Su Moral Tribes. Emotion, Reason, and The Gap Between Us and

Su Moral Tribes. Emotion, Reason, and The Gap Between
Us and Them di Joshua Greene
di Alessandro Del Ponte
Complesso, coinvolgente, stimolante: Moral Tribes di Joshua Greene affronta il problema
del conflitto tra mondi morali differenti con l’aiuto di psicologia e neuroscienza. Il risultato è
un approccio profondamente pragmatico alle questioni che dividono le tribù umane.
E’ una bella giornata primaverile in un parco poco fuori città. Baciati dal tepore di un timido
sole, state passeggiando tranquilli su un ponte pedonale che passa sopra uno scambio
ferroviario. Come voi, appoggiato alla balaustra, un passante – piuttosto in carne, a dire il
vero – si è fermato a godersi il panorama. Sul binario, poco più in là, cinque operai stanno
facendo manutenzione sulla ferrovia. All’improvviso, la quiete è interrotta da un carrello
ferroviario che, fuori controllo, si appresta a colpire a tutta velocità i cinque malcapitati,
destinati ad una tragica fine. Vi sentite impotenti. Che fare? Voi siete magrolini: buttarvi giù
sul binario, in un atto di autolesionistico eroismo, sarebbe del tutto inutile per arrestare la
corsa del carrello. A ben vedere, una soluzione ci sarebbe: spingere l’ignaro passante e farlo
cadere sul binario, bloccando la corsa del carrello e salvando così i cinque innocenti. Certo, il
passante morirebbe sul colpo; ma una vittima innocente è pur sempre una perdita più
sopportabile di cinque. Siete proprio d’accordo?
Torniamo indietro per un attimo. Stavolta state passeggiando in un vialetto del parco accanto
alla ferrovia. Più avanti, cinque operai stanno lavorando su un binario. Poco più in là,
sull’altro scambio, un loro collega è impegnato in una manutenzione. Vi state godendo
l’amenità della scena, quando, all’improvviso, un carrello ferroviario – palesemente fuori
controllo – irrompe a tutta velocità, destinando i cinque sfortunati a morte certa. Sotto shock,
vi accorgete che proprio accanto a voi c’è la leva che aziona lo scambio. Potete salvare i
poveretti! Certo, a quel punto il carrello investirebbe l’ignaro lavoratore sull’altro binario. Ma
il sacrificio di un innocente è preferibile a quello di cinque. Siete d’accordo, stavolta?
Moral Tribes: Emotion, Reason, and the Gap Between Us and Them (Penguin Press: New
York, 2013), di Joshua Greene, Professore Associato di Scienze Sociali e direttore del Moral
Cognition Lab a Harvard, è un libro dichiaratamente “ambizioso” (p. 5). In 400 pagine, dense
e appassionanti, condite da parentesi di elegante levità e humour anglosassone, l’autore si
prefigge lo scopo di esporre il suo manifesto per una metamoralità (p. 15) in grado di
affrontare i problemi che affliggono le tribù morali dell’umanità dall’inizio dei tempi. In altri
termini, Greene propone un approccio umile e concreto, anzi, “profondamente pragmatico”
(p. 16), per trovare quella valuta comune (ibidem) che unisce il sentimento morale di ogni
essere umano. Il risultato promesso da tale sforzo è una migliore comprensione reciproca tra
fazioni contrapposte e una comunicazione più oggettiva ed efficace delle istanze “tribali”,
siano esse in ambito politico, economico, militare, religioso, etico o valoriale. Se l’autore sia
riuscito nel suo intento, lo lasciamo decidere ai lettori. In questa sede, ci preme sottolineare il
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successo di Moral Tribes nell’indicarci la via che porta verso un nuovo approccio alle scienze
sociali, in grado di far luce sui problemi con una profondità fino a qualche decennio fa
impensabili. In particolare, filosofia, psicologia, neuroscienza ed economia appaiono
discipline inscindibili nel comporre tale approccio, che si nutre di una grande ricchezza di
strumenti teorici e trova conferme attraverso il “sincretismo2 dei risultati scientifici.
Moralità: strumento evoluzionistico per superare la Tragedia dei Commons
Partendo dalla parabola della Tragedia dei Commons1 di Garrett Hardin (1968), l’autore
evidenzia il nesso tra la nascita e lo sviluppo della moralità – e, in seguito, delle dottrine
morali – e la necessità evoluzionistica per la specie umana di cooperare, pena il soccombere
dell’homo sapiens nella eterna lotta per la sopravvivenza sulla Terra. La moralità, quindi,
come arma per eccellenza per ottenere il successo nella competizione tra specie. Tuttavia,
occorre considerare il rovescio della medaglia: sebbene costituisca l’ingrediente perfetto per
favorire il rapporto tra il singolo e i componenti della comunità di cui fa parte (relazione
infragruppo Me vs. Us), essa porta tipicamente ad anteporre gli interessi del gruppo di
appartenenza a quelli di individui ricollegabili ad altre comunità umane (relazione
intergruppo Us vs. Them).
Torniamo al problema del carrello: dimentichiamoci per un attimo la soluzione del dilemma.
Se, al posto dello sconosciuto passante o dell’ignaro lavoratore sull’altro binario, ci fosse una
persona che amate, il dilemma potrebbe rimanere tale? No di certo: ogni dubbio svanirebbe
all’istante. Cinque vite valgono bene quella della persona che amate. Fin qui, la logica pare
scontata. Ma che fare se la vittima sacrificale in questione fosse un’importante autorità
politica, religiosa o culturale della vostra tribù? Come cambierebbe il vostro giudizio se
appartenesse invece ad una tribù differente, per la quale il vostro sentimento è neutrale, se
non addirittura ostile? Parafrasando Orwell, benché, in linea teorica, tutti i maiali siano
uguali, esistono certamente dei maiali più uguali di altri. Lo notava già Adam Smith nella
Teoria dei Sentimenti Morali (1759), sottolineando come un individuo passerebbe una notte
insonne se perdesse anche un solo dito, mentre un’ecatombe causata da un terremoto nella
lontana Cina non turberebbe minimamente i suoi sonni tranquilli. Corsi e ricorsi storici:
perfino nella crisi finanziaria del 2008, al momento di scegliere quali istituti di credito
salvare, il Tesoro americano lasciò fallire il gigante Lehman Brothers. Too big to fail? Forse
sarebbe meglio dire too foreign not to fail. I principali creditori di Lehman, in ossequio alle
teorie di Smith, erano proprio cinesi.
La Tragedia della Commonsense Morality e una soluzione profondamente pragmatica
Si prendano in considerazione scenari semplici o complessi, la bottom line è la medesima:
l’homo sapiens è stato costruito per cooperare con i propri sodali e combattere aspramente
1
Nella parabola della Tragedia dei Commons, Hardin illustra il problema della cooperazione. Su un ampio
pascolo, un gruppo di pastori alleva il bestiame. Se ognuno persegue il proprio interesse individualistico, senza
curarsi degli altri, si esauriscono le risorse del pascolo; il bestiame muore e la comunità deve fare i conti con una
carestia, che ne decreta necessariamente l’estinzione. L’unica strategia di sopravvivenza e sviluppo, pertanto,
consiste nella scelta di rinunciare alla massimizzazione del profitto individuale, lasciando spazio alla
cooperazione.
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con i propri simili appartenenti a sodalizi differenti. In materia filosofica, pertanto, il fatto che
miriadi di dottrine morali configgano tra loro, dichiarando se stesse come verità rivelate o
inoppugnabili, non stupisce Greene. L’autore definisce tale prodotto dell’evoluzionismo la
Tragedia della Commonsense Morality2 (p. 15). L’elemento di tragicità risiederebbe nel fatto
che le comunità umane, impegnate nel promuovere e difendere i propri rispettivi canoni di
moralità dagli attacchi esterni di universi morali configgenti, perdano di vista l’obiettivo
comune, che l’autore individua nel raggiungimento della felicità, inteso in senso
profondamente pragmatico. La strategia proposta per superare i problemi intertribali che
affliggono l’umanità si fonda, appunto, sul deep pragmatism (p.16), l’equivalente di una
rivisitazione in chiave moderna dell’utilitarismo propugnato da Jeremy Bentham e John
Stuart Mill nell’Ottocento. Ben conscio delle critiche mosse da filosofi successivi – Rawls in
testa – Greene specifica la sua intenzione di proporlo non già come verità morale assoluta
(cosa che lo ridurrebbe alla stregua dell’ennesima dottrina tribale), bensì come la
metamoralità che meglio si adatta a svolgere il ruolo di valuta comune, comprensibile a tutti,
per dirimere le controversie intertribali del nostro tempo. La massimizzazione della felicità
comune non come ideale filosofico assoluto e astratto, ma come obiettivo pragmatico cui
tendere per ciascun individuo, da considerarsi realmente eguale agli altri. La ricerca della
felicità viene considerata da Greene l’unico appiglio morale a cui affidarsi per fondare su
solide basi la ricerca del compromesso tra istanze contrapposte. La società occidentale è
sempre più multiculturale e, più in generale, nel mondo globalizzato il contatto tra le diverse
tribù è sempre più stretto, con il rischio (che si manifesta concretamente, giorno dopo giorno)
che troppe micce esplodano da un momento all’altro.
L’autore, pertanto, conclude (p. 350) con un elenco di “comandamenti” per i pastori dei
pascoli di oggi, che così recitano:
“Regola n°1: Di fronte a controversie morali, consultate pure i vostri istinti morali, ma non
fidatevi di loro.”
“Regola n°2: I diritti non sono fatti per sostenere una tesi nelle discussioni; sono fatti per
chiuderle.”
“Regola n°3: Concentratevi sui fatti, e invitate gli altri a fare lo stesso.”
“Regola n°4: Prestate attenzione alla giustizia interessata (biased fairness)”
“Regola n°5: Usate la valuta morale comune.”
“Regola n°6: Donate.”
Tale lista spiega in modo cogente, in pochi punti fondamentali, quali siano le tesi di fondo del
profondo pragmatismo. Ben lontano dalla pretesa di propugnare una filosofia migliore delle
altre, propone regole di condotta concrete, applicabili nella vita quotidiana. Si tratta di una
scelta esplicita e ben ponderata, frutto di due decenni di ricerca empirica nel campo della
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Letteralmente, la “Tragedia della Moralità del Buon Senso”
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psicologia morale e delle neuroscienze. E’ giunto il momento di tornare al nostro problema
del carrello.
La filosofia morale: una manifestazione della neuropsicologia morale
A pagina 329 Greene sgancia la “bomba atomica” del suo libro, sentenziando: “La filosofia
morale è una manifestazione della psicologia morale. Le filosofie morali sono, ancora una
volta, semplicemente le punte intellettuali di iceberg psicologici e biologici molto più grandi
e profondi. Una volta capito questo, la vostra completa visione della moralità cambia. […] Le
filosofie morali non [sono] solo punti di un astratto piano psicologico, ma […] i prodotti
prevedibili dei nostri cervelli a doppio processo3”.
La carrellologia hard-core (p. 221) di Greene entra in gioco qui. Nel corso di due decenni di
ricerca, prima all’università di Princeton, nel corso del dottorato in Filosofia, sotto la guida
del professor Baron, e poi a Harvard, al Moral Cognition Lab, Greene ha sviscerato il
problema del carrello non solo dal punto di vista filosofico, ma anche e soprattutto da quello
psicologico e neuroscientifico. Tale attività di ricerca ha prodotto risultati che minano le
fondamenta dello status quo filosofico mainstream. Conoscere e diffondere tali scoperte
anche nel Vecchio Continente e, in particolare, in Italia, porterebbe ad un auspicabile
aggiornamento del dibattito filosofico, attualizzandolo e fornendogli rinnovata cogenza.
Ma veniamo alla “soluzione” del dilemma del carrello. In entrambi i casi (ponte e leva) la
vostra azione causa la morte di un individuo e risparmia la vita di altri cinque. L’approccio
razionale non consente dubbi, in entrambi i casi: conviene agire! Tuttavia, siamo sinceri: la
maggior parte di noi troverebbe inaccettabile spingere giù dal ponte una persona, anche per
salvarne cinque. Fossero anche cinquecento, la cosa proprio non ci convince. Al solo
pensiero, una vocina si attiva immediatamente, scandalizzata. Infliggere del male a qualcuno,
con l’uso della forza, è inaccettabile. In termini tecnici, si parla di harm aversion. Passiamo
al caso della leva: qui la vocina rimane silente: si può e si deve procedere! Temo però che il
malcapitato lavoratore sull’altro scambio non sia della stessa idea. Passi l’avversione alla
violenza fisica, ma un morto è pur sempre un morto. E, che vi piaccia o no, lo state causando
voi. In ambedue i casi. Per quanto possa sembrare strano da un punto di vista filosofico, lo
stesso risultato, in circostanze davvero molto simili, porta a reazioni neurali e psicologiche –
in ultima analisi, a decisioni morali – ben diverse tra loro.
La chiave di volta sta nelle ricerche condotte dai premi Nobel per l’Economia Daniel
Kahneman e Amos Tversky, che hanno mostrato l’esistenza di un cervello “a doppio
processo”, fondato sull’interazione tra “Sistema 1” e “Sistema 2”. Il Sistema 1 è il residuo
evoluzionistico più ancestrale della storia umana. E’ la parte più “animale” di noi, quella che
regola le funzioni istintive. E’ tramite il Sistema 1 che proviamo paura, disgusto, gioia,
rabbia, stupore, piacere; inoltre, il Sistema 1 pertiene all’area sensoriale. Il Sistema 1 è
caratterizzato da un agire incredibilmente rapido ed efficace. Tale fulminea velocità, tuttavia,
va talora a scapito dell’accuratezza. Per essere lesti a sufficienza e schivare i predatori nella
savana, ad esempio, non è necessario disporre di un dettagliato e completo quadro della
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Letteralmente: “dual-process brains”.
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situazione. Ecco allora che, per tutte quelle situazioni in cui è richiesta una capacità di analisi
più approfondita, entra in gioco il suo contraltare, il Sistema 2. Si tratta del più raffinato
prodotto evolutivo dell’uomo, frutto di milioni di anni di perfezionamento. Capace di
giungere a risultati analitici straordinari, la sua pecca principale è la lentezza e, in certa
misura, la sua “pigrizia” d’intervento. A meno di non essere chiamato in causa
specificamente, è il Sistema 1 a prendersi cura dell’ordinaria amministrazione.
A livello neurologico, la presenza di tale framework è supportata dall’evidenza empirica, che
mostra l’interazione tra aree più "antiche" (prima fra tutte l’amigdala, responsabile delle
nostre pulsioni istintive e, in particolare, del sentimento della paura), e quelle più "moderne",
legate alla corteccia prefrontale. In particolare, in quest’ultima si possono distinguere la
corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC), deputata al controllo e alla pianificazione, e la
corteccia prefrontale ventromediale (VMPFC), che regola il traffico degli impulsi neurali tra
le due aree, dando “via libera” agli uni di avere la meglio sugli altri, e viceversa.
Specificamente, la corteccia prefrontale ventromediale è cruciale per la regolazione dei
comportamenti morali. Pazienti con lesioni alla VMPFC si sono dimostrati incapaci di
formulare giudizi morali e si sono rivelati ben più utilitaristici di persone normodotate,
quando messi di fronte a dilemmi morali.
Che cosa succede nel caso del nostro carrello? Studiando empiricamente i soggetti nel
prendere decisioni morali nel dilemma del carrello, Greene e i suoi colleghi hanno mostrato
che scegliere di spingere l’inerme passante nel caso del ponte pedonale corrisponde ad una
attivazione più forte della DLPFC a livello neurologico, che sovrasta i livelli di intensità
registrati nell’amigdala. In altri termini, le aree più evolute hanno la meglio sulle aree
ancestrali del nostro cervello. Nel caso della leva, nella maggior parte degli individui
normodotati l’attivazione dell’amigdala non è comparabile a quella della DLPFC, che è ben
più intensa. Mancando l’uso della forza fisica, il campanello d’allarme morale non suona.
Significativamente, gli individui con lesioni nella VMPFC scelgono sempre di spingere il
passante giù dal ponte. Manca l’efficienza dell’area cerebrale deputata alla mediazione tra
istinto e calcolo, e il calcolo è palesemente favorevole a sancire una brutta fine per il
poveretto, perché perderne uno è meglio che perderne cinque. Analogamente, gli individui
con addestramento militare tendono ad essere più inclini di altri a spingere il passante, perché
la formazione ricevuta ha avuto un impatto di lungo periodo sulle reazioni psicologiche di
fronte a dilemmi morali improvvisi.
E c’è di più: Greene arriva perfino a teorizzare una ipotesi di miopia modulare del nostro
cervello di fronte a scelte morali. In breve, l’homo sapiens sarebbe in grado di registrare, in
modo automatico, soltanto catene causali rette, senza riuscire a vedere “abbastanza lontano”
da scorgere gli effetti collaterali delle decisioni morali. Nel caso della leva, azionarla porta
come diretta conseguenza il salvataggio dei cinque lavoratori; il sacrificio dell’altro operaio
è, come si usa dire nel gergo militare, un danno collaterale. E dal punto di vista logico, lo è
realmente! Nel caso del ponte, invece, l’outcome immediato della spinta è uccidere un uomo.
L’effetto collaterale, in questo caso, è il salvataggio dei cinque. Troppo tortuoso da digerire
per uno strumento automatico come il Sistema 1 (cui, come sappiamo, l’uso della forza dona
massima attivazione).
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Verso un relativismo filosofico e morale?
A questo punto, si chiederà il lettore (anche un po’ infastidito, specie se filosofo di razza):
dove stiamo precipitando? Verso un “vuoto morale”? O perfino verso un relativismo
filosofico e morale? Greene sostiene una terza ipotesi. Le nostre manifestazioni filosofiche e
morali sono una codificazione razionalizzante di interazioni neurali e psicologiche complesse
che, se studiate opportunamente, si rivelano capaci di scardinare presunte verità filosofiche o
morali considerate inoppugnabili dalle rispettive tribù. Occorre fuggire dalla ricerca di una
filosofia perfetta, splendida chimera per generazioni di filosofi; conviene, invece, affidarsi ad
un approccio di profondo pragmatismo che, ammettendo tutti i limiti umani, cerchi una
valuta morale comune a tutte le tribù. L’unica area valutaria in cui uomini di tutte le culture
e tutte le epoche possano riconoscersi è quella della felicità, comunque essa si declini.
Alessandro Del Ponte è membro della National Honor Society for Public Affairs and Administration
Pi Alpha Alpha.
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