che mettesse in riga il
talento dei due, asciugando le parti ridondanti e valorizzando i rispettivi pregi. Qualche
produttore (sì, di quelli con esperienza da showbiz...) che spingesse Esa a tornare a lavorare
sulla qualità letteraria dei testi, ché non lo fa da tempo, e inquadrasse meglio il talento
vocale di Tormento, che c’è, anche se in definitiva in questo album notiamo più la sua
bravura da produttore di basi che di vocalist. Qualche produttore che permettesse di infilare
più episodi come “Fuori da Babilonia” (il vero terreno musicale di Esa oggi è il reggae),
“Niente di nuovo” (perfetta la base di DJ Myke costruita sui Weather Report), “Mi
piacerebbe”. Ci fosse stato, questo disco da discreto sarebbe diventato grandioso. Come la
storia, la dedizione e la statura artistica dei due meriterebbe.
Contatti: www.myspace.com/siamesibrothers
Damir Ivic
Pagina 39
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Numero Novembre '08
Glory Days
Rock Island, Rimini, 26-28 settembre 2008
Lorenzo Semprini, in arte Miami, ha tagliato alla fine dello scorso settembre il traguardo del
decennale dei “Glory Days”, annuale raduno springsteeniano più importante d’Italia e forse
d’Europa, e in questa occasione a celebrarlo c’è stato anche un certo Vinicio Capossela. E’
proprio Lorenzo, con i suoi The Groovers, l’anima pulsante di qualcosa che dal 1999 ad oggi
è riuscita nell’intento di convogliare nella cittadina adriatica tutti i malati di Springsteen del
Bel Paese, le cover band più apprezzate e molti artisti, italiani ma anche americani, che
stanno cercando una loro strada e che in questa occasione hanno l’opportunità di farsi
conoscere e di conoscersi. La manifestazione che saluta il compleanno del Boss - il palco
era quello, suggestivo, del Rock Island - è cresciuta di anno in anno; in questa occasione ho
potuto assistere alla sola serata del sabato (venerdì c’erano stati Joe Rapolla dal New
Jersey, Andrea Cola e Joe Castellani) apprezzando gli interventi di Sergio Marazzi e
Massimo Castagnetti in versioni acustiche e soprattutto il mestiere del bravo Daniele
Rizzetto (davvero notevole il suo disco d’esordio “Io resto qua”) con “The E Street Shuffle”. Il
finale è stato come consuetudine affidato alla sarabanda rock dei Miami & The Groovers,
che oltre a proporre diversi pezzi del loro nuovo album “Merry Go Round” hanno donato alle
centinaia di presenti perle springsteeniane e classici soul-rock. Degna di nota la imprevista
sorpresa di inizio serata, quando ad aprire lo show con qualche brano pianistico è
intervenuto come accennato il maestro Capossela, che casualmente si trovava a passare da
quelle parti. La domenica set acustico per tutti. Alla fine applausi, abbracci e amicizia.
Quanto di meglio si possa sperare di trovare in giro oggi giorno. Un grande riconoscimento
va a chi ogni anno perde tempo, notti di sonno e denaro per la passione verso il rock’n’roll. E
il vero spirito di questa musica è racchiuso proprio in quella passione e in quello sbattimento.
Marco Quaroni
Sottosuoni
Teatro Civico del Castello, Cagliari, 18 ottobre 2008
Cinque gruppi finalisti selezionati tra 28 – tutti isolani, in palio c’è la possibilità di farsi
conoscere sui palchi della penisola – che si esibiscono nel suggestivo Teatro Civico ad un
passo dai bastioni della Cagliari vecchia, luogo bombardato durante la Seconda Guerra
Mondiale e ricostruito senza il soffitto in futuribile foggia: questo è in sintesi Sottosuoni,
manifestazione dedicata agli emergenti parte integrante dell’annuale Karel Music Expò. La
serata conclusiva ha nelle veste di ospiti i Marta sui Tubi, in crescita ulteriore sul palco, poco
prima si sono dichiarati i vincitori. Si tratta dei Chemical Marriage, gruppo tecnicamente
impeccabile, velleità prog suffragate dai mezzi in dotazione, un incrocio tra spinte avant – la
ricerca vocale di Mike Patton – e strutture musicali forse un po’ troppo patinate ma
comunque d’impatto. Formazione che ha diviso la giuria ma che ha conquistato il pubblico, a
differenza dei pur notevoli Grinpipol, gruppo sassarese che coniuga con buona padronanza
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Numero Novembre '08
reminescenze brit pop e isterismi alla Franz Ferdinand attraverso un intreccio chitarristico
che a tratti fa venire in mente gli XTC, e che si assicura il premio della critica. A distanza,
piazzati, gli ottimi The Giannis, il cui trascinante garage rock è filologicamente impeccabile –
caratteristica necessaria per suonare del buon garage – ma inevitabilmente poco originale, i
Fassbinder, autori di una apprezzabile new new wave – forse un po’ troppo “interpoliani” infiltrata da un campionatore e gli originali – ottima la presenza scenica con tute da
laboratorio in bella vista - ma non del tutto a fuoco Agho Plax, musiche che fanno pensare
alla lezione di Cabaret Voltaire, Devo e Kraftwerk edulcorata e una scelta di cantato che a
tratti risulta un po’ troppo sopra le righe. Molto buono, in ogni caso, il livello musicale medio
delle proposte.
Alessandro Besselva Averame
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Numero Novembre '08
La Muga Lena
Tra i tanti danni di Internet (dei complimenti parlano tutti, io mi dedico alle critiche...) c’è
sicuramente quello di aver tolto il gusto di poter definire una band una rivelazione. Infatti, con
i tempi veloci del web, nel momento stesso in cui ciò accade, la band in questione potrebbe,
nella migliore delle ipotesi, essere stata sorpassata da almeno altre cento rivelazioni
dell’ultima ora o, nella peggiore, essersi sciolta durante la pausa pranzo. Ma, seguendo le
orme ironiche e seriose, di chi vado a presentarvi, questi siciliani La Muga Lena sono,
almeno per me, una grande rivelazione. Arrivano da Messina, suonano dal 2002, incidono
un demo tape, prima ancora di essere una band e questo documenta l’eccentricità del
quintetto, dallo stesso anno lottano per il movimento per i diritti psichedelici e citano King
Crimson, dEUS, EL&P, Motorpyshco, Pink Floyd, Genesis e Tortoise, tra le principali
influenze. Ma ascoltando i nove brani che compongono il CD-promo intitolato “Ciarlatani di
brasiliana memoria” si nota invece una personalità dirompente, che trasuda colpi di genio e
incoscienza e rari passaggi di autocompiacimento. Titoli come “Ciarlatani in malafede”, “Le
cavallette mimetiche”, “Al posto di Rocco”, “Brasil in final”, potrebbero farvi deviare verso
considerazioni ironiche di bassa lega, ma non è così, anche perché le rare frasi sono cantate
in inglese; inoltre “Perni fuselli” per esempio è una canzone straordinaria, degna dei migliori
Rush, confronto permesso a pochi eletti. Un calderone psichedelico di stravagante
memoria.
Contatti: www.myspace.com/lamugalena
Gianni Della Cioppa
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