Università degli Studi di Milano Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in Filosofia Tesi di Laurea di Mario Domina Matricola n. 262596 IL SELVAGGIO, IL TEMPO, LA STORIA Antropologia e politica nell'opera di Jean-Jacques Rousseau Relatore Char.mo Prof. Renato Pettoello Correlatore Chiar.mo Prof. Luciano Parinetto Anno Accademico 1996/97 Indice p. III Premessa I. Il “selvaggio” tra mito e scienza (da Montaigne a Montesquieu) 2 5 11 22 1. Il dibattito sulle origini del Nuovo Mondo 2. La critica dell'etnocentrismo in Montaigne 3. L'immagine del selvaggio e lo stato di natura 4. Teoria dei climi e sauvagerie in Montesquieu II. L'uomo naturale e il selvaggio nei Discorsi di Rousseau 39 45 49 55 70 73 79 88 90 1. Età dell'oro e degenerazione 2. Le basi dell'antropologia roussoiana Metodo ed esperienze Il selvaggio, i selvaggi: prototipo ed exempla 3. L'uscita dallo stato di natura Il ruolo dell'hazard nella storia congetturale Popoli selvaggi e barbarie: il livello intermedio delle “società nascenti” Al di là del Discours sur l'inégalité: percorsi per una “resurrezione” possibile dell'uomo naturale 4. La Tahiti mitica di Diderot III. La sintesi di “natura” e “cultura” 99 108 111 125 129 132 142 1. L'isola di Clarens 2. La formazione dell'uomo naturale Necessità e sensibilità L'ordine morale «Riunire i vantaggi dello stato naturale con quelli dello stato civile» 3. Natura e convenzione: dall'antropologia del sauvage alla politica del citoyen 4. Rousseau scisso, Jean-Jacques sauvage IV. Antropologia e storia 156 160 163 172 184 194 1. Un breve riepilogo ed un chiarimento dovuto 2. Il selvaggio, il tempo, la storia Excursus. Alcune note sull'“idéologie rousseauiste” di Lévi-Strauss 3. La nozione di progresso: Voltaire contra Rousseau 4. Rousseau e la “società immaginaria” Bibliografia II Premessa Sono ormai trascorsi cinquecento anni da quando gli Europei hanno scoperto, o hanno creduto di scoprire, i “selvaggi” del Nuovo Mondo. Oggi, che di quell'umanità più espropriata che esplorata rimangono poche vestigia e molte macerie, e dopo che l'etnologia e l'etnografia ce lo hanno ampiamente documentato, sappiamo essersi trattato di un complesso straordinariamente variegato di culture, di organizzazioni sociali, di costumi e di modi di vita. È vero però che i selvaggi, come ha osservato Cocchiara, sono stati più un'invenzione che una scoperta, e proprio per questo un denso ricettacolo di simboli, di paradigmi, di metafore – in ogni caso «uno dei maggiori protagonisti della nostra storia» dal ‘500 ad oggi . Un'invenzione cui, a parere di Gliozzi, se ne sarebbe sovrapposta 1 un'altra di carattere storiografico: quel mito del buon selvaggio desumibile dalla letteratura francese dei secoli XVI e XVII e concernente i viaggi, le esplorazioni, gli stanziamenti coloniali degli Europei nel Nuovo Mondo, mito che avrebbe poi celebrato i suoi fasti nell'epoca dei lumi, a voler ben guardare è più una costruzione ideologica della storiografia tra ‘800 e ‘900, di quanto in realtà non sia direttamente reperibile nei récits e nelle opere che ad essi si ispiravano . 2 Diventa così difficile penetrare la spessa cortina del tempo e della storia, che su quella figura – che pure doveva essere l'immagine della purezza e della semplicità delle 1 Cfr. G. COCCHIARA, L'eterno selvaggio. Presenza e influsso del mondo primitivo nella cultura moderna, Il Saggiatore, Milano 1961, pp. 15-16. 2 Cfr. G. GLIOZZI, Il mito del “buon selvaggio” nella storiografia tra Ottocento e Novecento, saggio apparso nel 1967 nella “Rivista di filosofia”, LVIII, ora in Differenze e uguaglianza nella cultura europea moderna. Scritti 1966-1991, a cura di A. Strumia, Vivarium, Napoli 1993, pp. 25-81. III origini – hanno finito per depositare la molteplicità di simboli rilevata da Cocchiara, proiezioni tutte generate da problemi interni alla civiltà europea e che poco spazio hanno lasciato all'osservazione oggettiva, non eurocentricamente orientata, dell'alterità che nel Nuovo Mondo si era nel frattempo venuta profilando. Le estese ricerche di Sergio Landucci e di Giuliano Gliozzi, pur nella diversità dell'approccio, oltre che dei limiti temporali, hanno senz'altro chiarito che la figura del selvaggio appare quanto mai poliedrica e complessa, proprio perché inestricabilmente connessa alle diverse posizioni ideologiche, culturali o “nazionali” dei vari autori che vi si riferiscono. Quella poliedricità, manifestatasi in un arco temporale che va all'incirca da Montaigne a Montesquieu, troverà infine una sua poderosa sintesi, così da costituirne per certi versi la pietra angolare, nel pensiero antropologico di Jean-Jacques Rousseau. Il presente studio, che ha come proprio oggetto specifico il significato che la figura del selvaggio viene via via assumendo entro lo sviluppo del “sistema” roussoiano, muove però dalla critica netta del tradizionale assunto secondo cui egli sarebbe il maggior rinnovatore settecentesco del mito (mito che, peraltro, è dubbio sia mai esistito, se non in una parte minoritaria della letteratura). Certo, per quanto concerne Rousseau si deve tener conto anche di talune connotazioni rievocative dell'età dell'oro, della mistica della natura o della nostalgia della semplicità delle origini, tutte cose legate forse all'«interpretazione del primitivo che è in noi» di cui ha parlato Mircea Eliade; ma l'interesse precipuo per i selvaggi finisce per operare in ambiti che con il mito non hanno più a che fare: proprio perché le società selvagge si sono arrestate ad un certo punto dello sviluppo storicoantropologico, rendono con ciò più agevole la ricostruzione dell'ipotetico uomo primitivo del puro stato di natura, e del delicato passaggio natura-cultura, fornendo ad un tempo un modello antropologico ed un tipo di società utili (forse) a suggerire IV percorsi alternativi al processo di snaturamento e alla dialettica storica delle diseguaglianze socio-economiche che quel processo comporta. La figura del selvaggio si collocherebbe in tal modo al centro della storia della specie (che non è la storia dell'Antico Mondo): in primo luogo evocandone il passato e contribuendo metodologicamente all'ascesa vertiginosa alle origini, visto che nel caso di alcune culture primitive non vi sarebbe stato un allontanamento radicale dal puro stato di natura (fatto ad esempio constatabile presso i Caraibi o gli Esquimesi); in secondo luogo i popoli selvaggi sono nondimeno collocabili entro un segmento temporale – uno stadio – ben determinato; infine il selvaggio rinvia, pur non identificandosi con esso, all'uomo naturale e ad un tipo ideale di società che non si pongono affatto fuori della storia, ma che sono attingibili in un futuro utopico da prefigurare ed insieme ricostruire. Quest'ultimo aspetto denota a nostro parere una concezione della politica – del contratto sociale e della sua futura istituzione storica – che non può non tener conto di un modello antropologico alternativo (ideale ed utopico, appunto) a quello storicamente realizzatosi, respinto da Rousseau in maniera inequivocabile. D'altro canto, ci pare di dover simmetricamente criticare una lettura che, privilegiando il lato antropologico, finisce per relegare ai margini il discorso più propriamente politico (ed eventualmente rivoluzionario). A tal proposito, nel dichiararci grati debitori dell'entusiastica lezione che Lévi-Strauss ha saputo impartire attraverso la sua nota ed originale rilettura dei testi roussoiani, dobbiamo tuttavia denunciare con Michèle Duchet il pericolo grave di separazione ideologica che dall'aver eletto Rousseau a primo etnologo e fondatore delle scienze umane potrebbe derivare: la frattura tra antropologia e politica sembra recare con sé il rifiuto dell'agire politico ed in ultima analisi la rinuncia alla dimensione storica propria della specie – luogo per eccellenza della libertà e della perfettibilità, dunque della trasformabilità dell'esistente . 1 1 Si veda in proposito il capitolo “Le rousseauisme de Claude Lévi-Strauss ou le V Nessun ritorno nostalgico alla natura appare pertanto desiderabile, e neppure la fuga verso lontane sponde esotiche: Rousseau è un osservatore serio ed attento del mondo selvaggio (auspica anzi che la filosofia cominci finalmente a viaggiare, e non solo in compagnia di mercanti e di cannoni), e tramite esso – il più lontano e diverso – ha modo di studiare integralmente l'uomo, conoscenza che si ottiene, come avverte nel Saggio sull'origine delle lingue, coll'«imparare a spingere lo sguardo lontano», proprio perché «occorre prima osservare le differenze per scoprire le proprietà». Riflessione eminente, dunque, intorno a identità e diversità: contro quel che pensa uno dei suoi maggiori studiosi americani, Rousseau è coerentemente antietnocentrico (pur esaltando le patrie) e, insieme, radicalmente anticolonialista. Il programma di superamento dell'uomo etnocentrico delineato di recente da Remo Cantoni, trova anzi in lui, dopo Montaigne, un ineguagliabile sostenitore, se è vero che l'interesse per le scienze umane (ambito della conoscenza fino ai suoi tempi trascurato, come è detto nel Discours sur l'inégalité), e l'impulso dato al loro sviluppo, in particolare all'antropologia, contribuiscono in misura notevole, e potremmo dire in via preliminare, alla critica del pregiudizio etnocentrico. Ed è proprio da qui che partiremo. Dal contraccolpo che la novità e radicale diversità del Nuovo Mondo provoca negli uomini di cultura e nei filosofi dell'epoca moderna. Ciò ci consentirà inoltre di raccogliere i lati sparsi della poliedrica figura del selvaggio e di vederne il riproporsi complessivo ed emblematico nella filosofia di Rousseau. Seguiremo il dispiegarsi della sua eco non solo nei Discorsi e nell'Emilio, dove i riferimenti alla sauvagerie sono più cospicui e frequenti, ma anche nell'opera più tarda e, se così possiamo dire, fin dentro l'esistenza tormentata di un Jean-Jacques scisso territoire de l'ethnologue” in M. DUCHET, Le partage des savoirs. Discours historique, discours ethnologique, La Découverte, Paris 1984, pp. 192-218. VI ed in fuga dal mondo. Vedremo così emergere, se la nostra lettura è corretta, un paradigma che allude insieme all'uomo naturale (cifra e summa di tutto il pensiero roussoiano) e ad alcuni suoi tratti esistenziali, oltre che ad un modello di società nascente che non necessariamente sia da confinare nei tempi mitici dell'età dell'oro: alla definitiva interdizione del ritorno alle origini non corrisponde infatti l'inesorabilità del corso storico, entro cui è anzi prospettabile un'eventuale mutazione antropologica. Se da tutto ciò dovesse poi nascere l'impressione di un qualche cedimento alle illusioni primitivistiche derivanti dalla nebulosa dell'idéologie rousseauiste, sì aspramente combattuta dalla Duchet, si tratterebbe probabilmente di un moto inconscio, un esito non voluto e non perseguito razionalmente – generato forse da quell'universale disagio della civiltà indagato da Freud, e che è del resto trasversale alle culture (oltre che comune agli individui). Ma crediamo che proprio uno studio sistematico dell'antropologia roussoiana, del posto che la figura del selvaggio non miticamente intesa vi occupa, possa svolgere un'importante funzione chiarificatrice circa la radicalità di un pensiero che ben poco si nutre o si illude di impossibili ritorni ad edenici mondi perduti. VII VIII