Candide: Voltaire contro Leibniz e il suo migliore dei mondi possibili. Il tema del male e del destino umano pervade tutti i romanzi filosofici di Voltaire, sviluppandosi in due fasi distinte. In accordo con i deisti inglesi, il filosofo francese afferma che Dio, in quanto principio ordinatore del mondo, regola la sua natura, sia le vicende degli uomini. Secondo questa prospettiva finalistica, il male e l’infelicità non sono che momenti di un piano provvidenziale la cui logica sfugge all’intelletto umano. Ciò che all’uomo appare come destino fortuito fa parte, in realtà, di un progetto razionale di Dio. Nella seconda fase Voltaire muta radicalmente prospettiva: continua a condividere il provvidenzialismo cosmico di Newton, secondo cui l’armonia dell’universo rinvia a un’intelligenza che lo regola, ma ritiene che Dio non si curi affatto del mondo degli uomini, ma solo dell’ordine naturale, a paragone del quale le vicende umane non sono che particolari insignificanti. L’uomo, dunque, non è né il centro, né il fine dell’universo. Questo cambiamento trova la sua origine in un evento che scosse profondamente l’opinione pubblica del tempo: il terribile terremoto che, nel 1755, distrusse la città di Lisbona, causando migliaia di morti. L’evento contribuì a dare un duro colpo all’ottimismo metafisico di matrice leibniziana e a tutta la teodicea settecentesca. Così Voltairesi convince della falsità e dell’illusorietà dell’ottimismo di Leibniz, per il quale il mondo non può essere che il migliore dei mondi possibili. Voltaire Voltaire non pensa che tutto sia male: “perché mai dovremmo provare orrore per il nostro essere ? La nostra esistenza non è così infelice come ci si vorrebbe far credere. Considerare l’universo come un carcere e tutti gli uomini come criminali in attesa di essere giustiziati è un’idea da fanatico”. Tuttavia, pur rimproverando l’ossessivo pessimismo antropologico di alcuni filosofi del Seicento, Voltaire non è insensibile né resta cieco dinanzi al male del mondo. Il male c’è: gli orrori della malvagità umana e le pene delle catastrofi naturali non sono invenzioni dei poeti. Sono fatti nudi e crudi che urtano con forza decisiva contro l’ottimismo dei filosofi, contro l’idea del migliore dei mondi possibili. Già nel Poema sul disastro di Lisbona (1756), Voltaire si chiedeva il perché della sofferenza innocente, la ragione del disordine eterno e del caos di sventure che ci tocca vedere in questo migliore dei mondi possibili. In questo poema Voltaire combatte l’ottimismo metafisico di matrice leibniziana implicito nella massima “tutto è bene”, mostrando come esso sia in realtà un insulto ai dolori della vita. A una concezione che Gottfried Wilhelm von Leibniz si illude di poter trovae i risvolti positivi (magari futuri) di ogni evento, compresi quelli dolorosi e drammatici. Voltaire contrappone una visione più amara e disincantata, 1 animata però dalla speranza in un avvenire migliore dovuto all’opera dell’uomo: e diceva che se è ver che tutto un dì sarà bene è la nostra speranza, è però illusione sostenere che tutto è bene oggidì. Tuttavia è con Candido o l’ottimismo (1759), vero capolavoro della letteratura e della filosofia illuministica, che Voltaire cerca di mandare in frantumi quella filosofia ottimistica che vuol giustisticare tutto, proibendosi così di capire le cose. Il Candido è un racconto tragicomico. La tragedia sta nel male, nelle guerre, nelle sopraffazioni, nelle malattie, nei soprusi, nell’intolleranza, nella superstizione, nella stupidità, nelle ruberie, nelle catastrofi naturali (come il terremoto di Lisbona) in cui Candido e il suo maestro Pangloss (controfigura di Leibniz) si imbattono; mentre la commedia sta nelle insensate giustificazioni che Pangloss e anche Candido, suo allievo, cercano di dare alle sventure umane. Le insensate giustificazioni di Pangloos. Che tipo di maestro è Pangloss ? “Pangloos insegnava la metafisicoteologocosmoloidiotologia. Dimostrava ammirevolmente che non ci sono effetti senza cause e che, in questo migliore dei mondi possibili, il castello di Monsignor il barone era il più bello dei castelli e Madama la migliore baronessa possibile. È provato che le cose non possono essere altrimenti: infatti, perché tutto è fatto per un fine, tutto è necessariamente per il miglior fine. Notate che “i nasi son fatti per accavallarvici gli occhiali, e infatti abbiamo gli occhiali; le gambe sono conformate per essere imbracate, e noi abbiamo le brache. Le pietre furono create per essere tagliate e farne castelli, e infatti Monsignore ha un bellissimo castello; il più potente barone della provincia dev’essere il meglio alloggiato e, poiché i porci furono creati per essere mangiati, noi mangiamo porco tutto l’anno. Di conseguenza, coloro che hanno affermato che tutto va bene hanno detto una scempiaggine: occorre dire che tutto va per il meglio”. L’ironia contro gli argomenti metafisici di Leibniz. Candido, scacciato dal castello del barone Thunder-ten-tronckle, perché sorpreso in atteggiamento amoroso con madamigella Cunegonda, viene forzatamente arruolato nell’esercito dei Bulgari (alias i Prussiani) in guerra contro gli Abari (alias i Francesi), e viene picchiato in maniera orrenda: “Non c’è effetto senza causa, pensava Candido. Tutto è necessariamente collegato e ordinato per il meglio. Era necessario ch’io fossi cacciato dalla presenza di Cunegonda, che passassi sotto le verghe, così com’è necessario che lemosini pane sino a che potrò guadagnarmelo. Tutto ciò non poteva andare altrimenti. Così pensava Candido allorché si trovò costretto a chiedere l’elemosina, dopo essere sfuggito a una tremenda battaglia: Nulla al mondo v’era di più bello, agile, brillante e ben ordinato dei due eserciti. Trombe, pifferi, oboe, tamburi e cannoni creavano un’armonia come non la si sarebbe udita nemmeno all’inferno. I cannoni dettero il via spazzando circa un seimila uomini per parte; di poi la moschetteria tolse dal migliore dei mondi pressappoco nove o diecimila bricconi che ne rendevano infetta la crosta. E la baionetta fu pure ragione sufficiente della morte di qualche migliaio di uomini. Il tutto era valutato in un trentamila anime. Candido , che tremava come un filosofo, si nascose quanto meglio poté durante tal macello eroico. Finalmente, intanto che i due re, ognuno nel proprio campo, facevano intonare il Te Deum, si decise d’andare altrove per discutere sugli effetti e sulle cause”. Dopo varie peripezie e dopo tanti dolori, Candido incontra di nuovo Pangloss tutto sfigurato che gli racconta che Cunegonda “venne sventrata dai soldati bulgari, dopo esser stata violata quanto è mai possibile; han fracassato il capo del barone che voleva difenderla; la baronessa è stata fatta a pezzi […] e, 2 quanto al castello, non v’è rimasta pietra su pietra”. Dinanzi a queste notizie Candido si dispera, chiede dov’è mai il migliore dei mondi, e sviene. Tornato in sé, si sente dire da Pangloss: “Ma siamo stati vendicati, giacché gli Abari hanno fatto altrettanto in una baronia vicina appartenente a un signore bulgaro”. Candido, allora, chiede a Pangloos come mai egli sia sfigurato. Pangloss risponde che la causa è nell’amore. Ma, ribatte Candido, “come mai tal bellissima caura ha prodotto in voi sì orribile effetto ?”. E Pangloos risponde: “Caro il mio Candido, avete presente Pasquina, la graziosa camerista della nostra augusta baronessa ? Gustai tra le braccia le delizie del paradiso, che han prodotto questi tormenti d’inferno, da cui mi vedete distrutto. Ella ne era infetta e credo ne sia morta. Pasquina ebbe questo regalo da un francescano veramente sapiente che aveva voluto risalire alle fonti: infatti se la prese da una vecchia contessa che l’aveva ricevuta da un capitano di cavalleria, che la doveva a una marchesa che n’era debitrice ad un paggio, che l’aveva avuta da un gesuita che, ancora novizio, l’aveva avuta per linea diretta da uno dei compagni di Cristoforo Colombo. Per quel che mi riguarda, io non la passerò a nessuno giacché sto per morire”. L’idea migliore dei mondi possibili non teme smentite. Dinanzi alla descrizione della brutta storia, Candido chiede a Pangloos se sia proprio il diavolo il capostipite della genealogia. Ma quel grand’uomo di Pangloss risponde: “Nient’affatto, era nel migliore dei mondi una cosa indispensabile, un ingrediente necessario. Ché, se Colombo non avesse pescato in un’isola dell’America quel malanno che avvelena la sorgente della generazione, che spesso impaccia la generazione stessa e che è evidentemente giusto l’opposto con il confine della natura, ebbene non avremmo la cioccolata né la cocciniglia. Ed è bene ancora notare che sino a oggi, nel nostro continente questa malattia è, come la controversia, tutta nostra. Turchi e indiani, persiani e cinesi, siamesi e giapponesi non la conoscono ancora: ma vi è una ragione sufficiente perché a loro volta la conoscano entro brevi secoli. Frattanto ha compiuto progressi meravigliosi fra noi e specie fra queste grandi armate fatte di onesti mercenari bene educati onde si decidono le sorti degli stati; si può garantire che quanto trentamila uomini combattono in battaglia campale contro pari truppe, vi sono ventimila sifilitici per parte”. Giunti nel porto di Lisbona, un buono e generoso anabattista – che aveva beneficato Pangloos e Candido -, per aiutare un marinao che l’aveva malmenato e che era caduto in mare, muore annegato: “Candido si avvicina, vede il benefattore che riaffiora un momento e che è inghiottito per sempre: vorrebbe gettarsi dietro a lui in mare; il filosofo Pangloss glielo impedisce dimostrandogli che la rada di Lisbona era stata creata apposta perché questo anabattista vi annegasse”. Entrati in città, avvertono subito che la terra comincia a tremare, il mare si innalza ribollendo nel porto e schianta le navi all’ancora; turbini di fiamme e cenere coprono le piazze, le case rovinano. Trentamila abitanti restano sotto le macerie. “Questo terremoto non è cosa nuova, dice Pangloos; la città di Lima provò le stesse cose in America l’anno scorso: stesse cauese stessi effetti. Dev’esserci certamente un filone di zolfo sotterra da Lima sino a Lisbona”. “Niente di più probabile”, risponde Candido, “ma, per Dio un po’ d’olio e del vino!”. “Come probabile?”, replicò Pangloss; “sostengo che la cosa è dimostrata”. Le vicende dei due non terminano qui. Ma, da quanto detto, si capisce che cosa è il Candido e che cosa Voltaire abbia voluto dire con esso. In ogni caso, dopo altre turbinose avventure, i due incontrano Martino, un vecchio filosofo e letterato “che era stato derubato dalla moglie, picchiato dal figlio e abbandonato dalla figlia che si era fatta rapire da un portoghese”. Reso pessimista dalle disgrazie della vita, Martino è convinto che il male si opponga al bene in una lotta cosmica perenne e insolubile: in questo modo prende le distanze dall’ottimismo leibniziano di Pangloss, il quale sostiene che il male non esiste. Così, attraverso le riflessioni 3 di Pangloss e Martino, Voltaire ripropone l’antico interrogativo che aveva tormentato e tormenta la filosofia occidentale: unde malum ? La soluzione: non eludere i problemi pratici con fantasie filosofiche. I tre compagni si ritrovano a Costantinopoli, e qui Candido, Pangloss e Martino, incontrano un saggio vecchio musulmano che non si interessa di politica, né discute sull’armonia prestabilita, né si impiccia dei casi degli altri: “Ho solo venti iugeri, dice il saggio turco, che coltivo con i figli; il lavoro scaccia da noi tre grandissimi mali: la noia, il vizo e il bisogno”. Ed è proprio la saggezza del vecchio turco che contagia in qualche modo i tre filosofi: “Le grandezze – dice Pangloos – sono molto pericolose […]”. “So anche – afferma Candido – che bisogna coltivare il nostro orto”. E Martino: “Lavoriamo senza discutere; è il solo modo di rendere sopportabile la vita”. “Bisogna coltivare il nostro orto”: questa non è fuga dagli impegni della vita, ma il modo più degno per viverla e per cambiare, per quel che è possibile, la realtà. Non tutto è male; e non tutto è bene. Ma il mondo è pieno di problemi. Compito di ognuno di noi è quello di non eludere i nostri problemi, bensì quello di affrontarli facendo quel che è possibile per risolverli. Il nostro mondo non è il peggiore dei mondi possibili, ma non è neppure il migliore: “Bisogna coltivare il nostro orto”, bisogna cioè affrontare i nostri problemi, accettando i limiti umani, perché questo mondo possa gradualmente migliorare o, perlomeno, non diventi peggiore. In questa frase – divenuta proverbiale, sebbene come riduttivo invito a rifugiarsi nell’”orto” della vita privata – si celano in realtà il rifiuto delle vane dispute filosofiche sul male e la convinzione che l’unico rimedio al male non sia la sua astratta giustificazione teorica, ma l’operosità, accompagnata dalla saggezza pratica di chi non vuole più farsi troppe domande, per poter apprezzare quel poco di felicità che la vita gli concede. Pertanto Voltaire è convinto che il male del mondo sia una realtà non meno che il bene, e che sia una realtà impossibile a spiegarsi con i lumi della ragione umana; in altre parole il problema del male è insolubile e ne criticava spietatamente tutti i possibili tentativi di spiegazione da parte di qualsiasi filosofia. 4