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Monitor: Teatro - QT n. 3, marzo 2010
Candido
L’ottimismo terremotato
di Vittorio Caratozzolo
Giunto sul luogo della catastrofe che ha distrutto la città, un uomo osserva le macerie, tira un fischio ed esclama: “Ci sarà
qualcosa da guadagnare qui”. Non appena riesce nel suo intento, si dà ai bagordi e “compera i favori della prima ragazza di
buona volontà che gli vien fatto d’incontrare”. Avete capito: è la trama del dopo-terremoto abruzzese, lo sciacallo è “uno
della cricca”. Invece no. Voltaire scrisse il “Candido, ovvero l’ottimismo” nel 1759, quattro anni dopo il terremoto che devastò
Lisbona, Algeri e spinse uno tsunami fino all’Irlanda: l’amore per gli anniversari decimali, tondi ha spinto il regista Tonino
Conte a mettere in scena l’opera di Voltaire per i 250 anni dalla pubblicazione. Il terremoto dell’Aquila e la “cricca” sono
venuti dopo tale decisione, par di capire. Infatti la scena raccontata qui all’inizio, nello spettacolo che abbiamo visto... non c’è.
Probabilmente si è trattato solo di una questione numerica: 8 attori non possono fare tutto. Anche se all’inizio parlavano le
marionette... Il fatto è che a Conte e al suo poliedrico cast da sempre piace mettere al centro del proprio lavoro, cito dal
dépliant di sala, “non l’attore, non il testo, non la regia e nemmeno la scenografia, ma tutti questi elementi in concerto tra
loro, dando così forma ad un ‘sogno al cubo’ in cui la fantasia dello spettatore trova stimolo per sempre nuove avventure”.
Montesquieu, un altro francese - piuttosto: un marziano, per il tempo in cui visse - disse che di solito a un’opera originale ne
seguono sempre 5-600 da essa ispirate; estendendo questa nozione, ricongiungendola a quanto affermano i nostri genovesi,
la lettura di un testo, avvenga essa in poltrona o, senza libro, a teatro, può/deve servire a stimolare la lettura e la scrittura di
altre 5-600 opere. Difficile, in Italia, dove - ultima statistica - 4 su 100 leggono un libro all’anno...
Cosicché il viaggio di Candido alla ricerca del migliore dei luoghi possibili, dall’Europa all’America e ritorno, è metafora di
una ricerca del proprio luogo, precisamente del posto in cui decidere di coltivare il proprio orticello, contribuendo a costruire
il benessere sociale col lavoro, senza credere a miti come l’Eldorado o alla propaganda di chi un piatto di minestra ce l’ha già
(come il filosofo leibiniziano Pangloss, precettore del giovane Candido).
Le peripezie dell’eroe volteriano (lo stralunato Pietro Fabbri), che perde, incontra, riperde e reincontra l’amata Cunegonda
(Silvia Bottini), lo stesso Pangloss (Bruno Cereseto), il fedele servo Cacambò (Claudio del Toro), la
Vecchia-senza-una-chiappa (l’esilarante Sara Nomellini) ed altri bizzarri naufraghi della felicità, sono narrate in scena dallo
stesso Voltaire (un sapido Enrico Campanati), che dapprima introduce il preambolo della cacciata di Candido dall’Eden
westfaliano (il migliore dei mondi possibili, fino a quel momento, secondo Pangloss), rappresentato a vista tramite
marionette doppiate dagli stessi attori; poi, di tanto in tanto, prende la parola per raccordare i diversi scenari in cui l’eroe e i
suoi diversi compagni di viaggio si trovano a filosofare della felicità possibile in questo mondo. L’anticlericalismo volteriano
viene sciorinato con molta grazia e non manca un siparietto meta-teatrale, in cui Candido - dietro una barca di cartone che
cammina con i piedi suoi e di altri due attori - enuncia una piccola apologia del teatro e dei suoi strumenti, che richiedono la
cooperazione immaginativa dello spettatore, a differenza del cinema, in cui la ricerca della verosimiglianza è l’obiettivo
primario. Nelle scenografie, nelle marionette, nei pupi giganti che minacciosi attorniano Candido, nel millimetrico garbo
recitativo, nella regia rigorosa ma lieve, ritroviamo non solo la mano di Tonino Conte, ma anche lo sguardo ironico e fiabesco
del mai troppo compianto Lele Luzzati.