Numero Dicembre '06
EDITORIALE
Al momento di scrivere queste righe sono trascorsi due giorni dalla chiusura del
Meeting delle Etichette Indipendenti di Faenza. Troppo presto per trarre un bilancio
della rassegna ma abbastanza per qualche piccola riflessione su come si sia venuta
a creare una dicotomia in qualche modo inquietante, della quale già l’anno scorso si
erano potute notare le prime avvisaglie. Da una parte i “numeri”: tantissimi visitatori,
tantissimi eventi (tra incontri, concerti, presentazioni) e molte novità, a comporre il
consueto e vitalissimo caos che da sempre caratterizza la manifestazione faentina,
in questo fotografia efficace del dinamismo del nostro undergroud; dall’altra, il
progressivo - e preoccupante - aumento delle assenze: quasi tutti i distributori (ma
questa non è una novità, purtroppo), un partner storico come Rockit e, soprattutto,
troppe realtà discografiche di un certo peso. Dalla Mescal alla Homesleep,
dall’Aiuola alla Fosbury, dalla Ghost fino a Riotmaker, Suiteside e la storicamente
dissidente Wallace (e l’elenco potrebbe continuare), erano davvero troppi i marchi
che avrebbero dovuto esserci e invece per un motivo o per l’altro mancavano
(almeno a livello ufficiale e di stand, perché molti in realtà c’erano). Una situazione
dalla quale ci auguriamo scaturisca una riflessione - possibilmente serena e
razionale - da parte tanto dei discografici quanto degli organizzatori stessi; anche
perché un Meeting delle Etichette Indipendenti senza la presenza di queste ultime
dovrebbe necessariamente cambiare non solo nome ma anche ragione d’essere e
finalità. Lasciateci però dire che noi che tanto abbiamo fatto, negli ultimi dieci anni,
per la crescita della scena, siamo davvero delusi – pur rispettando le posizioni di
tutti – da chi ha disertato il MEI adducendo come motivazione il presunto tradimento
dello spirito “indie” dato dai tentativi di allargare il bacino d’utenza attraverso
iniziative a volte anche discutibili, peraltro sul piano più estetico che etico. Ci
piacerebbe che tra il MEI e tutti gli “assenti” si creasse un nuovo dialogo, e noi del
Mucchio ci dichiariamo disposti, nel comune interesse, a fungere da intermediari e
da garanti.
Ma di tutto questo ci sarà tempo per parlare nei prossimi mesi. Di par nostro,
intanto, non possiamo che ringraziare tutti coloro che sono venuti a salutarci al
nostro stand, per lasciarci i loro CD (non preoccupatevi: saranno ascoltati e valutati
con attenzione) o solo per fare quattro chiacchiere con noi. Le vostre parole, le
riflessioni, i saluti, la considerazione, le critiche e i complimenti rappresentano un
attestato di stima davvero importante.
Ciò detto, non ci resta che augurarvi buona lettura, buoni ascolti e, visto che ormai
l’anno è finito, buone feste, in qualsiasi modo decidiate di trascorrerle.
Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
DAL BASSO
È ritornato “Dal basso”: non come rubrica di “demo” ma come spazio
“estemporaneo” dove segnalare band e solisti a nostro avviso validi ma (ancora)
privi di contratto discografico. Un appuntamento, quindi, che si ripropone solo
quando ne vale davvero la pena: ogni scelta è infatti il frutto di una selezione
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particolarmente rigorosa fra tutti i demo - e sono tantissimi - che riceviamo e
ascoltiamo, al fine di privilegiare una volta in più la qualità sulla quantità. Poche
proposte alle quali vi indirizziamo tramite link a siti o pagine MySpace, in modo che
possiate subito formarvi un’opinione sulla loro consistenza.
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Numero Dicembre '06
Jennifer Gentle
A New Astronomy
A Silent Place/Audioglobe
Vale qui il discorso fatto per “Sacramento Session/5 Of 3”, vinile pubblicato qualche
mese fa – e recensito in questo stesso spazio – sempre dalla A Silent Place: non è il
nuovo album “vero” dei Jennifer Gentle, che uscirà su Sub Pop nel 2007, ma di un
lavoro in qualche modo parallelo al percorso discografico ufficiale del duo
padovano. Trattasi infatti della ristampa di un CD-R che ha visto per la prima volta la
luce lo scorso anno in sole cento copie, contenente tutta una serie di registrazioni
casalinghe realizzate su quattro tracce nella camera da letto del cantante e
chitarrista Marco Fasolo e legate tra di loro da un tema comune: sono infatti ispirate
a Giovanni Paneroni (1871-1950), bizzarro astronomo dilettante propugnatore di
una teoria secondo cui la terra sarebbe piatta e circondata da enormi ghiacciai,
mentre il sole altro non è che una palla d’argento del diametro di due metri.
Dovrebbe bastare questo a dare un’idea dello spirito che pervade il tutto: i drones
minacciosi dell’iniziale “Lost Aurora” aprono la via a un susseguirsi di paesaggi
stranianti (e a bassissima fedeltà) composti da suoni rovesciati, chitarre fuzz,
tastiere sature fin quasi alla distorsione, batterie sporchissime, stralunati intermezzi
acustici e voci che vanno e vengono. Un susseguirsi psichedelico di suoni e
sensazioni che si conclude nel tripudio di sonorità vintage di “Me And Joe On The
Moon”, tributo al mitico produttore inglese Joe Meek. Nel mezzo, come si è detto,
tutto e il contrario di tutto, in un marasma ostico ma a suo modo fascinoso (
www.jennifergentle.it).
Aurelio Pasini
Aa.Vv.
Ma non c'è nessuno biondo?
Comune di Roma/Materiali Sonori
Bella l'iniziativa, pregevoli le finalità, originale e qualitativamente interessante il
prodotto finito.
Si parla di musica, certo, ma non solo, in “Ma non c'è nessuno biondo ?”, dal
momento che il disco è il risultato dello sforzo congiunto della associazione “Aikò”,
struttura che si occupa di dare voce a persone che soffrono di disagi psichici, degli
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ospiti del Centro diurno “Pasquariello” di Roma e di un gruppo di musicisti
particolarmente sensibili alle problematiche in questione. Realtà diverse unite per far
riflettere l'opinione pubblica sul tema dell'esclusione sociale e con lo scopo di
finanziare, attraverso le vendite del disco, chi si occupa di promuovere solidarietà e
forme di coinvolgimento di questo tipo.
L'ideale contratto firmato dalle parti in causa prevede che siano proprio loro, i
cosiddetti “disagiati”, a firmare integralmente i testi dei brani, con i musicisti
impegnati a trasporre in note le sensazioni e gli stati d'animo di chi scrive.
Un'operazione che talvolta sfocia nella classica struttura-canzone, in altri si
trasforma in un binomio liriche recitate–accompagnamento, riuscendo comunque ad
alzare il volume dell'intensità emotiva in più di un'occasione. Poetica tutt'altro che
dilettantesca quella messa in campo, capace di catturare le vibrazioni sintetiche dei
Subsonica (“Fiumi urbani”), le raffinate tessiture dei P.G.R. (“Krishna Pan Miles
Davis e Coltrane”), l'organo Vcs3 di Battiato (“Probiedad prohibida”), l'energia dei
Sud Sound System (“Musica musica”) e, in generale, l'interesse di un gruppo di
artisti bravi ugualmente a dar voce a chi spesso è costretto a tacere (
www.materialisonori.it).
Fabrizio Zampighi
Bad News
Requiem For A Typewriter
Nicotine
I Bad News sono dei musicisti atipici. Li potremmo definire, ironicamente, degli
interinali del rock’n’roll. Gente che dalla musica non vuole altro che un'occasione
per star bene e divertirsi. Però, e qui sta la differenza, lo fanno bene, soprattutto se
consideriamo che l'oggetto di questa disanima, intitolato “Requiem For A
Typewriter”, è un esordio. Giusto qualche brano pubblicato in giro per il mondo –
Memphis e Leeds per fare due nomi – precede infatti la stesura di queste undici
schegge di surf-rock-punk che non arrivano nemmeno alla mezz'ora di durata. Ed è
un ritornare con entrambi i piedi alle atmosfere di trent'anni fa, ad un sound
semplice che ora si potrebbe definire “lo-fi” ma che ci sembra davvero il migliore per
brani come “When It Comes To You”. E del resto la struttura stessa del gruppo, il
power trio, non concede troppi voli pindarici: l'organo che ogni tanto fa capolino è
infatti l'unico vezzo aggiunto in un lavoro che sembra fare del “less is more” uno stile
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di vita. Quando puntano a diventare dei Dick Dale più grezzi, come in “French
Detective”, mostrano il loro lato migliore, ma “Requiem For A Typewriter” è disco da
ascoltarsi tutto d'un fiato. E scoprire, magari, di divertirsi ancora con musiche che
nulla hanno di “moderno” ma che sono ancora incredibilmente vive e vitali (
www.nicotinerecords.com).
Giorgio Sala
Disfunzione
Il ragazzo di Berlino
Jestrai/Audioglobe
Siamo tornati nei territori più consoni all’etichetta lombarda. Insomma, nome del
gruppo maudit e titolo del disco vagamente ispirato a un certo cliché intellettuale. Le
premesse non erano certo le migliori ma qualcosa sembra essere successo sul
serio, in casa Jestrai. Qualche anno fa i Disfunzione sarebbero stati un posticcio
gruppo post “esplosione del rock in italiano” della solita triade
Afterhours-Verdena-Marlene Kuntz. Ora, invece, siamo davanti ad un gruppo che
propone sonorità rock sì, ma levigate e raffinate, figlie di un gusto per
l’arrangiamento di matrice anglosassone (versante “gentile”: sulla loro biografia si
legge che si ispirano a Doves, Turin Brakes e Longview, e non ci pare sbagliato) e
di quel pop – che di italiano non ha niente – che riesce ad essere al tempo stesso
intimista ed epico. “Il ragazzo di Berlino” è un esordio che gioca su questo
compromesso, ma riesce a giocarci con canzoni morbide e liriche forse un po’
acerbe ma con un buon potenziale. Insomma, un disco con velleità autoriali che
riesce a non sembrare ridicolo. Ed è già un grandissimo passo avanti; merito anche
dell'etichetta che li ha lanciati, cui va riconosciuto di aver creduto a un tipo di musica
diverso rispetto a quanto ci aveva abituati, e di aver ridefinito la propria immagine
cercando di scoprire gruppi davvero meritevoli (www.disfunzione.it).
Hamilton Santià
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Dogs’n’Bones
Dirty Fuckin’ Loud
My Graveyard Productions
A dare retta alle voci messe in giro tanto tempo fa, il rock’n’roll doveva essere una
moda passeggera che si sarebbe spenta nel giro di qualche mese o poco di più. A
ben vedere invece sono trascorsi più di cinquanta anni e siamo ancora qui a
raccontarne splendori e miserie. Come dire, che non sempre le profezie ci
prendono. Dico r’n’r perché i Dogs’n’Bones è esattamente questo che suonano, con
il sudiciume di chi, tra Jerry Lee Lewis e Hardcore Superstar, in mezzo ha
conosciuto i Sex Pistols, gli Hanoi Rocks, i Mötley Crüe e decine di rozze band
di street rock. Il tempo rotola giù, ma fondamentalmente la filosofia rimane la stessa:
pochi accordi essenziali, una ritmica che picchia sodo, energia, sudore e voglia di
divertimento. Al tirare delle somme, a fare la differenza è però una dote non
acquistabile, ma che qui scorre a fiotti: l’attitudine, ovvero quell’essere dentro la
parte, senza finzione né inganni, quella rozza virtù che differenzia le imitazioni dagli
originali. Con nove canzoni – ottimamente prodotte del veterano Dario Mollo –
concentrate in poco più di mezz’ora, i Dogs’n’Bones dimostrano che c’è ancora
spazio per chi intende proporre rock ad alto voltaggio, privo di compromessi, che
non pretende né cerca l’originalità, ma profuma (o puzza, se preferite) di strade
sporche, di notti insonni tra alcool e donne. Dall’immagine dei quattro musicisti (il
famoso look), alla grafica del CD, dalle liriche a titoli espliciti come “I Hate You” (che
refrain!!), “All We Need” e “God Of Rock”, i Dogs’n’Bones si dimostrano perfetti
guerrieri di strada, e la loro musica incendia le casse del nostro stereo che è un
piacere (www.dogsandbones.com).
Gianni Della Cioppa
Duozero
Esperanto
Small Voices
È trascorso oltre un lustro da quando il Duozero esordì per la Snowdonia con un
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album - “No programma 1999-2000” - che ben delineava i presupposti concettuali e
il territorio operativo di quest’anomala formazione. Registrato nell’esate del 2004 e
pubblicato soltanto di recente (benché alcune fonti ufficiali arretrino di un anno la
data di uscita), il nuovo “Esperanto” tradisce fin dal titolo un singolare approccio
stilistico che mescola alla rinfusa linguaggi verbali e sonori, note, suoni e rumori
dalle origini più disparate.
“Duozero fa di tutto ciò che non è programmato la propria filosofia”: e
probabilmente anche l’incontro tra Enrico Marani e Fabrizio Tavernelli è avvenuto
per caso. Il primo, musicista elettronico veterano della sperimentazione digitale (con
T.A.C. e Forbici di Manitù), ha sempre indagato nei risvolti più oscuri della musica e
dell’animo umano; il secondo, già leader di En Manque d’Autre e Afa, ha spesso
stigmatizzato l’idiozia della civiltà contemporanea con un’attitudine spesso goliardica
ed estroversa, sempre in bilico tra protesta sociale e spiritosa demenza.
L’album – impreziosito dalla presenza di vari ospiti, tra cui l’ex C.S.I. Massimo
Zamboni – è un crogiolo di molteplici suggestioni: musica digitale, ritagli di
campionamenti e impeto letterario, assemblati con l’utopico intento di creare un
linguaggio universale che possa appartenere a tutti ed essere compreso senza
sforzo (www.smallvoices.com).
Fabio Massimo Arati
Emiliano Sicilia
Devotion Materialize
Horus/Audioglobe
Una biografia autocelebrativa lunga due pagine, piena di lodi e complimenti, è
l’unica cosa che stona nell’esordio di questo ventinovenne milanese, chitarrista
“pazzo, irreale e inquietante” (e qui prendiamo in prestito, a ragione, proprio la
suddetta presentazione). Il “geniale” che completa la sequenza lo aggiungiamo con
un pizzico di riserva, ma solo perché “Devotion Materialize” è un album
inevitabilmente diretto a chi apprezza i suoni di frontiera e ha una certa
dimestichezza con lo heavy metal estremo, qui revisionato con grande apertura
mentale al punto da ricordare le scorribande di Davin Townsend, asceta musicista
canadese capace di ristrutturare il concetto di canzone con produzioni a più
superfici, tra cori, chitarre e campionatori a strati multipli. Emiliano Sicilia con la sua
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sette corde impazza in ogni brano, dove dissemina i suoi studi di flamenco, jazz,
fusion e metal, in un amalgama che, a seconda dei punti di vista, può definirsi
ingegnoso o all’opposto inutile, se siete tra quelli che pensate a una canzone, come
alla sintesi della semplicità. Nei sette brani dell’album nulla è scontato, si è trascinati
per il bavero lungo sentieri di straordinaria intensità, dove si possono incontrare i
Meshuggah ma anche Rob Zombie, i Massive Attack o gli Slipknot. Alcuni ospiti si
dividono le parti vocali, quasi sempre posizionate su registri gutturali o lancinanti. Un
frullatore musicale che sfiora genio e confusione; per scindere le due cose occorre
un orecchio allenato, non facile a trovarsi (www.emilianosicilia.com).
Gianni Della Cioppa
Endigma
Glass LP
autoprodotto
Come rendere attuali sonorità legate a un periodo ben preciso del passato?
Cercando di mantenerne intatto lo spirito – oltre che la forma – mantenendosi però
aperti agli stimoli esterni. Ovvero mettendoci del proprio, evitando così gli sterili
calligrafismi. È esattamente quello che fanno i comaschi Endigma in questo loro
nuovo lavoro registrato e prodotto in totale autonomia. E lo riescono a fare in
maniera convincente, come testimonia anche la vittoria all’edizione 2005 di Rock
Targato Italia. Se dunque non è difficile individuare le ascendenze del sound del
quartetto, bisogna riconoscere che queste sono state assimilate sufficientemente
bene. Venendo al dunque, l’area entro cui le dieci canzoni qui contenute sono
ascrivibili è quella del grunge ai confini dell’hard rock, con una particolare
predilezione per le atmosfere degli Alice In Chains più abrasivi e lancinanti, modello
richiamato tanto dagli arrangiamenti quanto da certe melodie vocali e
dall’inconfondibile uso delle seconde voci. Una base su cui però si innestano di volta
in volta suggestioni diverse, da echi post-radioheadiani ad asperità stoner, da
circolarità non troppo distanti da certo post-rock fino a scheletrici paesaggi da
frontiera western. Il che non mette il gruppo al riparo da qualche occasionale
ingenuità (anche nel mixaggio), ma rende senz’altro l’ascolto del disco meno
monolitico e prevedibile (www.endigma.it).
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Aurelio Pasini
Federico Sirianni
Dal basso dei cieli
La Casa/Edel
Nato 37 anni fa su un taxi disperso per le strade di Genova, Federico Sirianni è il
risultato di una vita spesa a cercarsi. Un girovagare partito dai vicoli stretti e poco
illuminati del capoluogo ligure che lo ha portato a passeggiare per l'Europa tra
colori gitani e ideali praterie, spingendolo a modellare l'anima randagia in una
musica che è canzone d'autore, folk stradaiolo, blues elettrico, suoni di frontiera.
Vincitore nel 2004 del prestigioso Premio della Critica al Festival di Recanati e con
alle spalle un esordio discografico di spessore come “Onde Clandestine”, il
musicista torna sui suoi passi con “Dal basso dei cieli”, confermando una volta
ancora il valore artistico della propria proposta musicale.
Si parla di vita vissuta nelle quindici tracce del disco, di saggezza popolare e
sbronze colossali, di criminali e di donne di strada, con lo sguardo rivolto al cielo e i
pugni stretti per la rabbia: un sentire popolare sofferto reso splendidamente dal
lirismo spietato dei testi e dalla varietà stilistica utilizzata per musicarli.
Se l'intro “Povre y sangre” non può che ricordare il West di Morricone e
“Camionale” cita il Capossela più tradizionale, “Perché la vita” e “La rosa rossa” si
dibattono tra ritmi cubani e impeto tex-mex, “Martenitza” mescola Paolo Conte a
sapori dall'Est, “Mr. Dupoont” duetta tra morbidezze reggae e Medioriente, “Alle
sette di sera” gioca tra tango e malinconia. Paesaggi urbani decadenti, storie
zingare e di emigranti, pianto e speranza: di questo si occupa la voce roca di
Sirianni, per un giro del mondo di 49 minuti che lascia davvero il segno (
www.federicosirianni.com).
Fabrizio Zampighi
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I Recidivi
Strane costellazioni e/o altri mondi
Ethnoworld
Non si potrebbe trovare una definizione migliore di quella che hanno deciso di
utilizzare gli stessi Recidivi: “surreal beat garage band”. Le canzoni contenute in
questo primo album dell’ensemble milanese – dopo una gavetta iniziata ormai otto
anni fa che ha prodotto nel corso degli anni alcuni demo – corrispondono
perfettamente all’identikit: testi bizzarri e surreali su basi musicali un poco vintage e
sicuramente psichedeliche, pure vicine però ad un formato pop che in alcuni
frangenti riporta effettivamente alla nostra stagione del beat. A tratti poi, come
accade nell’introduttiva “Rapina”, ci si sposta, senza allontanarsi troppo dal sentiero
di riferimento principale, a ripercorrere i colori acidi e vagamente funk di certa
musica da film anni Settanta: il tratto comune a tutte le possibili divagazioni del
gruppo è infatti il suono di tastiere acide e inconfondibilmente passatiste. I testi sono
di indole surreale anche se non sempre colpiscono a fondo, arrivando a mescolare
forse un po’ troppo spesso gusto per l’assurdo e pura goliardia. Ma non si tratta di
un tentativo pretenzioso, essendo lo spirito disimpegnato dichiarato a chiare lettere
sin dalla partenza. Tra i momenti più interessanti, la celebrazione di certa
fantascienza d’epoca in grado di colpire l’immaginario erotico maschile, “Venusia”,
attraverso scale discendenti barrettiane e robusti riff a base di organo e chitarra. Un
esordio imperfetto forse, ma comunque interessante: qualcosa si può asciugare e
correggere qua e là, di sicuro l’impianto complessivo del progetto funziona e merita
ulteriori sviluppi (www.irecidivi.it).
Alessandro Besselva Averame
Il lato oscuro della costa
Artificious
Minoia/Self
Non basta fare scorrere bene le sillabe per essere un buon rapper. Non basta
affrontare argomenti intelligenti per tirare fuori un disco hip hop interessante. Il rap è
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una scienza strana, in cui può sembrare che tutti gli elementi siano al proprio posto
ma al tempo stesso succede che il risultato finale non quadri come dovrebbe. A
partire dalla seconda metà degli anni ’90 l’Italia è stata sepolta da una montagna di
progetti hip hop che, descritti e scomposti in pezzi, parevano inappuntabili ed
interessanti mentre ascoltati strappavano lo sbadiglio e non sapevano di nulla. È
questa l’eredità che si portano dietro i ravennati Lato Oscuro Della Costa, è questo il
terreno auditivo su cui si sono formati. E si sente. Al tempo stesso, ci sono in giro
per le diciannove tracce di “Artificious” momenti che ce li fanno considerare un po’
sopra la media. Riusciamo a cogliere lo sforzo di fare un passo in più, o un passo a
lato, di uscire insomma dai canoni (prevedibilissimi) del “disco di puro hip hop
italiano”, senza per questo abbandonare tout court i canoni medesimi. Un piglio che
ci piace. È per il loro bene quindi che sottolineiamo che il rap andrebbe reso meno
denso, i testi dovrebbero mettere meno carne al fuoco ma cucinarla meglio (e
possono imparare dall’ottimo featuring di Mistaman in “Esploderò”), e alcuni basi
suonano ancora acerbe. Insomma, limiti ce ne sono. Ma la direzione è quella giusta,
decisamente. Potrebbe essere, se tutto va bene, che il prossimo lavoro del Lato
Oscuro sia due piste avanti rispetto alla media hip hop italica. Sono piuttosto poche
le realtà di questa scena per cui oggi come oggi spenderemmo questa speranza (
www.latooscuro.com).
Damir Ivic
La Soluzione
Fino a che
La Casa/Edel
Band con una discreta esperienza alle spalle spesa in giro per i palchi di mezza
Italia – Arezzo Wave, Pistoia Blues, Mantova Musica Festival, tra i tanti –, La
Soluzione arriva con “Fino a che” alla seconda fatica discografica, a tre anni del
debutto omonimo. Una proposta musicale riconducibile per indole e attitudine a
quella porzione del Belpaese danzereccia ed energica ben rappresentata da
formazioni del calibro di Ratti della Sabina o Manodopera – solo per citarne un paio
- e che solitamente esprime le sue maggiori potenzialità in dimensione live. Non
fanno niente per nascondere questa assonanza Checco Mirabelli, Giuseppe
Seghetto, Toni Perri, Marco Mazzucca e Andrea Venneri, collezionando dodici
episodi saturi di blues - “Luce” e “Invasioni” -, funkeggianti e melodici al tempo
stesso - “Intentazioni” e “Dietro di me” -, impetuosi alla maniera dei Franz Ferdinand
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– “Conterò fino a tre” -, furbescamente ska – il singolo “L'estrazione” -,
piacevolmente contaminati da reggae e dub (“Io lo farò”).
C'è da dire che funziona quasi tutto nei cinquanta minuti di “Fino a che”, dagli
arrangiamenti puntigliosi – chitarra, basso, batteria, sax, programmazioni, Rhodes,
la strumentazione - alle pregevoli doti tecniche messe in mostra: peccato solo che a
fine programma venga spontaneo interrogarsi sull'effettiva bontà di una musica che
rimane a metà strada tra una necessità obiettiva e un compendio - fin troppo
levigato - di buone vibrazioni (www.lasoluzione.org).
Fabrizio Zampighi
Lef
Canto e disincanto
Toast
A differenza di quanto accade altrove – Inghilterra, ma anche Stati Uniti – da queste
parti il formato dell’EP non ha mai attecchito più di tanto, forse anche per via di un
mercato decisamente più ristretto. E dire che, specie per un gruppo agli inizi,
rappresenta un veicolo dalle potenzialità notevoli, tramite cui farsi conoscere in
attesa di affrontare il più impegnativo formato dell’album. Una politica, quella degli
EP, che la Toast porta avanti già da parecchio tempo, come dimostra anche questa
sua ultima uscita, a firma dei campani Lef. Guidata dai fratelli italo-inglesi Rod e Don
Guarino (voce e chitarra entrambi), la formazione racchiude in “Canto e disincanto”
quattro esempi di un rock secco e allo stesso tempo melodico, in cui le asperità di
certe partiture di chitarra sono in qualche modo stemperate da linee vocali non prive
di aperture melodiche, ben sostenute da una ritmica potente (e talvolta arricchita
dalle percussioni) e puntuale. Brani grintosi e orecchiabili insieme (“Camminare”,
“Flusso di coscienza”), alla bisogna avvolgenti (una “Dimensione X” dal convincente
crescendo) e atmosferici (“Punto interrogativo (?)”, il momento migliore del lotto),
oltre che dalla forte componente poetica – resa ancora più esplicita dall’uso dei
recitativi e da una citazione di “Howl” di Allen Ginsberg. Tutti elementi che vanno a
formare un lavoro solido e maturo, che ora attende uno sviluppo su minutaggi più
estesi (www.thelef.com).
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Aurelio Pasini
Littlebrown - Pentolino
Ziu Zau
Madcap/FromScratch
L’antica arte degli split rivive in questi giorni grazie ai sempre attenti tipi del
collettivo Madcap, che propagandano in questa forma nuove canzoni di due dei suoi
artisti di punta. Father Murphy e LittleBrown. In questa nostra prenderemo in esame
l'alter ego del trevigiano Paolo Moretti che, dopo due buoni lavori in solitaria (“Some
Flying Kisses From A Ground Guitar” e “Brown’s Dinner Party”), divide la tavola con
Pentolino, alias… Paolo Moretti, ovvero un suo omonimo di Firenze (anche se il
sospetto che si tratti della stessa persona rimane). Uno split (virtuale?) che si
dirama in undici canzoni per mezz’ora buona di musica da qualche parte tra Jim
O’Rourke e Devendra Banhart, dove gli arpeggi minimali e le atmosfere quasi
slow-core lasciano spazio a pesanti drones di chitarra elettrica e divagazioni al limite
della psichedelia. I cinque pezzi accreditati a LittleBrown sono più intimisti, chiusi su
se stessi e in perenne ricerca di un’esplosione (su tutte indichiamo “My Piggy
Friends”). Più liberi invece quelli sotto il Pentolino: liberi di spaziare negli scenari
distorti di quel folk-noise che è un po’ la bandiera che il collettivo porta con fierezza
da ormai due anni. Musica non per tutti, ma che bisogna conoscere, almeno per non
lamentarsi sempre di essere il terzo mondo musicale (www.maledetto.it).
Hamilton Santià
Lorenzo Fragiacomo - Father Murphy
When Ground Figures Bless In Black Tutus
Madcap
I soliti ben informati dicono che Pitchfork faccia un milioni di visite al giorno.
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Pazzesco. Noi quante ne faremo? Qualche decina di migliaia, se va bene? Forse il
potere della stampa non è più quello di una volta, almeno a casa nostra, ed è un
peccato. Perché quando arriva un disco come questo vorresti farlo ascoltare al
maggior numero di persone, dire che “Ehi, la scena del Madcap Collective è
fantastica!” e così via. Provate a pensare cosa potrebbe succedere se uno split in
cui il reverendo Murphy fa il reverendo Murphy e l’amico Lorenzo Fragiacomo fa
cover di Jobim fatte come le avrebbe fatte la Beta Band finisse sulle pagine di
Pitchfork. Magari con il voto alto che si merita. Insomma, in un mondo perfetto
Father Murphy sarebbe circondato da un piccolo pubblico di culto che lo fa
conoscere in giro per l’Italia, l’Europa e il mondo, magari per finire nei percorsi di chi
ascolta “la nuova musica folk deviata”. Ed egual fortuna meriterebbe Lorenzo
Fragiacomo, esordiente trevigiano amico di Stuart Staples dei Tindersticks (per la
cui etichetta ha pubblicato un sette pollici) e del giro della Arab Sheep (che presta Fr
Luzzi per cantare in “Jester’s Day”) che sogna il Brasile rarefatto dei tropicalisti
virato nei sogni notturni degli autori di “The Three Ep’s”. Di gente del genere se ne
avverte sempre più il bisogno, in Italia e non solo (www.maledetto.it).
Hamilton Santià
Lu
Éclectique Walk
autoprodotto
Anche dopo aver ascoltato per intero il suo secondo CD, mi risulta ancora difficile
comprendere se Gianluca Porcu, in arte Lu, sia davvero un genio o soltanto un
abilissimo accademico. Una cosa però è certa: il suo album d’esordio – “B-interrail”
(Small Voices, 2004) – è stato consumato dal mio lettore e stessa sorte spetterà
certo anche al recente “Éclectique Walk”, opera da lui composta, registrata e
pubblicata in completa autonomia.
Il disco nasce a seguito della collaborazione con la regista Emma Dante che ne ha
sfruttato un paio di episodi per la colonna sonora di “Cani da bancata”, spettacolo
teatrale che ha debuttato a Milano lo scorso 14 novembre. Con dieci intriganti
movimenti strumentali, l’artista cagliaritano ribadisce la sua elegante formula
espressiva che unisce spunti folk ed elementi contemporanei, suoni acustici e
disturbi digitali. La presenza di parecchi strumenti tradizionali (flauto, ottavino,
clarinetto, violino e violoncello), all’occorrenza rielaborati elettronicamente, accresce
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la forza evocativa dei momenti più romantici ed amplifica la trascinante verve dei
passaggi legati alla tradizione popolare. Nell’ultima parte poi, l’accattivante
immediatezza che pure caratterizzava l’opera prima, devia per i sentieri impervi del
rumore e della degenerazione sintetica, testimoniando propriamente un’attitudine
sperimentale difficilmente riscontrabile nei lavori di quei musicisti che si limitano ad
eseguire impeccabili esercizi di stile. (www.luonline.it).
Fabio Massimo Arati
Mario Biondi
Handful Of Soul
Schema/Family Affair
È un fenomeno interessante, quello del crooner jazz d’altri tempi che
improvvisamente ri(torna) a sedurre gli acquirenti di dischi. L’ultimo della serie è
italianissimo di nome e di fatto, Mario Biondi, anche se a sentirlo non lo diresti mai: il
suo timbro è veramente scuro, profondo, black al 100 percento. Niente quindi eredi
più o meno slavati di Sinatra (un modulo il cui successo commerciale era già in
qualche modo più prevedibile), ma qualcosa di più autentico, meno piacione.
Parliamo di timbro della voce, attenzione. Perché per il resto, siamo sulla
prevedibilità più assoluta. Legata però alla qualità. Nelle dodici tracce di questo
disco non c’è nulla che sorprenda, jazz songs con richiami al soul dove è difficile
distinguere le cover dalle composizioni originali, ché la direzione è sempre la stessa
(il che va ad onore delle composizioni originali: valido artigianato). Arrangiamenti
lineari, quintetto jazz acustico, punto. Un grande bignami. Però attenzione: è un
bignami se non altro impaginato benissimo, in maniera inappuntabile. Attorno alla
voce di Biondi sono stati messi strumentisti impeccabili (a partire da tromba e
sassofono, Fabrizio Bosso e Daniele Scannapieco sono ottimi nomi della scena jazz
italiana) e in generale il livello è di grande professionalità. “Handful Of Soul” è quindi
un prodotto zero originale e al cento per cento derivativo; ma è fatto dannatamente
bene. Tracce migliori, da sentire prima di decidere se lanciarsi nell’acquisto?
Essendo tutte ben sviluppate, ci riesce difficile segnalarne qualcuna piuttosto che
un’altra (www.mariobiondi.biz).
Damir Ivic
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Markonee
The Spirit Of Radio
Sonic Robots
I Markonee, cinque musicisti bolognesi di vecchia data che hanno tagliato a fette il
rock tricolore sin dagli anni ’80, si sono riposizionati là dove avevano iniziato, ovvero
nel rock muscolare ma melodico, in una splendida mistura di Aerosmith, Bon Jovi e
Def Leppard. Non è merce che dalle parti del Mucchio Selvaggio, ha mai trovato
particolari estimatori, ma che merita l’attenzione di chi la ama e anche di chi vuole
rendersi conto del livello di professionalità che ha raggiunto la scena rock italiana,
sia in generi amati e coccolati dalla critica, sia in altri da sempre relegati al circuito
degli appassionati. I Markonee forgiano un debutto straordinario (sorta di omaggio al
loro concittadino Guglielmo Marconi) che solo dieci anni fa, avrebbe fatto gridare al
miracolo qualsiasi recensore rock americano e che oggi, a causa di un mercato
discografico caotico, rischia di passare quasi inosservato. La band comunque si
batte alla grande, e infatti si è proposta a nuove platee suonando di supporto a molti
gruppi stranieri di genere scesi in Italia, rimediando spesso “vittorie” nette nei
confronti dei più blasonati colleghi. Molte le canzoni degne di menzione: per scelta
personale direi “Black’n’Grey”, “I Don’t Remember Well”, “Discovery” (dove
ascoltiamo la voce di Marconi), “Moving To America” e il lento perfetto per le radio
“Love On The Run”, in cui la voce di Emiliano Gurioli disegna una melodia perfetta.
Da applausi anche la volontà di dare un doppio volto all’album, pubblicato anche su
vinile, formato in cui mancano però sei tracce rispetto al CD, a sua volta dotato di un
libretto bellissimo. Come detto, i Markonee suonano molto dal vivo, e potrebbe
essere questa la carta giusta per conquistarsi una ribalta perlomeno europea.
Traguardo che alla luce della bontà di questo esordio appare meritato e nettamente
alla loro portata (www.markonee.com).
Gianni Della Cioppa
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Numero Dicembre '06
MellowToy
Nobody Gets Out Alive
Bagana-V2/Edel
C’è stato un tempo, non più tardi di un paio d’anni fa, in cui il nu-metal la faceva da
padrone assoluto del panorama rock. Le cose sono poi andate diversamente, e oggi
che il fenomeno si è ridimensionato sono band come i MellowToy, mosse da
passione sincera, a portarne avanti il suono. Ascoltando poi “Shit Shit Shit”, traccia
iniziale di questo “Nobody Gets Out Alive”, l'effetto déjà-vu poi è amplificato: sembra
infatti di sentire una outtake dei Limp Bizkit. Fortunatamente non è così, e il meglio
di questa seconda prova della band viene proprio dagli episodi che maggiormente si
distaccano dagli stilemi classici; brani come la punkeggiante “’Till The Music Goes
On” o il “Crush Test” a cui si – e ci – sottopongono questi sei ragazzi lombardi. Non
tutto è ancora però perfettamente a fuoco: gli arrangiamenti ci sembrano
abbastanza monocordi pur a fronte di una registrazione impeccabile, per non
parlare poi dei testi che – qui però è questione di gusti – non sono molto espressivi.
Gli si può però perdonare qualcosa dopo aver ascoltato “Them Bones”, rispettoso
omaggio tributato agli Alice In Chains del compianto Layne Staley.
Insomma, con il loro secondo disco i MellowToy aggiustano il tiro, correggendo la
rotta e preparandosi, si spera, alla definitiva maturazione. Un passo necessario per
spiccare un giorno il volo. Glielo auguriamo (www.mellowtoy.com).
Giorgio Sala
Ottodix
Nero
Discipline/Venus
Anzitutto, il punto della situazione. All’inizio davanti a Ottodix andava messo
l’articolo “gli”, visto che si trattava di un duo composto da Alessandro Zannier e
Carlo Rubazer. Questo l’organico titolare del debutto “Corpomacchina”, datato 2004.
Poi la separazione, con il solo Zannier a mantenere la ragione sociale. Ecco allora
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che Ottodix si trasforma (il verbo ora va al singolare) in un progetto solista che può
vantare tra le proprie esperienze anche una fruttuosa collaborazione live con Garbo,
del cui ultimo tour è stato responsabile degli arrangiamenti. Ed è proprio a Garbo
che, tramite il marchio Discipline, si deve l’uscita di “Nero”: una raccolta di canzoni
di matrice prettamente pop-elettronica il cui principale riferimento potrebbero essere
i Depeche Mode, la cui lezione è filtrata attraverso uno spiccato gusto per un certo
romanticismo decadente. In altre parole: sonorità raffinate quasi interamente
sintetiche e di forte matrice Eighties curate fin nel più piccolo dettaglio, a cui si
affiancano melodie avvolgenti e notturne. Notevole, quindi, lo sforzo produttivo di
Zannier – responsabile di quasi tutti gli strumenti, delle voci e degli arrangiamenti –,
abbastanza da mandare in solluchero gli appassionati di un genere inevitabilmente
un po’ rétro ma ancora affascinante; gli altri, pur apprezzando, non potranno fare a
meno di notare che un minutaggio appena più ridotto avrebbe probabilmente
giovato alla fruibilità del tutto (www.ottodix.it).
Aurelio Pasini
Popucià Band
Carovana
La Grande Onda
Eppure ancora qualcosa c’è… Nella prima metà degli anni ’90, pareva che la scena
musicale italiana fosse fatta per la maggior parte di posse, di gente cioè che
metteva insieme rap, reggae e canzone di protesta d’altri tempi. Un diluvio di nuove
realtà che andavano in questa direzione – con anche un sacco di esposizione
mediatica. Poi, magari anche per l’eccessiva esposizione appena citata che
tramutava in geni dei ragazzi che invece avevano ancora molta tecnica da
macinare, tutto ciò è (quasi) scomparso all’improvviso, venendo catalogato quasi
come abbaglio collettivo o, peggio ancora, moda di una stagione. Ci fa piacere
quindi che ci sia chi ancora segue una strada che mette insieme testi impegnati e
cerca di andare oltre i semplici confini del reggae da un lato e dell’hip hop dall’altro,
combinando questi due aspetti e provando poi ad aggiungere altri elementi. Magari
appunto anche del passato, vedi in questo caso “Borghesia” di Claudio Lolli. Tutto
molto “di sinistra”, è vero, a rischio di retorica e luogo comune; però dalla loro questi
ragazzi calabresi hanno comunque una buona padronanza dei suoni (aspetto
fondamentale e spesso trascurato in Italia, quando si tratta di riciclare matrici black
contemporanee), sanno quel che stanno facendo e limitano le ingenuità. Un disco
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discretamente valido, quindi, che non cambierà il mondo ma è fatto in modo sincero,
una sincerità che fa perdonare le imperfezioni e le mancanze (non ha comunque
uno standard qualitativo sonoro e negli arrangiamenti internazionale, per quanto qua
e là ci si avvicini). Promossi (www.popucia.com).
Damir Ivic
Regina Mab
Booq
Manzanilla MusicaDischi/Audioglobe
Autori di un robusto rock cantato in italiano, che media chitarre aggressive e una
spiccata vena melodica, i Regina Mab hanno alle spalle una manciata di produzioni
tra album più o meno autoprodotti e demo, essendosi formati ormai una decina di
anni fa in quel di Verona. La formula proposta dal quartetto in questo “Booq”,
debutto su Manzanilla MusicaDischi, è quella di cui sopra, cui si aggiunge il pregio
di aggirare agevolmente il pericolo di finire in quel confuso territorio soft-hard dove si
posizionano realtà come i Negramaro, ovvero l’asperità e l’aggressività del rock
spiegata in italiano al popolo distratto delle suonerie; ostacolo aggirato grazie ad
una innegabile energia che trasuda dagli amplificatori e a testi che utilizzano una
lingua semplice ma mai banale e sufficientemente immaginifica. Pregio innegabile,
che tuttavia viene un poco smorzato da quello che sembra essere il difetto
congenito della formula: una certa vena epico-melodica che rischia sempre di finire
sopra le righe. Difetto che in questo caso, ci teniamo a ribadirlo, è sotto la soglia del
non ritorno, e che viene completamente esorcizzato e neutralizzato nel breve e
pastoso hard blues di “Ora di punta”, puntellato di screziature e fiati, e nel tentativo
più che riuscito di ballata scanzonata e notturna intitolata “L’angolo dell’occhio”.
Nulla di particolarmente nuovo, nel complesso, ma un rock italiano di più che
discreta fattura racchiuso in un disco di buon livello (www.reginamab.it).
Alessandro Besselva Averame
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Remo Anzovino
Dispari
Rai Trade
Un tango-jazz classicheggiante, ricco di risonanze novecentesche, con una forte
componente visiva. Gli anni Venti nella mente e nel cuore. Si può così sintetizzare,
dentro angusti abiti definitori, l’esordio discografico del pianista e compositore Remo
Anzovino. L’attitudine del musicista friulano è sonorizzare e musicare film di
Flaherty, Lang, Murnau, Keaton, Chaplin. C’è una sorta di trama narrativa che
scorre, all’ascoltatore resta la libertà di scegliersi le sequenze cinematiche. I brani
sono ispirati a immagini in movimento, e immagini suggeriscono. Come il piano solo
“L’immagine ritrovata”, dettato ad Anzovino da un documentario del 1922 alla FIAT,
il Lingotto sullo sfondo, le Balilla in costruzioni. Un’idea di passato antico che si
ritrova in tutti i solchi. Gioiosa magari, come nella danza “Nanuk” (dal film di
Flaherty) che accompagna giochi esquimesi, su tempi pseudo-reggae. Straziante in
“Cammino nella notte”, amore e morte su ritmi brasiliani alla Sakamoto.
Sono immagini che vogliono scavare un solco. Lo percepisci già dal tango inquieto
iniziale, “I misteri di un’anima”, dal film omonimo di Pabst, sceneggiatura di Freud.
Splendida la milonga dedicata a Tina Modotti, “Que viva Tina!”, sorniona è la
chapliniana “Marcetta dell’inconscio”, lirica “L’amore sospeso”.
Il pianoforte di Anzovino è cristallo, suoni ricamati tutti gli altri, dalla fisarmonica di
Gianni Fassetta alla tromba di Flavio Davanzo. È una musica a cui manca solo la
parola; e non è detto che sia un limite. Anzi (www.remoanzovino.it).
Gianluca Veltri
Rino Ceronti
Civiltà spettacolo
Gibilterra/Venus
È un lavoro mosso il primo album dei Rino Ceronti, sigla dietro la quale si cela il
duo romano composto da Alessandro De Angelis e Riccardo Del Monaco.
L’intervallo stilistico è una banda larga, che si sposta tra Daniele Silvestri (“Giornata
solare”, “Chi ti incontro”), una bubble gum music stile Turtles- Supertramp con cori
vintage alla Elio (“Canotto Republic”), C.S.I. sintetizzati (“Teleparenti”).
Il tono prevalente è spiritoso (“saremo tutti più sinceri/ascolteremo Gatto Panceri”;
“Salumi Luisa è qualità”), senza sconfinare nel demenziale. Anzi, “Era il ’72” sposa
un minimalismo d’epoca con refrain che potrebbe richiamare certi Baustelle, mentre
falsetti battistiani fanno impennare la techno-logica “Addio Milano”. Addirittura ai
vecchi Loy & Altomare potrebbe rifarsi il primo movimento di “Afragola Dreamin’” (il
secondo è un western roots), mentre è disco music festaiola il mondo di riferimento
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contenuto in “Inviterò tutti i miei amici”, prima parte di un mini-romanzo che continua
nella successiva “Alla festa di Luisa”, zoom sul proprio futuro. Siamo “tutti belli lucidi
e fluorescenti”, dicono i Rino Ceronti, abbiamo “un cellulare che mi ama”. È
l’ossessione del benessere e dell’arrivismo, disumanizzazione ritratta nella
copertina: paesaggi urbani torturati ridicolmente dalle antenne paraboliche,
padiglioni di un futuro ch’è arrivato.
Rino Gaetano, eroe semi-eponimo dei Rino Ceronti, è coverizzato assai fedelmente
nello spirito, in “Sfiorivano le viole”, con cori e suoni Seventies (
www.myspace.com/rinoceronti).
Gianluca Veltri
Sergio Borsato
Occhi di lupo
Daigomusic/Deltadischi
Non possiamo ancora sapere se il “frolcks”, il genere inventato e definito da Sergio
Borsato e dalla sua musica, riuscirà ad avere il seguito che merita, ma possiamo
dire fin d’ora che “Occhi di lupo” ne è un ottimo esempio. D’accordo, ma che cosa
sarebbe il frolcks? Sarebbe quello strano incrocio tra le strade del rock, del folk e del
blues.
Nel caso particolare di questo disco, che segue di due anni il precedente “La strada
bianca”, si nota con forza la matrice cantautorale ed una forte ispirazione dai suoni
della West Coast, e non è un caso che alla presentazione di “Occhi di lupo” fosse
presente Massimo Bubola, forse il massimo esponente di questo modo di intendere
la musica in italiano. Un disco, quello di Sergio Borsato (coadiuvato per l’occasione
da Nicola Albano), che racconta storie in chiave minore, come quella di “Dentro al
cuore” o dei “Figli di una luna storta”, tratteggiata da una chitarra liquida in stile
floydiano e da una voce espressiva e piacevolmente particolare. Ed è facile
riconoscersi nei toni pacati e nei sentimenti maturi di Sergio: anche per questo gli si
perdona qualche manierismo di troppo e qualche melodia non eccezionale.
Non stupisce, purtroppo, che la sua avventura con le major discografiche si sia
interrotta: in un paese normale qualcuno avrebbe già notato le sue qualità, ma di
normale da queste parti non c’è mai stato molto (www.sergioborsato.it).
Giorgio Sala
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Sun Eats Hours – Nicotine
Metal Addiction
Rude/Sun Media
Cosa succede quando si dà in pasto a dei punk rocker una manciata di brani
immortali del metal e dell'hard rock? Probabilmente è la risposta a domande come
questa che ha stimolato la nascita del progetto “Metal Addiction”. Perfetto, ma chi
sono i protagonisti? Con piglio pugilistico potremmo dire che all'angolo est troviamo
i Nicotine, formazione pop-punk giapponese molto popolare in patria, mentre a
quello occidentale, e qui la cosa diventa subito interessante, ci sono i Sun Eats
Hours. Proficuo in questo senso è stato proprio il tour nel paese del Sol Levante
intrapreso dalla band di Thiene, tornata a casa con una promessa che qui vediamo
realizzata. E possiamo solo immaginare come deve essere stato divertente
registrare “Ace Of Spades” dei Motörhead o “Digging The Grave” dei Faith No More,
brani ormai diventati storia della musica e che qui ascoltiamo in una versione
assolutamente non convenzionale: sono infatti stati riarrangiati secondo il gusto
delle rispettive band, e il gioco di appropriarsi della musica altrui funziona molto
bene. Sarà pure campanilismo, ma la band nostrana ne esce vincente: innanzitutto
per la scelta dei brani e poi per una maggiore verve stilistica, laddove i Nicotine
appaiono troppo omologati e piatti.
Insomma, per ritornare alla metafora del ring, anche stavolta i Sun Eats Hours
vincono per KO alla sesta ripresa; vorrà forse dire che il prossimo match sarà quello
valido per il titolo? (www.suneatshours.com)
Giorgio Sala
The Afterglow
Decalogue Of Modern Life
Silent Revolution/Ethnoworld
Nati su iniziativa di Dave Timson, madre inglese e padre italiano, il quale ha
coinvolto tre suoi compatrioti – almeno questo è quanto si desume dalle note
biografiche – residenti in Italia (a Torino nello specifico), gli Afterglow sono finiti nel
calderone dei gruppi emergenti dal quale sono però riusciti ad emergere piuttosto in
fretta, stando a vedere i risultati ottenuti negli ultimi anni: l’incontro con i responsabili
di Ethnoworld, un contratto con la EMI Publishing inaugurato proprio da questa
uscita, le registrazioni presso i londinesi Air Studios e il contributo di Steve Orchard
(già con Travis, Pulp e Cardigans) in sede di missaggio. Parlando di musica,
“Decalogue Of Modern Life” è un disco pop di buona fattura, un lavoro di onesto
artigianato immerso perfettamente nell’attuale clima di rispolvero Eighties: non si
scappa, infatti, da quei suoni, il che significa brani con il giusto dosaggio di epica e
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ombre neoromantiche, cui si aggiunge una vena melodica a rapida memorizzazione
anche se non esattamente indimenticabile in quanto a novità. Certo, non è detto che
debba essere l’originalità la principale categoria attraverso cui valutare la riuscita di
questo disco, e infatti, se svincolato da pretese del genere, “Decalogue Of Modern
Life” raggiunge più volte buoni risultati (su tutte la composita “Supermarket”). Senza
strafare, certo, ma pure senza annoiare o apparire fuori luogo. E non è poco, di
questi tempi (www.the-afterglow.com).
Alessandro Besselva Averame
The Hutchinson
Sitespecific For Orange Squirrel
Wallace/Audioglobe
Provengono da un retroterra rock di matrice Seventies – citano nomi come Black
Sabbath e Blue Cheer tra i crediti formativi e non si fa fatica a crederci – gli
Hutchinson, e non fanno nulla per nasconderlo. La particolarità di questa formazione
trentina risiede tuttavia nell’abilità con cui i quattro componenti sono riusciti ad
integrare su questo scheletro rock influenze diverse, seppure legate da parentela
non sospetta e in qualche modo naturale. Le composizioni strumentali di
“Sitespecific For Orange Squirrel”, in un certo senso imparentate con le evoluzioni
articolate dei compagni di etichetta Rosolina Mar, sono lunghe cavalcate
ritmico-chitarristiche dotate di un fenomenale senso del groove: un senso del groove
che riprende le influenze krautrock del debutto “Playing In Woman’s Bathroom”
ingrossandone le linee di basso attraverso una massiccia cura a base di funk. A
rendere alieno, e in qualche modo più interessante, il paesaggio, sono folate di
sintetizzatori e tracce volanti di fiati manipolati che paiono rubati alla soffitta di
qualche corriere cosmico ritiratosi dall’attività. Quarantasei minuti e otto brani
spalmati su due cd per assecondare esigenze grafico-estetiche – molto bella la
copertina, tra il freakedelico e il pop - e per spezzare con una provvidenziale pausa
un magma sonoro trascinante che tuttavia, se assunto tutto d’un fiato, rischierebbe
di pesare troppo. “Sitespecific For Orange Squirrell” è il genere di disco che
potrebbe solleticare le lodi di Julian Cope e questo immaginiamo sia sufficiente ad
inquadrare la perfetta riuscita dell’esperimento (www.thehutchinson.it).
Alessandro Besselva Averame
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Uranium USSR 1972
Avarie
Small Voices
Tra i vari progetti condotti da Angelo Bergamini parallelamente al suo principale
impegno con i Kirlian Camera, quello solista denominato Uranium USSR 1972 è
forse il più misterioso. I primi esperimenti con questa ragione sociale risalgono
addirittura alla metà degli anni ’90, ma da allora la curiosità dei fan è stata stimolata
soltanto da sporadici concerti organizzati con carbonara riservatezza.
L’album “Avarie” esce oggi grazie all’interessamento della Small Voices, che tra
l’altro lo distribuisce non soltanto nell’edizione standard ma anche in una speciale
confezione in plexiglas, arricchita da vari gadget e stampata in poche copie. I cinque
episodi qui raccolti tradiscono la vena più rumorista e sperimentale del Bergamini:
brani strumentali lunghi fin’oltre i diciotto minuti, il cui senso ritmico – chiave di volta
dell’intera opera – è costruito su ipnotici loop circolari di grande presa (“Avaria”). Alle
basi elettroniche si sovrappongono poi frequenze grezze e distorte, sfruttate come
elementi di disturbo (“Glaciation Room”): spietate incursioni che conferiscono al cd
una fisicità e un impatto emotivo di straordinaria immediatezza. La cupa
allucinazione che pervade tutto il lavoro non viene meno neppure quando le
dinamiche rallentano e i suoni si fanno più diradati e minimali, ricalcando certe
strategie dark ambient (“Rain Aesthetics”) con cui l’artista parmense non si era mai
confrontato fin ad oggi. Il progetto pertanto assume una propria indipendente dignità
artistica i cui connotati sono ben distinti dal discorso espressivo dei Kirlian Camera (
www.smallvoices.it).
Fabio Massimo Arati
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Blessed Child Opera
La formazione partenopea ha appena pubblicato il secondo album, “Happy Ark”
(Delta/CNI), a due anni di distanza dal celebrato “Looking After The Child”:
evoluzione di quei suoni e percorsi, sempre all’insegna di un rock d’autore di stampo
mitteleuropeo, figlio di certa new wave e dei suggerimenti del post rock, omai in
grado di misurarsi con una dimensione internazionale. Ne abbiamo parlato con
Paolo Messere, chitarrista, cantante e anima del progetto.
Ascoltando “Happy Ark” mi sono venuti in mente un paio di nomi. Non dei
riferimenti da prendere alla lettera ma piuttosto artisti che condividono con
voi un percorso comune e la stessa attitudine nel voler prendere la canzone
d’autore, nell’accezione più ampia, e imbastardirla con esperimenti sonori e
necessità espansive, con un’attitudine che potremmo definire, prendendola
alla larga, post rock (area che del resto fa parte del vostro retroterra
musicale), ovvero Piano Magic e, in misura minore, Sophia. Sei d’accordo,
riconosci questa comune attitudine, molto europea se vogliamo?
Sicuramente ciò che proponiamo è una musica "mitteleuropea" e non ci sorprende
che il percorso delle band da te citate sia simile al nostro. L’espansione di cui parli,
e lo fai a ragione, è venuta fuori come una necessità dovuta ed una forma di
attenzione nei confronti della nostra creatività, e non come semplice esigenza di
dare un colore diverso alle nostre canzoni.
Partiamo dal titolo del disco, per indagarne gli umori: come mai la scelta di
“Happy Ark”?
“Happy Ark” suona bene, innanzitutto. E poi quello dell’ arca felice ci sembrava un
simbolo imponente, in grado di contenere il rinnovato viaggio artistico che la nuova
band ha intrapreso.
Avere a disposizione un proprio studio di registrazione ha contribuito
sicuramente a lavorare al nuovo disco (e credo, correggimi se sbaglio, anche
al vostro debutto) con la dovuta calma e ponderazione, ripensando e
aggiustando il tiro quando necessario, lasciando sedimentare i brani e gli
strumenti. In che misura lo studio è, per i Blessed Child Opera, il proverbiale
strumento aggiunto?
Il fatto di avere un intero studio di registrazione a disposizione ci ha dato grande
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serenità e profondità di riflessione sugli arrangiamenti. Questa volta abbiamo
trascorso solo due mesi in studio tra registrazioni, missaggio e mastering, a
differenza di “Looking After The Child” che ci ha impegnato per sei mesi. Per questo
motivo va da sé che sia la nuova locazione dello studio, a Pozzuoli, che il minuzioso
lavoro di sala prove ci ha permesso di essere più equilibrati nelle scelte, compresa
quella dello spazio da dedicare ai musicisti del Teatro San Carlo.
Come mai avete scelto di non pubblicare interamente i testi delle canzoni, ma
solo alcuni estratti? Un escamotage per costringere chi ascolta a mettere in
campo la propria curiosità, ad entrare nel disco di propria iniziativa?
Un’attitudine che mi pare presente anche nella vostra musica: canzoni che
invitano ripetuti ascolti e la progressiva scoperta di nuovi particolari, di nuovi
strati e sottotesti...
Abbiamo voluto realizzare un progetto grafico che fosse coerente con quello
musicale. E ciò che dici sulla progressione di novità a cui si può accedere attraverso
diversi ascolti del disco sembra ripetersi, anche se inconsciamente, nella ricchezza
dei particolari grafici e probabilmente anche nel lasciare parecchio spazio
nell’interpretazione degli stessi testi.
Anche questa volta i brani sono estremamente elaborati, mentre dal vivo
avranno, per forza di cose, una forma molto più essenziale e rumorosa. Mi
pare di capire che non viviate questa cosa come un limite, almeno leggendo
alcune tue dichiarazioni in sede di intervista, ma piuttosto come la possibilità
di dare a ciascun brano due vesti, in qualche modo complementari.
In verità non aggiungerei altro alle mie precedenti dichiarazioni, anche se devo dire
che il live dei Blessed Child Opera al momento è ben equilibrato tra potenza e
liricità. Ed è anche attento, necessariamente, alle soluzioni elettroniche presenti nel
disco; gli ultimi commenti a seguito dei nostri concerti sembrano avvalorare questa
tesi.
Che ci puoi dire della tua esperienza discografica come titolare della
Seahorse? Ci puoi fare un bilancio di questi primi due anni di attività?
Progetti in corso e futuri, obbiettivi raggiunti, sogni nel cassetto…
La Seahorse Recordings continua a essere una esperienza entusiasmante e nel
contempo una missione sempre difficile da rinnovare. Nonostante ciò, il bilancio è
nettamente positivo, considerando che ad oggi abbiamo fatto uscire sette dischi,
tutti ben giudicati dalla critica. Tra Ottobre e Dicembre sono usciti i dischi dei
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newyorchesi Melomane, degli El-Ghor e dei Goose. Grazie a un booking interno
all’etichetta, ogni band riesce a suonare e far maturare completezza al lavoro
promozionale. Inoltre mi soddisfa parecchio seguire le produzioni artistiche e
“foniche” delle band. Nel 2007 spero di poter far salire a 6 il numero di produzioni
annuali. Sempre il prossimo anno, con i Blessed Child Opera registreremo un nuovo
album che probabilmente sarà prodotto dal leggendario Kramer, grande musicista
americano e storico produttore di gruppi come Galaxie 500 e Low, nonché fonico dal
vivo dei Sonic Youth.
Contatti: Bless Child Opera
Alessandro Besselva Averame
Moreno Spirogi
Protagonista della fortunata stagione del revival beat nella seconda metà degli anni
Ottanta con gli Avvoltoi, tornato alla ribalta nel nuovo millennio con gli Spirogi
Circus, Moreno “Spirogi” Lambertini ha appena pubblicato per la Skipping Musez un
singolo a proprio nome, contenente una azzeccata rilettura garage di “Impazzivo per
te” di Celentano e un paio di brani inediti. Con il chitarrista e cantante parliamo di
presente e progetti futuri.
La prima domanda è: come mai sei tornato a dare tue notizie attraverso un
singolo e come mai la scelta è caduta proprio su quel brano di Celentano?
In realtà sto solo continuando il mio percorso musicale iniziato nell’ormai lontano
1983. La scelta del singolo è basata proprio sul fatto che volevo dare alle stampe
"Impazzivo per te", un brano che mi è sempre piaciuto e che vedevo bene con un
arrangiamento più "forte", più "garage", così come è stato definito in alcune
recensioni.
A vedere il "making of" del video vi siete divertiti parecchio a girarlo. Mi
sembra soprattutto che tu, già in partenza, non abbia pensato al video come
veicolo promozionale nei network vista anche la sempre maggiore difficoltà a
farsi trasmettere, ma soprattutto come integrazione del prodotto audio, una
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illustrazione dell'immaginario cui si riferisce la musica.
Si, ci siamo divertiti tantissimo, anche perché non ci capita spesso di girare dei
video. Penso che la tua analisi sia azzeccatissima, il video è parte integrante del
supporto, nel senso che potrebbe essere la quarta traccia audio del cd, una specie
di sommario dei tre brani incisi. Va un po’ a riassumere lo spirito dei pezzi registrati.
Se ci fai caso nel videoclip non ride nessuno, in contrasto con il brano, che invece è
leggero e, a suo modo, divertente. È un video ambiguo e naïf. Nel “making of”
invece, c'è un po’ il sunto del “casino” che abbiamo fatto durante le riprese. Per
quanto riguarda il video come mezzo promozionale, non mi sono mai fatto illusioni,
figuriamoci ora. Per me è importante fare, proporre, poi se il prodotto riesce a girare
bene, se no pazienza. Siamo in un paese dove la cultura, sopratutto a livelli
“minori”, non ha alcuna importanza, se arrivi a fare cose è solo perché ad altri può
tornare utile. È un serpente che si morde la coda, ma è meglio non dilungarsi nel
discorso.
Un singolo come questo in genere anticipa l'uscita di un lavoro sulla lunga
distanza. Ci puoi dare qualche informazione in più? E cosa ti ha spinto ad
esordire a tuo nome, dopo tutti questi anni impegnati su più fronti e progetti
paralleli?
Guarda, sto registrando ormai da tempo, seppur molto lentamente, nuove canzoni.
Esistono diverse fasi per poter fare uscire un prodotto sulla lunga distanza, e una è
appunto quella di registrare un po’ di canzoni decenti, poi ci vuole qualcuno che te le
produca. Comunque non escludo nulla. Ho fatto uscire l'EP a mio nome perché
dopo anni di carriera in vari progetti mi sembrava gratificante, tutto qui. Poi, sai, a
una certa età (ride,NdI)…
Tra tutti i tuoi progetti, il più storico, gli Avvoltoi, ha di nuovo preso vita. Stufi
di vedervi sorpassare a destra e a sinistra da nuove generazioni che attingono
a piene mani dall'immaginario sixties, garage e psichedelico?
No, stai scherzando? Mi fa un piacere enorme vedere gruppi che portano avanti
certe sane tradizioni, mi fa piacere che molti si impegnino a personalizzare, a dare
un'impronta personale a sonorità più vive che mai. A proposito di Avvoltoi, a giorni
escono le ristampe dei primi due album, “Il nostro è solo un mondo beat” e “Quando
verrà il giorno”, con inediti.
Per chiudere, una domanda che spero non risulti troppo marzullesca: che
cosa ti spinge, dopo vent'anni di frequentazione dell'underground italiano, a
continuare a dire la tua al di là, lo do per scontato naturalmente, di
un’esigenza espressiva? Lo chiedo visto lo sconforto che coglie qualsiasi
gruppo si metta a fare musica in proprio oggi, senza consistenti appoggi
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discografici.
Se continui a fare queste domande ti ingaggia la RAI sul serio! E Marzullo a “Fuori
dal Mucchio”! Dipende da ogni singola aspirazione, se uno si diverte e non ha
paranoie di arrivismo, allora la cosa funziona. Anche qui ci sono vari aspetti in gioco,
sicuramente lo sconforto arriva dalla mancanza di spazi, di investimenti. Siamo in un
paese dove la cultura vale zero, dove la politica ha più importanza di quel che
dovrebbe avere, dove l'immagine sovrasta la realtà, dove il giovane non conta un
cazzo! Tutto ciò determina l'infrangersi dei sogni in partenza. Personalmente ho
iniziato a suonare quando c'erano ancora sogni da realizzare e, forse, qualcosa da
inventare. Sicuramente non c'era quel muro che ostacola ogni prova di volo.
Contatti: Moreno Spirogi
Alessandro Besselva Averame
Nuovi Orizzonti Artificiali
Sulla scia di ciò che furono gli Ustmamò, i Madreblu o i Dr. Livingstone qualche
anno fa (e non a caso questi ultimi rientrano tra queste righe e in questa storia), i
Nuovi Orizzonti Artificiali percorrono una strada che è stata battutissima nella
seconda metà degli anni ’90 e poi improvvisamente negletta e guardata con forte
sospetto: quella del “trip pop” cantautoriale (canzoni con sonorità tra rock e il Bristol
Sound alla Massive Attack, il tutto con una veste pop levigata). Una scelta insomma
a suo modo originale. Interessante quindi andare a scambiare qualche parola con
loro, in occasione dell’uscita dell’album “Quindiciditadispazio” per l’etichetta
i.Presume (con distribuzione EMI). A parlare con noi sono le due voci della band,
Paolo “Sir Pablo” Soffiantini ed Emanuela Colli.
Come vanno collocati i NOA nella geografia della scena musicale italiana?
Se per geografia intendiamo un’allocazione spaziale, i N.O.A. sono una band
milanese con una seconda patria spirituale a Torino. Se invece vogliamo
metaforicamente immaginare la “scena musicale italiana” come un mappamondo i
N.O.A. vivono in un paese umile e sincero, dimenticato da quelli potenti. Una specie
di terzo mondo, sempre metaforicamente parlando, ma che non ha voglia di restare
in silenzio. Credo sia una rappresentazione realistica del mondo indie, in particolare
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in questo periodo.
Prendendo le parole rock, pop e indie come punti di riferimenti (o punti da
cui tenersi lontani!), quali sono le strade che percorrete?
Direi tutte e tre! Ci piace definire la nostra musica elettro-pop e in questi anni
abbiamo cercato di sviluppare un percorso che attraversasse la musica elettronica
ballabile (unendo a nostro modo jungle, drum’n’bass e dance) ma fondendo il tutto
alla fisicità e alla spinta più tipiche del rock. Per quanto riguarda invece i contenuti
dei testi c’è la volontà di trasmettere un messaggio che è un atteggiamento più
tipico dell’indie e i nostri suoni sono più caratteristici dell’indie; almeno per quello
che in Italia si identifica in questa parola.
In cosa vi sentite peculiari, musicalmente e testualmente parlando?
Forse nel cercare di fare una musica divertente e coinvolgente per chi ascolta ma
che cerca al tempo stesso di dare, tra le note, degli spunti su cui riflettere. La
musica ha un potere che altre forme d’arte non hanno: quello di essere diretta. Un
motivetto che entra in testa può restarci per giorni interi e se a quel motivetto è
associato un messaggio è possibile che ci si troverà a pensare a cose a cui prima
non si pensava.
Come siete arrivati a i.Presume? O come i.Presume è arrivata a voi?
La storia è un po’ lunga. Diciamo che inizialmente “Quindiciditadispazio” doveva
essere un disco autoprodotto, registrato al Transeuropa Studio di Torino con la
produzione artistica e tecnica di "Cit" Chiapello e Andrea “Abo” Bove,
rispettivamente chitarrista e tastierista dei Dottor Livingstone. Dopo un concerto
fortunato abbiamo avuto una proposta che si è trasformata in un piccolo budget a
disposizione. Questo ci ha permesso tra l’altro di affidare il mixaggio dei primi due
singoli dell’album, “0.36 (frequenza stabile)”e“Svelando Salomè” a Carlo U. Rossi
nel suo Transeuropa Home, esperienza che ci ha regalato molto. Poi, a missaggi
finiti, ci sono arrivate alcune proposte che non si sono concretizzate e, per evitare
che i tempi si dilungassero ulteriormente, gli stessi Cit e Alle (il nostro manager) ci
hanno proposto di uscire con i.Presume, l’etichetta cui avevano nel frattempo dato
vita, una label formata da persone che, come noi, non avevano mai perso fiducia nel
progetto.
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Qual è stata la traccia dell’album più difficile da comporre e completare?
Forse “La fabbrica”. Subito dopo la pre-produzione del disco, Cit e Andrea avevano
chiaro il quadro completo di come avrebbero voluto realizzare i pezzi, per alcuni
restando fedeli a come li avevamo proposti, per altri aiutandoci a realizzarli come
avremmo voluto ma non eravamo in grado di fare. “La fabbrica”, nella nostra testa
suonava in un modo, ma il risultato che usciva era molto caotico e cupo. Ci siamo
trovati a suonarla in studio senza quasi capire cosa stava succedendo, ma fidandoci
ciecamente dei suggerimenti che ci venivano dati, e il risultato è che ora, pur
mantenendo la potenza e le tinte industrial-dark che volevamo, ha una brillantezza
di suono che da soli non avremmo mai potuto raggiungere.
Quanto è stata lunga la discussione sull’opportunità di intitolare il disco
“Quindiciditadispazio”? E quanto vi diverte doverne spiegare il significato
sconveniente a chi magari non ha ancora sentito “Svelando Salomé”?
In realtà “Quindiciditadispazio” è sì una frase tratta da “Svelando Salomé”, e sta a
indicare l’incapacità cronica di certe persone ad arrivarti al cuore, quasi come se
tutti i rapporti dovessero considerarsi tali solo se sessuali; ma come titolo del disco
ha una valenza diversa. Le “Quindiciditadispazio” del titolo lì diventano come una
piccola zona privata nella quale coltivare i tuoi sogni e le tue speranze, indisturbato
dal mondo esterno.
Ad album finito e masterizzato, una volta che lo avete riascoltato in versione
definitiva e ormai chiusa, vi è arrivato qualche rimpianto? Qualcosa che
avreste potuto incidere meglio, mixare meglio…
Il sogno di ogni musicista è quello di avere a disposizione uno studio come un
bellissimo luna park in cui poter aprire all'infinito le tracce dei pezzi, elaborarli e
riarrangiarli. Come indossare un abito nuovo ogni giorno. Ma non lo si fa perché ci
rappresentano in un periodo della nostra vita così importante, in cui e' stato
concepito e realizzato il disco. Ci si disinnamora delle canzoni, a volte, così come ci
si allontana dai grandi amori. L'importante è averne sempre un ricordo unico. Così
come era importante che quelle canzoni esistessero, per poter avere un senso e
poterci permettere finalmente di lavorare a cose nuove. Rappresentano quello che
eravamo e a distanza di due anni credo che siano perfettamente come dovevano
essere: niente di più perché sarebbe stato inutile, niente di meno perché altrimenti
sarebbe stato un peccato per noi.
Qual è il complimento migliore che vi piacerebbe ricevere, in sede di
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recensione dell’album?
Ci piacerebbe che si capisse che dietro alla “pulizia” del lavoro, c’è un intento, cioè
quello di voler arrivare al più vasto pubblico possibile. “Quindiciditadispazio” non è la
svolta pop o commerciale dei N.O.A., è il disco che i N.O.A. volevano fare, per poter
trasmettere al meglio il loro messaggio.
Qual è invece la critica più stupida e fuori luogo che non vorreste mai
sentire?
Che la nostra musica ricorda questo e quell’altro gruppo… Più che altro perché
spesso le stesse persone che oggi vedono in noi questo, rimpiangono quando
assomigliavamo a “quell’altro ancora” che all’epoca era però un difetto, una ragione
per criticarci negativamente. Il paragone, a cui “Quindiciditadispazio” non potrà
sottrarsi, dovrebbe servire a indirizzare l’ascoltatore al lavoro mentre oggi è usato
solo come strumento di critica negativa.
Contatti: Nuovi Orizzonti Artificiali
Damir Ivic
Rodolfo Montuoro
È un autunno soleggiato, quello di Rodolfo Montuoro, esordiente davvero brillante
con “A_Vision” (Auditorium), un album di visioni e bellezza, traboccante di paesaggi
e di emozioni.
“La bellezza ci commuove”, dice Montuoro, “non ci lascia in pace a goderne
spensierati. E' come se non bastassero gli occhi e i sensi per com-prenderla tutta...
Forse bisognerebbe soltanto accettarla così com'è”.
“A_Vision” è venuto fuori come lo avevi desiderato?
Da "A_Vision" ho ottenuto tutto. Ed è esattamente come volevo che fosse, con le
persone che volevo coinvolgere, il mood che mi stava a cuore, le parole, le
melodie, le pause, i paesaggi sonori. Ero così contento del lavoro svolto che ho
subito voluto provare alcuni pezzi dal vivo in un set ad Arezzo Wave del 2005,
alcuni mesi prima che uscisse il disco, insieme ai miei compagni di ventura. Un cosa
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che di solito non si fa e cozza contro tutte le strategie di marketing. Del resto,
l'obiettivo non era certo quello delle vendite. Quando il disco è uscito, ho avuto
anche la fortuna di ottenere un corteo di belle e autorevoli recensioni. E le attenzioni
non si sono spente. L'interesse continua a crescere, tra luglio e ottobre sono stato
impegnato in un vero e proprio tour tra le emittenti radiofoniche in tutta Italia. Tutto
questo mi ha dato la carica, tant'è che mi sono subito messo al lavoro per il
prossimo album che veleggia benissimo e uscirà entro la primavera dell'anno
prossimo.
Sapresti indicare quale mood prevalente hai cercato per la tua musica?
Un mood che richiamasse nebbie, tempeste e sprofondamenti tellurici faceva parte
dell'idea da cui è nato "A_vision". Avevo bisogno, per questo album, di un
temperamento epico, di sonorità rotonde e maiuscole. Alcuni motivi, mentre mi
venivano in mente, li ho immaginati proprio con la potenza cardiaca di Massimo
Giuntini, uno dei più valenti maestri di cornamusa irlandese. Non a caso, un
perfezionista come Martin Scorsese lo ha voluto con la sua cornamusa nel suo film
“Gangs Of New York”. Sono numerose nell'album le melodie a ritornello, proprie
della tradizione celtica. L'apporto delle cornamuse, del bouzouki, dei whistles le ha
rese più potenti e penetranti, creando quell'effetto di intensità e di lontananza di cui
avevo bisogno anche per aggrappare ai loro suoni la tessitura nervosa e sfuggente
dei testi.
Le liriche delle tue canzoni sono davvero speciali. Come nascono? Come
combatti l’usura delle parole?
I miei testi nascono dalla musica, dalla melodia, oppure - se vuoi - dal rumore
cosmico. Quando afferro le melodie divento una specie di antenna o sismografo e
mi imbambolo. Non posso partire dai testi perché non ho niente da dire, non ho un
messaggio.
Come si crea il loro incontro con le musiche?
Diciamo che il tessuto melodico crea una rete con esche e uncini. Poi, così come
fanno i pescatori, la butto in mare, il nostro mare metaforico. Ogni esca è fatta per
una parola sola e nessun'altra. A volte, per catturare la parola esatta ci impiego
anche dei mesi: non solo essa deve aderire perfettamente all'esca, ma anche alle
altre parole già prese. Poi c'è l'ascolto. Anzi, la ripetizione dell'ascolto. Questa fase
dura tantissimo.
Ossia, ti ascolti?
Sì, tanto. Alla fine, strofe e ritornelli della canzone, proprio per la loro inesausta
ripetizione, si arrotondano come i ciottoli levigati dall'onda. Per me la canzone deve
avere la forza suggestiva e poietica dell'invocazione. L'invocazione della buona
fortuna, della buona vita, della buona sorte. L'invocazione trasforma le cose. Un
modo per scongiurare il dolore e farsi cullare (e guidare) dai suoni e dalle parole
giuste. Alla fine di tutto questo, la canzone mi si presenta con una sua autonomia,
assolutamente sorprendente. Come se l'avesse fatta qualcun altro. Questo è forse
un modo anche per non lasciarsi scoraggiare dall'usura delle parole. A furia di
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essere levigata, distillata, invocata, cantata e truccata, ogni singola parola, anche
quella più familiare e umile di significato, perfino la sillaba o il sospiro, scopre la sua
segreta inquietudine. Tutto ciò, ovviamente, vale per me. Non vale certo in assoluto.
Il tuo strumento è la chitarra, ma lo strumento-principe del tuo album mi pare
la cornamusa.
Lo strumento musicale - sia esso chitarra, tastiera o computer - dev'essere una
protesi, oppure come la lingua del formichiere. Questo non significa che io sia un
virtuoso. Anzi, tutt'altro. Non ho mai suonato delle cover in vita mia. Le corde della
mia chitarra sono come trappole e uncini alla ricerca di quei suoni e di quelle parole
che si accordano al mio cuore e alle allucinazioni del futuro. La cornamusa è la
coloritura dominante ed epica di “A_vision”. Adesso, per il nuovo album che sto
preparando, lo strumento significante sarà il didjeridoo, un marchingegno
antichissimo, quasi originario, che convoglia tutto il fiato, tutta la “vita” che spira nei
polmoni e la converte in un respiro potentissimo che simula la forza e la precisione
dei più sofisticati loop elettronici. Quindi non più l’artificiale che simula il naturale, ma
viceversa. Non più il beep elettronico che finge il battito cardiaco. Ma è il battito
cardiaco che, in quest’epoca di incertezze e ambiguità sentimentali, invoca una sua
più naturale precisione nel beep originario dello strumento musicale, della “protesi”.
Quali sono le tue influenze?
Tutta la musica che ho ascoltato sinora, tutti i libri che ho letto, tutte le parole che mi
hanno fulminato, tutto il dolore, gli equivoci e la felicità. Però posso farti un
resoconto della musica che viaggia in questi giorni nel mio lettore mp3: i Frigo,
Sophe Lux, Bree, Thom Yorke, i The Bran Flakes, le Coco Rosie, The Laura Simon
Band, i South 33, Morrisey, Reeves Gabrels (ex chitarrista di Bowie), Tony Craig,
David Sylvian, alcune vecchie canzoni di Cole Porter e un po' di Clara Rockmore
sulle onde del suo theremin. Come faccio a estrarre una linea da tutto questo
disordine? Purtroppo è sempre stato così, per me. Questo per dirti che c'è sempre
un pandemonio di stili, di generi, di musiche e musicisti nella mia list. Un ascolto
forsennato, caotico ed erratico che genera continuamente influssi. La musica che
ascoltiamo agisce su di noi e ci trasforma. Trasforma la nostra immaginazione,
l'assortimento dei nostri desideri e il nostro modo di sentire e di comunicare.
Contatti: Rodolfo Montuoro
Gianluca Veltri
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Sown
Potrà sembrare strano ma a Bergamo, tra le romantiche mura della città alta, c’è chi
si dedica al metal evoluto ed intelligente. Loro si chiamano Sown ed hanno da poco
pubblicato il loro primo disco: “Downside” (Fuel/Andromeda-Self). Un lavoro che ha
già raccolto i plausi, e qualche paragone “pesante”, della critica specializzata, e che
meritava quindi un approfondimento. Approfondimento che ci viene da questa
chiacchierata a ruota libera con il gruppo (quasi) al completo, qui riportata in
maniera fedele e che tocca davvero gli argomenti più disparati.
Innanzitutto vuoi presentare i Sown a chi non li conosce?
Volentieri. I Sown sono una band bergamasca nata circa quattro anni fa dallo
scioglimento di altri gruppi e dall'unione di sei ragazzi accomunati da una autentica
passione per il rock più estremo. Dopo l'incisione del primo demo nel 2004,
“Unforseen Events”, che ci ha fatto fare passi in avanti e consentito di suonare live
in importanti locali, abbiamo inciso “Downside”, il nostro primo album ufficiale, che
speriamo ci possa portare qualcosa di bello permettendoci di crescere ancora.
Non è facile esordire in Italia con un disco così: com'è venuto fuori e c’è
qualcosa che cambiereste?
No, non è assolutamente facile, ma noi abbiamo voluto provarci lo stesso, pur non
smettendo di guardare all'estero. Non abbiamo cercato qualcosa in particolare per
questo album,abbiamo fatto quello ci sentivamo unendo, credo con buoni risultati, i
gusti e le tendenze musicali di ognuno di noi, ma non rifacendoci a niente e nessuno
in particolare. Siamo molto soddisfatti del lavoro, soprattutto perché è stato
completamente registrato da noi e da Emanuele Grazioli che è il nostro fonico,
ottenendo quello che volevamo sia a livello di suoni che di impatto. Questa è quello
che più ci piace; logicamente avremmo voluto ottenere ancora di più, non ci si
accontenta mai, ma il risultato ci rappresenta in pieno.
Accennavi all'estero prima: quali sono i progetti? Vi trovate bene con Fuel
Records e Andromeda Distribuzione?
Il lavoro che stiamo svolgendo con Fuel e Andromeda sta dando i frutti sperati.
Naturalmente c'è ancora da lavorare sodo, ma noi non ci tireremo certo indietro. Per
quanto riguarda la promozione estera siamo a buon punto, e posso confermarti che
molto presto saremo on-stage anche fuori dall'Italia. Esperienza questa già provata
dai noi in Croazia e devo dire che è stato davvero bello, soprattutto l'ottima risposta
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del pubblico.
Quali sono i paragoni che vi infastidiscono e quali quelli che vi fanno piacere
quando si parla della vostra “violenza ragionata”?
Naturalmente essere paragonati, come è già successo, a band come Korn o
Mudvayne ci fa piacere, ma se devo dirla tutta mi sembra un po’ azzardato. Non
neghiamo di essere stati influenzati da band di questo calibro, ma i Sown cercano
da sempre l'innovazione e le nostre canzoni nascono da questa necessità. Non è un
vero dispiacere, anzi, è che troviamo i paragoni di per se limitanti!
E vi sembra ci sia abbastanza attenzione per la vostra proposta da parte del
pubblico?
Il pubblico è purtroppo abituato a seguire i musicisti che hanno passaggi in MTV,
con pagine e pagine dedicate sulle riviste specializzate. Noi al momento non ci
lamentiamo: comincia ad esserci un interesse per noi, anche perché abbiamo la
fortuna di avere alle spalle dei promoter in gamba come Dollwork Promotion. E'
triste però che si debba per forza fare il salto di qualità per avere almeno 200
persone davanti durante i concerti. Ci vorrebbe più interesse nei confronti della
musica e non nei confronti di chi fa musica, ci sono troppe band nell'underground
italiano che meriterebbero più attenzione.
Se ne fa un gran parlare e vorrei avere il vostro parere: Myspace serve
veramente come veicolo promozionale?
Beh, direi proprio di si. Noi abbiamo ricevuto diversi ingaggi ed inviti proprio grazie
a questo sito. A differenza di tutta la promozione generalista in rete permette di
avvicinare le persone alle quali veramente interessa sapere cosa suoni, dove suoni
e con chi suoni, consentendo una trasmissione delle informazioni meno fredda e
distaccata. Si ha veramente l'impressione di conoscersi un po' tutti. E visto che ne
abbiamo parlato ecco il nostro indirizzo: www.myspace.com/sown.
Un ultimo pensiero su Dimebag Darrell, da voi giustamente omaggiato in
"Suicide Note pt.1": quanto è grande il vuoto che ha lasciato?
Non solo ha lasciato un vuoto incolmabile ma abbiamo anche perso tanta buona
musica perché, come tutti i grandi, anche oggi Dimebag avrebbe avuto ancora
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qualcosa da dire. Sicuramente quest'anno avrebbe sfornato un altro capolavoro e
poi, chissà, un giorno magari dopo aver seppellito le loro asce di guerra avremmo
potuto risentire ancora i Pantera assieme, mentre ora questo non accadrà più. Noi
apprezziamo tutti i grandi della musica, indistintamente dal genere, e Dimebag è
uno di loro. Dispiace anche che molta gente non sappia nemmeno cosa si è persa.
Il nostro è solo un umile tributo ad un grande chitarrista; speriamo gli sia piaciuto.
Contatti: Sown
Giorgio Sala
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Ianua + Recondita Stirpe: “Vesper ianuense”
I concerti tenuti da Ianua dopo l’uscita del mirabile “Disobbedisco” si contano sulle
dita di una mano; peraltro l’ensemble non si era mai esibito in Italia prima della data
genovese dello scorso 4 novembre. Facile allora immaginare quanta attesa ci fosse
per questo evento che ha richiamato appassionati di musica post industriale, dark e
reduci del progressive da tutta la penisola. Molti di loro si sono dati appuntamento
già nel pomeriggio nel negozio di via del Campo sede della Black Widow, l’etichetta
che ha prodotto gran parte dei gruppi in precedenza capitanati dal cantante Mercy
(Zess, Malombra, Segno del Comando, ecc.).
Il Boggiano è un teatro parrocchiale di periferia, un po’ diroccato ma ricco di
suggestioni retrò, in perfetta sintonia con l’artistica rievocazione storica messa in
scena dalla formazione ligure.
La serata è aperta dai Recondita Stirpe, giovane band che con l’omonimo mini CD
d’esordio ha già fatto propri i risvolti più corali e popolari della musica neo folk. Si
presentano sul palco con una formazione estesa: tromba, fisarmonica, chitarra
acustica e percussioni impreziosiscono gli arrangiamenti delle loro belle canzoni,
interpretate in diverse lingue ed eseguite con gran classe.
Fatta eccezione per un paio di sbavature tecniche, che pur sempre testimoniano il
bello della diretta, il successivo spettacolo di Ianua ha infuocato la platea. I due
cantanti Mercy e Stefania, spalleggiati da musicisti di straordinaria levatura (una
menzione particolare la meritano senz’altro i due chitarristi, davvero straordinari
nell’esecuzione di “Sangue morlacco”), hanno dato vita ad uno spettacolo toccante,
ripercorrendo passo passo, attraverso trutti i brani del loro album, la drammatica
vicenda del Maggiore Cesare Renzi – Ardito dell’Impresa Fiumana – e della
Chanteuse Archeo-Futurista, Elettra Stavros. “La ballata dell’Ardito”, “Di nuovo in
armi” e “Muri d’assenzio” hanno segnato i momenti di maggior pathos di una serata
straordinaria, degnamente conclusa con la cover di “Amsterdam” (Jacques Brel),
richiesta a gran voce dal pubblico e opportunamente ripescata dal mini CD d’esordio
(www.illevriero.it).
Fabio Massimo Arati
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Black Eyed Dog
L’ennesimo cantautore “roots”, sospeso tra estroversione e intimismo ma con
un’apparente preferenza per quest’ultimo? Senz’altro, ma l’emozione che regna
sovrana nella sua musica - aggraziata e sospesa ma anche intensissima: ascoltare,
per credere, “Careless”, toccante omaggio al maestro Nick Drake - qualifica questo
polistrumentista di Varese come sicura promessa del genere, a livello di songwriting
così come di brillantezza interpretativa. Un talento già evidente nei quattro pezzi
ascoltabili su MySpace, e che ci aspettiamo di vedere sbocciare in via definitiva
nell’album che dovrebbe uscire in primavera con il marchio della Ghost (
www.myspace.com/mybandsnameisblackeyeddog).
Federico Guglielmi
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