Mariano Fresta Indirizzi Illuministici e Preilluministici La scoperta dell'America fu un evento che, oltre a condizionare gli sviluppi storicoeconomici del Vecchio Mondo, costrinse gli Europei a rimettere in discussione la loro concezione del mondo e gli schemi tradizionali della loro cultura umanistica e religiosa. Il contatto con gli indigeni americani, infatti, pose il problema del "selvaggio" e riaprì le questioni sui "barbari" e sull'origine naturale dell'uomo, sullo "stato di natura”, sull'origine e sugli stadi di sviluppo delle società, sui criteri con cui distinguere le razze umane, sulla diversità dei costumi, delle leggi, delle religioni, dando così il via ad un ampio e prolungato dibattito che interessò filosofi, giuristi e teologi. Le prime valutazioni sulle popolazioni del Nuovo Mondo, a parte quelle di Colombo che aveva tutto l'interesse a sottolineare la bontà della sua scoperta, furono negative: l'homo americanus venne via via rappresentato da teologi e giuristi come un bruto, incapace di darsi una legge, una magistratura, uno stato. Tale considerazione negativa nacque dall’atteggiamento etnocentrico degli Europei che giudicavano le popolazioni americane secondo il pregiudizio che la propria civiltà e la propria cultura fossero superiori e preferibili a tutte le altre. Essi avevano avuto l'esperienza delle nazioni orientali, alcune delle quali ritenute barbare, ma ora questo concetto diventava inadatto a comprendere le forme di vita e le costumanze degli Americani. Barbari erano i popoli di civiltà diversa, ma aventi determinate organizzazioni sociali riconducibili a quelle degli Europei; le prime relazioni pervenute dalle Americhe, invece, escludevano la presenza di benché minime organizzazioni sociali. Poiché, dunque, quelle popolazioni non potevano essere considerate neanche barbare, si elaborò per loro una nuova definizione secondo la quale selvaggi sono quei popoli che di norma vivono nelle foreste, senza religione, senza legge, senza fissa dimora e piuttosto da bestie che da uomini. Nacque così il concetto di "stato di natura", con il quale si indicava una condizione umana priva del tutto di socialità e di istituzioni politiche, contrapposta a quella delle complesse società storiche, formatesi con l'evoluzione dell'umanità a partire dagli antichi imperi medioorientali. Man mano, però, che le conoscenze sugli indigeni americani si approfondivano, attraverso successive e numerose relazioni di missionari e viaggiatori ed amministratori, e si scopriva presso di loro la presenza di organizzazioni familiari, tribali e militari, che era possibile interpretare come forme di vere e proprie società, molte comunità indigene vennero classificate come popolazioni in qualche modo "civili " . Si ebbero cosi due definizioni di stato di natura: la prima lo caratterizzava come condizione bruta, antecedente la costituzione della società civile; l'altra, invece, come uno stato di perfezione, uno stato di piena libertà che si esplica entro i limiti della legge di natura. Sullo stato di natura si aprì, quindi, una controversia che impegnò i filosofi fino al '700; la seconda tesi, però, ebbe esiti migliori anche perché il vivere secondo natura dei selvaggi divenne la pietra di paragone con cui si misuravano le creazioni artificiali della società europea. Il primo a rivalutare i selvaggi, di cui metteva in evidenza non più i difetti ma i pregi, per polemizzare con la sua società dell'epoca, fu Montaigne (1533-1592), la cui opera, insieme a quella di altri, contribuì a far nascere il "mito del buon selvaggio" che caratterizzò larga parte della saggistica del XVII e del XVIII secolo. Il Montaigne fu anche il portavoce di quella borghesia mercantilistica che si andava liberando dai vincoli economici e culturali del mondo feudale e che era interessata a sfruttare le ricchezze del Nuovo Mondo in modo più razionale. Diversamente, infatti, dai primi conquistadores spagnoli, che conducevano una continua azione di rapina e di etnocidio nei riguardi degli Americani, la politica coloniale di Inglesi, Francesi ed Olandesi si basava su rapporti giuridici e commerciali fra "eguali". Tale riconoscimento di uguaglianza si traduceva in un atteggiamento relativistico che ammetteva la dignità e 1'autonomia dei costumi e della cultura delle popolazioni americane. Questo sforzo di valutare e comprendere le ragioni dell'altro costituì il motivo centrale dell'opera di Montaigne: «Ora io trovo che non c'è nulla di barbaro e di selvaggio in quel popolo; senonché ognuno chiama barbaro quello che non è nei suoi costumi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l'esempio e l'idea delle opinioni e degli usi del paese in cui viviamo. Qui è sempre le religione perfetta, il governo perfetto, l'uso perfetto e rifinito d'ogni cosa». Montaigne anticipò così un tema che sarebbe stato molto dibattuto nel '600: quello dalla pluralità e della relatività delle culture. La messe enorme di notizie concernenti le popolazioni del Nuovo Mondo, raccolte e pubblicate da viaggiatori e missionari, fu utilizzata infatti dai liberi pensatori (i "libertini") per la loro battaglia ideologica contro l'universalismo culturale, la monolitica concezione del mondo ispirata al modello biblico e il progetto cartesiano di una teologia razionale. La veridicità del racconto biblico venne messa in dubbio dalle credenze religiose degli Americani, così come le diversità di usi, costumi ed opinioni mise in discussione ogni pretesa universalistica della tradizione culturale europea, di origine giudaico-cristiana. Nonostante la polemica dei libertini si servisse della documentazione etnografica in funzione essenzialmente filosofica, essa tuttavia ebbe il merito di dimostrare che non esiste una sola verità morale, religiosa e scientifica e di riconoscere la pluralità e la eterogeneità delle culture e la validità dei costumi e delle norme che vigono in culture diverse: «Non c'è virtù che non sia presa per un vizio, né un vizio che altrove non sia ritenuto virtù… Non c'è cosa così frivola che non sia molto importante in qualche altra parte»(La Mothe Le Vayer, 1588-1672) . Le testimonianze di forme di vita e di civiltà diverse cominciavano cosi a non essere più considerate come elementi pittoreschi di una umanità selvaggia o degradata, ma come forme culturali autonome e, proprio per questo, valide. I libertini, nel1'utilizzare i materiali etnografici, usarono il metodo comparativo: le credenze, i costumi, i contrasti culturali di popoli, lontani tra di loro nel tempo e nello spazio, furono messi a confronto per trarne le leggi relative alle società umane e per raccordare gli elementi costitutivi dei sistemi culturali dei primitivi extraeuropei con determinate fasi storiche delle civiltà europee. In un simile contesto, singolare rilievo etnologico assumono l'opera di Fontenelle (16571757), l’ "Origines des fables", nella quale l'autore dimostrò che le favole degli Americani e quelle degli antichi Greci hanno conformità di origine, e quella di Lafitau (1681-1740), "Moeurs des sauvages americains comparèes aux moeurs des premiers temps". Quest'ultimo studiò i costumi e le pratiche dei selvaggi per cercarvi le vestigia delle antichità più remote e per trovarvi la spiegazione di molti riti, di molti usi e di molte istituzioni della civiltà classica e di quella moderna, come il lamento funebre, la "covata", i sistemi matrilineari di parentela. Il fatto, poi, che tutti questi elementi fossero comuni a civiltà così diverse, fu considerato da Lafitau come dovuto ad un rapporto diretto o indiretto tra i popoli presso i quali si riscontrano [vedi indirizzi diffusionistici]. All'elaborazione illuministica del concetto di evoluzione [vedi indirizzi evoluzionistici] applicato allo studio delle società umane, contribuì in misura notevole G.B.Vico (1668-1744). La sua "Scienza nuova" è la ricerca delle origini della civiltà, ovvero la "Storia delle idee, costumi e fatti del Genere Umano" che si realizzano attraverso una serie di fasi o di stadi evolutivi: come le fasi essenziali dello sviluppo dell'uomo sono quelle del puro sentire, della fantasia e della ragione, così la storia del genere umano passa attraverso le tre "età degli dei", "degli eroi" e "degli uomini", cioè attraverso i gradi di stato ferino o selvaggio, stato eroico o barbaro e stato umano o civile. Ciascuna di queste età si presenta come una totalità organica, nella quale tutte le manifestazioni della vita e delle civiltà sono legate tra loro da rapporti profondi: ad una certa vita sociale ed economica corrispondono determinate istituzioni civili e politiche, un certo tipo di linguaggio, di mitologia, di cultura. In questo modo Vico negò quella barbarie e quella selvatichezza attribuite agli indigeni americani dalla "boria delle nazioni" e dei "dotti".. che li avevano giudicati attraverso "cose conosciute e presenti": solo rifiutandosi di studiare il mondo primitivo con le categorie della ragione e ricostruendole, invece r attraverso l'analisi dei miti, delle istituzioni religiose e sociali, dei riti, degli avanzi archeologici, degli usi e dei costumi popolari, si eviterà che esso appaia intes-suto di assurdità, di incongruenze e di sconcezze morali. Né d'altra parte i primitivi possono considerarsi depositari della sapienza filosofica, perché la loro condizione costituisce il punto di partenza verso lo stadio della "ragione dispiegata". Il progresso umano, però, non esclude per Vico il ritorno, dopo il corrompersi dell'età della ragione, alle barbarie; e da qui, ancora una volta, il cammino riprenderà verso l'ultimo stadio. Il pensiero vichiano si poneva, dunque, all'interno dell’ideologia illuministica che ebbe come "tema centrale del dibattito la teoria degli stadi progressivi dell' umanità, ma avrebbe poi avuto notevoli ripercussioni anche nell'elaborazione delle tre fasi in cui Comte (1798-1857) divise la storia dell'uomo (teologica, metafisica, positivista) . Sullo stesso versante dell'evoluzionismo si colloca Turgot (1727-1781): «Tutti i popoli inciviliti sono stati selvaggi, e tutti i popoli selvaggi, abbandonati ai loro impulsi naturali, erano destinati a diventare civili». Anche per lui l'umanità si è sviluppata attraverso tre fasi; ma queste si connotano diversamente da quelle vichiane in quanto il punto di riferimento di Turgot non è l'attività intellettiva dell'uomo, ma quella economica: il primo stadio è quello dei popoli cacciatori, che vivono dispersi; il secondo quello della pastorizia, che è la fase in cui gli uomini, trovando più vantaggioso raccogliere gli animali anziché inseguirli, si riuniscono in comunità; il terzo stadio è quello dell'agricoltura che, essendo in grado di sostenere più uomini di quanti siano necessari ad esercitarla, dà la possibilità a molti di dedicarsi ad altre attività: «donde le città, il commercio ... la divisione del lavoro, la diseguaglianza tra gli uomini, la schiavitù domestica e precise idee di governo». L'illuminismo si configurò, tuttavia, seguendo una tradizione che risaliva a Montaigne, come l'età che esaltò ed idealizzò il selvaggio e lo stato di natura, che rappresentarono i simboli della polemica nei confronti dell'assolutismo e della lotta di emancipazione della borghesia. Nacque così il mito del buon selvaggio, il quale con la sua innocenza, i suoi istinti regolati solo dalle leggi di natura, divenne il protagonista di molte opere filosofiche e politiche dell'epoca. Fu soprattutto J.J.Rousseau (1712-1778) ad esaltare la perfezione dello stato di natura e del selvaggio che, in quanto obbedisce all'istinto (che e' infallibile), e' naturalmente buono. Per il filosofo ginevrino, la natura si contrappone alla civiltà, è la misura dell'uomo semplice, è il criterio con cui giudicare la società presente e delineare un ideale di progresso. Il passaggio dallo stato selvaggio a quello civile avviene con la scoperta dell'agricoltura e della metallurgia, che comportano l'introduzione della proprietà privata. Questa segna l'avvento della società civile che rappresenta, però, rispetto alla condizione felice del primitivo, uno stato di infelicità e di degradazione umana. Se l'Illuminismo roussoiano manifestò tendenze romantiche, gli altri philosophes si mossero sul piano di un razionalismo materialistico che avrebbe generato la teoria dei climi e quella della pluralità biologica delle razze. Secondo la prima teoria, elaborata organicamente da Montesquieu (1689-1757), i fattori climatici determinano il comportamento influenzando i costumi, le attitudini e le istituzioni delle diverse popolazioni terrestri. Per la seconda teoria, formulata da Voltaire (1694-1778), gli uomini sono dotati di diverse tendenze morali e di differenti gradi di intelligenza a seconda dell'aspetto fisico e del colore della pelle. Ma già gli illuministi lasciavano il campo agli ideologues, che posero fine al mito del buon selvaggio e aprirono una fase nuova negli studi sui costumi sociali, dando vita a Parigi nel 1779 alla "Societè des observateurs de l'homme" che ebbe come punti essenziali del suo programma l'abbandono dell'etnocentrismo e lo studio delle culture altre attraverso l'inchiesta sul campo. CORSO DI ANTROPOLOGIA CULTURALE SCHEMI ED APPUNTI DELLE LEZIONI Siena - 1987/88 Lezione n. 4.2