HDIG ONLUS
HUMANITARIAN DEMINING ITALIAN GROUP
Gruppo Italiano di Sminamento Umanitario
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Opinioni e considerazioni sull’attuale andamento del mercato del greggio
(tratto da “Istituto Affari Internazionali)
22/03/2015
Nel susseguirsi di notizie negative che stanno sconvolgendo lo scacchiere
geopolitico, ve ne è una che va controcorrente: lo spettacolare tonfo nelle
quotazioni dell’oro nero, che a gennaio ha toccato quota 47 dollari al barile solo
in parte temperato dal rialzo intorno ai 60 dollari registrato nelle ultime settimane.
Illustri macroeconomisti hanno argomentato come un greggio a buon mercato
possa rilanciare produzione industriale e domanda interna. Vi è inoltre consenso sul fatto che il petrolio
basso stia riducendo ulteriormente le già deboli pressioni inflazionistiche, regalando alle banche centrali
maggiori margini per attuare una politica monetaria espansiva.
Analisti geopolitici evidenziano come l’attuale congiuntura sui mercati energetici limiterà il raggio d’azione
di regimi spesso problematici sullo scacchiere internazionale (Iran, Venezuela e Russia su tutti). Essa ridurrà
anche il flusso di denaro legato al complesso, ma reale, legame tra rendite petrolifere e finanziamento
dell’islamismo radicale. Indubbiamente buone notizie per un Occidente importatore cronico e in difficoltà
con diversi paesi produttori di petrolio, soprattutto nel mondo islamico.
Arabia Saudita tiene bassa l’asticella del prezzo
Pecca però di eccessivo ottimismo chi vede nel crollo dei prezzi una capitolazione dell’Opec e un’inversione
strutturale dei rapporti di forza tra produttori e importatori. Infatti, se il trend ribassista è da attribuire in
primo luogo all’eccesso di offerta sul mercato fisico, la sua tempistica ed entità sono state influenzate in
maniera fondamentale dalle mosse del blocco di paesi dominanti all’interno dell’Opec, saldamente guidato
dall’Arabia Saudita.
Spalleggiati dagli alleati del Consiglio della cooperazione del Golfo, Ccg, (Kuwait, Qatar, Emirati, Bahrain e
Oman), i principi sauditi hanno infatti accentuato il crollo delle quotazioni rifiutandosi, con il barile già sotto
agli 80 dollari, di annunciare un taglio della produzione al vertice Opec del 27 novembre scorso.
L’Arabia Saudita ha tenuto un tale atteggiamento nonostante un intervento fosse pienamente giustificato
dalla situazione di mercato e richiesto quasi disperatamente da una fetta significativa di paesi Opec (Iran,
Venezuela e Nigeria in primis) nonché da altri importanti produttori come Messico e Russia che
partecipavano al vertice. La mossa è stata poi puntellata il mese successivo dalle dichiarazioni del ministro
del petrolio Ali al-Naimi sulla possibilità di un petrolio a 20 dollari.
Shale, una vittoria di Pirro?
La narrativa trionfalista della ‘vittoria energetica’ dei trivellatori a stelle e strisce che spodestano gli sceicchi
nel dominio del mercato petrolifero nasconde dunque una realtà meno piacevole. Il settore shale americano
avrà pure sostituito il gigante saudita Saudi Aramco nel ruolo di “swing producer” in grado di influenzare le
quotazioni, come argomenta Alan Greenspan sul Financial Times.
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Una cosa però è essere swing producer per scelta, lasciando strategicamente fuori dal mercato fette
consistenti della propria capacità produttiva (come fanno i sauditi da almeno 30 anni), un altro è esserlo per
necessità, in quanto la propria produzione oscilla costantemente attorno alla soglia della profittabilità in uno
scenario di estrema volatilità dei prezzi. Per la schiera di produttori indipendenti del Texas o del Nord
Dakota un barile intorno ai 50-60 dollari significa flirtare con la bancarotta, soprattutto quando scadranno i
contratti di hedging firmati per coprire la produzione dei prossimi uno o due anni. Una tale condizione non
potrà che portare a un ridimensionamento della produzione a stelle e strisce, nonostante i dati più recenti
ancora non segnalino un calo dei volumi estratti.
Le formazioni geologiche scistose (shale), da cui proviene gran parte dell’incremento del 65% nella
produzione del petrolio americano negli ultimi cinque anni, necessitano di continui investimenti in nuove
trivellazioni per mantenere i livelli di attività attuali, ma l’afflusso di liquidità dai mercati finanziari complice anche l’annunciata fine del quantitative easing promosso dalla Fed - rischia di affievolirsi. E senza
capitali si svuoteranno anche i treni e gli oleodotti che trasportano il greggio americano verso le raffinerie del
Golfo del Messico, non a caso - come ha mostrato Bassam Fattouh dell’Oxford Institute of Energy Studies le destinazioni preferite per il greggio saudita prima della shale devolution.
Geopolitica dell’abbondanza saudita
Nel lungo periodo, inoltre, è difficile immaginare che i paesi del Golfo e i membri delle loro numerose
famiglie reali si accontentino di vivere in un mondo di petrolio a buon mercato, privandosi dei lussi e dei
privilegi globali che hanno saggiato durante l’ultimo commodity boom.
Anche questa volta l’Arabia Saudita avrebbe a disposizione le armi per invertire la tendenza: basterebbe
diminuire la produzione, cosa che si è rifiutata di fare al vertice Opec di novembre. In presenza di un segnale
opposto, i capitali finanziari potrebbero rientrare rapidamente sul mercato dei futures con aspettative
rialziste, in un remake del rialzo del 2009-2010 dopo il crollo di fine 2008.
Nulla di nuovo da Ryad: la nuova “geopolitica dell’abbondanza” assomiglia molto a quella vecchia.
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