Numero Settembre '07
EDITORIALE
Bentrovati a tutti a questo primo appuntamento di “Fuori dal Mucchio” dopo la
(meritata) pausa estiva. Il caldo è ancora tanto, ma noi siamo di nuovo qui pronti a
offrirvi, come ogni mese, una panoramica quanto mai esaustiva e selettiva di quanto
avviene nella scena underground italiana. A tal proposito, in vista di un autunno che
si preannuncia ricco di tante – anzi, troppe – novità discografiche, non possiamo
che invitare ancora una volta tutti quanti fossero interessati (artisti, etichette,
promoter, uffici stampa) a farci pervenire le loro produzioni seguendo le indicazioni
contenute nella pagina “Per invio materiale” linkata qui a destra.
Con la fine delle vacanze, poi, si avvicina come sempre anche il momento del MEI,
il Meeting delle Etichette Indipendenti, in programma il 24 e 25 di novembre a
Faenza (RA) e giunto quest’anno alla undicesima edizione. Come da tradizione, noi
saremo presenti non soltanto fisicamente con uno stand, ma anche con il premio
“Fuori dal Mucchio”, che verrà assegnato a quello che a nostro giudizio è stato il
migliore esordio discografico italiano della stagione appena conclusa.
Di questo, però, parleremo meglio il mese venturo, quando saranno resi noti i titoli
dei dischi in lizza. Per il momento, quindi, non ci rimane che augurarvi buone letture
e buoni ascolti.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Settembre '07
Adriano Modica
Il fantasma ha paura
Trovarobato/Audioglobe
Bassista (per Marco Parente, ad esempio, e ultimamente pure negli Ulan Bator),
polistrumentista, compositore, cantautore: Adriano Modica bazzica da qualche anno
la scena indipendente della nostra penisola ma è la prima volta che mostra
ufficialmente – dopo alcuni demo sparsi – il proprio volto di autore. “Il fantasma ha
paura”, “disco di pietra” di una trilogia in buona parte ancora inedita, esce per
Trovarobato e non potrebbe essere altrimenti, vista l’obliquità della proposta. Di che
si tratta? Di una forma cantautorale mutante e mutevole, diremmo fluttuante a tratti,
ma sempre immersa in un contesto di orecchiabilità, nata dalla trasmutazione di
quelle che ci paiono antiche e ben metabolizzate influenze di epoca italo-prog (il
primo Alan Sorrenti, ma anche il primo Claudio Rocchi e, perché no, Juri
Camisasca), da una moderna sensibilità per il collage sonoro e da una cifra poetica
stralunata che non subisce forzature ma sgorga naturale in versi come “Il limite tra
follia e fantasia / è una sbarra di legno / con scritto “Lory ti amo” / ed un bel
panorama” oppure “Da qui la città / assomiglia a un gigante / che parla nel sonno /
piange nel sonno / e il cuore ingoiato / dopo la corsa / è la più bella voglia di
vomitare / che ho”. Una “destabilizzazione” gentile, morbida e psichedelica.
Rassicurante in qualche modo, ma capace di lasciare tracce profonde. Sul podio,
per quanto ci riguarda, finiscono le sincopi jazz di “Battito muto in 3/4”, “Il gigante si
sveglia” e “Il paese dei balordi” (http://www.adrianomodica.it/).
Alessandro Besselva Averame
Alex Snipers
Slackness
Mammagamma/Jestrai
Alex Snipers (al secolo Alessandro Cecchini) è un cantautore di cui si sa poco o
nulla, e “Slackness” è il suo esordio: un disco registrato in solitaria, solo voce,
chitarra e un fiume in piena di piccole canzoni tra folk e blues del delta. Nel libretto
ringrazia Syd Barrett (e in effetti, si avverte qualche reminescenza qui e là) e i
Rolling Stones, nella cartella stampa cita Springsteen e Steve Wynn come
influenze, il che vuol dire tutto ma anche niente. Questo perché “Slackness” –
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Numero Settembre '07
nomen omen – è dispersivo e camaleontico. Per quanto si resti sempre in
coordinate di massima ben precise, Snipers è capace di citare una gamma
incredibile di gruppi, artisti, generi musicali, e ognuno dei suoi sedici capitoli ha un
spunto interessante che va oltre una registrazione approssimativa e una resa audio
ai limiti delle demo su C-90. Classico esempio di disco inaspettato che se ad un
primo ascolto non fa che mostrare difetti, già al secondo fa capire di avere qualcosa
da dire. Certo, potremmo soffermarci sull’italianità del suo inglese, di come la
pronuncia a volta possa infastidire – e a dire il vero questo è l’unico difetto davvero
importante – ma non è il caso di puntualizzare. Non ora (http://www.jestrai.com/).
Hamilton Santià
Andrea Ra
Le bighe sono pronte
Altipiani Rock/Edel
Cantautore sui generis e session-man dal buon curriculum, Andrea “Ra” Finocchi
aveva esordito in proprio nel 2002 con “Scaccomatto” (Mescal), sorta di concept
liberamente ispirato al “Settimo sigillo” di Bergman in cui si mescolavano pop
(post)adolescenziale e metal mutante, intermezzi acustici e virtuosismi, bizzarrie
sull’improbabile asse Camisasca-Primus e una punta di teatralità. Un lavoro ricco di
spunti, ma anche eccessivamente dispersivo e a tratti fuori fuoco. Cinque anni dopo
il cantante e bassista romano torna sulle scene con “Le bighe sono pronte”, un live
registrato lo scorso aprile alla capitolina Locanda Atlantide. Al suo interno, gran
parte dei brani del debutto più un pugno di inediti e quattro cover (di Alberto
Camerini, Ivan Graziani, Lucio Battisti e – appunto – Primus), per settantaquattro
minuti ad alta intensità, in cui non mancano gli sfoggi di tecnica (anche da parte del
resto della band, ovvero Giacomo Anselmi alla chitarra e Daniele Iacono alla
batteria) ma non vanno quasi mai a discapito della concretezza del tutto (tra le
poche eccezioni, una “Balli con me” interminabile). Come a dire che in un contesto
forzatamente più minimale e diretto come quello live Ra sembra guadagnare in
concretezza, pur non perdendo la propria vena ironicamente stralunata. Non tutto è
perfetto: ogni tanto il discorso sembra incepparsi, e la direzione intrapresa pare
incerta, ma se l’alternativa devono essere l’omologazione e la piattezza allora va
bene anche così (www.andreara.com).
Aurelio Pasini
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Numero Settembre '07
Clepsydra
Second Era Of Stonehenge
MP
Nati nel 2002 come tribute band, a fasi alterne e alcune volte in simbiosi, di Cream
e Jimi Hendrix Experience, i Clepsydra approdano alla convinzione di poter
sviluppare un percorso autonomo nel tempo, senza per questo rinnegare quanto
fatto nei primi anni di vita. Il punto di partenza rimane comunque uno: lavorare
assolutamente come trio, un imperativo al quale Fabio Di Gianluca e Danilo Ricci
(rispettivamente voce/chitarra e batteria) non hanno mai rinunciato, cambiando più
volte il bassista, che ora sembra finalmente individuato in Filippo De Rubeis, che si
cimenta anche come vocalist. La cosa veramente sorprendente è che una volta
trovato il coraggio e l’ambizione di comporre materiale proprio, i Clepsydra
sembrano aver messo alle spalle il bagaglio su cui avevano edificato il loro
background per confrontarsi con un sound ad ampio respiro, decisamente originale,
che abbraccia psichedelia, pop e rock, ma privo di quelle connotazioni classiche che
ci si poteva attendere. Poco male, visto che le dieci tracce, più un breve finale che
omaggia le vibrazioni misteriose di Stonehenge, si fanno ascoltare con piacere,
risultando in più di un passaggio piene di verve. Resta solo il limite di una vocalità
poco espressiva che alcune volte limita il potenziale di canzoni costruite con garbo e
la giusta dose di coraggio (www.clepsydraband.it).
Gianni Della Cioppa
Deltaechopapazulu
Download My Love
Edel
“Scarica il mio amore”, recita la copertina.
Un invito a incastrare questo debutto tra le centinaia di gigabyte che già intasano i
vostri hard-disk anziché ascoltarlo sul supporto originale? Difficile a dirsi (il testo
della title-track è alquanto nebuloso al riguardo), ma a dirla tutta, sarebbe un
peccato per voi e per le vostre orecchie. Alberto Fabris, artista dietro cui si cela
l’inconfondibile ragione sociale, è un compositore di raro talento nonché ottimo
polistrumentista e per la cura con cui ha saputo dosare suoni e strumenti, non
merita di diventare un anonimo “folder”. Registrato volando da New York a Milano,
da Londra a Lisbona, con qualche tappa on the road su suolo tedesco, l’album trova
il suo punto di forza nell’inevitabile mescola di linguaggi e stili incontrati via via che
prendeva forma, filtrando il tutto attraverso un personale quanto impeccabile gusto.
In questa amalgama a cavallo tra nu-jazz, space age pop e funambolismi à la
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Matthew Herbert, l’elettronica si fonde alla perfezione con i delicati arrangiamenti di
fiati, così come la splendida voce di Ana Vieira, presente in quasi tutti i brani in
scaletta, gioca a confondersi con il paesaggio sonoro, dimostrando una versatilità
quasi ultraterrena (l’energica “Mama Soldier” e la sognante “Blue Silk” a mostrarne i
due estremi). L’album si chiude con la strumentale “Die verliebte Forelle”, breve e
fiabesca suite scritta a quattro mani con l’amico/collega Ludovico Einaudi. Un brano
talmente perfetto che rischia di mettere in ombra tutto il resto. Ci piace pensare che
sarà questa la pista da cui DeltaEchoPapaZulu spiccherà il suo prossimo volo (
www.deltaechopapazulu.net).
Giovanni Linke
Echoes Of The Whales
Echoes Of The Whales
Disasters By Choice/Wide
Felicissimo parto delle menti di Pierpaolo Leo e Andrea Mangia (noto ai più come
Populous), “Echoes Of The Whales” è uno di quei dischi che non ci vergogniamo di
recensire con l’invidiabile ritardo di cinque mesi. Basta il primo minuto del brano di
apertura (“Nature Was The Ancient Mobilia”) per capire quanto la musica contenuta
in questo album si sposi alla perfezione con stagioni più malinconiche, alchimie dei
primi freddi e non per gli ultimi pollini. In tutta onestà, non ci sarebbe spiaciuto
parlarne in dicembre, ma a quel punto saremmo stati scandalosamente snob. O
solo scandalosi. Ma di cosa sono fatti questi echi di balene? Innanzi tutto, scordatevi
il blip-hop di Populous e gli esperimenti di musica concreta di Leo, ché questo
album viaggia su ben altri binari, più dilatati, ma non meno strutturati.
Sintetizzeremmo il tutto con il termine minimal ambient, ma i drone, gli organi e le
chitarre qui presenti parlano anche un’altra lingua, vicina al post-rock ma che non
disdegna omaggi alla lucida psichedelia di Robert Hampson (Loop nella teoria, Main
nella pratica). Brani come “We Can Be Herons, Just For One Day”, “Arctic Sunrise”
o la conclusiva “Earth Song” sono le perfette trasposizioni su pentagramma di stati
mentali deliziosamente vacui, pericolosamente sognanti; un incedere ondivago che
solletica le orecchie e accarezza la mente. Se già seguite la musica ambientale,
questo disco non infetterà il vostro stereo con i germi della rivoluzione, limitandosi a
offrirvi 40 minuti di piacere sonoro; se invece solo ora accedete a questo universo
musicale, al momento non conosciamo biglietto da visita migliore (
www.echoesofthewhales.com).
Giovanni Linke
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Endura
Bleu
Tomato/Venus
“Bleu” non è propriamente il secondo disco (terzo, se teniamo in considerazione un
primo lavoro completamente autoprodotto nel 2000, “Due complesso”) dei cuneesi
Endura. O meglio, guardando il tutto da un’altra angolazione, è qualcosa che va
oltre. Questo lavoro, a quattro anni da “Les mots, la nuit, la danse” e come quello
prodotto da Paolo Benvegnù, nasce infatti come estensione dell’omonimo
spettacolo multimediale, rappresentato nell’estate del 2004 a Spoleto. Oltre a
muoversi stabilmente sui propri passi, svincolata dalla rappresentazione, la musica
qui contenuta asseconda con naturalezza ed efficacia la frammentarietà (voluta e
funzionale) e il bisogno di vie di fuga che caratterizza da sempre la band
piemontese. Una poetica fatta di frammenti e innesti che si concretizza in canzoni
continuamente “sabotate” da svisate noise, infiltrazioni elettroniche, accorgimenti
sonori fuor di sesto che, lungi dal creare una impressione di sfaldamento, restituisce
alle composizioni la loro dimensione più autentica e aiuta ad illuminare gli scorci più
creativi. Di buona fattura la cover degli Scisma, “In dissolvenza”, meno incisiva ma
comunque interessante la ripresa di “Pag. 8, 45”, tratta da “Il grigio” di Gaber e
Luporini. Per il resto, gli episodi autografi sono tutti caratterizzati da un ottimo lavoro
sui suoni e da una scrittura eclettica che nelle eleganti orchestrazioni di “Ali” e nella
psichedelia circense di “Mia” sembra esprimere il suo volto più credibile e incisivo (
www.endurableu.com).
Alessandro Besselva Averame
Fabrizio Zanotti
Il ragno nella stanza
Storie di Note/ Egea
È dopo vent’anni di attività che Fabrizio Zanotti approda al primo lavoro a suo
nome. Già noto in virtù della recente esperienza con i Foce Carmosina, nonché di
un recente brano scritto per Claudio Lolli, Zanotti ha messo insieme un’esperienza e
una sensibilità da artigiano e cesellatore di suoni.
L’apertura “Controvento” è uno stadio evolutivo avanzato di un cantautorato alla Loy
& Altomare, con belle chitarre diamantine a sferruzzare. Ché essenzialmente
chitarristico e cantautorale è il mood di Zanotti, sebbene arricchito e arrangiato. Il
prodotto finale è un album prismatico, che ci parla del nostro presente: l’ambiente in
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Numero Settembre '07
“Fumo”, le relazioni dissestate e piatte di “Barbara e il sesso”, il miraggio di
cambiare la propria sorte nel brano finale “Sarò libero”, che inizia con un verso del
De André rom (“Anche oggi si va a caritare”) per dare voce alle vite parcheggiate a
Lampedusa.
L’eterno cancro della guerra staziona nell’insistente e drammatica “La mia divisa” e
in “A Mostar”, che ci ricorda l’amore di Zanotti per un folk-rock di matrice
nordamericana, che lo accosta per certi versi a Massimo Bubola. Il ritorno alla Foce
Carmosina si compie alla traccia numero dieci – una delle più riuscite: “A piene
mani” – in un onirico racconto di contrabbandieri imbastito su un ininterrotto accordo
in minore, pieno di rifrazioni e atmosfere. Ancora una volta a farsi capolino è il nume
genovese di “La domenica delle salme”.
Zanotti, canzoni per pensare, per farsi avvolgere dalle spirali di una sana
inquietudine. Sarebbe cosa buona che ciascuno avesse il proprio ragno nella stanza
(www.fabriziozanotti.net).
Gianluca Veltri
Filippo Martin
Still In My Dreams
New LM
Fa veramente bene al cuore vedere che la New LM Records da Ravenna è da
qualche tempo tornata attiva con una certa continuità. Negli anni 80, senza
l’accessorio New, era stata una della label più vitali e generose nel valorizzare il
fermento underground nazionale, soprattutto in campo heavy metal, consegnandoci
alcuni album che oggi sono autentiche chicche per collezionisti. Poi il declino fino al
silenzio totale, interrotto anche per il rinnovato interesse verso quei dischi, fin troppo
snobbati all’epoca. Ecco così una serie di nuovi progetti, divisi tra ristampe del
vecchio materiale, alcune volte postumo e nomi nuovi. Tra questi ultimi va a
collocarsi l’ottimo chitarrista Filippo Martin, che in questo esordio può vantare la
collaborazione di Alex De Rosso (ospite in “Believe Me”, un talentuoso musicista
veneto che da due decenni è noto negli ambienti rock internazionali, avendo
suonato anche con le star americane Dokken. La sue esperienza serve solo a
ravvivare ulteriormente un lavoro brillante e intenso, che mostra come Martin sia in
grado di colorare le sue composizioni, senza scendere al gradino del virtuosismo
fine a sé stesso. Ci sono melodie intense che accompagnano ogni partitura sulla
scia, mi permetto l’azzardo stilistico non di caratura, con il gigante Joe Satriani. La
produzione pulita e mai invadente risalta anche nell’unico brano cantato, “Believe
Me” (c’è anche una versione strumentale, affidata alla solista di De Rosso),
consegnato all’ugola sicura di Massimo Danieli (www.filippomartin.it).
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Gianni Della Cioppa
Go Down Moses
Welcome Idiots
Produzioni Sante
Nella loro pagina MySpace i lombardi Go Down Moses non cercano chissà quali
formule per descrivere la propria proposta, ma la sintetizzano in una sola,
inequivocabile parola: “punk”. E tanto basta per inquadrarne, se non lo stile, per lo
meno l’approccio e lo spirito di fondo. Perché, pur non rifacendosi in maniera diretta
al ’77, è alla sua lezione che in qualche modo il trio guarda, alla sua urgenza, alla
sua rabbia. E qui di rabbia ce n’è parecchia: non cieca, però, bensì incanalata in
strutture ricche di cambi di passo e di umore ma sempre ben definite. Bassi pulsanti,
chitarre secche e taglienti, una batteria nervosa e incalzante, una voce che bada al
concreto – magari sgolandosi nel farlo – e, a riempire gli spazi, qualche occasionale
nota di sintetizzatore: tutti elementi che collocano la band all’ipotetico crocevia tra
post-punk e noise. Un territorio già ampiamente battuto, insomma, in cui l’energia e
l’onestà contano ben più di una qualche presunta originalità. Accettate queste
regole, “Welcome Idiots” si rivela un disco vibrante e sincero, di una potenza
trascinante, doloroso nelle sue sferzate e nelle accelerazioni brusche, nella
drammaticità neanche troppo latente di “What They Did Was Secret”, in una “Read
My Lips: No More You” al fulmicotone, ma anche nella appena meno aggressiva
(almeno nella parte iniziale) “We Plant Pumpkin Seeds”, con le tastiere in bella
mostra. Musica non innovativa, forse, ma decisamente esplosiva; catartica da
suonare e – se piace il genere – da ascoltare (www.godownmoses.com).
Aurelio Pasini
Gregorio Bardini
La casa del custode
Eurasia
Attivo in ambito indipendente sin dagli anni 80 con gruppi quali Tuxedomoon,
T.A.C. e Thelema, Gregorio Bardini ha intrapreso un percorso culturale complesso e
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ambizioso, volto alla riscoperta delle tradizioni musicali eurasiatiche. Flautista di
particolare talento, tra la fine degli anni 90 e l'inizio di questo decennio ha realizzato
alcuni pregevoli dischi di folk acustico per la collana di autoproduzioni Arx,
collaborando tra gli altri con il violinista Carlo Cantini ("The Cosmic Milk" – 1997) e
con il polistrumentista Paolo Longo Vaschetto ("Sezione Aurea" – 2001).
Più recentemente ha intrapreso percorsi ancor più colti e arditi, come quello che lo
vede sonorizzare alcune liriche di Alberto Cappi. Realizzato grazie al supporto
finanziario della Provincia di Autonoma di Bolzano, "La casa del custode" è il frutto
concreto di questa singolare esperienza artistica. I flauti traversi del Bardini creano
tappeti sonori protesi alla sperimentazione, carichi di mistero e di tensione, sui quali
la voce del poeta lombardo recita versi di assoluto e incantevole lirismo.
Ovviamente la fruibilità dell'opera rimane necessariamente circoscritta in ambito
letterario, per quanto il contributo sonoro riesca davvero ad amplificare la forza
evocativa della poesia ([email protected]).
Fabio Massimo Arati
I Ratti Della Sabina
…Sotto il cielo del tendone
Upr/Edel
Sedici tracce dal vivo e tre inediti per fornire al pubblico la dimensione più
congeniale ai Ratti, quella del concerto. I tre brani nuovi, registrati in studio, si
avvalgono della produzione artistica dell’instancabile Bandabardò Alessandro Finaz
– che già si era preso cura di “A passo lento” – e tanto vale a delineare una rotta
stilistica puntuale.
Il live è registrato al Villaggio Globale di Roma, nel concerto dello scorso marzo.
Nostalgici, veraci, vitali, i Ratti, combo lussureggiante di otto elementi, esaltano
l’etica/estetica della giostra e del circo, fin dal titolo, che è tratto da un verso di
“Circobirò” (“Vengano signori sotto il cielo del tendone”). Allegria e divertimento nel
rimpianto, il ritmo e l’abbandono della danza dentro la delicatezza delle immagini.
Sempre “alla periferia della normalità”, l’orchestrina reatina ripropone “Radici”, “Il
funambolo”, l’omaggio a Gianni Rodari “Il giocoliere”, “Chi arriva prima aspetta”;
tempi in levare, tarantelle (del serpente), folk infiammabile, canzoni vagabonde e
stradaiole. Sai cosa attenderti, e questo è gratificante per i fan; la sincerità combat è
la forza del gruppo e anche il suo limite. Non è certo nell’inattesa modulazione o
nella sorpresa d’una melodia il punto forte dei Ratti (anche se mica male quella
battuta dispari che scompagina “Lo scemo del villaggio”). Ma piuttosto è – dentro il
solco di Nomadi, MCR, Bandabardò – nel calore, nella capacità di trascinare, nella
vicinanza che i suoni e le parole sanno trasmettere a chi ascolta (
www.rattidellasabina.it).
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Gianluca Veltri
Isabel At Sunset
Meet The Gang!
Tea-Kettle
Facile cedere alla tentazione di considerare gli Isabel At Sunset come un progetto
parallelo dei Pecksniff, dal momento che le due band condividono un membro, il
bassista Cianzo. Facile, ma sbagliato, perché un debutto come “Meet The Gang!” –
prima uscita anche per la neonata Tea-Kettle – mette inequivocabilmente in
evidenza come la band sappia ampiamente camminare sulle proprie bande, pur
condividendo con la “sorella maggiore” il macro-genere di appartenenza, l’indie-pop.
Ove però i Pecksniff l’accento è maggiormente spostato verso il twee, gli Isabel At
Sunset si muovono in territori più marcatamente pavementiani. Ascoltare per
credere l’iniziale “Hey Dude”, che paga aperto debito alla band che fu di Stephen
Malkmus (nelle chitarre, nelle melodie sghembe) ma, allo stesso tempo, ci mette di
suo una buona dose di fresca spensieratezza, a dimostrazione di come si possano
pagare apertamente i propri debiti mettendoci comunque qualcosa di proprio.
Discorso che vale in qualche modo anche per il resto del programma, che regala
una serie di brani semplicemente deliziosi, da “The Coming Back Guy” a “Kevin And
The Wannabe Indie Stars”, senza farsi mancare qualche momento di introspezione
(“Just Me In The Mirror”) e alcuni improvvisi quanto riusciti cambi di umore, come
per esempio in una “Trucks’n’Cars” che da ballata si trasforma in impetuosa
cavalcata elettrica. Senza strafare, un inizio che lascia sulle labbra un piacevole
sorriso (www.myspace.com/isabelatsunset).
Aurelio Pasini
JiAndri
Susak
Etnagigante-V2/Edel
Gli estremi entro cui si muove l’esordio di JiAndri (al secolo Alessandro Andrian)
stanno nelle prime due canzoni di questo suo lavoro di debutto: “5 volte male” e
“Due ricordi”. La prima un robusto ma innocuo esempio di pop dalle venature
sintetiche non troppo lontano da certi Subsonica, l’altra una ballata pop languida e
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orecchiabile ma un po’ troppo patinata. Ecco, quando si avvicina troppo a questi due
poli l’artista sembra perdersi e perdere di efficacia; quando invece svaria più
liberamente e meno prevedibilmente – a partire dalla immediatamente successiva
“I’m looking for” – allora mette in mostra doti da non sottovalutare. Quelle che gli
permettono di muoversi con destrezza tra arpeggi acustici e tecnologia, tra sonorità
solari e squarci di notturno intimismo, tra trombe, archi e cori femminili (a dire il vero
non troppo incisivi). Grazie anche a un pool di collaboratori che comprende il
produttore berlinese Gary Marlowe e il padovano Alberto Roveroni e alla presenza
di un padrino di eccezione come Roy Paci (che non a caso lo ha voluto nel roster
dell’Etnagigante), JiAndri si rivela un artista mille sfaccettature, raffinato ma non per
questo privo di profondità, fedele ai dettami della forma-canzone ma allo stesso
tempo tutt’altro che spaventato dalla prospettiva di allargarne i confini. Basti dire che
in “Grace” (per quanto ci riguarda, il momento migliore del lotto) riesce persino a
rendere sopportabile un’altrimenti imperdonabile vocoder. Un esordio di spessore,
insomma; interessante nei suoi momenti migliori e in ciò che questi lasciano
intravedere per il futuro (www.jiandri.it).
Aurelio Pasini
Kiddycar
Forget About
Seahorse/Goodfellas
Un po’ shoegaze, forse non nei suoni ma nella docile rassegnazione delle melodie.
Un po’ laptop generation. Ma soprattutto molto pop. Un pop sottile e lieve, quello
dei Kiddycar, che tuttavia non eccede in volatilità. La Seahorse, etichetta che ruota
intorno ai Blessed Child Opera, si dimostra ancora una volta interessante laboratorio
di musica indie nell’accezione più ampia, creativa ed eclettica del termine. Non solo:
esportabile anche, e non perché si cerchi di ammiccare alle proposte più cool del
panorama estero, ma perché si è in grado di maneggiarne le stesse cifre
espressive, senza inutili complessi di inferiorità. Se un nome su tutti salta alla mente
al primo ascolto di questo “Forget About”, quello dei Lali Puna, c’è da dire che il
gruppo aretino può giocarsi la partita con l’ibrido elettropop dei bavaresi, se non ad
armi pari, quantomeno armato di una solida credibilità. L’elettronica è amministrata
con cura, mai semplice sostegno per gli arrangiamenti e mai puramente colore
strumentale, la scrittura pop intriga e si rende accattivante, sfociando talvolta nella
canzone d’autore. Come definire altrimenti una “Ame et peau” in francese che pare
rubata al songbook di Keren Ann? E pure il pianoforte di “Time”, cui da manforte un
elegantissimo finale affidato ai fiati, cerca di svincolarsi, riuscendoci, allo schema di
riferimento – ottimamente maneggiato e utilizzato, a scanso di equivoci - che
caratterizza la gran parte delle canzoni di “Forget About”. Che è un bel disco, ben
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suonato e ben prodotto. E soprattutto ben scritto (www.kiddycar.it).
Alessandro Besselva Averame
Le Braghe Corte
King Of The Fools
LBC/Venus
Si autodefiniscono Re dei Folli i bolognesi Le Braghe Corte, che per meglio ribadirlo
intitolano proprio così il loro secondo album. Un album che arriva a ben quattro anni
di distanza dal precedente per un gruppo che, sinceramente, avevamo un po’ perso
di vista. Loro invece non s’erano affatto persi, ma suonavano ed intanto lavoravano
sodo alla composizione. Un giorno poi arriva anche la possibilità di comporre una
colonna sonora, e il regista è tra i più “grandi” d’Italia: Rocco Siffredi. Ecco spiegato
perché è proprio lo Stallone Italiano ad apparire nel video di “These Boots Are Made
For Walking”, un arrangiamento à la Hormonauts coi fiati per il classico portato al
successo da Nancy Sinatra, con la speranza non troppo nascosta di entrare con
questo grimaldello nelle playlist nostrane. Il resto del disco però non è appiattito su
questo schema già visto; ci mostra infatti una band che, senza rinnegare la
componente ska, declina la propria musica in chiave rock. Ecco così fare capolino le
chitarre grintose e qualche ritmo sostenuto, come in “Somebody Said War?!” o nel
ritornello di “L.I.A.R.”. Non sempre questi innesti funzionano però alla perfezione,
mentre invece la macchina gira alla grande quando i nostri tornano a sonorità più
classiche, come il reggae di “Amsterdam”, che ospita una gradita, almeno da queste
parti, citazione da “Star Wars”. Se non fosse che potrebbe suonare offensivo
verrebbe da definire “King Of The Fools” il classico, ancorché perfetto, disco da
lunga estate calda. Ma, qui e ora, è un complimento di quelli meritati (
www.lebraghecorte.com).
Giorgio Sala
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Le Sifflet Public
Le Sifflet Public
Daigo Music/Deltadischi
“I Litfiba sono artisticamente morti, i Timoria sciolti come neve al sole, i Negrita
adesso fanno salsa: ragazzi non dovete far altro che ascoltare gli L.S.P.!”. Queste le
parole con cui si apre il comunicato stampa di presentazione dell’esordio – seguito
di due autoproduzioni, la prima delle quali a nome Mafaste – dei Le Sifflet Public.
Una dichiarazione di intenti impegnativa, a cui il quartetto non riesce a tener fede se
non in parte. Perché, pur dimostrando di muoversi abbastanza bene in un territorio
minato come quello del rock radiofonico (in) italiano, al crocevia tra visceralità e
orecchiabilità, i modelli di riferimento – dichiarati o meno – sono inevitabilmente
lontani. Del resto non si può certo chiedere troppo a un’opera prima, inevitabilmente
acerba e a tratti indecisa. Senza sparare troppo in alto, restano comunque una
dozzina di canzoni in cui la ricerca dell’appeal non va mai a discapito della sincera
fisicità del tutto (sebbene l’ombra dell’ultimo Renga si allunghi minacciosa sei
momenti più di atmosfera), con le chitarre a graffiare quando serve e a creare
languide tessiture quando i ritmi e le luci calano, e un cantato in cui la rabbia e
l’intensità non vanno mai sopra le righe. E se, come si diceva, non tutto gira per il
verso giusto e non tutti i brani lasciano segni profondi, vale comunque la pena
menzionare almeno l’acida “Sé per tre”, la drammatica “Mi muovo fermo” e una
“L’immortalità” melodicamente assai solida (www.lesiffletpublic.it).
Aurelio Pasini
Magni Animi Viri
Heroes temporis
autoprodotto
Sono tempi in cui è facile imbattersi in molteplici i casi di autoproduzione, non di
rado meritevoli di attenzione, ma quella di “Heroes temporis” dei Magni Animi Viri è
una storia assai diversa da intrallazzi caserecci a basso costo, trattandosi di una
produzione a dir poco sontuosa. Basti citare la presenza della Bulgarian Symphony
Orchestra e di musicisti internazionali come il bassista Randy Coven (Steve Morse,
Ark), il batterista John Macaluso (Yngwie Malmsteen, Ark, George Lynch), il
bassista Roberto D’Aquino (Edoardo Bennato, Gigi D’Alessio). Ma come sempre,
anche tra tanto dispiegarsi di mezzi, c’è un’anima del progetto: un’opera rock
classicamente intesa, a cura del pianista Giancarlo Trotta e del tastierista Luca
Contegiacomo, che hanno voluto e messo assieme tutti gli elementi capaci dar
peculiare rilievo alla centralità tematica e melodica. Il vestito sfarzoso, a partire dalla
pregevolissima grafica, l’enfasi sinfonica, sono aspetti estetici dominanti, tipici di un
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suono sinfo-metal-prog riscontrabile in ambito europeo, ma è la melodia a giocare
un ruolo decisivo. Una melodia tutta italiana, tra l’operistico e l’elegante pop
nazionale, a cui danno splendida voce, spesso in duetto, il tenore Francesco
Napoletano e l’espressiva Ivana Giugliano. Ed è soprattutto nel canto che sa
palpitare l’anima dei protagonisti del racconto musicale, colti in un percorso
atemporale e onirico, tra brume, cavalieri e storie d’amore, con brani come
“Desertanima” e “Sai cos’è?” a segnare momenti particolarmente toccanti. Un disco
consigliato a tutti i fruitori del progressive più vigoroso, epico e melodico, gestito
impeccabilmente in ogni suo dettaglio (http://www.magnianimiviri.com/).
Loris Furlan
Overmood
Sorry For The Setbacks
Suiteside/Audioglobe
Figli illegittimi dei Modest Mouse e dell’estetica Anticon? Fatte le debite proporzioni
con gli originali sembrerebbe proprio di trovarsi davanti ad un fenomeno di questo
tipo, ascoltando il debutto degli alessandrini Overmood. È soprattutto la voce di
Alessandro Bovo, anche autore dei testi, molto simile a quella di Isaac Brock nelle
cadenze e nelle ossessioni nervose, a far venire in mente il gruppo statunitense,
mentre le strutture delle canzoni, infarcite di elettronica, campioni e sintetizzatori,
riportano idealmente a cLOUDDEAD e soci, pur senza veicolare deviazioni troppo
marcate e trovate altrettanto geniali, rimanendo anzi al servizio di una struttura
compositiva classica. Il che non significa che i risultati non siano meritevoli di
attenzione. La scrittura è infatti agile ed estremamente pop, come evidenziato da
episodi quali la scanzonata “Winning Guitars”, tutta power chords e ritornelli a presa
rapida, la electro-funkeggiante “Flame-Red Lawn”, o ancora “Grain Of Hope”,
incerta tra chitarre sfrangiate e groove indolenti. Tirando le somme, in questi solchi
scorre parecchio entusiasmo e un gran gusto per le melodie e per i ritornelli efficaci,
mentre a tratti le giunture tra i mondi sonori che vengono fatti collidere, tra rock ed
elettronica, sono ancora troppo visibili. “Sorry For The Setbacks” è in ogni caso un
esordio sul quale puntare, che affronta un percorso ancora poco battuto e piuttosto
promettente (www.myspace.com/overmood).
Alessandro Besselva Averame
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Quinto Stato
Le ultime tracce di Mr. Tango
Midfinger/Venus
Chitarre dissonanti, ritmo serrato, voce sguaiata e incazzata: “Ecco, un altro disco
italiano”. Sembra sempre la solita storia vero? Invece, quello che ad un primissimo
impatto poteva sembrare un copione già visto, quello del disco ascoltato per motivi
professionali e poi accantonato da qualche parte tra tutte le altre robacce spacciate
per “nuove realtà della musica italiana”, si rivela essere un disco con tutti i crismi per
non passare inosservato. “Le ultime tracce di Mr. Tango”, secondo album degli
emiliani Quinto Stato è un solido esempio di rock come negli anni ci hanno fatto
intendere i Marlene Kuntz di “Ho ucciso paranoia”, i C.S.I. di “Ko de mondo” e, in
tempi più recenti, il Giorgio Canali di “Rossofuoco” e “Tutti contro tutti”. Non è un
caso, quindi, che sia stato registrato negli studi ferraresi di quest’ultimo e che si porti
dietro questa rabbia anarchica ed iconoclasta che riesce sempre a fermarsi prima di
scadere nel qualunquismo. Insomma, non la solita manfrina, ammesso che si sia
disposto a lasciar da parte i pregiudizi (e il sottoscritto ne è pieno, da sempre) ed
ascoltare la musica per quello che ha da offrire. Quindi, se da un lato questo rock
viscerale e al vetriolo può sembrare una soluzione di comodo, dall’altro, prestando
la dovuta attenzione ai testi, alla cura degli arrangiamenti e all’intensità con cui tutto
questo è suonato, possiamo proprio dire di essere davanti ad un bel disco. Niente
più, niente meno. Ed è già una gran cosa. (www.midfinger.net)
Hamilton Santià
Santunione Gasparazzo e la Bandabastarda
Tiro di classe
Terracalda/Self
Calore, energia, gioia di vivere, divertimento, ma anche malinconia e impegno.
Ecco cosa aspettarsi dai Santunione Gasparazzo e la Bandabastarda (o, più
brevemente, Gasparazzo e basta), formazione di stanza a Reggio Emilia ma il cui
nucleo proviene dall’Abruzzo. Una miscela esplosiva che prende corpo in un suono
“totale” e “globale” che fa suoi elementi mediterranei, mediorientali, balcanici,
africani e sudamericani, mescolati insieme a una puntina di rock fino a dar vita a
una patchanka multicolore e torrida. Tantissimi, quindi, gli odori e i sapori che si
alternano e si mescolano nelle dieci canzoni di “Tiro di classe”: gli intrecci tra
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percussioni e fisarmonica dell’iniziale “La margherita dell’amore”, il cui titolo
ironicamente non fa riferimento al fiore ma alla pizza, il reggae di “Mesci do’ tazz e
rulla nu truzz’” e il raga in levare de “Il bastardo”, e ancora lontani echi
messicaneggianti, intermezzi quasi teatrali e un finale (“Solami”) che più
“tatantolato” non si potrebbe. Un vero e proprio viaggio tra suoni e ritmi, tenuti
insieme con classe e allegria, che non è difficile immaginare travolgente in un
contesto live, ma che anche su disco diverte non poco. E, particolare di tutto rilievo,
fa anche pensare, come per esempio in titoli come “Americca” e “Georg Elser”
(dedicata al responsabile del fallito attentato dinamitardo a Hitler del 1939). Un
album estivo buono per tutte le stagioni (http://www.gasparazzo.it/).
Aurelio Pasini
The Green Man
The Teacher And The Man Of Lie
Hau Ruck SPQR
Già autori di un pregevole CD autoprodotto e di un EP in vinile pubblicato per
iniziativa della Hau Ruck SPQR, i Green Man approfondiscono le proprie inclinazioni
stilistiche e le tematiche religiose a loro care nel concept "The Teacher And The
Man Of Lie", uscito in primavera sempre sotto le insegne della citata etichetta
romana. Rievocando le figure di Cristo, Giovanni Battista e Maria Maddalena così
come sono rappresentate in alcuni vangeli apocrifi, il duo milanese si fa portavoce di
un radicale revisionismo del Nuovo Testamento cristiano. Peccato che l'uso
esclusivo della lingua inglese renda per lo più ostica – sia pure con libretto alla
mano – la comprensione di testi già pervasi di impegnativi concetti esoterici.
Come si accennava, anche da un punto di vista prettamente musicale il gruppo
rafferma la propria vena espressiva, incentrata su un ritualismo elettroacustico ricco
di influenze orientali. Il largo uso delle percussioni e le chitarre elettriche impiegate
come elementi di disturbo rimandano ai migliori cimenti dei Sol Invictus (quelli di
"Lex talionis", per intenderci); ma la ricerca folklorica è qui finanche più scrupolosa:
l'interpretazione di ancestrali melodie è così schietta e scevra di orpelli da risultare
credibilmente commisurata alle antiche nenie popolari dell'Alto Medioevo.
Valga sapere che il CD è stato pubblicato anche in edizione speciale, arricchita da
un 45 giri inedito e da un libretto che riproduce in formato 7" tutte le caratteristiche
pitture a tema di Maria Chiara Armenia (www.hauruckspqr.com).
Fabio Massimo Arati
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Zetazeroalfa
La balata dello stoccafisso
Rupe Tarpea/Perimetro
Sin dagli anni 70 i musicisti “di destra” hanno intrapreso numerosi tentativi per
ottenere visibilità e consensi anche al di fuori della militanza politica, di cui erano
esclusiva e caratteristica espressione. L'impresa si è sempre rivelata vana, vuoi per
i pregiudizi e l'imponenza del muro culturale cui si contrapponevano (che peraltro
amplificava le difficoltà logistiche e operative di tutto il rock indipendente), vuoi per il
livello artistico non sempre competitivo dei loro prodotti. Negli ultimi anni gli
Zetazeroalfa si sono tuttavia affermati – a Roma e non solo – come un fenomeno
mediatico non più ignorabile; dischi di qualità, concerti affollatissimi in Italia e
all'estero, merchandising che va a ruba, iniziative sociali e culturali ad ampio raggio:
nel bene e nel male il loro nome sta uscendo pian piano dal ghetto delle sezioni di
partito. Convergenza stilistica e contrapposizione rivoluzionaria li rendono i legittimi
antagonisti della Banda Bassotti, contesa peraltro recentemente consumata anche
sui palchi.
Dopo tre album in studio, un live ed una manciata di singoli, "La ballata dello
stoccafisso" segna la maturità del quartetto capitolino: un disco ruvido e potente;
rock‘n’roll aspro, spigoloso, ovviamente aggressivo, tanto nello stile vocale quanto
nei taglienti riff di chitarra. Il loro limite rimane certa goliardia di sapore squadrista,
che impedirà a due gioiellini hardcore come “Cinghiamattanza” e “Nel dubbio mena”
di essere apprezzati anche al di fuori degli ambienti politici (www.zetazeroalfa.org).
Fabio Massimo Arati
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Numero Settembre '07
Comaneci
Forse non si guadagnerà le migliori pagine delle riviste, ma l’esordio sulla lunga
distanza dei Comaneci ("Volcano", su Disasters By Choice/Wide) è uno di quei
dischi in grado di stupire. Saranno le loro melodie mai banali, saranno i loro intrecci
sempre tendenti a qualcos’altro chenon la semplice canzone, ma è uno di quegli
ascolti che ti fanno venire delle domande. Ecco le risposte della band ad alcune di
queste.
Come nasce l'esperienza Comaneci? Come si evolve, come arriva fino a qui?
Ci siamo incontrati circa 4 anni fa e abbiamo deciso di unire le nostre menti: da tre
almeno ne abbiamo ricavata una! Vivevamo nelle bidonville di Ravenna ad un passo
dai pescherecci, siamo usciti dalla miseria grazie a questo progetto…che anche se
di soldi ne ha portati pochi finora. Ci stiamo senza dubbio arricchendo, almeno
interiormente. A parte gli scherzi, viviamo nella stessa città e ci conoscevamo da
tempo…abbiamo provato a suonare insieme e i Comaneci sono nati in modo
piuttosto spontaneo. L’idea del nome è legata ad un’immagine di qualcosa di minuto
ma intenso e questo a nostro parere caratterizza il nostro percorso.
Siete arrivati a "Volcano" dopo due demo-EP autoprodotti e la partecipazione
ad una colonna sonora ("Provincia meccanica"). Il vostro esordio sulla lunga
distanza è arrivato a quattro anni dalla vostra formazione. Volevate aspettare
che i tempi fossero "maturi" o avete semplicemente seguito lo svolgersi degli
eventi?
Siamo fatalisti. Seguiamo sempre lo svolgersi degli eventi! Sicuramente il tempo ci è
servito per creare un progetto sempre più consistente che ci potesse portare alla
realizzazione di un vero e proprio album. L’immediatezza e l’istinto sono parti
fondamentali dell’approccio Comaneci tanto quanto la lentezza. La colonna sonora
è arrivata un po’ per caso ed è servita a farci conoscere.
Com'è avvenuto il contatto con la Disasters By Choice? Come mai avete
scelto lei?
In realtà è lei che ha scelto noi. Siamo partiti da una collaborazione con Fooltribe,
che ci ha permesso di suonare molto anche al di fuori della nostra città e di
incontrare persone che ci hanno sostenuto. Al Tago Fest di un anno fa abbiamo
incontrato Salvo della Distasters che ci ha proposto di fare un disco con lui e noi
abbiamo accettato. Poi il nome dell’etichetta ci piaceva molto!
Come sta andando la promozione del disco? Le recensioni mi sembrano tutte
molto buone... a livello di concerti?
Siamo molto contenti di come stanno andando le cose. Vendiamo molto quando
suoniamo e suoniamo molto… Quindi bene! Anche se non basta mai.
La vostra musica è molto trasversale. Spesso chi ne parla mette in luce le
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vostre melodie, ma ascoltando il disco non ho potuto fare a meno di notare un
arrangiamento che tende ad allontanarsi dagli elementi melodici per cercare
un colpo "a effetto". Cosa avete cercato di ottenere? Avete raggiunto quello
che volevate?
Per noi suonare è sempre un gran piacere e del disco siamo molto soddisfatti.
Quando abbiamo detto di aver messo insieme le nostre menti non era a caso, pur
avendo gusti comuni ascoltiamo anche generi diversi e di sicuro abbiamo formazioni
diverse. Inizialmente eravamo più melodici, con il tempo ci stiamo strutturando ed
evolvendo, imparando a conoscerci e dando sempre più valore alle potenzialità dei
nostri strumenti. Ci sentiamo comunque di essere solo all’inizio!
I vostri punti di riferimento sembrano pescare un po' ovunque lungo la
tradizione folk, ma ho notato certi "aromi" che arrivano direttamente dal
moderno folk "deviato". Soprattutto per quanto riguarda la voce. Si sentono
degli eco che arrivano fino ad Elizabeth Anka Vajagic, a Shannon Wright. Per
le musiche invece, sembra che l'orecchio vaghi tra Inghilterra e Canada (zona
Constellation). Da dove nasce questo eclettismo?
Per noi è un po’ implicito, nel senso che i nostri ascolti variano, così come, di
conseguenza, le influenze. Ci sentiamo un po’ istintivi nel fare musica, ma
altrettanto consapevoli. Da ascolti diversi nasce comunque ciò che ci accomuna.
Sarebbe bello piacere alla Constellation tanto quanto a noi piacciono i gruppi che
promuove!
In luce di questo eclettismo, come vi trovate in un paese come l'Italia? La
musica di questo tipo ha delle difficoltà ad arrivare anche in certi ambienti in
cui non si dovrebbero disdegnare progetti un po' trasversali rispetto alle
canoniche dell'indie. Non pensate che questo possa essere un po'
"limitante"?
Ma, in realtà non ci sentiamo limitati. Ci siamo trovati a suonare anche in contesti
molto differenti. È chiaro che ci piacerebbe poter suonare di più, magari anche
all’estero ma è principalmente un problema di fondi.
A cosa ambite come gruppo?
Alla copertina di "Ricamo e punto croce"!
Progetti per il futuro? Dove e come cercherete di evolvere il vostro sound?
È difficile dirlo. Vorremo fare cover di liscio…
Contatti: www.comaneci.org
Hamilton Santià
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Fuzz Orchestra
Esce per Wallace/Audioglobe l’esordio omonimo della Fuzz Orchestra, nuovo
progetto dei Bron Y Aur di Milano. Anche questi ultimi hanno appena fatto uscire il
disco nuovo e quindi si tratta di due progetti che vogliono convivere parallelamente.
La Fuzz Orchestra arriva tagliente come la punta di un diamante ed espleta quello
che sempre di più non ha voce: la verità. Parole quindi – a differenza delle abitudini
bronyauriane – per mettere sul piatto idee politiche, ma anche tecniche sopraffine di
composizione che si muovono verso nuove vie. Nostro interlocutore è Marco
Mazzoldi il batterista per entrambi i gruppi.
Sta per uscire il disco nuovo dei Bron Y Aur, ma come mai avete sentito il
desiderio di realizzare un altro progetto?
La Fuzz Orchestra è nata perché ai Bron Y Aur mancava il chitarrista, che difatti
vive a Cagliari mentre noi tre abitiamo a Milano. Questo non ci permetteva di
trovarci tutti e di suonare, quindi aspettando che accadesse abbiamo deciso noi altri
di dar vita a una avventura, differente non poco con quello dei Bron. L’idea era di un
progetto parallelo, così come d’altra parte il buon Fabio ha messo su i Plasma
Expander in Sardegna, altro gruppo uscito per la Wallace, e quindi non è che stiamo
con le mani in mano. Quando poi riusciamo ad esserci tutti e quattro si riparte con i
Bron Y Aur e infatti il disco nuovo mi sembra che lo stia testimoniando. Comunque
la Fuzz Orchestra è un progetto nato da poco: un paio d’anni. Avevamo cominciato
a sperimentare un po’ di cose nuove, rumori e improvvisazioni e in pratica il disco è
nato dopo tempo. Eravamo partiti con delle cose più minimali e alla fine invece,
siamo approdati su un genere più duro e con quest’idea che c’è subito piaciuta di
fare un duo chitarra e batteria più un disturbatore e narratore che è il buon Fiè,
bassista dei Bron Y Aur che qua non suona il basso ma giradischi, nastri, cassette e
rumori vari e soprattutto dà il suo contributo con parti di testo che nel disco della
Fuzz Orchestra sono piuttosto presenti.
Ecco ma quando nascono i pezzi, il vostro approccio è più verso
l’improvvisazione o verso la composizione?
Assolutamente verso la composizione. È la principale differenza con i Bron Y Aur
che continuano a improvvisare come gli è sempre piaciuto fare. Il disco della Fuzz è
composto da composizioni provate e riprovate e poi messe su disco; chiaramente
nascono da improvvisazioni, perché questo è sempre stato il nostro modo di
lavorare, però non sono improvvisazioni pure, come invece succede nei dischi dei
Bron Y Aur. È un progetto quindi ben preciso nato prima e messo su CD.
Quale figure del nostro tempo hanno influenzato la Fuzz Orchestra?
Tanto per cominciare i Bron Y Aur perché il nostro retroterra è lo stesso visto che
siamo tre quarti del gruppo. La Fuzz Orchestra ha nelle sue tracce, diversi contributi
che provengono da reali documenti, come interviste a partigiani o anti-rivendicazioni
radiofoniche da parte delle Brigate Rosse sulla strage di Bologna che dichiaravano
ad una radio libera dell’epoca di non c’entrare nulla. Poi ci sono stralci tratti da film a
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partire da “Pasqualino Settebellezze” a “Il potere”. Per cui, quello che c’è venuto in
mente è stato quello di far capire come la pensavamo su certe cose, soprattutto in
questo periodo di poca veritiera informazione politica e di scarso revisionismo.
Ultimamente, si è molto dibattuto sulla fucilazione di Mussolini in piazza che è
diventata improvvisamente un’azione scandalosa. Per quanto ci riguarda non è
proprio così e l’abbiamo voluto mettere su questo disco. Se tu ci chiedi quali
personaggi c’ispirano. Siamo stati influenzati dalla storia degli ultimi cinquanta anni.
E vorremmo rimediare dove molte cose stanno sparendo nel nulla, grazie ad una
controcultura e un’informazione molto discutibili.
Quando avete composto le canzoni per la Fuzz Orchestra pensavate di
proseguire per questo percorso o i Bron Y Aur, in ogni caso avrebbero
continuato?
Sono due progetti distinti e separati e infatti, in questi giorni assieme a Fabio venuto
su da Cagliari stiamo provando per Bron Y Aur delle scalette per i prossimi concerti
che faremo in settembre. Tra registrazioni e uscita del disco sono passati solo
quattro mesi, quasi un record per un’etichetta indipendente. Mentre per il disco dei
Bron Y Aur è necessitato il periodo di due anni per problemi di spostamenti vari del
nostro chitarrista, ma entrambi i progetti hanno vita propria.
Tra i due gruppi vuoi, mettere in rilievo altre differenze?
A parte la strumentazione musicale che è diversa, io sono il meno indicato a dire
come suona un disco e come l’altro. Il disco dei Bron è molto più rock‘n’roll, molto
vasto come atmosfere ed è molto più Seventies come suono, tanto è vero che
s’intitola “1973”. Il disco della Fuzz invece è molto più granitico. È una mezz’ora di
disco da tenere a volume molto alto.
Dove l’avete registrato?
Nella nostra saletta milanese, quindi nessuno studio. Abbiamo fatto tutto noi in
questo caso, perché l’abbiamo registrato e mixato. L’unico intervento esterno è stata
la masterizzazione, perché lì ci vogliono le macchine che noi non abbiamo, però
abbiamo fatto tutto noi tre inter nos.
Che difficoltà avete avuto con le registrazioni?
I casini ci sono sempre, però avendo già registrato con Fabio Magistrali, Paolo
Cantù, Xabier Iriondo o Simon Balestrazzi, ormai abbiamo fatto parecchia
esperienza. Tutta gente che sapeva come utilizzare le tecniche e soprattutto era
ben disposta a spiegarci come funzionano, quindi abbiamo fatto tesoro di queste
cose. E grosse difficoltà non ne abbiamo avute dal punto di vista della registrazione.
In passato abbiamo fatto degli errori che abbiamo pagato: come quando abbiamo
dovuto buttar via tutto ed è saltato un disco. Da quel punto di vista siamo
abbastanza ben messi adesso da essere indipendenti e questo è un ulteriore motivo
di soddisfazione.
Visto che la Wallace è sbarcata anche in Giappone, vi sono già arrivati dei
feedback?
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No, ma ce li aspettiamo. So che sono state prodotte già delle magliette bellissime
per il pubblico giapponese che sono andate a ruba. Per ora in Giappone sono andati
i Polvere e altri che non ricordo; per noi ancora nulla. So che faremo delle date in
Europa in compenso. La difficoltà maggiore è sempre di poter suonare in giro dal
vivo. Noi non campiamo di musica. Ognuno di noi hai il suo mestiere, quindi i tempi
sono sempre un po’ stretti e organizzarsi è sempre un problema per cui non siamo
di quelli che riescono a fare duecento date di seguito. Forse suoneremo in
Germania che sarebbe già una bella uscita per quanto ci riguarda.
Contatti: http://www.fuzzorchestra.com/
Francesca Ognibene
Jet Set Roger
Trascorsi punk, presente glam da dandy romantico, oggi scrive “canzoni tristi”. Un
filo rosso: il rock. Nato a Londra da padre bresciano e madre inglese, Roger Rossini
si fa chiamare “Jet Set”. La Snowdonia/Audioglobe ha pubblicato il suo primo album
solista “La vita sociale”.
Ci parli di te? Origini bresciane, nascita londinese…
Sono nato a Wimbledon nel ’73 da madre inglese, ma nel tennis sono una schiappa,
come in quasi tutti gli sport. Ero bravino con il fioretto elettrico, mi piaceva la
scherma perché ci si mascherava. Avevo la fissa dei travestimenti: mia madre era
preoccupata perché mi chiudevo in salotto e marciavo vestito da guardia inglese al
suono di “Pretty Ballerina” degli Abba. Ero indeciso fra la carriera militare e il
vaudeville, e così li mescolavo insieme.
Con quali ascolti musicali sei cresciuto?
A parte il primo flirt con gli Abba, ho ascoltato un sacco di hard rock (Thin Lizzy,
Blue Öyster Cult, Motörhead, AC/DC, Whitesnake). Il mio problema era che a
parte Phil Lynott, questa gente sembrava ok quando si trattava di chitarre elettriche,
ma aveva modi rustici. Pensavo: “Non potrei portarli da nessuna parte, farei una
figuraccia”. Poi vidi una foto di Nikki Sixx su “H/M”: aveva capelli cotonati e la matita
sotto agli occhi, con una giacchetta da dandy di città. Capii che il glam rock era
quello che faceva per me e mi gettai alla scoperta di David Bowie, Lou Reed, gente
che sapeva come muoversi nel bel mondo, e che non avrebbe mai ruttato ad un
vernissage.
In generale quali sono (stati) i tuoi riferimenti culturali più influenti?
Soprattutto Evelyn Waugh e P.G. Wodehouse, due facce della stessa ironia
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sprezzante. Il primo è caustico, il secondo più leggero, anticipatore di certe
atmosfere da commedia garbata. In genere cerco di smussare toni troppo
drammatici nelle mie canzoni. Sono affascinato da film come “Victor Victoria”,
“L’abominevole dottor Phibes”, “La Rosa purpurea del Cairo”. Opere riconducibili
all’estetica anni ’30, quelli in cui operavano Waugh e Wodehouse. Ho anche
riferimenti al di fuori di questa dimensione, ma resisto alla tentazione di gettarmi in
un lungo elenco: sono un maniaco compulsivo.
“La vita sociale” è il tuo primo album solista. Dopo quali esperienze ci sei
arrivato?
Dopo noiosissime e deprimenti traversie. Ho avuto un’esperienza di qualche anno
con le cosiddette major, da cui sono uscito triturato e masticato come una Big
Babol, poi ho incontrato Cinzia La Fauci (della Snowdonia, NdI) che mi ha regalato
una nuova vita musicale.
Perché hai scelto il parziale pseudonimo “Jet Set” (visto che la vita sociale
non fa per te)?
Da adolescente ero timido e schivo, ma penso di aver fatto pace con la vita sociale:
forse non sono un compagnone, ma riesco a farmi due risate. Quando si sciolsero i
Tommy Rot (il mio primo gruppo), ero rimasto solo: nessuno voleva suonare con me
perché non avevo pedigree. Lasciai il punk e iniziai a esibirmi come pianista
cantante. Dovendo suonare seduto al pianoforte era il caso di spingere
sull’immagine, e mi inventai una dimensione scenica: una specie di travestito
ingenuo e un po’ buffo. L’appellativo Jet Set viene da “Tenera è la notte” di
Fitzgerald. Mi piaceva l’idea di questi ricchi annoiati e depressi in perenne vacanza
autodistruttiva in Costa Azzurra.
Nonostante le tue ascendenze siano british, ti esprimi in italiano. Come mai?
Perché quando cantavo in inglese nessuno capiva un accidente.
Le tue canzoni delineano il ritratto di un “goffo cool”, se mi passi l’ossimoro.
Sicuramente un po' goffo, cool non lo so. Sarcastico, distaccato, ma i miei
atteggiamenti da dandy sono solo uno scherzo. Non c’è nulla di serio nel rock. Molti
non lo sanno e si rendono ridicoli.
Sono reali anche la tua misantropia e la tua tristezza?
Mi sento vicino a Jospeh Roth, l’autore della “Leggenda del santo bevitore”. Mio
nonno era ungherese, gli ungheresi sono malinconici. Sono l’unico popolo oltre ai
brasiliani ad avere un concetto per la “nostalgia di casa anche quando sei a casa”:
un perenne spaesamento. In brasiliano si chiama saudade, in ungherese suona
come “mulozog”, ma non so come si scriva (neanche noi, NdI).
Qual è la “vita sociale” accettabile per Roger?
Domanda difficile. Lucio Fulci diceva di non ritrovarsi nelle manie autopsicanalitiche
di colleghi come Dario Argento; preferiva svegliarsi ogni mattina senza sapere chi
fosse. È un esercizio arduo, ma ci provo. Mi viene bene quando la sera prima ho
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esagerato un tantino.
Qualcuno ha paragonato la tua musica a un incrocio tra Baustelle e
Morrissey. Cosa ne pensi?
Mi piacciono molto gli Smiths, e mi accorgo di somigliare un po’ a Morrisey nel
cantato, anche se avendoli conosciuti tardi, quando avevo già formato il mio modo
di cantare, posso dire di non esserne un emulo. Conosco e apprezzo i Baustelle
(suonammo insieme sei o sette anni fa). Ma a volte in questo tipo di pop raffinato
manca un po’ il sugo: io sono un rocker, e penso che il glam rock si senta parecchio
nella mia musica. Mi sento più vicino a gruppi come i Damned o Adam & The Ants.
Ci sono musicisti italiani che apprezzi?
Devo confessare di conoscere poco il rock e il pop italiano. Dovrò rimediare. Mi
piacciono il primo Edoardo Bennato, Alberto Camerini, i Diaframma e i CCCP. Poi ci
sono musicisti della mia generazione come Bluvertigo, Afterhours, Cristina Donà,
Baustelle, gente che stimo.
Domanda d’obbligo: prossimi programmi.
Sto finendo di registrare una canzone, “Manituana”, come il libro di Wu Ming. Sarà
pubblicata sul sito omonimo. A novembre registrerò il mio album di Natale, un misto
fra il cabaret anni 40 e la musica elisabettiana, rivisti in ottica dark-vaudeville, vedrò
come e quando pubblicarlo. A breve pubblicherò in rete una versione ampliata de
“La vita sociale”, che conterrà le versioni in inglese (sono madrelingua, che
diamine!). Nel frattempo sta circolando un documentario della B&B film su Che
Guevara: “Il corpo e il mito”. Il brano che si sente nei titoli di coda è “El Che chez
Roger”, la versione glam di “Hasta siempre comandante” che ho scritto come ideale
colonna sonora di “Havana Glam” di Wu Ming 5. Il brano è scaricabile dal sito di Wu
Ming. Per ora il film è passato sulla TV irlandese, e ci sono stati i primi contatti di
gente che chiede chi è il tizio che canta alla fine del film... Ho anche chiuso la
scaletta del mio secondo album, che si intitolerà “Canzoni Tristi”. E continuo a
cercare un’agenzia che mi trovi un po’ da suonare.
Contatti: http://www.jetsetroger.it/
Gianluca Veltri
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Port-Royal
“Afraid To Dance”, opera seconda dei genovesi Port-Royal, pubblicata come il
debutto “Flares” (2005) dalla label britannica Resonant (con distribuzione
Goodfellas), ci mostra una maturazione innegabile: soluzioni ambient trattate con
una sensibilità elettronica sempre più affinata, senza rinunciare alle suggestioni
melodiche - quelle di un rock di confine, “post” in una accezione niente affatto
scontata - che già avevano reso interessante l’esordio. Ne abbiamo parlato con i
diretti interessati.
Se il titolo del vostro secondo lavoro è "Afraid To Dance", mi pare che voi non
abbiate affatto paura di ballare, come dimostra la scelta di incrementare l'uso
dell'elettronica soprattutto attraverso l'inserimento di ritmi sintetici e
l'intensificazione, qua e là, dei BPM. Che origine ha avuto questa svolta, che
pur mantenendo una certa continuità "ambient" con il lavoro precedente
sembra avere lontane origine in certa IDM dello scorso decennio (un nome fra
i tanti: Orb) e in ascolti più recenti (certe soluzioni glitch)?
In effetti quella di incrementare l’uso di ritmi e suoni elettronici è stata una scelta
precisa maturata subito dopo l’uscita di “Flares”. Quell’album era ancora intriso di
una sensibilità diciamo post-rock e ambient, mentre frangenti più schiettamente
ballabili o “artificiali” erano principalmente racchiusi in un unico pezzo, cioè “Karola
Bloch”. Ecco, quello che a metà 2005 avevamo voglia di fare era, per così dire,
toglierci certi sfizi legati a scelte stilistiche più vicine a quel pezzo. D’altra parte i
nostri ascolti non sono mai stati legati a una matrice di rock strumentale più o meno
melodico per batteria basso e chitarra: abbiamo sempre sentito il bisogno di
fluidificare il sound con tastiere e delay e di arricchirlo con l’innesto di beats vari. E
la nostra passione per certa elettronica, come noti giustamente, viene da lontano,
dagli anni 90 e dall’ascolto dei primi dischi degli Autechre prima di tutto. Ci teniamo
anche a sottolineare che l’uso che facciamo di beats, glitches eccetera è sempre
stato e sarà sempre strumentale alla nostra ricerca melodica per chitarre e tastiere:
in questo senso “Afraid To Dance” mantiene più o meno il medesimo comune
denominatore di “Flares” quanto a mood e significati.
Permettetemi di farvi i complimenti per la profondità di suono del disco. Al di
là della qualità della scrittura o degli arrangiamenti mi pare che, dal punto di
vista strettamente tecnico, sia eccellente. E non è un caso, mi sembra di poter
dire, che abbiate affidato il missaggio finale a Murcof. Come siete arrivati a lui
e perché?
In questi due anni siamo entrati in contatto con diversi artisti soprattutto in merito al
progetto di remix di brani di “Flares”. Ne è nato un album che finalmente vedrà la
luce alla fine di quest’anno in edizione limitata, sempre per Resonant. Tra questi
artisti c’era anche Murcof, il quale all’epoca ci disse che non avrebbe potuto
partecipare al progetto, visti i suoi impegni, pur apprezzando molto il nostro lavoro.
Rimanemmo dunque in contatto e ci incrociammo anche in occasione di un paio di
festival in Italia. Al momento di decidere a chi fare masterizzare l’album – e ci
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teniamo a precisare che Murcof ha curato solo questo aspetto conclusivo e non il
missaggio finale delle varie tracce, aspetto per noi fondamentale e che non
potremmo mai delegare a terzi – venne naturale pensare a lui, visto che i suoi
album, che cura personalmente anche sotto quest’aspetto, hanno un ottimo sound.
In effetti siamo contenti del risultato finale, pensiamo che rispetto a “Flares” ci siano
stati dei progressi importanti, anche grazie a certi accorgimenti di base – cioè
precedenti alla fase del mastering – di cui siamo diventati avveduti col tempo
attraverso l’esperienza maturata.
La vostra storia musicale è iniziata subito oltremanica, e sta proseguendo
laggiù, discograficamente parlando, visto che entrambi i vostri dischi sono
usciti per la inglese Resonant. Come ci si sente a vivere questa dimensione
lontana, da un certo punto di vista, dall'affannarsi spesso controvento della
scena indie italiana, una dimensione che, ci tenete a specificarlo, vi sete scelti
da subito? Quali sono stati gli effetti concreti di questo approdo, se ve ne
sono stati? Vi ha permesso di avere maggiore visibilità altrove e magari,
paradossalmente, pure in Italia?
Sebbene si stia parlando di una realtà discografica di piccole dimensioni –
dell’ultimo album abbiamo per ora stampato 3000 copie, che non sono poche,
intendiamoci, ma certo non si sta parlando di numeri da capogiro – uscire per
un’etichetta come la Resonant ci ha dato la grande possibilità di avere uno sbocco
immediato su scala mondiale: siamo distribuiti ovunque e questa per noi era la cosa
più importante da ottenere sin dall’inizio, anche perché ci permette di andare a
suonare in moltissimi bei posti all’estero. La nostra, del resto, è una musica che non
ha niente di specificamente italiano, è musica di confine, universale, ed è giusto che
possa essere ascoltata ovunque. Secondo noi, ed è centrato quindi il tuo accenno, il
fattore Resonant e Inghilterra ci ha in parte aiutato per quel che riguarda
l’accoglienza – ottima – ricevuta dalle riviste e fanzine specializzate italiane, perché
si è un po’ creata l’immagine – non del tutto corrispondente a realtà – del gruppo
che non è stato capito qui da noi e che invece ha trovato spazio e consacrazione
all’estero, e il “mito” dei ragazzi di Genova che sono riusciti a farsi strada nel
mercato discografico internazionale…
Potrà sembrare una domanda banale, ma mi piacerebbe sapere come avviene
il processo di scrittura e come vi suddividete compiti e mansioni, soprattutto
perché, ascoltando il risultato finale, è difficile capire chi ha suonato cosa, da
quale strumento proviene un determinato suono... Inoltre la vostra musica
rappresenta da un certo punto di vista una specie di "astrazione" del concetto
di band, con confini poco netti tra gli ingredienti e molte sfumature.
Hai perfettamente centrato il punto: non abbiamo quasi nulla della band tradizionale
quanto a dinamiche interne, metodi di registrazione, approccio live e via dicendo.
Anzitutto registriamo ogni cosa in camera, a casa, con i nostri strumenti e i nostri
computer e lo facciamo con calma, nel corso di mesi/anni. Non esiste ovviamente
un processo standard di scrittura, ma di solito si procede a partire da un’idea
melodica su cui si costruiscono alcune varianti, per poi passare alla fase della
ricerca della struttura del pezzo e del suo arrangiamento, i due momenti più
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bisognosi di tempo e riflessioni, in cui il lavoro si fa più lento e dettagliato. Noi
amiamo dire che i Port-Royal restano fondamentalmente una band che suona, e
quindi non troviamo del tutto veritiero definirci come gruppo elettronico; però è un
fatto che quello che suoniamo spesso diventa quasi irriconoscibile, viene cioè
scomposto, risistemato, processato; il risultato finale che vogliamo ottenere è quello
di un unicum dotato di grande fluidità, allo stesso tempo profondo ed etereo,
levigato ma anche concreto, ricco eppure per certi verso minimale.
Musica e immagini, un connubio che ha sempre solleticato sia musica che
arti visive. Per voi si tratta di un elemento fondamentale, soprattutto dal vivo.
Più che un ulteriore mezzo di espressione mi sembra di capire che sia una
parte inscindibile di Port-Royal. All'epoca di “Flares” progettavate un disco di
remix al quale allegare un DVD, c'è qualcosa che bolle in pentola attualmente?
Come abbiamo accennato prima un album di remixes delle canzoni di “Flares”
uscirà alla fine dell’anno, ma non ci sarà nessun dvd allegato. Per noi, comunque,
l’elemento visuale è decisivo, soprattutto per i concerti. L’artista - che ora si è
trasferito da Genova a Berlino - che cura i visuals per i nostri live, Sieva
Diamantakos, è diventato un membro a tutti gli effetti del gruppo. Pensiamo che un
certo tipo di immagini, un certo tipo di montaggio, possa offrire sensazioni ulteriori a
chi ascolta la nostra musica, nuove chiavi di lettura, rappresentando un
arricchimento importante. Si tratta peraltro di un percorso che non deve mai farsi
scontato e che speriamo nel futuro di approfondire e variare ulteriormente; al
momento però non sappiamo esattamente che tipo di progetti potranno nascere.
Contatti: www.port-royal.it
Alessandro Besselva Averame
Supernaturals
Supernaturals è il frutto della collisione sonora di due band dell’underground italiano
di area heavy-psych: gli Ufomammut, band-culto apprezzata anche all’estero, e gli
esordienti Lento. “Record One”, primo capitolo sulla nostrana Supernatural Cat, è
una jam session improvvisata che si snoda lungo sei tracce a base di psichedelia,
stoner, doom, post-rock e ipnotiche aperture space/ambient. Abbiamo intervistato
alcuni membri di questo singolare supergruppo per fare il punto della situazione.
Spiegatemi come è nato il progetto “Supernaturals”. Cosa accomuna
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musicalmente due band come Ufomammut e Lento, rispettivamente dediti allo
stoner doom e al post-rock?
Poia (chitarra Ufomammut): Al solito, le definizioni di genere non ci aiutano. “Helter
Skelter” dei Beatles potrebbe essere protopunk psichedelico, apparentemente
distante anni luce da “Let It Be”. Eppure qualcosa le accomuna.
Lorenzo (chitarra Lento): Sinceramente credo che la nostra musica sia quanto di più
lontano dal post rock, come credo che quella degli Ufomammut sia quanto di più
lontano dallo stoner. Ci accomunano sicuramente molti ascolti, ma soprattutto
l'attitudine.
Urlo (basso e voce Ufomammut): C'è del metal di mezzo, ma mi auguro che si vada
un po’ oltre. Appena entrati in studio ci siamo subito trovati in sintonia, sembrava
che suonassimo insieme da anni.
Vita (batteria Ufomammut): I migliori progetti spesso nascono dal nulla, soprattutto
quando l'interesse comune è la musica, Ufomammut è un esempio. Comunque è
bello mischiare le proprie idee con altri musicisti e trasformarle in suono.
Nel disco affiorano dilatazioni space/ambient e inserti elettronici, uniti a riff di
chitarra pesanti e ossessivi, che creano atmosfere oscure e spettrali. Tutto ciò
è frutto di una autonoma scelta artistica o vi ispirate a qualche band in
particolare?
V: I Beatles dichiararono che senza Elvis non sarebbero esistiti, e il "re del r'n'r" non
avrebbe avuto la corona se prima di lui non ci fossero stati i grandi cantanti blues
degli anni 30/40. L'importante è che si prenda l'ispirazione dai grandi della musica
che ti hanno preceduto, non cercare di clonarli come purtroppo fanno in tanti.
In altre occasioni avete dichiarato di essere musicalmente ispirati da gruppi
come Beatles, Pink Floyd e Mogwai più che da band-culto dell’heavy psych
come Sleep ed Electric Wizard. Confermate? Quali dischi di queste band
amate di più?
P: Gli Sleep li ho sempre amati. I Mogwai li ascolto molto poco, i Wizard sono
derivativi. Dei Beatles non so cosa scegliere, mentre considero i Floyd fino a “The
Final Cut” (in realtà “Dark Side Of The Moon” e “Animals” mi piacciono meno).
U: EW sono un gruppo inutile, appunto. C'erano già gli Sleep, che sono una delle
mie band preferite. Tutto o quasi è stato detto e fatto dai Beatles che con dischi
come il “White Album” e “Abbey Road” si sono spinti oltre. Poi ci sono pezzi come
“Tomorrow Never Knows” che devono essere stati suggeriti dagli alieni. I Pink Floyd
per me sono “Meddle”, quindi tutto il resto è ok, anche se non mi fanno impazzire da
dopo il ‘76. Dei Mogwai adoro “My Father, My King”. Oggi non li reggo molto perché
il panorama è saturo di cloni che escono da ogni dove.
V: E' una questione di gusti, per prima cosa non trovo che gli Electric Wizard siano
tanto psych e comunque non mi sono mai piaciuti. Gli Sleep e i Mogwai mi
piacciono ma non mi hanno mai fatto impazzire e li ascolto poco. Riguardo agli Dei
Beatles e Floyd cosa dire? Mi piace tutto, ma da “Revolver” in avanti i Fab Four
hanno dato il meglio, mentre i Pink Floyd li adoro fino a “The Final Cut” compreso,
poi il buio più totale.
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Toglietemi una curiosità: ci sono riferimenti satanici o “luciferini” nella vostra
musica?
P: La religione, di qualunque natura essa sia, distoglie dalla verità. Lucifero e Dio
sono la stessa persona: l'uomo. La religione è letteratura. Il male e il bene sono il
risultato di azioni prodotte dalla mente umana: noi siamo responsabili di ciò che
facciamo.
V: Non credo in Dio né tanto meno a Satana, Buddha piuttosto che Maometto. Le
religioni servono solo a chi non ha voglia di far funzionare il cervello, scegliendo di
vivere seguendo la corrente. La Bibbia è un romanzo, un racconto dal quale è stato
mitizzato un uomo creando un alone di mistero intorno. E' come se oggi nascesse
una nuova religione basata sulle miracolose magie di Harry Potter o Mago Merlino,
in fin dei conti credo che con la bacchetta magica fossero anche loro in grado di
moltiplicare i pani e i pesci, e soprattutto di trasformare l'acqua in vino! Anche io
cercherei di salvare una prostituta dalla lapidazione, anche io professo pace, libertà
e uguaglianza per tutti, ma non perché l'ha detto Gesù né tanto meno per imitarlo,
bensì perché è così che dovrebbe funzionare il mondo e basta! Il paradosso è che
sono proprio coloro che seguono e diffondono la parola di Dio ad usare e abusare
della fede per i loro sporchi interessi.
La vostra attività musicale procede parallelamente al progetto
grafico/artistico di Malleus, noto a livello internazionale per aver realizzato
poster di Blues Explosion, Stooges, Cure, Korn, QOTSA, Beck, Mark Lanegan.
Come e perché è nato Malleus? Possiamo azzardare un confronto con la
Man’s Ruin di Franz Kozik?
P: Malleus è la terra di mezzo tra musica e immagini, nacque dalle ceneri del dottor
Genialis (Urlo ed io) che si occupava dei manifestini e delle copertine dei demo su
cassetta dei Judy Corda, la nostra prima band.
U: Penso che la nostra visione discografica sia parecchio distante dalla Man's Ruin
di Kozik. Noi suoniamo e ci siamo fatti un'etichetta perché ci siamo stufati di
dipendere da altri. Credo che il nostro discorso potrebbe avvicinarsi più a etichette
come Ipecac o Hydrahed in cui un musicista si fa l'etichetta. La Man's Ruin ha dato
vita a un genere, ha aperto gli occhi su una certa musica. Poi è scoppiata. Speriamo
di non fare la stessa fine.
Supernatural Cat è l’etichetta che ha stampato “Lucifer Songs” degli
Ufomammut (insieme all’inglese Rocket Recordings) e l’album dei
Supernaturals. Da chi è gestita e quali sono i suoi progetti futuri?
P: Supernatural Cat nasce dal concetto del fai da te. Dopo alcune deludenti
esperienze discografiche, gli Ufomammut si sono rivolti a noi per cercare qualità e
attenzione al dettaglio made in Ialy. Insomma ci siamo rivolti a noi stessi.
U: Oltre a Ufomammut e Lento siamo fieri di avere i Morkobot in Supernatural Cat,
una delle migliori band che girano oggi. Progetti futuri sono il primo disco dei Lento
(un gioiello dal titolo “Earthen”), il nuovo lavoro di Ufomammut, alcune ristampe su
vinile e probabilmente FarwestZombee (progetto che vede componenti di
Ufomammut e partecipazioni di differenti artisti stranieri).
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Contatti: www.supernaturalcat.com
Gabriele Barone
Taxi
L’intervista che non avresti mai voluto fare. E dire che, fin dal primo ascolto, il nuovo
disco dei Taxi “Yu Tolk Tu Mach” (GonnaPuke/Goodfellas) mi era sembrato un
lavoro fresco e ben fatto. Purtroppo però un destino particolarmente stronzo s’è
accanito sulla formazione romana, portandosi via una notte di giugno Francesco,
che del gruppo non era semplicemente il batterista ma molto, molto di più. Le
domande, che prima mi apparivano serie e meditate, hanno perso buona parte del
loro significato, ma forse la musica è il modo più bello per ricordare una persona che
la faceva. Almeno lo spero. Un grazie di cuore a Lorenzo (chitarra) e Tenda (voce)
che, nonostante tutto, hanno trovato il tempo per rispondermi.
Viene difficile, sempre che sia necessario, etichettare la vostra musica. C'è
qualcuno a cui, per musica o attitudine, vi sentite più affini?
Siamo cresciuti ascoltando punk rock ma non ci siamo mai sforzati troppo di
assomigliare a qualcuno in particolare, abbiamo voluto fare di testa nostra. Il nostro
sound è unico. Se però devo fare un nome credo che il gruppo al quale ci
avviciniamo di più siano gli inglesi Slaughter And The Dogs.
Non si può non notare il balzo in avanti che avete fatto con "Yu Tolk Tu
Mach". Credete che sia stato solo il suonare assieme a portarvi questo
risultato o secondo voi c'è qualcosa d'altro?
Suoniamo insieme da quando avevamo 13 anni e come Taxi dalla fine del 1997,
proprio per questo, sul palco ci capivamo con uno sguardo e anche se tecnicamente
non eravamo infallibili, questo passava in secondo piano. Credo che tutti i nostri
dischi siano differenti tra loro, “Yu Tolk Tu Mach” lo è soprattutto per il suono. Il
disco, infatti, è stato registrato in coproduzione con i ragazzi di UFO Hi-Fi che
dobbiamo ringraziare per la loro competenza e disponibilità.
Come siete riusciti a farvi "regalare" una canzone inedita da Clive Jones? E
come mai la scelta per l'altra cover è caduta su Serge Gainsbourg, di certo
non qualcosa subito assimilabile a voi ma che suona incredibilmente bene.
Nel nostro primo album c'è una cover degli Agony Bag, che furono il secondo
gruppo di Clive Jones dopo i Black Widow. Un giorno mi arrivò una e-mail proprio da
Clive dicendomi che aveva sentito il pezzo, che gli era piaciuto tantissimo e che
sarebbe stato contento di "regalarci" un brano che gli Agony Bag avevano scritto
alla fine degli anni 70. Pochi giorni dopo mi arrivò un pacchetto con il testo ed una
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cassetta audio, registrata malissimo, con la versione originale di “Hard Times”. Tutto
quello che ne è scaturito lo puoi ascoltare nel disco. Per quanto riguarda la cover
decidemmo di fare "Qui est in, qui est out" di Serge Gainsbourg prima di un nostro
concerto a Parigi, la canzone c'è piaciuta, veniva bene e così abbiamo deciso di
registrarla per inserirla nel disco. È stato qualcosa di assolutamente improvvisato ed
istintivo, non calcolato.
Incidete sia per l'italiana GonnaPuke che per l'americana Dead Beat, avete
così la possibilità diretta di confrontare i due mercati: cosa c'è di differente e
di simile per un gruppo come voi? Per i contatti in America hanno influito le
recensioni ultrapositive oppure è successo il contrario?
Sinceramente non so quali siano le differenze tra i due mercati, probabilmente la
cosa più importante è che in America si vendono più dischi, e quindi il mercato è più
vivo sotto tutti i punti di vista. Devo però dire che con l'uscita del nostro primo album
"Like A Dog" per l'americana Dead Beat le cose sono notevolmente cambiate; sono
uscite molte recensioni ed interviste per fanzine varie e, quasi di conseguenza, sono
arrivati i due tour americani. Di sicuro questo ha portato una maggiore
considerazione verso di noi anche in Italia, è stata una sorta di legittimazione a
posteriori.
In tema di America avete intenzione di ritornarci presto in tour?
Non credo, alla luce di quanto successo, che suoneremo ancora assieme.
Non so che dire, e credo che in certe situazioni forse è meglio proprio stare
zitti. Immagino non ne abbiate molta voglia di parlare, ma se ve la sentite
potreste tracciare un ricordo di Francesco per chi non lo ha conosciuto…
Una tempesta, un ciclone che investiva e divertiva tutti quelli che incontrava. Un
uragano di gioia pura, sincera che lasciava immediatamente il segno nei cuori di chi
lo conosceva o nell'angolo dei ricordi più belli di chi lo incrociava per la prima volta,
anche se per pochi attimi. Un amico, un amico vero, uno di quelli che l'amicizia la
vivono nella sua forma più semplice e pura, un cuore immenso sempre pronto a
dare anche quando magari forse era meglio fermarsi e ricevere ogni tanto qualcosa.
Una parola, un sorriso, una chiamata o una battuta inventata li per li c'era sempre,
anche quando non te lo aspettavi. Solare, esuberante, della musica non gli fregava
nulla ma i Taxi dovevano rompere, e lui era il primo che pestava quel rullante da
romperti i timpani. È difficile trovare amici veri. Noi lo eravamo, lo siamo e lo saremo
per sempre.
Contatti: www.petrosh.it/taxi
Giorgio Sala
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Beatrice Antolini
Friction Festival, Spilamberto (MO), 1 luglio 2007
Due tastiere, un basso, una batteria e una chitarra, per mezz'ora di musica
spumeggiante. Questa Beatrice Antolini al Friction Festival di Spilamberto (Mo).
Un'entità confusa tra i colori dei suoni ma precisissima negli attacchi, rapita dal
dialogo serrato tra gli strumenti – apprezzabile, in questo senso, il lavoro della band
di supporto - ma capace di non perdere di vista l'unità dell'insieme. Impegnata anzi
a riproporre quel quadro variopinto che è “Big Saloon” con cura e senza cedimento
alcuno, grazie anche ad una coesistenza armonica tra carisma e tecnica.
Lo stile arrembante della proposta contribuisce, in dimensione live, a rendere il
quadro generale ancor più appetibile: merito di una scrittura che spazia tra forward
rapidissimi di piano – “Topogò (Dancing Mouse)” – e geometrie irregolari – “Bread &
Puppets” –, psichedelia – “Monster Munch” – e atmosfere sognanti – “Lazy Jazy” –,
unita a un notevole fiuto per la melodia. Melodia veicolata in maniera sorprendente
dalla voce e dai saliscendi ritmici del piano, elementi peculiari di una musica che
superata brillantemente la prova del disco d'esordio, si conferma anche on stage
come una delle scoperte più elettrizzanti del panorama indie di casa nostra.
Fabrizio Zampighi
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Les Jumeaux Discordants
Un’elegante confezione in cartoncino racchiude il CD-R di debutto dei Les Jumeaux
Discordants: sei validi episodi di matrice dark, contraddistinti da testi in inglese,
francese e latino. La formazione nasce dal sodalizio tra Roberto Del Vecchio
(artefice di tutte le musiche) e Aimaproject (testi e voce), entrambi precedentemente
già attivi in ambito neofolk.
Principale obiettivo dei “gemelli discordanti” è creare un’interazione tra poesia,
musica e arte visiva; pertanto non lesinano riferimenti colti: “Le destin” è tratta da un
poema di Gérard de Nerval, i versi di “Almus spiritus” sono di Sallustio e lo stesso
brano racchiude un campionamento da “Il trionfo della volontà” della Riefenstahl.
L’incontro di queste diverse forme espressive è scandito da atmosfere elettroniche
dalle tinte fosche, a tratti sinistre, a volte dolcemente malinconiche.
Il CD-R esce in tiratura limitata a cento copie col marchio della Misty Circles e
distribuzione Hau Ruck SPQR, e può essere in parte ascoltato sul sito
www.myspace.com/lesjumeauxdiscordants.
Fabio Massimo Arati
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