Parole per musica. Alcune note sul libretto di Francesco Sbarra Prima la musica poi le parole: come ricorda il titolo del capolavoro buffo di Antonio Salieri su libretto di Giovan Battista Casti, andato in scena nel teatro di Schönbrunn nel febbraio del 1786, il rapporto – non sempre pacifico – tra parole e musica è una costante imprescindibile nella storia del melodramma. Se la gustosa formula escogitata da Casti sembra accordare priorità alla componente musicale, il problematico approccio alla questione nell'opera ultima di Richard Strauss, Capriccio, rappresentata per la prima volta appena sessantasette anni fa, rivela tutta l'attualità del problema. A metà Seicento, più di un secolo prima di Salieri e quasi trecento anni prima del malinconico congedo straussiano, nel momento d'oro di quel fenomeno complesso e variegato che tendiamo talora a catalogare sbrigativamente come opera barocca, il rapporto tra testo verbale e testo musicale assume una rilevanza straordinaria, troppo spesso messa in ombra dall'apparente compattezza di un corpus melodrammatico vastissimo, costruito secondo princìpi compositivi tendenzialmente rigidi e canonizzati. I generi operistici, così come i generi letterari, costretti nei limiti imposti da quella precettistica di matrice classicista che fu strumento fondamentale per la (ri)fondazione e la (ri)nascita dell'opera in musica, sembrano lasciare poco spazio alla libera iniziativa dei librettisti e dei compositori. I poeti e i musicisti italiani, formatisi a Venezia, Roma, Napoli o Firenze – per citare solo alcuni dei principali centri di diffrazione del melodramma – viaggiano in Europa, contribuendo al consolidamento di modelli e di gusti (quelli, appunto, dell'opera italiana) che non coinvolgono solamente il piano della musica, ma anche quello della parola poetica. In un contesto di questo tipo spiccano esperienze particolari di artisti che, pur muovendosi nell'alveo di una tradizione fortemente codificata, tentano di reinventare dall'interno forme e soluzioni consolidate. Una delle premesse indispensabili per la buona riuscita di simili esperimenti è la proficua collaborazione fra librettisti e compositori. Se il sodalizio Mozart-Da Ponte è emblema insuperato dell'opera classica di pieno Settecento, il secolo precedente trova nel legame tra il poeta Francesco Sbarra (1611-1668) ed il musicista Antonio Cesti (1623-1669) un esempio mirabile di coerenza tra istanze verbali ed esigenze musicali. Ecco perché, accingendoci all'ascolto del dramma Le disgrazie d'Amore, opera nata dalla collaborazione dei due artisti toscani, vale forse la pena di aggiungere alle preziose note di Jean-François Lattarico, dedicate alle peculiarità dell'esperimento musicale di Cesti, pochi appunti su almeno alcuni degli aspetti più interessanti del libretto di Sbarra. L'aretino Cesti, compositore italiano dalla carriera internazionale, fu principalmente attivo tra Venezia, sede del suo debutto, e l'Austria: prima impegnato a Innsbruck, poi maestro di cappella a Vienna, Cesti fu uno dei compositori più in voga alla corte austriaca, autore di alcune delle grandi opere che scandirono il biennio di festeggiamenti per il matrimonio di Leopoldo I d'Asburgo e Margherita Teresa di Spagna (1665-1667). Proprio a questi anni risalgono i frutti più maturi della sua collaborazione con Francesco Sbarra, poeta e librettista lucchese che nella città natale aveva iniziato una brillante carriera all'inizio degli anni Cinquanta (a Lucca, tra 1650 e 1657, andarono in scena con un certo successo La verità raminga, La Moda, La Tirannide dell'Interesse e La corte, drammi che resero Sbarra noto in Italia e al di fuori della penisola). Importante snodo per la carriera di entrambi fu però l'allestimento dell'Alessandro vincitor di se stesso, dramma musicale dedicato all'Arciduca d'Austria Leopoldo Guglielmo, portato in scena nel 1651 nel teatro veneziano dei Santi Giovanni e Paolo. Il sodalizio tra Cesti e Sbarra prosegue dapprima a Innsbruck (si ricordi almeno La magnanimità d'Alessandro, opera allestita nel 1662 in occasione della visita di Cristina di Svezia) e poi, con sempre maggiore successo, a Vienna. Tra il 1666 ed il 1668 Francesco Sbarra fornisce ad Antonio Cesti ben quattro dei sei libretti messi in musica dal compositore nel corso dei tre anni viennesi: Nettuno e Flora festeggianti (1666), dramma musicale, e La Germania esultante (1667), “festa a cavallo”, rientrano pienamente nel genere delle composizioni celebrativo-encomiastiche tipiche dei festeggiamenti cortigiani d'ancien régime. Con Le disgrazie d'Amore ed Il pomo d'oro, pur restando nell'ambito di testi funzionali alle celebrazioni festive, ci troviamo di fronte ad opere di maggiore complessità, tanto sul piano dell'ambizione e dell'originalità letterarie, quanto su quello del progetto drammaturgico. La complessità del Pomo d'oro, unica opera di Sbarra e Cesti ad aver goduto di una qualche attenzione da parte della critica in tempi non troppo lontani, è insita nel genere cui il testo appartiene: la nozione di “festa teatrale” – è questo il termine utilizzato per definire l'opera nelle prime edizioni a stampa – suggerisce un componimento ambizioso che non si risolve nella semplice alternanza di atti ed intermezzi. Il pomo d'oro, allestito in due giornate nel luglio 1668, poco dopo la morte del librettista, si distingue infatti dalle più tradizionali forme del melodramma d'origine veneziana per l'eccezionalità dei mezzi richiesti dalla messa in scena. Il ricorso ad un organico orchestrale insolitamente ampio, affiancato da numerosi cori, va di pari passo con l'utilizzo di sofisticati congegni scenotecnici che portano in scena tempeste, battaglie navali e suggestive apparizioni sovrannaturali. Di tutt'altro genere il dramma «giocosomorale» Le disgrazie d'Amore che, rappresentato nel 1667, costituisce la penultima collaborazione di un sodalizio tra librettista e compositore che solo la morte del primo poté interrompere (Cesti sarebbe mancato l'anno successivo). Il titolo del dramma evoca al tempo stesso l'intreccio dell'opera ed il suo significato allegorico. La vicenda di Amore che, dopo aver abbandonato la madre Venere ed il patrigno Vulcano, è vittima delle astuzie di Inganno e Adulazione, suggerisce infatti una morale che mette in guardia da passioni amorose che non siano nobili e spiritualmente elevate. D'altro canto, la gustosa trama del libretto di Sbarra, per quanto vincolata dalle regole del genere del dramma morale, tende senz'altro a privilegiare la componente giocosa. Tale impostazione emerge chiaramente nella caratterizzazione di Venere, Vulcano e Amore, presentati secondo i luoghi comuni della commedia di costume. Venere è la dea della bellezza, giovane consorte di un vecchio zoppo, e la dissonante unione tra le due divinità si offre ad una facile rivisitazione comica . Vulcano diventa così il vecchio marito geloso e possessivo che, alle prese con una moglie ben più giovane di lui, è costretto a pagare sulla propria pelle l'avventatezza di una scelta matrimoniale innaturale e discutibile. La dea, dal canto suo, offre al librettista il destro per riprendere e sviluppare uno dei topoi più duraturi della tradizione comica rinascimentale: la polemica contro la cosmesi femminile. L'impertinente Amore sottrae lo «stipo prezioso» di Venere e può finalmente rivelare a tutti cosa si nasconda dietro la «falsa beltà» femminile: novello vaso di Pandora, lo stipo della dea cela tutti gli artifici cui le donne ricorrono per sembrare belle. Il gusto iperbolico per il catalogo inesauribile permette a Sbarra – per bocca di Amore – di snocciolare un impressionante elenco di belletti e prodotti cosmetici che vira progressivamente verso il grottesco. Anche la fucina di Vulcano, luogo celebrato dalla tradizione poetica classicista, diventa nelle Disgrazie d'Amore una bottega artigiana sottomessa a dinamiche tutte umane e ben poco edificanti: non appena Vulcano parte per accompagnare Venere nella ricerca di Amore fuggitivo, i tre giganti, ben lungi dal rispettare le raccomandazioni e le consegne del padrone, si mettono a giocare a carte finendo per darsele di santa ragione. Alle divinità, umanizzate in chiave comica, si affiancano alcune personificazioni allegoriche: Inganno, Adulazione, Avarizia, Amicizia. Pur agendo nel pieno rispetto dei valori che sono chiamate ad incarnare, anch'esse passano attraverso il filtro della scrittura giocosa. Le tre incarnazioni viziose – Inganno, Adulazione ed Avarizia – offrono in tal senso al librettista materia ben più ricca di quanto non possa fare la virtuosa Amicizia. La presentazione dei personaggi sfrutta in modo emblematico la materializzazione di metafore topiche: Inganno ed Adulazione compaiono «con una rete da tendere», attributo che diventa strumento effettivo dell'azione. Nella rete – non solo metaforica – dell'Inganno cadrà ovviamente Amore che, bendato come lo vuole la tradizione iconografica, non vede dove mette i piedi. Così come la benda, attributo tradizionale del cieco Amore, torna ad essere un semplice oggetto che impedisce la vista, anche le armi dorate del dio sono destinate ad una sorte affine: valutate per quello che sono – frecce e faretra d'oro – esse si riducono a pura merce di scambio (e come tali saranno contese dai protagonisti). I vari personaggi torneranno a incontrarsi all'osteria di Avarizia, vero fulcro dell'azione, non casualmente situata, come spiega puntualmente una didascalia, su una «piazza di città». La piazza, scena a cielo aperto, è assunta come immagine del mondo, ridotta in scala e riprodotta a significare il mondo stesso nello spazio limitato della scena teatrale: il dramma giocosomorale di Sbarra si appropria di tutti gli elementi più caratteristici dell'immaginario teatrale barocco piegandoli all'intento del docere delectando. Le divinità scendono dal piedistallo per comportarsi come uomini, e degli uomini acquisiscono tutti i difetti. Le dinamiche più tipiche del comportamento umano vengono sintetizzate efficacemente attraverso la personificazione dei molti vizi e delle poche virtù. Il tutto condito – come avremo modo di vedere tra breve – da un sapido gioco di travestimenti e smascheramenti che, coinvolgendo direttamente i personaggi allegorici, ne potenziano l'efficacia e lo spessore drammatici. Travestendosi rispettivamente da ciarlatano e zingara, Inganno e Adulazione celano la propria identità: d'altro canto, il travestimento permette loro di dare corpo ad esempi viventi dei vizi che, in quanto allegorie, sono chiamati a rappresentare. Paradossalmente le personificazioni, celando se stesse, si rivelano personaggi pronti a calcare la scena nel pieno rispetto delle convenzioni teatrali. L'impianto tradizionale del dramma allegorico, chiamato nel libretto di Sbarra ad ospitare una vicenda che vuole essere comico-giocosa, se non propriamente burlesca, è rivitalizzato dall'interno: con grande sensibilità per la resa scenica dell'intreccio, Sbarra alterna monologhi più distesi a dialoghi serrati che sfociano spesso nel battibecco, privilegiando in ogni caso le potenzialità offerte dal contrasto tra i personaggi. Se al pubblico è costantemente richiesto di cogliere con prontezza doppi sensi e allusioni, l'ammiccante componente burlesca raggiunge il culmine proprio nella scena dell'osteria dell'Avarizia. Come precisato dalla didascalia cui si è già fatto riferimento, sulla porta della locanda è affissa un'insegna che rappresenta una lesina accompagnata dal motto «quanto più s'assottiglia ancora è meglio». L'impresa non è invenzione del librettista, ma riprende quasi alla lettera quella della Compagnia della Lesina («L'assottigliarla più meglio anche fora»), celebre nella tradizione burlesca fiorentina per i suoi Capitoli e ragionamenti, stampati molte volte tra Cinque e Seicento. La lesina, utensile da calzolaio composto da un uncino ricurvo applicato ad un manico in legno, è simbolo dell'avarizia: come tale, associato al motto citato da Sbarra, campeggia sui frontespizi delle numerose edizioni che raccolgono i testi burleschi dei “lesinanti”. Riconoscendo l'impresa, lo spettatore può giocare d'anticipo sull'agnizione della locandiera, giustappunto l'Avarizia, e prevedere i moventi che la spingeranno a farsi coinvolgere nell'intreccio. Il libretto di Sbarra, ricco di raffinate e colte allusioni, mira al coinvolgimento totale di un pubblico che sia in grado di coglierle. I luoghi comuni della tradizione amorosa e morale, declinati in chiave comico-burlesca, giocano un ruolo determinante nell'elaborazione di un testo che, destinato alla corte, della corte sfrutta i codici e le esigenze di intrattenimento (in tale contesto rientrano gli spunti di polemica cortigiana che, topici essi stessi e sostanzialmente innocui, affiorano nel terzo atto). Mutatis mutandis, se oggi ha senso riscoprire un'opera come Le disgrazie d'Amore, il merito non è solo delle innovative soluzioni musicali di Antonio Cesti. Esse trovano infatti un complemento imprescindibile nel libretto di Sbarra. Prima la musica, quindi, o le parole? Come l'ascoltatore potrà sperimentare assistendo alla rappresentazione, il dramma giocosomorale di Cesti e Sbarra è l'esempio lampante di un universo teatrale in cui il rapporto tra parole e musica non è di mera sovrapposizione, ma di vera e propria consustanzialità. Eugenio Refini