Numero Luglio/Agosto `06

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Numero Luglio/Agosto '06
EDITORIALE
Benvenuti a tutti e ben ritrovati all’appuntamento mensile con il nostro inserto
dedicato a tutto quanto è “emergente, autoprodotto, esordiente, sotterraneo, di
culto” nel panorama musicale italiano.
Esattamente come il Mucchio cartaceo, anche Fuori dal Mucchio esce in edizione
doppia, per coprire in una volta sola i mesi di luglio e agosto e concedere anche a
noi un po’ di – speriamo – meritato riposo. Per questo motivo, abbiamo deciso di
proporvi un sommario particolarmente ricco di interviste, per farvi compagnia in
queste assolate giornate estive. Davvero ampio il ventaglio delle proposte, dai
Meganoidi all’avanguardia di Paolo Di Cioccio, dai Numero6 (freschi dei numerosi
passaggi su MTV) agli Studiodavoli, dai The Fire (il nuovo progetto di Olly degli
Shandon) al combat-folk della Casa del Vento, senza dimenticare Mosquitos, Lulù
Elettrica e Les Fauves.
Insomma, ce n’è davvero per tutti i gusti, e altrettanto variegato è il “piatto” delle
recensioni, con il meglio di quanto uscito in CD (o, nel caso delle Pornoriviste, in
DVD) nelle ultime settimane. Infine, a completare il tutto, un breve ma significativo
scorcio “Sul palco”.
Tanta, quindi, la carne al fuoco, speriamo di vostro gradimento. Non ci resta quindi
che augurarvi buona lettura, buoni ascolti e, naturalmente, buone ferie, dandovi
appuntamento a settembre.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
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Airportman
Off
Lizard/Audioglobe
Dopo una serie di album autoprodotti, i cuneesi Airportman approdano alla veneta
Lizard. Come ci auspicavamo nella recensione del precedente “Son(g)”, lo scorso
dicembre, qualcuno ha deciso di investire delle energie in questo quartetto atipico e
un po’ riluttante nell’esporsi. Musica per pochi, ma non nell’accezione più elitaria,
no: questi sono brani che richiedono un certo impegno nell’ascolto ma che sanno
parlare con molta gentilezza all’orecchio di chi ascolta. Ancora una volta a farla da
padrone sono gli strumenti, lasciati a gestire le emozioni in completa solitudine,
all’insegna di una musica piuttosto libera e rarefatta ma mai sfilacciata. L’impatto è
minimale e spoglio fino all’osso, e la chitarra viene spesso pizzicata al limite del
silenzio, come in “Off 7”, dove duetta con un glockenspiel e sullo sfondo incontra il
rumore dell’acqua che scorre e un telefono che non risponde. Se il primo brano
lambisce suggestioni quasi canterburiane (il sax dell’ospite Stefano Giaccone che si
fa strada tra malinconici fraseggi di organo, ritornando in seguito nella quasi
cameristica “Off 6”), “Off 5” parla inequivocabilmente il linguaggio di una psichedelia
desertica che scivola tra percussioni accennate e una chitarra languida e
“twanging”, come persa tra le rifrazioni di un miraggio, e “Off 9” è pura magia
acustica alla John Martyn. Le suggestioni vanno a colpire ad ampio raggio, la
personalità dei musicisti emerge solida, ma senza troppo spingere: la conferma che
la strada intrapresa è quella giusta (www.lizardrecords.it).
Alessandro Besselva Averame
Alio Die
The Box
Small Voices
Annoverato tra i più stimati interpreti di certo minimalismo elettronico a sfondo
esoterico, da oltre quindici anni Alio Die – al secolo Stefano Musso – sperimenta
percorsi sensoriali d’incredibile fascino, riscuotendo stima e consenso anche a
livello internazionale, come dimostrano le frequenti collaborazioni con artisti del
calibro di Robert Rich, Vidna Obmana e Mathias Grassow. Grazie
all’interessamento della Small Voices, esce oggi anche in vinile l’album del 1992
“Under An Holy Ritual”, allora pubblicato in proprio sotto le insegne della Hic Sunt
Leones e successivamente ristampato dalla Projekt, sempre in formato digitale.
Considerato non a torto un caposaldo dell’ambient rituale, il disco conserva ancora
oggi tutto il fascino del suo oscuro ipnotismo. In contemporanea l’etichetta di Andria
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licenzia anche il 10" “Aurea hora” con due tracce inedite composte dall’artista
milanese nel 2005 e caratterizzate da loop che si fondono a campionamenti di voci
e rumori. E al di là dei contenuti sonori – certamente riservati ad un pubblico
avvezzo alla musica di confine – colpisce anche l’aspetto inconografico di questi
due lavori, ennesima riprova di come il progetto di Musso si esprima in un percorso
a tutto tondo, che pure abbraccia arte visiva e stimoli intellettuali.
Entrambi i vinili sono in tiratura limitata e possono essere acquistati in coppia nello
splendido “Box” in plexiglass serigrafato, realizzato in soli cento esemplari e
destinato esclusivamente al mail order (www.smallvoices.it).
Fabio Massimo Arati
Ambea4
Ameba4
Sugar/Warner
Mi sento di affermare che la Sugar sia forse l’unica etichetta italiana supportata da
una major (da poco è passata dalla Universal al gruppo Warner) ad avere intrapreso
un percorso reale di adozione e crescita all’interno della scena rock italiana. Poche
scelte, mirate e convinte, con l’obiettivo di investire nel medio e lungo termine, con
la consapevolezza che sono finiti i tempi dove si poteva raccogliere denaro a
catinelle. Dopo i Negramaro è la volta degli Ameba4, che mostrano un approccio
meno fisico dei loro colleghi di label e privilegiano passaggi soffici, con tocchi di
velluto e melodia, sulla scia piuttosto dei Deasonika. È questo il vero riferimento per
il quartetto, che ha nel cantante e chitarrista Fabio Properzi l’asse portante, sempre
presente nella stesura delle tredici tracce che alimentano questo ottimo esordio
interessante anche per quanto riguarda i testi. Il noto Corrado Rustici si conferma
produttore di talento, lasciando intatto il telaio strutturale e lavorando solo di cesello.
Ascoltiamo così un rock sinuoso, ora velluto e seta, ora post-wave, con la voce che
sale e scende tra i sentieri di note che si impennano ma che – volutamente –
ruggiscono raramente. Ci sono alcuni brani che sanno solo di riempitivo, altri che
meritano la lode (penso al singolo “Rido…forse mi sbaglio”, a “Via da noi”,
soprattutto alla malinconia armoniosa di “Non vivo più”), ma a conti fatti è un CD
bello e pulsante, che rievoca atmosfere anche di due grandi e dimenticate band
italiane, Scisma e C.O.D.. Ambea4, interessanti davvero (www.ameba4.com)!
Gianni Della Cioppa
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Ammuina
Tutto lo splendore di un respiro
Tomato-CNI/Venus
Dici Ammuina e pensi al caos, al disordine e alla confusione. A patto che si
provenga da Napoli e dintorni e si conosca il significato della parola, tipicamente
dialettale. Se così fosse, potreste rimanere delusi scoprendo che nell’album di
debutto del gruppo partenopeo non c’è alcuna traccia di tutto ciò. Al contrario, le
dieci tracce (più immancabile intro) che compongono “Tutto lo splendore di un
respiro” vivono di atmosfere eteree e rarefatte che, attraverso il gioco di intrecci tra
arpeggi di chitarra e contrappunti al pianoforte, costruiscono una cattedrale sonora
all’interno della quale la voce di Alberto Ferrante si muove in bilico tra enfasi
declamatoria, sussurro confidenziale e falsetto solenne. In pratica, un ossimoro
perfetto. Quello che gli Ammuina chiamano “pop gentile” altro non è che una
miscela in grado di attingere tanto alla tradizione italiana quanto a quei modelli
stranieri che hanno nelle strutture circolari del post-rock dei Mogwai e nelle
dinamiche nervose dei Radiohead di “The Bends” il loro punto di riferimento. A tratti,
infatti, avanzando tra i solchi del disco è forte la sensazione di déjà-vu ma è
altrettanto nitida, in filigrana, l’immagine di un gruppo dal carisma notevole e dalla
spiccata personalità, dotato di una forza poetica tutt’altro che banale. Evitando di
calcare troppo la mano su quegli elementi che, sulla lunga durata di un album,
possono renderne stucchevole e ridondante l’ascolto, gli Ammuina potrebbero
regalarci (e regalarsi) numerose soddisfazioni, affermandosi come una piacevole
sorpresa nel panorama musicale italiano. Il biglietto da visita, in fondo, parla chiaro (
www.ammuina.com).
Enzo Zappia
La C.o.ska
Chettelodicoafare
Bizeta/La Baraonda
Dopo l’esordio, un paio d’anni fa, con “Gambero Killer” ritorna a far parlare di se La
C.o.ska con questo “Chettelodicoafare”. Continuando una tradizione tutta nostrana
che vede i gruppi che si cimentano con la musica in levare (ab)usare del suffisso
“ska”, il combo ferrarese – nome esteso Compagnia Orchestrina Ska – non tradisce
le aspettative regalandoci una dozzina di episodi freschi ed allegri che non possono
trovare collocazione migliore se non in una torrida estate. Ad aprire – è proprio il
caso di dirlo – le danze ci pensa una rivisitazione del tema che Nino Rota scrisse
per “Il padrino”, per poi passare attraverso influenze rockeggianti (“Diatribe”) e le
reminiscenze latine di “Svenditi l’anima” ma rimanendo comunque ben saldi allo ska
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più o meno tradizionale. A far da apripista, con tanto di video incluso nel CD, ci
pensa poi la cover (abbastanza prevedibile e rispettosa dell’originale) di “Donatella”
della Rettore: un brano che già nella sua veste originale poteva definirsi pop-ska e
che qui acquista grinta e velocità. Quaranta minuti che scorrono via veloci,
caratterizzati da una buona capacità musicale – e in questo caso si sentono le
variegate esperienze dei componenti – e da un’ottima capacità d’arrangiamento;
peccato solo per dei testi un po’ troppo innocui e per una voce non esaltante.
Niente, statene certi, che però possa intaccare il (molto) potenziale di “fun fun fun” e
di ballabilità presente in “Chettelodicoafare”: un compito svolto alla grande (
www.coska.net).
Giorgio Sala
Crifiu
Tra terra e mare
Dilinò
Esordio improntato a quell’indie folk multicolore e orgogliosamente plurietnico di
casa nostra. Mare stretto tra le terre, che la terra la vedi, e terra tra i mari che ne
senti il profumo. Ispirato in più di un episodio, oltre che a Pier Paolo Pasolini,
sempre più influente a trent’anni dalla morte violenta, ai “pensieri meridiani” di
Franco Cassano, teorico di una dignità meridionale basata su valori propri e
peculiari.
La title-track è mossa da archi di levante e suono di ciaramella, si respira
sospensione del deserto in “Andare lenti” (ecco Cassano), con un ritornello ch’è un
matrimonio tra Parto e CSI. Piano in levare su note ancora in sospeso, per
esprimere senso di allarme sul danno che si sta apportando al cielo e alle stagioni in
“Come sarà”, mentre fa capolino l’ottimismo in “Tammurriata d’esperánce”.
“Rock a Sud” ritorna sui passi del pensare meridiano, che è lentezza, ascolto,
capacità di sguardo largo. La tradizionale “Cecilia”, rifatta da molti a Sud, al Centro e
a Nord, è accecata da un sole pietroso.
Di buona fattura, complessivamente apprezzabile, “Tra terra e mare” soffre dei limiti
che affliggono gran parte della nostra combat-etnica: in qualche frangente è un po’
canonico, a rischio retorica. Ci sarebbe piaciuto che il contenuto sonoro fosse
ingegnoso e originale quanto il contenitore, un maxi-album con immagini di
cartografia antica. Il featuring reca una bella fetta della koiné etno-folk da
combattimento: Francesco “Fry” Moneti dei Modena, i Severini Bros., Fabio Lositi in
prestito dai Folkabbestia e i Mascarimirì (www.crfiuweb.com).
Gianluca Veltri
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Danila Satragno
Un lupo in darsena
Venus
Rileggere un canzoniere italiano con la sensibilità del jazz. La canzone italiana,
forse soprattutto quella leggera, molto si offre alla lente afroamericana. Ma la
Satragno rifà un repertorio che è già di suo ricercato e pregiatissimo. Due Tenco,
“Mi sono innamorato di te” e “Il mio regno” (risalente al 1961, anno di nascita della
Satragno), pensata come un giocoso incastro sperimentale, il tema adattato alla
struttura di “Ephistrophy” di Thelonious Monk. Due De André in genovese: “Jamin-a”
e una “Creuza de mä” in reggae-jazz, a suggellare un rapporto speciale con
l’autore di “Marinella”, che coinvolse la musicista nei suoi ultimi due tour. Due pietre
preziose squadernate da Mina, “Non credere” (sfibrata e sognante) e “Bugiardo e
incosciente”, illuminata dalla batteria nervosa di Roberto Gatto e dallo scintillante
pianoforte di Dado Moroni, presenti in tutti brani insieme a Rosario Bonaccorso
(contrabbasso) e Sandro Gibellini (chitarra). Un po’ di accademia (gioiosa,
d’accordo) con la bongustiana “Spaghetti a Detroit”; “Quando” di Pino Daniele si
adagia sulle note soffuse col pilota automatico, ma è poesia, di quella paradisiaca,
con “Duke Ellington’s Sound Of Love” di Mingus, una delle poche divagazioni dal
recinto italico. L’altro standard è “My One And Only Love”, eseguita dalla Satragno
al pianoforte, suo primo amore al conservatorio “Paganini” di Genova. Stiamo
parlando di un’artista che venti anni fa ricevette una borsa di studio a un seminario
estivo su menzione speciale di Steve Lacy. Noblesse oblige (
www.danilasatragno.com).
Gianluca Veltri
Del Sangre
Un nome ad ogni pioggia…
Bandone Music
Avevamo lasciato Luca Mirti alle prese con un sound sanguigno e granitico, un po’
privo di lampi. Ci aspettano sorprese. È spiazzante già l’ascolto di “La mia città”,
raccolta e sommessa, sembra un pezzo tradizionale, come possedesse un nocciolo
antico. “Si muore una volta sola” è impreziosita dalla tromba di Luca Marianini, e ha
l’andamento classico della ballata scarna. La statura di Mirti è cresciuta, s’impone
una diversa tempra, sia nella scrittura che negli arrangiamenti, che nelle doti
d’interprete del band-leader. Meno prevedibilità, dunque, rispetto a episodi
precedenti, semplicità essenziale che non significa mai banalità, anzi. Piuttosto una
glabra ricercatezza, la prevalenza del “segno meno”, che risale dalla folkeggiante
“Per non lasciarti fare…”, o dalla lirica e disincantata “Hotel Cristo”. In un gioco di
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percentuali, i Del Sangre cedono qualche quota di Modena City Ramblers per
acquistarne qualcuna di Mark Lanegan.
C’è ricerca di soluzioni timbriche che lascino il segno in maniera funzionale: carillon,
archi, tromba, hammond. Si ascolti “Marcella au revoir”, chanson d’amour con archi
(arrangiati da Gianfilippo Boni), dal sapore quasi coheniano. “Il mio nome è…”
richiama un immaginario anni Sessanta pseudo-western, coi vibrati elettrici, tra
cactus e motel; minacciosa e fatta di tenebra è “Il diario dell’assassino”. Si chiude
con la costante springsteeniana: “Il confine dell’odio e dell’amore”, dedicata alle
vittime dell’11 settembre 2001 e registrata in West Virginia (www.delsangre.it).
Gianluca Veltri
Egokid
The K Icon
Ethnoworld/Venus
Riascoltato a qualche anno di distanza, il debutto dei milanesi Egokid (“The Egotrip
Of The Egokid”, 2003) suona sì piacevole, ma ancora un po’ acerbo, un po’ fuori
fuoco. Come se le idee in esso contenute non sempre trovassero la forma migliore
per venire alla luce. Problema che con “The K Icon” pare superato, visto come le
sempre più numerose suggestioni vengano in esso amalgamate in maniera quanto
mai organica e con risultati soddisfacenti. Tanti, tantissimi gli stimoli che offre
l’ensemble, non solo dal punto di vista strettamente musicale: pop chitarristico di
matrice inglese, indie-rock a stelle e strisce, lievi striature di elettronica, una puntina
di jazz, prog, ballate acustiche, schegge di new-wave, ma anche Sean Connery,
Maria Goretti, letteratura (nel libretto è incluso un mini-racconto inedito di Matteo B.
Bianchi) e tematiche socio-politiche. Un caleidoscopio di suoni, immagini e parole
che sulla carta disorienta non poco, ma che alla prova dei fatti avvince. Non tutto è
perfetto – ad esempio, qualche ritornello davvero incisivo in più avrebbe reso il
piatto ancora più succulento – ma nel complesso il CD non manca né di spunti
interessanti né di buone qualità. Insomma, gli Egokid hanno il coraggio di osare,
fanno bene a farlo e lo fanno bene. A completare il programma, poi, quattro tracce
di un ipotetico EP intitolato “Songs In The K Of E”, poste di seguito a quelle
dell’album vero e proprio, tra cui la divertente (e irriverente) “Santa Kraut” (
www.egokid.it).
Aurelio Pasini
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Fish
Robe grosse
Warner
È affascinante quanto è carsico l’andamento dell’hip hop in Italia: si alternano
fiammate di interesse totale ad altri in cui invece pare l’ultima musica degli ultimi
sfigati. Ora, è sotto gli occhi di tutti, siamo di nuovo in periodo di onda buona:
Mondo Marcio, e poi anche la gente che impazzisce per il discutibile disco di Fabri
Fibra (con entrambi che, ognuno col proprio stile e non si sa quanto
intenzionalmente, prendono alcuni stilemi di Eminem: le major lo sanno). L’onda è
talmente buona che la Warner decide di ristampare “Robe grosse”, il disco di Fish –
ex metà dei Sottotono, ora anche autore di buona parte delle basi dell’esordio di
Fabri, ed è quest’ultima cosa che solletica gli istinti dei discografici, raccogliamo il
raccoglibile cioè. Aggiunge un DVD con un po’ di video, più due tracce nuove e un
remix di quel simpatico ruffiano di Tony Touch, uno che dalla old school ortodossa
che lo rendeva rispettatissimo a New York è passato ad un reggaeton che lo rende
più rispettato dalla banca dove tiene il conto corrente. Ad ogni modo, Fish è
un’inappuntabile professionista del suono da dancefloor che discende dall’hip hop e
si contamina con quello che gira per la classifiche e le rotazioni di MTV; in un’Italia
di molti dilettanti, questo ce lo fa apprezzare molto. Non chiedete a “Robe grosse”
cose che non può darvi: raffinatezza, impegno, sottigliezza, intellettualità. È, in
modo quasi cafone ed oltraggioso (quindi onesto), un disco da dancefloor a metà tra
hip hop e reggeaton. Esa (ex OTR) si adegua all’andazzo, al microfono, gli altri
ospiti idem. Se sapete cosa vi aspetta, e se è quello che cercate, questo è
sicuramente un buon acquisto (www.bigfish.it).
Damir Ivic
Frida X
Il mondo è lucido
autoprodotto-Black Candy/Audioglobe
I Frida X sono un gruppo anacronistico. E questo può essere il loro miglior pregio
così come il loro peggiore difetto. Questo perché sono una bellissima fotografia di
un determinato periodo storico in una determinata area geografica.
Era la Bologna universitaria degli anni ’90, quando la scena musicale indipendente
sperava di vedere la Grande Luce ed Enrico Brizzi – con cui i Frida X hanno da
poco realizzato il CD-reading “Nessuno lo saprà”, e qui presente in veste di
produttore esecutivo e co-autore di alcuni testi – pubblicava l’ormai pietra miliare
“Jack Frusciante è uscito dal gruppo” (tra l’altro, nella trasposizione cinematografica,
che poteva contare enormi prove d’attore di Stefano Accorsi e Violante Placido, i
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Frida X – all’epoca Frida Frenner – prendevano parte alla colonna sonora con “Jack
Punk”, qui riproposta); insomma, gli anni dell’esplosione dei Marlene Kuntz, degli
Afterhours, dei Massimo Volume e di Umberto Palazzo e il Santo Niente. Ecco, chi
ha vissuto in prima persona quei momenti troverà in queste canzoni (che
compongono quello che è ad oggi il vero e proprio esordio della band di Andrea
Agostini e Giovanni Azzoni) un forte sentimento di nostalgia e un grande senso di
appartenenza, di quando si era giovani e pieni di sogni e bastava poco per essere
felici. Il rischio, però, è che tutti gli altri possano trovare questo disco un po’ datato,
gli arrangiamenti un po’ faciloni – inevitabile, richiamando quella scuola dei gruppi
sopra citati – e le acrobazie testuali un po’ artificiose. A modo suo, un sussidiario
illustrato della giovinezza (www.fridax.com).
Hamilton Santià
Hypnoise
St. Valentine’s Porno Bar
Veneto West/DGM
Trio veneto che tocca la meta del secondo album, dopo l’esordio applaudito di sette
anni fa, quell’“Opium” (su MP Records, label defilata dai grandi circuiti, ma attiva
costantemente da un decennio), per il quale il leader – chitarrista, voce e altro – P.
Mike III (più chiarezza no?), era volato in America al fine di migliorare parti vocali e
produzione, ricavandone anche il contributo di Trey Gunn, allora nei King Crimson e
pronto a gelare il sangue con la sua “warr guitar”. Per questa replica il trio – che si
completa con Frez alla batteria e Sanze al basso –, sempre accompagnato dalla
saggezza del produttore americano Ronan Chris Murphy, fa le cose ancora più in
grande. L’album, che indossa le vesti di un concept ma vive su un gioco di incastri
che evita la banalità delle suite a lunga gittata, sembra piuttosto un compendio di
rock moderno a più facce, e può contare anche su ospiti di valore. Come Cheryl
Porter, che incanta con la sua voce in “Like A Free Bird”, uno dei pezzi più belli del
CD, in compagnia di “Black Napkin On Tomato Soup”, “Love In The Bathroom”, “My
Own World” e “The End Of Reason”. “St. Valentino’s Porno Bar” è stato presentato
a Londra e New York, e ha ricevuto critiche positive ovunque, anche da recensori di
estrazione jazz, a testimonianza della sua validità. Ora la band cerca solo occasioni
per suonare dal vivo. Accontentateli, ne vale la pena (www.hypnoise.net).
Gianni Della Cioppa
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Madrac
Real
Musiche Furlane Fuarte
Dopo sette anni ecco il ritorno di Madrac, ovvero il bizzarro progetto di Fulvio
Romanin (aka ReddKaa). Si amplia a dismisura lo spettro sonoro, la crescita nelle
soluzioni e negli arrangiamenti rispetto al precedente “Technotitlàn” è forte, resta il
principio base – musiche “moderne”, diciamo ora tra hip hop e funk, interpretate alla
voce con stilemi “moderni” (il rap) ma con un dialetto, quello friulano, che è l’antitesi
della modernità (non è certo il napoletano almamegrettiano, per intenderci: uno dice
dialetto friulano e pensa ai canti carnici, ecco). Per fortuna il booklet è ben fornito di
traduzione dei testi, che in un più di un momento sono davvero esilaranti e/o acuti.
Musicalmente, e chissà se è un misterioso DNA regionale (oltre a frequentazioni di
vecchia data), stiamo nei territori degli Amari, magari con più spensieratezza e
meno cerebrale intellettualità colto-pop. Ovvero: funk, in varie, eclettiche
declinazioni. Fatto molto bene. Con tocchi di rustica follia. Con qualche ingenuità
(non troppe). Con momenti di eleganza (molti). In tutto i musicisti coinvolti in “Real”
sono qualcosa come ventinove, e questo è un buon indizio dell’accuratezza del
progetto e dello sforzo che sottintende; ma gli sforzi sono perfettamente inutili se
non ci sono le idee. In Madrac ce ne sono molte. Con un po’ di malizia in più negli
arrangiamenti, con un po’ di voglia di essere ancora più zappiano, il prossimo
progetto potrebbe essere un vero crack. Ma già questo “Real” è un prodotto che
svetta per qualità e intelligenza nel panorama indipendente italiano del 2006 (
www.madrac.com).
Damir Ivic
Mammooth Feat. Raffaele Costantino
Enzimi 2005
ZoneAttive
Ne parliamo solo ora e vorremmo scusarcene, perché un progetto musicale
ragguardevole come quello dei Mammooth merita più che una menzione. Un disco
fuoriuscito dalla rassegna “Enzimi Musica”, nel senso che raccoglie e fotografa una
performance concertistica del sestetto romano nel contesto di tale aggregazione
sonora assieme al DJ-ing di Raffaele Costantino. E si tratta di una fotografia ricca di
meravigliose suggestioni ed espansioni elettro-acustiche, un suono tutt’altro che
preistorico a dispetto del simpatico nome, bensì coinvolto in una modernità vera, al
di là di tendenziose tentazioni dell’ultima ora. Ecco perché l’ambigua definizione di
post-rock potrebbe sembrare pertinente, ma invero sfumata e quasi casuale. Meglio
sintonizzarsi sulle frequenze electro-rock dei quattro brani presenti nel dischetto,
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progressioni immaginifiche che si espandono, si perdono felicemente nello spazio si
arricchiscono di groove ipnotici dove la tromba di Claudio Santamaria trova terreno
fertile per collocare un solismo lirico ed evocativo. In particolare le due lunghe
escursioni, “Gassa d’amante” e “Bind Date”, sanno rapire e spiccare il volo in zona
franca, eterea narcosi al di là di ogni vincolo gravitazionale, con la presenza di
Costantino ad accrescere la felice commistione sonora. L’intimistica levitazione di
“Out Of Season Song In NYC”, e le reiterazioni plananti di “Gachet” completano il
quadro di una serata live evidentemente riuscita, ancor più lasciandoci con
l’impressione di un Mammooth in forma smagliante. Un nome affatto trascurabile nel
panorama electro-indie-rock nazionale. Lo aspettiamo piacevolmente con buone
nuove (www.mammooth.net).
Loris Furlan
Maurizio Vercon
Everything Is Here
Videoradio
Nonostante l’epoca dei “guitar heroes” sembri finita da un pezzo (diciamo dieci anni
abbondanti?), l’impressione è che dischi strumentali con la chitarra al centro di tutto
siano comunque sempre in grado di ritagliarsi una fetta di appassionati. Spesso
musicisti in varie gradazioni di abilità, capaci meglio di noi mortali di cogliere
sfumature e colori che questo tipo di approccio alla musica sa offrire.
Fortunatamente questo esordio di Maurizio Vercon, sfugge alla sindrome
masturbatoria di molti suoi colleghi e dipinge scenari godibili, con linee di chitarra
sempre melodiche e cantabili che trascinano dieci canzoni ricche ma mai eccessive.
Parte del merito è da dividere con il telaio che addobba l’album, con ospiti di rilievo
(su tutti Maurizio Solieri alla chitarra in due brani) ma soprattutto con Maurizio
Ardessi, tastierista a più latitudini che dimezza con il titolare sia la scrittura che la
produzione dell’intero lavoro. Ed è proprio la presenza costante di una tastiera che
permette a “Everything Is Here” di vivere un equilibrio genuino, trasformando il tutto
in un buon rock variegato e non solo in un album di chitarra. Il sax del noto Andrea
“Cucchia” Innesto sfoggia talento e concretezza tra i solchi “Too Much Easy But Not
Eeasy”, “Evolution” e “Wild Sun”, tracce nelle quali la chitarra di Maurizio Vercon
appare più ispirata che altrove (www.mauriziovercon.it).
Gianni Della Cioppa
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Milagro Acustico
I storie o café di lu forestiero novo
CNI/RaiTrade
Bob Salmieri affida alle note le memorie di un viaggio di formazione. Quello che
fece da bambino a Tunisi, città in cui suo padre era nato nel 1920 da una famiglia di
Favignana. Il disco, tratto dal volume omonimo di racconti dello stesso Salmieri,
racconta del muoversi e dello stare. Se il viaggio è il cuore dell’idea di Mediterraneo
come ponte che collega la Turchia alla Sicilia e i Balcani all’Africa, centrale è
l’avamposto di Favignana, con la sua pigra sosta al Café, ritrovo di forestieri,
viandanti, isolani, pellegrini. È lì che si ascoltano le storie, è li che ognuno può
aggiungere la propria narrazione.
Come indicato già dal precedente percorso dei Milagro, è l’afro-siciliano il dominio
culturale di Bob Salmieri, senza disdegnare escursioni turche (“Salvate Hasankeyf”).
Genti che trasmigrano per riti da celebrare in “U spusaliziu”, processioni senza un
alito di vento in “Sanghe meu”, mentre in “Dioulo” Pape Kanouté descrive con la
kora i mercanti mentre tornano a casa in un tramonto di fuoco e sabbia. Affidandosi
alla ricchezza di una vasta varietà timbrica portata dall’ensemble - djembe, trombe,
tabla, Steinwey - Salmieri alterna kaval, sax, baglama, clarinetto. Il ney e il violino di
Jamal Oussini piangono in “Profughi”; è rilassata dolcezza la voce di Daniela Barra
in “Duci velenu”.
Il Milagro disegna atmosfere di fatica e sogno allucinate in un dormiveglia
crepuscolare, con un lavoro robusto, di scavo sulla tradizione senza calligrafie, che
non cede alle mode (www.cnimusic.it).
Gianluca Veltri
Miranda
Rectal Exploration
Fromscratch/Goodfellas
Cinque anni di attività e una grande passione per Captain Beefheart, Arto Lindsay, i
Can, gli Ex e gli US Maple: questi i primi dati presenti in ordine di apparizione sulla
biografia dei Miranda, trio costituito da Piero Carafa (basso), Giuseppe Caputo
(chitarra, voce, sampler) e Nicola Villani (batteria e rumori), e questo è quanto
emerge, onestamente, dal primissimo ascolto di “Rectal Exploration”. Esordio da
seguaci di una via dissonante al rock, di un blues mutato in post-punk e imbastardito
da un’attitudine noise che si impone ma senza pretendere la ribalta. È sempre
difficile individuare dove finisce l’omaggio ai propri codici di riferimento e alla propria
formazione musicale e dove inizia una nuova storia, ma i tre sanno giocare con i
loro maestri senza troppo utilizzarli per nascondersi, e il modo in cui una certa
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ossessività di derivazione Can viene trasportata in territori disco-punk, in
“Monosexfiles”, è qualcosa di più della semplice somma delle suggestioni, ed è
piuttosto indicativa dell’attitudine spartana e allo stesso tempo energica del gruppo.
Nessuna grossa sorpresa insomma, ma non è sempre necessario fare
dell’originalità assoluta una discriminante così netta: “Rectal Exploration” è un
saggio di bravura e di ottime potenzialità, la foto in movimento di un gruppo che, pur
essendo appena entrato in partita, è già sulla buona strada per diventare qualcosa
di notevole e di incisivo. Con già qualche frutto in bella evidenza (
www.mirandamiranda.it).
Alessandro Besselva Averame
Network
Titanus
NTW
Benché attivi con alterne vicende sin dal 1984, soltanto di recente i Network sono
giunti all’esordio discografico con un interessante CD prodotto e distribuito in
proprio. Muovendo dalle più classiche strategie della new wave, la formazione
ascolana fa propri linguaggi espressivi di natura diversa che vanno dal funky alla
dance music. Non è dunque un caso se nelle note di copertina il trio dichiara il
proprio amore per fenomeni quali A Certain Ratio, New Order, Material, Filia
Brazillia.
Ne scaturisce un bel lavoro che fuoriesce da schemi stilistici di sorta, attestandosi a
metà strada tra dark elettronico e adulto pop radiofonico. Da un lato la voce cupa e
profonda di Emidio Guidotti – che interpreta testi, per lo più in italiano, ispirati ad un
positivo messaggio di speranza – riconduce alle atmosfere ombrose e avvolgenti
tipiche degli anni 80; dall’altro, gli arrangiamenti fin troppo leccati e le ritmiche, che
volentieri si trasformano in intriganti groove, tradiscono un approccio melodico più
leggero, senza tuttavia mai scadere nel ruffiano.
L’album rimane dunque sospeso in un pericoloso limbo, correndo il rischio di
risultare troppo complesso per i gusti del grande pubblico e al contempo troppo
volubile per le orecchie del popolo rock. Si tratta invero di un becero problema di
formalismo stilistico perché, effettivamente, il valore oggettivo di questi dodici brani
rimane mediamente alto ([email protected]).
Fabio Massimo Arati
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Oleo Strut
Oleo Strut
Wallace/Audioglobe
Sembra incredibile che lo Xabier Iriondo oggi coinvolto in formazioni quali Polvere,
Uncode Duello e 2 Parti Molli Tremolanti sia lo stesso chitarrista che fino a poco
tempo fa accompagnava i facili ritornelli degli Afterhours e animava le energiche
sferzate elettriche dei Six Minute War Madness. Le sue scelte artistiche, dagli A
Short Apnea in poi, sembrano voler dimostrare che il rock è morto e il futuro della
musica debba essere ricercato altrove. Nell’improvvisazione, ad esempio, se non
nella manipolazione del rumore.
Trovato un degno mecenate nella figura di Mirko Spino (che con la Mail Series della
Wallace Records ha predisposto per lui un ideale spazio espressivo), negli ultimi
anni l’artista milanese ha messo in piedi alcuni progetti, spesso estemporanei, tutti
fondati sull’incontro/scontro di musicisti dediti a forme sonore non convenzionali. Il
collettivo italo francese Oleo Strut è soltanto l’ultima convergenza aleatoria di una
lunga serie di meeting improvvisativi: venti minuti di sperimentazioni, racchiusi in un
omonimo CD, nel caratteristico formato a tre pollici che contraddistingue l’intera
collana. Sono il sunto essenziale di molte session ben più estese, tutte ispirate
all’idea “di aprire lo spirito, l’ascolto e la tolleranza”. Ma affinché quest’effetto
scaturisca, è necessario che l’ascoltatore sia ben disposto e tanto spregiudicato
almeno quanto gli autori (www.wallacerecords.com).
Fabio Massimo Arati
Paolo Di Cioccio
The Tarot Of Tomorrow
Musica Maxima Magnetica
Qui c’è il rischio di perdere il conto. Tra sconcerti d’oboe, tarocchi e segni zodiacali
non facciamo più in tempo a segnalare un CD del Di Cioccio che già un nuovo disco
è bello e pronto nei negozi.
Dopo la parata pseudo-classica allestita assieme alla moglie Giovanna Castorina, il
compositore romano è infatti di nuovo in pista con un’opera integralmente a suo
nome, probabilmente il lavoro più significativo dai tempi del Theatrum Chemicum. Il
progetto mira a recuperare il discorso creativo aperto nel secolo scorso dai padri
dell’elettronica e mai portato a compimento, almeno secondo il personale punto di
vista dell’autore. Questi denuncia altresì il definitivo esaurimento delle possibilità
combinatorie offerte dalla musica, almeno nella sua forma espressiva
tradizionalmente riconducibile al sistema temperato. Pertanto è necessario dedicarsi
alla ricerca del timbro perfetto, della frequenza che faccia nuovamente vibrare gli
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animi nel profondo.
Ma non è semplice, almeno per l’ascoltatore comune, dedurre tutto ciò da un disco
d’avanguardia come “The Tarot Of Tomorrow”. Il suo sviluppo sonoro è infatti assai
impegnativo e tutt’altro che immediato; tra un delirio rumorista e l’altro bisogna allora
predisporre una condizione ambientale adeguata – per esempio indossando le
auricolari e spegnendo la luce – affinché i benefici dello spirito prevalgano sul
disagio sensoriale ([email protected]).
Fabio Massimo Arati
Polvere
Polvere
Wallace/Audioglobe
Un disco a suo modo roots, pieno di corde pizzicate e stropicciate, di fantasmi
blues, di suoni e voci evanescenti, con un immaginario rurale passato sotto i ferri
dell’improvvisazione ma duro a morire, questo esordio sulla lunga di stanza del
progetto Polvere, dopo un mini album uscito nel 2003 per le Mail Series di Wallace.
Il duo costituito da Xabier Iriondo e Mattia Coletti dei Sedia riesce a bilanciare
abilmente la riverenza nei confronti di un’idea spartana di blues (in un disco che è,
per molti versi, tradizionale, a partire dal timbro degli strumenti) con una buona dose
di temerarietà nello scombinarne i codici, senza comunque sconfinare
nell’astrattismo più radicale. Le composizioni se ne restano così a metà strada tra
una dimensione prettamente acustica (qualche esempio: il brano che, senza titolo
come tutti gli altri, chiude il programma, oppure il secondo in scaletta, dove una
chitarra acustica convulsa e spezzettata procede a tentoni tra detriti vocali
disseminati qua e là, non molto distante dai territori prediletti da John Fahey e
Davey Graham, o ancora il successivo, più lineare, un arpeggio appoggiato sul
suono sfasato dell’elettrica che ritorna, circolare) e una vena più sperimentale, come
nella strana sinfonia di collage sonori che va a costituire la quinta traccia. Tra
Leadbelly e gli A Short Apnea, volendo sintetizzare all’osso: un percorso
affascinante e azzardato, che però funziona ben al di là degli stimoli improvvisativi
che l’hanno generato (www.wallacerecords.com).
Alessandro Besselva Averame
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Pornoriviste
DVD
Tube/Venus
Un DVD delle Pornoriviste i molti estimatori della band lombarda lo chiedevano
ormai da tempo e il gruppo, complice anche l’ottimo lavoro di RockTV per quanto
riguarda le riprese, ha pensato bene di accontentarli. Registrato in un numero
imprecisato di concerti e location, dai grandi locali alle piazze fino ai piccoli club,
questo lavoro rispecchia in pieno lo spirito della band che vi è ritratta: schiettezza e
sincerità, nessuna concessione a qualsivoglia standard e, soprattutto, punk rock
grezzo e stradaiolo come quello a cui ci ha abituato da un decennio a questa parte.
Una ventina di brani, per un prezzo fissato entro e non oltre i 15euro, pescati da
tutte le produzioni del gruppo e catturati in una forma inevitabilmente energica e
poco pulita, nient’altro che quello che potete ascoltare se li andate a vedere in un
qualunque locale della nostra penisola, e nient’altro che la vera essenza della loro –
e nostra – musica. A far da extra soltanto qualche fotografia e i crediti dei
realizzatori, per un lavoro tanto essenziale quanto ben fatto, non fosse soltanto per
un montaggio a dir poco frenetico che mescola varie esibizioni all’interno di ogni
brano e che risulta un po’ dispersivo. Le Pornoriviste o si amano o si odiano, e se da
queste parti propendiamo nettamente a favore della prima è inevitabile che questo
DVD rafforzerà indistintamente l’una e l’altra fazione. Del resto, se non è punk rock
questo cosa lo è più? (www.pornoriviste.net)
Giorgio Sala
Revhertz
Buongiorno
Altipiani/Goodfellas
Ci sono due modi di recensire un disco italiano, magari pure esordiente (anche se
nel caso dei Revhertz di tratta di tre musicisti che da più di un decennio si danno da
fare): il primo è quello della benevolenza – aiutiamo i prodotti di casa nostra! – ed è
lì dove un disco sufficiente diventa discreto, uno discreto diventa bello e coraggioso,
uno bello e coraggioso diventa il più grande prodotto dell’ingegno umano dopo
Leonardo Da Vinci. L’altro, è quello di trattarlo come se fosse un prodotto “adulto”,
magari straniero. Il secondo ci pare un modo migliore per elogiare e rispettare il
disco in questione, ed è quello che adotteremo per “Buongiorno” (e non solo perché
è stato masterizzato a Londra). Dicendo così che la cifra pop + drum’n’bass + trip
hop dei Revhertz deve essere aggiornata prima di tutto nella parte tecnologica
(suoni vecchi, in parte deboli). Aggiungendo che la voce di Fiammetta Jahier, per
altro molto bella, deve diventare più asciutta, meno “carina”, più carismatica.
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Chiosando col fatto che non tutti i tredici brani del CD sono riusciti, alcuni sono poco
incisivi. Ma, detto questo: c’è freschezza compositiva, c’è comunque appropriatezza
nelle soluzioni strumentali, c’è una qualità media soddisfacente, ci sono due piccole
perle (la cover originale e ben congegnata di “Nessuno mi può giudicare”, poi anche
“Endovena emozionale”), c’è insomma un po’ di roba da apprezzare. Se invece
volessimo “aiutare i prodotti di casa nostra”, diremmo: album originalissimo, enorme
capacità tecnica, soluzioni all’avanguardia, eccetera... Ma i Revhertz meritano
recensioni migliori. Seguiamoli (www.revhertz.it).
Damir Ivic
Solitario Bit
Solitario Bit
Mexicat
Ci sono regole – in questo caso redazionali – che è importante seguire, ma che
ogni tanto è giusto trasgredire. Per quanto riguarda Fuori dal Mucchio, una è quella
di considerare gli album e gli EP disponibili non su di un supporto tradizionale (e
professionale) ma soltanto per il download in Rete alla stregua di demo, e come tali
eventualmente recensirli. Poi, appunto, ci sono i casi straordinari, che portano a fare
un’eccezione. Come questo omonimo lavoro di Solitario Bit, pseudonimo dietro il
quale si nasconde il chitarrista torinese Fabio Perugia, in libera uscita dai Gatto
Ciliegia Contro Il Grande Freddo. Un’esperienza con cui si pone in una certa
continuità, trattandosi ancora una volta di composizioni interamente strumentali, che
prendono linfa vitale da quello che è (stato) il post-rock e lo nutrono a robuste dosi
di sensibilità e intimismo, non perdendo di vista la tradizione tricolore ma neppure
sposandola apertamente. Risultato: un lavoro in cui circolarità e melodia vanno di
pari passo, tra arpeggi reiterati ma non ossessivi e aperture improvvise, tra
atmosfere raccolte ed esplosioni (mai troppo fragorose), tra suggestioni acustiche e
un’elettr(on)icità mai troppo ostentata. Grazie anche all’aiuto di alcuni amici –
Christian Alati alle tastiere, Lucio Sagone alla batteria e Vivana Petrozziello al
violino – Perugia ha creato una raccolta di acquerelli dai colori non troppo vivaci ma,
proprio per questo, particolarmente ricchi di sfumature. Da “Radio Blu Bit” ai
paesaggi folk di “Torno presto”, undici buone ragioni – tante quante i brani qui
contenuti – per non farsi problemi di forme e formati, anche se un formato ufficiale
probabilmente avrebbe dato al tutto una dignità ancora maggiore (
www.gattociliegia.it).
Aurelio Pasini
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Sur
Sur
Ethnoworld/Venus
Sur è una parolina che in lingua spagnola vuole dire Sud; la trovi spesso inserita in
progetti latino-americani che vogliano indicare l’enfasi fiera sulla propria marginalità,
sulla valorizzazione di sé in contrapposizione a un Nord freddo e distante. È il calore
della bossa, quello che pervade l’esordio dell’ensemble Sur. Lezioni di stile,
connubio tra Eloisa Atti (voce) e Francesco Gianpaoli (chitarra), circondati da un
gruppo di musicisti e tenuti a battesimo dall’ex-Rosaluna Marco Ambrosi.
È chiaro l’universo di riferimento di “Sur”, un Sud caldo e tropicale, amache e
pappagalli: la stilosissima “Creta” è molto cool, con un sottostrato caraibico e una
chitarra disturbante, costante; “Notte” è brasilera, morbida e pigra, adagiata in 6/4
sulle onde del piano Wurlitzer di Carlo Corzani. È bossa visionaria quella di “Stu”, il
pianoforte di Luciano Titi scricchiola le note sui tasti, “La novità (como raiz na terra)”
è delicatissima, con una chitarra sambeggiante degna di João.
Eloisa e Francesco sono voce di velluto e chitarra, di sotto, a fare spesso da
guastatrice, come in “Mattone dopo mattone”. “Side car” è funky, la chitarra è alla
Adrian Belew sostenuta dal sax baritono; è una cavalcata sentimentale “Da sempre”
(con due batteristi), ed è uno scherzo “Stagni”, sembra Astrud Gilberto la Atti. La
chiusura è con “Vestito d’azzurro”, un insolito rock’n’roll bandistico, un canto al sole.
Perché dietro ogni Sur c’è il sole, ovvio (www.surmusica.com).
Gianluca Veltri
Thelema
Burnt Memories
Small Voices
Sono trascorsi quasi dieci anni da quando i Thelema decisero di sciogliersi,
demoralizzati dall’immobilismo e dalle scarse prospettive offerte loro dalla scena
indipendente nostrana. Era già la seconda volta che il gruppo emiliano seppelliva
l’ascia di guerra e tutto lasciava presagire che sarebbe stata quella definitiva.
Niente affatto: Giorgio Parmigiani e Massimo Mantovani sono ancora assieme e
celebrano il loro ritorno con un CD tutto nuovo in cui la vena dark degli esordi e
l’attitudine punk degli ultimi cd sembrano aver lasciato il posto ad un approccio più
intimista e riflessivo. Le eleganti soluzioni elettro-acustiche di “Burnt Memories”,
assai curate negli arrangiamenti, rivelano infatti una sorprendente vena psichedelica
di derivazione barrettiana che conferisce un fascino soave e avvolgente all’intera
opera. Per fortuna anche l’intransigenza dei nostalgici è soddisfatta da due cover
d’eccezione: “European Female” degli Stranglers e “Heaven Street” dei Death In
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June (quest’ultima presente soltanto nell’edizione in vinile).
Mentre la band annuncia la prossima pubblicazione di una compilation con brani di
repertorio ritoccati e remissati, è già nei negozi la ristampa dell’epocale “Tantra” (su
etichetta In The Night Time), LP del 1986 adesso arricchito con pezzi inediti e alcuni
estratti da compilation e singoli d’epoca (www.thelemaband.com.it).
Fabio Massimo Arati
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Casa del Vento
Nuovo capitolo di una prolifica carriera per la Casa del Vento. A un anno da
“Sessant’anni di resistenza” dedicato ai massacri subiti dai partigiani dell’Aretino, “Il
grande niente” (Mescal/Sony) propone il sestetto alle prese con quattordici canzoni
dedicate al presente. La Casa è frequentata anche da diversi ospiti, come scoprirete
nella nostra chiacchierata con Luca Lanzi, compositore, cantante e chitarrista della
band.
Che aria tira nella Casa?
Tira sempre un po’ di vento, abbiamo una certa costanza compositiva perché ci
sentiamo persone attente, desiderose di emozioni. Qualcuno critica la nostra
prolificità artistica, ma siamo tra i pochi gruppi che tentano di mandare messaggi
nelle canzoni.
Il vostro disco è pieno di spunti tematici, partiamo dalla title-track. Il “grande
niente” si riferisce soprattutto all’anestesia televisiva, vero?
Si, l'anestesia della televisione spazzatura, ma anche la corsa al consumismo o ai
modelli di "ultima generazione". In una società dove contattarsi è diventato
facilissimo le persone non comunicano, sono sempre di più individui, aumenta la
solitudine e i giovani sempre più in preda dell'apparenza. Prolifera l'emarginazione.
Questo diventa il terreno di benpensanti e ipocrisie, tema forte di questo album.
L’album è per così dire alquanto “spesso”. Disoccupazione, deportazione,
mafia e legalità, razzismo, tensione civile. Non è tempo di leggerezza, vero?
Non sono del tutto d'accordo. È vero che affrontiamo temi forti, ma mai come in
questo album si è usato la tenerezza, la gioia e la speranza, quale antidoto al
marcio che vediamo. Mi riferisco a canzoni quali “Un giorno”, "Alla fine della terra",
"L'amore infinito", "Finché il vento". Anche gli arrangiamenti rappresentano una
discontinuità col passato.
L’invettiva contro la piattezza dei media si collega alla dedica a Pasolini, “Il
fiore del male”, nella quale canti, rivolgendoti direttamente a lui, delle
“geometrie oscene” che hanno sostituito le borgate.
A trent'anni dalla morte di Pasolini ci siamo resi conto di quanto sia attuale il suo
messaggio. L'ambiente deturpato, le guerre, l'ingerenza della chiesa nella politica
italiana, i diritti negati agli omosessuali, sono ancora temi irrisolti della nostra
società. Abbiamo pensato di scrivergli una lettera, nella quale traspare il disincanto
che nulla è cambiato. La voce di Ginevra Di Marco ha dato a "Il fiore del male", titolo
dell'omonima opera di Baudelaire, una forza e una bellezza incredibili.
E “La meglio gioventù”, la voglia di sognare, studiare e vivere dei ragazzi di
Locri? Come vedete l’irruzione giovanile in una universo dominato da padrini
e leggi immobili?
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Con "La meglio gioventù" volevamo sottolineare la lezione di legalità dei ragazzi di
Locri, per rimarcare ed esaltare che intorno al "grande niente" vi sono giovani capaci
di sognare e progettare un futuro onesto lontano dalle mafie. Rappresentano un
altro aspetto di speranza in questo album.
Nel brano si segnala la presenza di Erriquez, uno dei molti ospiti. La
“ospitata” illustre spesso nasconde solo il distintivo appiccicato a forza. In
questo caso, però, mi pare che gli apporti Ginevra Di Marco, Cisco, Tall
Abdoulaye siano funzionali a un risultato. Ci parli di questi incontri?
Proponiamo le collaborazioni mai in maniera avventata, ma pensando che "quella
canzone" sia adatta a quell'ospite. Sono stati tutti molto cari nel partecipare al nostro
lavoro, sono venuti con entusiasmo ed empatia artistica. Nel precedente album "Al
di là degli alberi" ospitammo Elisa, cosa che la stampa ha a malapena considerato.
“Ala sinistra” è ispirata al centravanti del Livorno Cristiano Lucarelli, mosca
bianca dell’ambiente calcistico già da prima di Calciopoli. Che posizione
assumete oggi sul tema?
Volevamo sottolineare l'idea di un calcio diverso. Aver scritto questo brano sembra
una profezia. Ci piacerebbe un calcio con giocatori pagati con un buono stipendio,
tipo 2000 euro al mese, che è sempre il doppio di un operaio, e con ciò che avanza
pagargli la pensione per quando non giocheranno più. I prezzi dei biglietti così
potrebbero essere più popolari, 5/10 euro al massimo, per rendere il calcio davvero
popolare. Meno soldi uguale meno avidità e meno competitività, per insegnare ai
bambini che si avvicinano a questo sport lealtà e onestà da riportare poi nella vita.
Musicalmente si avverte ne “Il grande niente” un passo verso un’ulteriore
maturità. Senza rinunciare alla cifra sanguigna c’è però un certo agio a
muovervi anche nei chiaroscuri.
Era necessario trovare una scrittura diversa, sia nei testi che nelle musiche.
Abbiamo cercato ritmiche coinvolgenti nei pezzi più energici, suoni con molto
"ambiente" nelle ballate, poi , da una parte, parecchie tracce di chitarre elettriche
con effetti di ogni tipo, dall'altra, pianoforte e archi e strumenti acustici, ma
pochissimi sono i riferimenti al folk, per non ripeterci rispetto al passato. La
componente etnica è scomparsa.
Ho trovato molto toccante “L’ultimo viaggio”, cantata dalla MCR Betty
Vezzani, che racconta su tambureggianti ritmiche combat una storia tragica: il
tragitto per Auschwitz di Carolina Lombroso, che partorirà nei vagoni il quarto
figlio, prima di essere cremata insieme a tutti i suoi figli. Perché è tanto
necessario ancora raccontare queste storie?
Quella di Carolina Lombroso e dei suoi bambini nonché del marito Eugenio Calò
trucidato nella strage di S. Polo (AR) è una tragedia da raccontare ai giovani.
Antisemitismo, odio, maternità, paternità, infanzia violata, perché la scuola di oggi
quando racconti queste storie ti dà dello sporco comunista? Ad Arezzo nessuno
conosceva questa storia, dobbiamo sensibilizzare i giovani, non come i programmi
scolastici della Moratti che hanno tagliato la storia contemporanea! Che ipocrisia
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vederla sfilare alla manifestazione del 25 aprile col padre deportato, solo perché
candidata a Milano, e poi allearsi con i fascisti della Fiamma tricolore... che
tristezza... come si fa a non porre un muro con realtà politiche che negano la
tragedia della Shoah!?
Contatti: www.casablancabazar.it
Gianluca Veltri
Les Fauves
Gli emiliani Les Fauves sono in questi giorni in uscita per Urtovox (distribuzione
Audioglobe) con il loro EP d’esordio, “Our Dildo Can Change Your Life”. Il titolo,
volutamente – anzi sfacciatamente – provocatorio fa venire in mente una serie di
domande altrettanto provocatorie, cui il batterista Davide Caselli a.k.a. Case
risponde con spirito (anche se in maniera un po’ laconica). Così come è facile
chiedergli dell’argomento più tabù e più intrigante del caso – alla luce dell’uso lirico
che fanno del sesso più “kinky”, quello feticista – viene spontaneo ricorrere al topic
delle influenze, inflazionato ma sempre interessante. Il ritratto della band che
emerge dalla mini-intervista qui di seguito è quello di una band che lotta e gioca con
lo stereotipo della formazione pseudo-postpunk inglese in voga al momento,
tentando di ritornare alla radice programmaticamente geniale e triviale dei Violent
Femmes.
“Fauves” in francese vuol dire belve, mostri. “Monstrum” però, in latino,
vuole dire anche e soprattutto "prodigio". Quale delle due accezioni preferite,
quella classica, spaventosa, o la seconda, quella relativa allo straordinario?
Pensavamo significasse soltanto "belve" in francese, ma non importa tanto tutti ci
chiamano "Le Fave". Tra prodigi e mostri siamo sicuramente fave.
Che tipo di mostri siete (o vorreste essere)?
Quelli pieni di tentacoli nei fumetti zozzi giapponesi (ecco una risposta che
accontenta tutti).
Senza troppi giri di parole, e visto che voi non ne fate, il sesso è molto
importante nella vostra poetica, o almeno lo sembra. Si tratta semplicemente
di un desiderio di “épater les bourgeoises” oppure siete alla ricerca di una
maniera nuova di esprimere il sesso in musica?
Non facciamo sesso o giri di parole? A parte gli scherzi ci viene naturale
coinvolgerlo nelle nostre canzoni perché il rock'n'roll parla sempre di quello, anche
quando non ne parla affatto. Parliamo di amore e di guerre nucleari, ma non
sappiamo quanto questo sia casuale.
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Per voi, i "mostri", il sesso è mostruoso?
Dipende con chi lo fai, ma effettivamente si; tolta la componente libidinosa il sesso
non è altro che un mostruoso (o prodigioso) scambio di liquidi...
Il dildo, noto oggetto da sexy shop, dà addirittura titolo al vostro album. E,
così come le sculacciate in "Spank Me" tutta la sfera dei giocattoli del genere
è un po' tabù. Perché avete scelto un titolo come "How Our Dildo Can Change
Your Life"?
Innanzitutto, alcuni di noi credono nel feticismo consapevole. Poi, volevamo
pubblicizzare qualcosa di divertente.. E' un titolo puramente ironico... E in più, se ci
pensi, l'autoerotismo ha cambiato la vita di molte persone…
Il tutto deve essere in qualche modo legato all'immagine di band che volete
proiettarvi addosso (anche se ancora non ho avuto la fortuna di vedervi dal
vivo). Quali sono gli aggettivi che attribuireste a questa immagine e perché?
Sinceramente non abbiamo mai pensato a un tipo di immagine in particolare,
dovrebbe delinearsi da sola o almeno vorremmo che così fosse. Il fatto che il nostro
EP parli principalmente di sesso non significa che sarà così anche in futuro. Ci
lasciamo aperte un sacco di strade, e speriamo che ci siano sempre più aggettivi da
poterci appiccicare addosso.
Ok, fine prima parte. Passiamo ai dettagli tecnici: l'incontro con il fondatore
della Urtovox Paolo Naselli Flores e quello, altrettanto determinante, con
Giacomo Fiorenza.
Abbiamo avuto la fortuna, durante il 2005, di vincere alcuni importanti concorsi, ed
in particolare, grazie alla vittoria di "Progetto Demo" abbiamo incontrato Giacomo. Si
trovava in tour con Yuppie Flu al SoundLabs Festival, dove suonavamo anche noi.
Da allora decise di prendersi a cuore le nostre sorti. E' stato grazie a lui che
abbiamo potuto registrare l'EP all'Alpha Dept di Bologna e conoscere Paolo.
Diciamo che non è facile decidere di produrre un gruppo esordiente e la carica
reciproca li ha convinti a provarci. Ed eccoci qui.
A quali band vi dà più fastidio essere musicalmente (o "fisicamente")
accostati?
I Placebo (è capitato!). In generale non fa piacere leggere o sentirsi dire di essere il
solito gruppo "indie modaiolo" modello inglese, come capirai. Le varie recensioni
uscite in questi mesi ci hanno paragonato a gruppi che stimiamo da sempre, quindi
non possiamo certo lamentarci.
E a quali invece vorreste assomigliare?
Siamo alla ricerca di una nostra identità il più personale possibile. Ci piace prendere
spunto da ogni dove. In particolare da tutte quelle band americane che hanno dato
voce, soprattutto negli 80s, a sussulti adolescenziali come Cramps, Devo e Violent
Femmes.
Ah, per finire. Avete mai pensato ad un live in un sexy shop?
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No. Ma se ce lo proponessero saremmo felicissimi di farlo, chi non lo sarebbe?
Contatti: www.lesfauves.net
Marina Pierri
Lulù Elettrica
Cinque anni di storia per un debutto – “Venti Rose Porpora” (Manzanilla/Audioglobe)
– che percorrere i sentieri del rock, indie se siete tra quelli che cercano una
definizione a tutti i costi. Niente di rivoluzionario, ma una freschezza di scrittura che
merita la nostra attenzione. Ne abbiamo parlato con il cantante e bassista Enrico
Tedeschi (gli altri “elettrici” sono Matteo Micheloni alla batteria, Alessio Comerlati e
Gabriele Giuliani alle chitarre).
Inizierei con una breve storia della band e con la curiosità del vostro nome…
Il nostro nome deriva da un trucco che veniva usato dai “maghi” degli spettacoli
circensi nell’800: durante lo spettacolo infatti il “mago” di turno includeva nel proprio
numero un giochetto che consisteva nel dare la mano ad un “prescelto” del pubblico
facendogli prendere la scossa elettrica. Il trucco si basava su un intricato sistema di
fili e piastrine ed era chiamato ‘electric lulù’, Lulù Elettrica appunto.
Ho avuto occasioni di ascoltarvi dal vivo alcune volte. L’impressione è che
sul palco il vostro potenziale si liberi da vincoli e ci sia molto più energia. Che
ne pensi?
In parte forse è vero. Questo è dato dal fatto che in studio riusciamo a rendere in
maniera diversa, forse meno immediata rispetto al contesto live, perché tendiamo a
curare l’aspetto più tecnico dei pezzi. È una questione puramente emotiva. In studio
non hai gli stessi stimoli di quando sei su di un palco davanti ad un pubblico che è lì
per “guardare” cosa suoni. Ho volutamente usato il verbo “guardare” perché quando
ti esibisci non solo devi soddisfare le orecchie delle persone che ti stanno
ascoltando, ma esse ti devono riconoscere in quello che sentono. Ecco che allora
viene spontaneo dare sfogo a se stessi insieme a tutti i watt dei propri strumenti.
Come state promuovendo l’album? E quanto è difficile farsi ascoltare nella
palude del rock italiano?
Concerti, concerti, concerti. Grazie anche al lavoro della nostra etichetta
(Manzanilla) che riesce a trovarci gli spazi, i locali dove poter suonare riusciamo a
muoverci piuttosto bene, ma non è di certo facile. In ogni caso solo con i concerti
nel giro di pochi mesi abbiamo girato in lungo ed il largo il nord e il centro dell’Italia.
A volte è stressante perché non ci si mantiene facendo solo questo, tutti e quattro
lavoriamo e non sempre risulta facile incastrare gli impegni. Siamo convinti però che
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ne valga la pena, “Venti rose porpora” è il nostro punto di partenza, la nostra visione
di ciò che ci circonda e ci fa vibrare gli animi.
Che idea avete della stampa rock italiana, sia cartacea che sul web?
Questa è una domanda molto impegnativa, come tutte le domande generiche del
resto. È un mondo che certamente non ci riteniamo di conoscere oggettivamente
fino in fondo, quindi non abbiamo qui un pensiero o un giudizio preciso a riguardo.
Per conto nostro è un panorama molto vario nel quale, da una parte si trovano
persone che di musica ne capiscono e di conseguenza ne sanno scrivere, dall’altra
invece se ne trovano altre per le quali l’unico merito è quello di aver trovato una
penna con cui scrivere nel cassetto della scrivania. Vogliamo convincerci che vada
bene anche così, a volte la verità si trova pure nella penna degli stolti.
Nonostante ci siano riferimenti sparsi, il vostro rock non ha una matrice
evidente. Quali sono, velate o reali, le vostre influenze e tra i protagonisti del
rock di oggi, c’è qualche nome che vi sembra particolarmente interessante?
Che tutti quelli che ascoltano il nostro album sentano nelle sue note i propri artisti
preferiti, che siano essi i CSI, i Marlene Kuntz, i Pearl Jam, o la banda del proprio
paese. Non credo che abbiano importanza le nostre influenze. Se vuoi possiamo
provare ad elencarti gli artisti di cui noi quattro ci siamo musicalmente nutriti da
quando siamo piccoli, ma non avrebbe senso. Siamo quattro persone che
musicalmente hanno trascorsi anche piuttosto diversi prima di approdare nei Lulù
Elettrica. Si passa dai Pink Floyd ai Judas Priest, da Bruce Springsteen ai dischi
solisti di John Frusciante per passare attraverso il giunge anni 90 e mille altri
ancora. Ciò che si sente nel disco è allo stesso tempo la somma e l’annientamento
di tutto quello che abbiamo sentito-ascoltato fino ad ora. Oggi è tutto un brulicare di
nuovi nomi, si sentono bei motivi che durano il tempo di un battito di ciglia, ci sono
troppe proposte, lascio ai posteri l’impegno di fare i nomi interessanti della musica
del nostro tempo.
Voi provenite da Verona, una città molto attiva per quanto riguarda la scena
rock locale, eppure, vivendo la cosa da dentro, ho come la sensazione che a
tradire la musica siano proprio i musicisti, sempre avvinghiati alle loro
canzoni, ma quasi sempre assenti ai concerti o alle tante iniziative che la città
offre. Chi mi conosce sa come la penso, quindi è una critica forte che rivolgo
a tutti. Voi come vivete l’essere musicisti nella vostra città?
Chi fa musica è fondamentalmente una persona come tante. E come tanti va ad
ascoltare solo chi gli interessa e gli piace. Non vedo il motivo per cui visto che
scriviamo canzoni dobbiamo andare ad ascoltare concerti o partecipare ad iniziative
che non suscitano il nostro interesse. Non vorremmo mai diventare come qualcuno
che finisce per andare ai concerti altrui solo per poi aspettarsi che l’altro ricambi il
favore. Non è così che dovrebbe funzionare la cosa. Perché dobbiamo sentirci
“traditori” della musica se non assistiamo a tutte le manifestazioni musicali della città
in cui viviamo? A molte si partecipa, ad alcune no. I traditori sono altri. Non ci
sentiamo “avvinghiati alle nostre canzoni”, siamo sempre stati aperti a qualsiasi
collaborazione artistica. Più in generale diciamo che Verona offre tante iniziative che
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spesso però non vengono sufficientemente pubblicizzate o rese note all’infuori di
certi ambiti o associazioni, questo, per chi li organizza, è come fare il lavoro a metà.
Quindi diciamo che se una manifestazione non ottiene una larga partecipazione di
pubblico non è solo da criticare “l’utente” ma anche gli addetti ai lavori.
Come vi vedete tra dieci anni? Un modo diverso per chiedervi i vostri progetti
futuri.
E’ la seconda domanda impegnativa di questa intervista. Nell’immediato stiamo
lavorando a quelle che saranno le canzoni del prossimo disco. Parallelamente
continueremo a promuovere attivamente “Venti rose porpora”: ci rimangono ancora
mille e mille luoghi dove non siamo stati. Per il resto non saprei, noi pensiamo per
piccoli passi, andiamo avanti a piccoli gradini, speriamo solo di percorrere una
bellissima e lunghissima scalinata.
Contatti: www.luluelettrica.com
Gianni Della Cioppa
Meganoidi
L’EP d’esordio “Supereroi vs. Municipale”, nel 1998, li aveva portati alla ribalta con
una formula ska-punk di sicuro impatto – perfezionata nel fortunatissimo “Into The
Darkness, Into The Moda” del 2000 –, ma hanno preferito seguire la loro strada
lasciandosi alle spalle un filone di sicuro successo: i genovesi Meganoidi, dopo il più
rock “Outside The Loop Stupendo Sensation”, sono approdati – anticipati dall’EP
“And Then We Met Impero”, alle aperture formali di “Granvanoeli” (Green
Fog/Venus), disco variegato e multidirezionale. Ne parliamo con Luca Guercio
(tromba e chitarra) e Mattia Cominotto (chitarra).
Guardando le singole tappe, una alla volta, probabilmente il divario è molto
meno evidente di quanto non possa sembrare nel suo complesso, resta il fatto
che è davvero impressionante la distanza che intercorre tra le vostre
disavventure con i vigili urbani e “Granvanoeli”, anche se immagino abbiate
vissuto questo processo in modo molto naturale. Ci potete raccontare
sinteticamente le esigenze che stanno dietro a questa mutazione?
(L) Siamo un gruppo realmente indipendente, gestiamo interamente noi il progetto,
dalla registrazione, al booking, all'ufficio stampa. Essere indipendenti non significa
"non firmare" per una major e fare l'alternativo, è un vero e proprio modo di
concepire e proporre la propria musica, purtroppo spesso i primi a non capirlo sono
proprio gli addetti ai lavori. Essere sinceri con noi stessi è sicuramente
controproducente se si vogliono rispettare le regole del mercato, ma preferiamo fare
quello che ci rappresenta ogni volta e non auto-etichettarci per garantirci un
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pubblico e delle vendite. Se facessimo in modo diverso, non saremmo tanto lontani
da chi firma per una major o da chi è indipendente solo perché le multinazionali non
vogliono lavorare con loro, e dopo si comportano esattamente nello stesso modo.
Sinceramente non ho nulla contro di loro, ognuno fa le proprie scelte, ma
incominciamo a chiamare le cose con il proprio nome, altrimenti non lamentiamoci
se c’è chi il “falso in bilancio” lo chiama “bilancio creativo”.
Per una questione di strutture musicali complesse ma mai troppo lontane dal
pop, e il ricorrere di alcuni temi (ad esempio mi pare che le questioni
ambientali ricorrano con una certa frequenza), “Granvanoeli” mi ha ricordato
a tratti la stagione fortunata del progressive italiano dei primi anni Settanta.
Non solo e non necessariamente dal punto di vista estetico-musicale, ma
proprio nell'attitudine del prendere una tradizione più o meno melodica e
cercare di trasportarla da qualche altra parte.
(M) Cerchiamo di scrivere pezzi che abbiano la forza di essere comunicativi al di là
delle strutture. Faccio fatica a definire più pop o più indie un prodotto solo in base al
grado di melodicità e di comunicabilità: a priori non escludiamo nessuna possibilità
compositiva e non ci interessa scrivere per essere identificati con una scena. In
verità non ci sentiamo molto legati a quella progressive italiana dei primi anni 70.
In genere è la classica domanda che viene fuori quasi in automatico, ma mi
pare che siate piuttosto elusivi a riguardo, ragion per cui insisto: cosa
significa “Granvanoeli”, e perché lo avete scelto come titolo?
(L) “Granvanoeli” non significa nulla, è un suono, una parola inventata.
L'interpretazione è libera anche per quanto riguarda il titolo, ognuno può dargli il
significato che vuole. Pur essendo una parola inventata, ha comunque un suono
che a noi piace molto, ed è per questo che l'abbiamo scelta. D'altra parte, le parole
sono suoni.
In realtà questo disco non è un'opera a sé stante, ma la prima parte di un
dittico destinato ad essere completato se non sbaglio il prossimo anno. Due
album gemelli, mi pare di capire. Che tipo di disco sarà il secondo e come mai
avete sentito il bisogno di realizzare questa continuità concettuale?
(L) Durante la realizzazione di “Granvanoeli” sono nate molte idee che non
avrebbero potuto essere incluse in questo disco, che aveva già un suo equilibrio.
Abbiamo così deciso che saranno il seguito di questo lavoro. Non saranno due
album gemelli, anche se avranno alcune cose in comune.
In almeno un brano, “Un approdo”, vi avvicinate molto a una dimensione
cantautorale classica. Sintomo di una possibile evoluzione in tal senso?
Oppure preferite, come mi pare di capire, tenere tutte le porte e i sentieri
aperti, lasciare il cantiere in costruzione senza dover scegliere un percorso
segnato?
(M) “Granvanoeli” effettivamente ha lasciato diverse porte aperte e probabilmente
alcune si chiuderanno con il prossimo lavoro. Non saprei ancora dire se la direzione
di “Un approdo” sarà quella definitiva, ma sicuramente è un pezzo nel quale ci
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riconosciamo particolarmente, così come ci riconosciamo nella tradizione
cantautoriale genovese.
L'utilizzo dell'inglese in alcuni brani credo rappresenti anche, quantomeno
indirettamente, una porta aperta verso l'estero. Come vedete la questione, se
ve la siete mai posta?
(M) Sinceramente quando scriviamo in inglese non lo facciamo pensando a un
riscontro fuori dall'Italia, anche se sicuramente può essere fondamentale. L'utilizzo
di questa lingua deriva da una necessità metrica e fonetica. Ci sono certi brani che
perderebbero alcune caratteristiche se non fossero accompagnati dal suono della
lingua inglese.
A un certo punto avete deciso non solo di autoprodurvi ma anche di dare
spazio a nuove realtà musicali della vostra città attraverso Green Fog. Un
bilancio di questa esperienza discografica fino ad ora?
(L) Fino ad ora abbiamo prodotto gli En Roco e usciremo entro la fine dell'anno con
TarikOne, Cut Of Mica e Marti, tre gruppi completamente diversi l'uno dall'altro, ma
in cui crediamo. Il bilancio è ottimo se contiamo che ora il nostro studio
(GreenFogStudio) è cresciuto molto grazie ad un investimento economico e
personale, e l'etichetta garantisce un buon supporto promozionale. Un'altra garanzia
per l'etichetta è data dal fatto che Mattia è il fonico di riferimento dello studio, che
non si occupa solo delle nostre produzioni ma è aperto a chiunque voglia registrare
il proprio materiale.
Contatti: www.meganoidi.com
Alessandro Besselva Averame
Mosquitos
In un ordine preciso che alterna il CD all’EP, arriva il terzo disco lungo del gruppo di
Frosinone. “Ventilator Blues”, appena uscito per Fosbury (e distribuito da
Audioglobe), è un album corposo, virulento, che si tinge di pennellate di cuore scuro
mentre vengono fuori (inevitabili) certe sonorità della vecchia scuola 4AD. Uno di
quei dischi che riempie le ore: le amplifica e fa dimenticare che passano
raccontando in inglese storie leggermente truci, ma anche no. Canzoni che vi
sembreranno abbracci. Ci risponde Mario Martufi: voce, chitarra e “colpevole” di
tutto ciò assieme a Gianluca Testani al basso, Fabrizio Gori alla batteria e – da
questo disco in forma ufficiale – Simona Fanfarillo alle tastiere e Sandro Martufi alla
chitarra.
Voi siete un gruppo d'ispirazione new¬ wave, cosa o quale disco vi ha
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fatto innamorare di questo genere musicale?
Non è semplice rispondere alla tua domanda visto che è la prima volta che veniamo
associati così direttamente alla new wave, ma non ti nascondo che mi fa piacere.
Però non c’e un disco in particolare che ci ha spinto in questa direzione. Siamo un
gruppo in cui le singole individualità, miscelandosi, generano spontaneamente
questo genere d’approccio, anche se poi, singolarmente nessuno di noi è un
frequentatore assiduo di questo genere musicale.
Alla volta del vostro secondo album e due EP che li hanno intervallati, com'è
cambiato il vostro approccio creativo nella composizione?
Le canzoni rimangono l’elemento centrale. Quando iniziamo a scrivere la prima
cosa che cerchiamo di fare ogni volta è provare a realizzare la nostra canzone
migliore. L’approccio creativo cambia continuamente perché siamo noi che
cambiamo. La stessa canzone, se fosse registrata di nuovo a un mese di distanza,
potrebbe suonare completamente diversa. Le nostre canzoni, sono creature che
attraversano diverse fasi di sviluppo e il risultato che finisce in un disco è la
fotografia di ciò che la canzone era in quel determinato momento. Inoltre, è stato
molto importante l’ingresso nel gruppo di un’altra chitarra e delle tastiere che ci
hanno aperto inevitabilmente nuove possibilità creative contribuendo a modificare i
nostri tratti somatici. In quest’occasione è andata così, ma la prossima volta
potrebbe essere tutto diverso.
Le canzoni nuove mi sembrano più morbide e meno psichedeliche, come
mai?
Sono il risultato della fase creativa che stavamo attraversando quando le abbiamo
scritte. Credo che questo disco rappresenti una sorta di percorso d’uscita dai due
precedenti.
C'è stato anche un cambio di formazione. Adesso siete ufficialmente cinque o
succede solo nel disco?
Siamo, definitivamente e ufficialmente in cinque. C’è stato l’ingresso di Simona che
aveva suonato le tastiere anche su un paio di canzoni di “Electric Center”, mentre
Sandro si è aggiunto subito dopo.
Quando scrivete i testi, poiché vi piace raccontare delle storie, raccontate
quella di “Ventilator Blues”?
L’idea iniziale era quella di intitolarlo “Z”, ma è tramontata definitivamente all’inizio
delle sessioni di registrazione, e più precisamente quando è uscito il disco dei My
Morning Jacket che, appunto, si intitola “Z”. Stavamo già impostando la grafica di
copertina. Avevo anche parlato con il nostro amico Natalino Capriotti di quest’idea
della zeta che doveva servire a rappresentare la fine di qualcosa intesa come il
limite ultimo, il confine. Forse, l’ultima parte di qualcosa più che la fine vera e
propria. Lui ha iniziato a mandarmi racconti e poesie che aveva scritto e tutto è nato
da lì. “The Guns And The Bombs” e “At The End Of It”, sono estrapolate dalle sue
storie e le altre canzoni ne hanno seguito l’ispirazione.
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Avete registrato il CD a Frosinone, dove vivete, ma per mixarlo siete finiti a
Bologna. Come mai la scelta dell' Alpha?
Perché ci piacciono tutti i dischi fatti in quello studio. E abbiamo conosciuto
Giacomo Fiorenza al Greenfly Festival, dove suonavamo prima degli Yuppie Flu, in
quell’occasione abbiamo iniziato a parlare di una collaborazione e siamo rimasti in
contatto fino ad oggi. Ci tengo a dire che l’Alpha è stato un ambiente in cui ci siamo
trovati a meraviglia. Giacomo e Francesco Donadello sono persone cui devi
spiegare niente e c’è stata alcuna discussione sulle proposte di mixaggio.
Semplicemente ci siamo trovati d’accordo su tutto e non è una cosa che succede
spesso.
Per “Ventilator Blues”, avete avuto anche diversi ospiti. Vuoi ricordarli?
Certo. Otello Rosi, che ha suonato il banjo su “By The Gun”, è un vecchio amico di
Gianluca dai tempi dei Bluebonnets, il gruppo in cui suonava prima dei Mosquitos.
Poi Sandro Traversi, che aveva già suonato la chitarra su “Electric Center” e ci
aveva accompagnato anche dal vivo in diverse occasioni: sua è una delle chitarre
noise sulla coda di “Nice At Night”. E, ancora, Marco Schietroma,
cantante/chitarrista dei Fleven e batterista degli Sweetsick, due band molto giovani
e molto promettenti, che ha aggiunto la lap steel su “Bird Singing”. Giacomo
Fiorenza infine, ha semplicemente detto “qua io ci sento proprio un tamburello”, e lo
ha aggiunto di sua mano sulla coda di “Bird Singing” e su quella di “By The Gun”.
Qual' è stato il concerto più emozionante della vostra vita musicale?
Per me ogni concerto è emozionante. Una persona timida che deve salire su un
palco per esibirsi non può che essere emozionata. Magari sarebbe più semplice dire
quale non lo è stato. Quelli, almeno io, li ricordo tutti.
Se non esistesse la Fosbury per quale etichetta uscirebbero i Mosquitos?
Ce ne sono diverse alle quali ci sentiamo vicini come attitudine. La Homesleep ci
piace molto, ma anche la Ghost o la Urtovox fanno un ottimo lavoro, anche perché
in questo momento ci sono tanti gruppi interessanti.
Contatti: www.mmmosquitos.com
Francesca Ognibene
Numero6
Dai Laghisecchi ai Numero6, passando per il “via”. Questa in sintesi la storia di
Michele Bitossi – il nostro interlocutore – e Stefano Piccardo, spine dorsali di una
band che con “Dovessi mai svegliarmi” (Eclectic Circus-V2/Edel)decide di fare del
pop da camera una scienza esatta.
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Partiamo dalla fine. Soddisfatti del risultato finale o col senno di poi avreste
cambiato qualcosa?
Siamo soddisfatti, ed è la prima volta che succede. Per una ragione o per l’altra,
infatti, tutti i dischi pubblicati fino ad ora possedevano, a posteriori, alcuni difetti che
ne intaccavano il valore globale. Ovvio, il fattore esperienza gioca un ruolo
fondamentale nell’approccio alla scrittura e alla produzione: dopo qualche anno di
“militanza” abbiamo probabilmente una maggiore coscienza dei nostri mezzi. Per
questo disco avevo pronte una trentina di canzoni, ho scelto banalmente quelle che
mi piacevano di più. Le ho registrate in parte da solo e in parte con i miei “compagni
di merenda”, curandone la produzione artistica. Importante è stato l’apporto in fase
di mixaggio di Maurice Andiloro, una persona splendida e tecnicamente assai
preparata.
In cosa l’ultimo disco si differenzia dal primo episodio pubblicato a nome
Numero6, quel “Iononsono” risalente al 2004?
“Dovessi mai svegliarmi” è sicuramente più organico del suo predecessore.
“Iononsono” era sì il primo album dei Numero6 ma in un certo senso anche “l’ultimo
dei Laghisecchi”. Quel disco, che tuttavia apprezzo, trasuda instabilità, perché
uscito in un periodo travagliato per la band. Quest’ultimo è più compatto, contiene
idee musicali migliori e una produzione più varia. Mi sono imposto di scrivere con
serenità, senza badare a logiche commerciali di alcun genere. Anche con i testi ho
operato in maniera nuova, facendo un lungo e meticoloso lavoro di “preproduzione”
e scrivendo per circa tre mesi qualsiasi cosa mi passasse per la mente. In seguito si
è trattato soltanto di scegliere.
Pop ricco di armonie vocali – spesso vicine ai Beach Boys più cerebrali –,
geometrie strumentali stratificate, progressioni melodiche ricercate e un
instancabile lavoro di limatura sui testi: quali, in due parole, le altre
caratteristiche del suono a marca Numero6?
Per questo disco io e Stefano abbiamo deciso di lavorare soprattutto sulle voci e
sulle armonie. Il riferimento ai Beach Boys ci lusinga. Non sei la prima persona che
ci paragona alla band di quel disco-bibbia che è “Pet Sounds”. Ci siamo resi conto
che adoriamo il fatto di “giocare” con le nostre voci e dedicare loro molto tempo, col
fine di ottenere risultati imprevedibili. La nostra volontà era di fare un disco
importante, per questo ci siamo dedicati anima e corpo alla costruzione dei brani
curando ogni dettaglio, non fermandoci alla prima soluzione ma scandagliandone le
potenzialità. A mio avviso ci siamo riusciti, ora starà alla gente giudicare.
Venite entrambi dall’esperienza Laghisecchi. Cosa vi ha lasciato in termini di
vissuto l’avventura conclusasi nel 2002?
Molto. Uscimmo col primo disco nel 1998 osannati dalla critica e diventammo in
breve un piccolo culto. Erano altri tempi, si pubblicava un numero ragionevole di
dischi e di conseguenza c’era un attenzione maggiore per progetti come il nostro. Il
secondo disco “Très bien: piano b” passò invece piuttosto inosservato e coincise
con tutta una serie di vicissitudini discografiche davvero sgradevoli. Mi sono accorto
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recentemente che molta gente ha apprezzato i Laghisecchi, anche per questo
abbiamo in programma un “The Best Of Laghisecchi”, a firma Numero6.
Godete dell’appoggio, oltre che di Eclectic Circus, anche di V2 e avete
all’attivo alcuni passaggi televisivi su reti musicali specializzate. Come siete
arrivati ad ottenere queste piccole soddisfazioni personali?
Chiariamo immediatamente un punto: siamo un gruppo totalmente autoprodotto e
autogestito. In passato abbiamo lavorato con major, non mi sento di giurare che la
cosa non accadrà nuovamente, ma sono convinto che non firmeremo mai più un
contratto di casting. Lavoriamo in totale autonomia investendo in prima persona e
gestendo senza mediazioni i rapporti con ufficio stampa, booking, promozione radio,
TV. Non crediamo tuttavia nell’auto-ghettizzazione, per cui siamo abituati a valutare,
di volta in volta, quali siano le “alleanze” più opportune da stringere. A Eclectic
Circus e V2, ci lega essenzialmente un rapporto di distribuzione. I passaggi
televisivi e la visibilità di cui abbiamo goduto e di cui godremo dipendono dal fatto
che la nostra musica - come del resto i videoclip, che siamo soliti autoprodurre - è
apprezzata da persone che lavorano nelle emittenti musicali.
I brani che proponete presentano testi piuttosto lunghi e articolati. Una
simpatia dichiarata per la dimensione narrativa confermata dai contributi
raccolti nel booklet di questo CD che alcuni scrittori-amici hanno voluto
regalarvi. Come è nata l’idea?
Non mi pare che i miei testi siano lunghi, anche perché non ho idea di quando un
testo possa essere considerato tale. Articolati forse sì, soprattutto se paragonati
alla media delle insensatezze nazionali. Per quanto riguarda le nostre collaborazioni
letterarie, la cosa è andata in questo modo: desideravo fortemente mettere in atto
un progetto a cui pensavo da tempo e che prevedeva di coinvolgere in un mio disco
alcuni scrittori italiani. Ho contattato quindi Violetta Bellocchio, Francesco Dezio,
Marco Mancassola, Marco Missiroli, Gianluca Morozzi e Paolo Nori – autori che
apprezzo tantissimo – chiedendo loro un intervento ispirato all’ascolto del nostro
nuovo album. Sono stati disponibilissimi e ci hanno regalato delle vere e proprie
perle, che ovviamente abbiamo inserito nel booklet trasformandolo in sorta di
raccolta di racconti.
Quali progetti per il futuro della band?
Attualmente stiamo lavorando al nuovo live set che porteremo in giro da
settembre/ottobre prossimo. Nella band sono entrati tre nuovi musicisti (Max
Morales al pianoforte e alle tastiere, Lelio Mollar al basso e Spyros Magliveras alla
batteria), abbiamo lavorato per integrarli al meglio ma siamo ancora un cantiere
aperto. E’ prevista la pubblicazione di un EP intorno a novembre prossimo dove
troveranno spazio una versione di “Da piccolissimi pezzi” cantata in italiano dal
grande Bonnie “Prince” Billy e un pezzo inedito il cui testo è stato scritto per noi da
Enrico Brizzi. Io sto lavorando al mio primo disco solista che sarà pronto in autunno
mentre subito dopo l’estate uscirà il secondo singolo estratto da “Dovessi mai
svegliarmi”, ossia “Automatici”, per il quale abbiamo anche realizzato un videoclip
che ha come protagonisti Fausto Paravidino e Iris Fusetti (sceneggiatori e attori del
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film “Texas”) .
Contatti: www.numero6.com
Fabrizio Zampighi
Paolo Di Cioccio
Paolo Di Cioccio ha la grinta di un rockettaro e la superbia di un accademico. Nel
suo indomabile impeto artistico le due anime convivono; e spesso si azzuffano.
L’attitudine rivoluzionaria ha spesso la meglio, ma nell’esprimersi difficilmente riesce
a calpestare le regole. Con la sua opera più recente – “The Tarot Of Tomorrow”
(Musica Maxima Magnetica) – il compositore romano pretende addirittura di
scavalcare i canoni tradizionali del sistema temperato, quegli stessi che sono
sopravvissuti per secoli, dando peraltro adito a tutti i capolavori della musica – colta
e non – che ognuno conosce. A quello stereotipo vuole dunque contrapporre un
nuovo timbro elettronico, riprendendo il discorso lasciato in sospeso – circa mezzo
secolo fa – dai primi sperimentatori di circuiti, che al contrario ebbero riscontri e
apprezzamenti soltanto tra una ristretta cerchia di cultori. Un progetto così
ambizioso merita di essere approfondito.
Nelle note del tuo nuovo cd sostieni che la musica è morta...
Non sono l’unico ad essere giunto a questa conclusione; e non la considero
neanche una diagnosi catastrofica. Mi accorgo che occorre trovare altre vie uditive
per non cadere nella solita ed estenuante monotonia.
Ma ha ancora senso parlare di musica elettronica?
In effetti il quadro oggi è un po’ desolante. I computer moderni, così intuitivi e
semplici da adoperare, hanno ridotto al minimo l’antica e noiosissima perdita di
tempo del pensare. Per fortuna siamo ancora in molti ad indagare nel profondo il
mondo dei suoni. Personalmente ritengo esaurito il fenomeno storico-culturale
definito musica. Certamente abbiamo il diritto ed il dovere di interpretare e far
rivivere le meravigliose pagine tramandate per secoli. Ma quando si parla di scuola
contemporanea debbo arrendermi: riascoltare sempre lo stesso noiosissimo pezzo
– che sia stato scritto ieri o cinquanta anni fa, non importa – genera angoscia ed
apatia interiore. Sarebbe allora più giusto uscire da questo meccanismo perverso e
ricominciare a vibrare con le sensazioni sonore, rinunciando ai facili tranelli
perfidamente offerti da una stanca o rumorosissima melodia. Lasciamo stare poi le
alienanti sequenze rockettare-cosmico-ballerecce che hanno precluso la scoperta e
oscurato la consapevolezza del nostro vero ritmo interiore.
Credi davvero che il tuo messaggio possa essere raccolto anche dalla gente
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comune?
I padri dell’elettronica ci hanno insegnato la liberazione dal sistema; oggi sono quasi
tutti passati a miglior vita. La recente morte di Ligeti è solo l’ultima delle tante
scomparse a cui non posso rassegnarmi. Sento quindi il bisogno di proseguire il
cammino intrapreso da questi geni delle nuove sensazioni, riconoscendo loro un
profondo debito artistico che pago nel mio lavoro – naturalmente modesto – di
compositore elettronico.
Se la musica - almeno nella sua accezione comune - ha già battuto tutte le
strade percorribili, perché oggi si producono ancora dischi in gran quantità? e
soprattutto perché la gente continua ad ascoltarli?
Perché si mangia? Perché si fa l’amore? L’uomo moderno si adopera in ogni modo
per soddisfare il proprio corpo, sia nel fisico che nello spirito. Da diverso tempo la
musica non rientra nei suoi bisogni primari, almeno non più in quelli spirituali. Al
giorno d’oggi non ci chiediamo il perché di troppe cose; così anche la musica è
diventata merce da supermercato, da svendita fallimentare.
Anche in questo disco hai voluto ribadire il tuo interesse per la magia e le
scienze occulte. Ritieni che debba essere il compositore o l’ascoltatore a
conferire un valore spirituale alla musica?
Stockhausen una volta disse che la funzione della musica doveva essere spirituale.
Sono in parte d’accordo, anche se non capisco fino in fondo a quale spiritualità
facesse riferimento. L’esoterismo è una continua ed estenuante ricerca nel nostro io
più profondo; senza mezze misure. Ai tempi degli antichi Sumeri e degli Egizi la
pratica della musica era riservata ai sacerdoti; la gente prendeva parte a rituali che
causavano sicuramente ascesi e stati di coscienza extra-ordinari. Non esiste
comunque una musica esoterica canonicamente definita; ci sono tuttavia dei
musicisti che ancora pretendono di fare esoterismo stropicciando primitivi strumenti
che ancora oggi, nostro malgrado, continuiamo ad ascoltare.
Che influenza ha avuto Robert Moog nel tuo percorso accademico e nelle tue
passioni di musicista?
Purtroppo non l’ho conosciuto – almeno in questa vita – ma possiedo alcuni magici
strumenti da lui creati. La sua invenzione del controllo in voltaggio ha fatto storia ed
ha spalancato le porte del successo a tanti artisti: dal meraviglioso Keith Emerson,
(musicista di grande sensibilità seppur legato ad un’epoca freak-progressive), a
Wendy Carlos, Tomita, Klause Schulze e i Tangerine Dream. Non ci tengo ad
indossare il parruccone da accademico o da sognatore invaso di LSD; tuttavia mi
domando se è lecito chiedere a queste macchine qualcosa che vada oltre
l’effettaccio da osteria e le infinite possibilità dei mostriciattoli elettrici.
Dovendo rinunciare ad uno strumento, preferiresti fare a meno dell’oboe e
del trautonium?
Non ci sono altri strumenti che possano sostituirli, neppure il Theremin…
Che cosa dicono i Tarocchi del Domani?
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Poche parole: “per un domani che non sarà più musica”. Un’ennesima provocazione
che dedico al mio Maestro, il compianto Franco Evangelisti.
Contatti: [email protected]
Fabio Massimo Arati
Studiodavoli
Arrivati con “Decibels For Dummies” (Record Kicks/Audioglobe) al secondo disco,
possiamo veramente parlare di “ascesa” per gli Studiodavoli? A sentire le parole di
Matilde De Rubertis (voce), sembra proprio di sì. L’ottimismo e l’entusiasmo sono il
filo rosso di questo periodo del quale la band è estremamente soddisfatta.
"Megalopolis" ha avuto un buonissimo riscontro da parte della critica. Com'è
stato ripartire in un clima dove c'erano comunque delle aspettative?
È stato un buon disco di partenza, è vero, ma tutti noi eravamo assolutamente
convinti che “Decibels For Dummies” sarebbe stato un lavoro più completo e
maturo. In realtà non c'è stata nessuna preoccupazione durante la realizzazione
dell'album. Eravamo più che certi che non avremmo deluso nessuno. E spero che
così effettivamente sia stato.
Cos'è cambiato in questi anni tra i due dischi nella band? Avete avuto
particolari esperienze che avete inserito in questo lavoro?
Non è cambiato assolutamente nulla. Si è semplicemente affinato il lavoro di
gruppo. C'è molta più sintonia. Capisci immediatamente se qualcosa non va o che
tipo di svolta prenderà una determinata situazione, non solo nei live, ma anche nelle
cose che viviamo insieme come amici. Ed è bello. È rassicurante. È quasi perfetto! Il
fatto di aver girato tantissimo in giro per l'Italia ci ha reso forti e compatti e ci ha fatto
crescere in professionalità e capacità di adattamento. È stato un vero e proprio
allenamento mentale e fisico.
Come mai avete deciso di chiamare il disco "Decibel For Dummies"? Chi
sono gli scemi cui il titolo fa riferimento?
Il titolo fa parte di un'altra storia. In origine il disco doveva chiamarsi "Hitch-Hiker's
Guide To The Galaxy" dal bellissimo romanzo di Douglas Adams (in italiano “Guida
galattica per autostoppisti”, NdI). Eravamo ormai decisi a far uscire l'album con
questo nome, quando, un brutto giorno, scoprimmo che la Disney stava per
mandare in tutte le sale il film tratto dal libro. Così cominciò un lunghissimo periodo,
durante la lavorazione del disco, nel quale uscirono titoli di tutti i tipi. Eravamo
completamente in crisi. Finché, sfogliando per caso un libro di Bob Katz che aveva
Stefano Manca (fonico e proprietario del Sudestudio a Campi Salentina), trovammo
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un paragrafo intitolato “Decibels For Dummies”. Nel libro il senso del nome era
orientato a descrivere degli esperimenti acustici che fanno i fonici in studio. Nel
nostro caso il significato cambia in alcune sfumature: esperimenti acustici sì, ma per
chi? Siamo completamente circondati da persone che ascoltano solo quello che
viene passato dalle radio convinti che sia l’unica che si possa ascoltare. Quindi:
cosa sono tutti se non pupazzi? Qualcuno potrebbe dire che sia un po' severo come
giudizio, ma secondo noi è molto divertente. E poi non suona forse bene?
La vostra musica si rifà ad un'idea "rétro-futurista" e nelle recensioni si
snocciolano sempre i nomi di Stereolab e Stereototal. So che siete
appassionati di musica italiana tra gli anni '50 e '60…
Credo che con questo disco sia in diritto di dire: "bugia!" a chiunque mi nomini gli
Stereolab. Gli Stereototal invece, non penso ci azzecchino tantissimo con noi.
Siamo degli appassionati di musica. Estimatori e preservatori della musica italiana
degli anni 60/70. Grandissimo e forse unico motivo di orgoglio italiano, secondo noi.
Ma, diciamoci la verità, questo può essere definito un disco lounge? Io credo proprio
di no! Cosa c'è di lounge? Forse “Kiss” è l'unico pezzo che si avvicina a quel tipo di
stile. Ma per il resto? Non penso che si possano sentire atmosfere stereolabiche,
fatta eccezione forse, e dico forse, per “City Dweller”, o somiglianze spiazzanti con
altri gruppi. Penso solo che, facendo riferimento ovviamente ai nostri ascolti e gusti
musicali, siamo riusciti a creare qualcosa di un po' più personale e maturo,
cercando di arrivare, quanto più possibile, ad un suono e uno stile nostro e di
nessun altro.
Apparentemente sembra che non ci siano differenze tra l'esordio e questo
nuovo disco, ma le atmosfere qui sembrano più dilatate, forse addirittura
psichedeliche. Come avete lavorato per apportare questi cambi, se di cambi
possiamo parlare?
Non c'è stato nessuno studio di "cambio di stile". Voglio dire, nessuno di noi si è
seduto a tavolino e ha detto all'altro: "mmm… questo disco magari lo facciamo più
psichedelico." Le canzoni sono semplicemente uscite così. Molto spontaneamente,
senza nessun tipo di ragionamento o di programma definito. Ci siamo ritrovati con
una ventina di canzoni dalle quali abbiamo selezionato le migliori dodici in base alla
composizione o alla complementarietà che potevano avere con altri pezzi. L'unica
cosa ragionata è stata quella di cercare di rendere l'album il più omogeneo
possibile. Le canzoni sono state molto spontanee, quasi tutte sono rimaste
com'erano state concepite nei provini casalinghi. Forse siamo cresciuti noi.
Migliorati, per alcune cose e sicuramente, ora, abbiamo un'esperienza di studio
assolutamente superiore e imparagonabile agli esordi di “Megalopolis”.
Questo nuovo disco vi ha peraltro permesso di girare per concerti molto più
che in passato. Com'è stata l'accoglienza del pubblico?
Beh, l'accoglienza nei live è varia e multicolore. Non c'è mai stata una situazione
uguale nelle diverse città. Devo dire che, in assoluto, Catania è il posto più bello
d'Italia dove andare a suonare. Abbiamo suonato tre volte ai Mercati Generali e ogni
volta ci siamo impressionati per l'accoglienza e per l'attenzione che ci dedica la
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gente durante il concerto. Bellissimo, veramente. Ci torniamo sempre con tanta
gioia. Per il resto, dipende dalle situazioni, dal posto, dal locale… Ma il bilancio di
risposta è assolutamente positivo.
Come sta andando il disco a livello di critica e di pubblico?
Per il momento non mi sono capitate recensioni negative sottomano. Lo prendo
come un fattore positivo. Molti, anzi, ne hanno parlato molto bene e noi siamo felici
come dei bambini con in mano lo zucchero filato. Ne abbiamo guadagnato in
popolarità: il nome è conosciuto, la nostra musica gira e la gente comincia a venire
a vedere i concerti per noi.
Contatti: www.studiodavoli.net
Hamilton Santià
The Fire
A voler tracciare un paragone un po’ forzato si può dire che Olly, dimessi i panni
degli Shandon, è diventato il Mike Patton nostrano. Molte collaborazioni, con gruppi
come Furious Party e Good Fellas, e sempre nuove idee in testa. Ma quella iniziata
con gli ex Madbones, e che prende il nome The Fire, è un nuovo inizio che
speriamo porti molto lontano. Con un bellissimo esordio – “Lovedrive”
(Bagana-V2/Edel) – e un tour in svolgimento tra Italia ed Europa, ci è sembrato
giusto parlare di questa nuova creatura e tracciarne le coordinate e le aspettative.
Come e quando vi è venuto in mente di provare a fare qualcosa assieme come
The Fire? La direzione musicale era già stata decisa "a tavolino" o è venuta
fuori in seguito?
Ci siamo ritrovati io e Andre a pensare che tipo di sound avremmo voluto da una
band nostra dopo i precedenti con Madbones e Shandon e la risposta è stata rock.
Non avevamo idea di come ma avevamo le idee chiare sul songwriting: volevamo
delle canzoni e non dei pezzi e volevamo che la produzione fosse molto easy,
senza fronzoli o virtuosismi. Poi, con il tempo e con più di 40 canzoni scritte, ci
siamo trovati a capire in che direzione stavamo andando. Nel frattempo io cercavo
un suono che fosse pesante e potente ma allo stesso tempo malleabile ed
accessibile a più orecchie, quindi mi sono tuffato mesi e mesi in studio alla ricerca di
questo connubio e mi sembra che ne sia uscito un buon lavoro. Un ulteriore aiuto
alle mie idee è stato sicuramente dato da Icio dello Hate Studio che ha raffinato il
tutto in fase di Mix al Family Studio.
I Fire come sono vissuti da tutti voi: una valvola di sfogo o sono il vostro
principale progetto?
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Nessuno di noi ha voglia di tornare indietro, i Fire ci stanno dando molta
soddisfazione e per quanto mi riguarda vivo meglio questa nuova esperienza che la
mia passata esperienza con gli Shandon, al capolinea da un bel po'. Insomma i Fire
non sono un progetto parallelo tipo Furious Party o Punx Crew o Good Fellas, è la
nostra priorità ed è quello che siamo veramente.
Come ho scritto nella recensione quando due songwriter si incontrano nasce
sempre qualcosa di stimolante. Tu e Andrea come avete vissuto la fase di
scrittura di "Loverdrive", come vi siete divisi i compiti?
Diciamo che oltre a noi ci sono altri autori che hanno collaborato: Luca Chiaravalli
nell'aspetto musicale e Cristiano Cairati e Max Turozzi sui testi. Persone che ci
hanno aiutato a colmare qualche lacuna e ad arricchire le idee. Non c'è un metodo
vero e proprio: ogni tanto parte tutto da un riff, una volta da una frase o da una parte
strumentale. Figurati che la strofa di Emily è stata scritta in bagno, un aneddoto
suggestivo no? (risate, NdI)
Come sono state le prime reazioni al progetto? E' stato facile scrollarvi di
dosso l'etichetta delle vostre esperienze precedenti, o è una costante a cui vi
siete abituati?
Direi che sono state ottime e favorevoli al nuovo suono, anche se sembra scontato
dirlo. Chiaramente alcuni fan di Shandon e Madbones ci sono un po’ rimasti male
ma molti di loro hanno capito l'onesta del progetto. Io personalmente ho avuto mille
domande sul fatto dell'abbandono dello ska-core o del punk melodico, ma
onestamente non mi sono mai sentito relegato nel ruolo del cantante in levare. La
musica è come i vestiti, la si cambia in base all'umore o al periodo: lo può fare un
ascoltatore, perché non dovrebbe farlo un musicista? Essere fedeli a un genere e
rilegare un linguaggio in un suono solo è da persone che non accettano i
cambiamenti, ed io esigo da me stesso il cambiamento e adoro assaggiare nuove
sensazioni. Se quelli che mi ascoltano vogliono da me una cosa sola, non
capiscono come sono fatto e quindi non capiscono cosa comunico. Forse è un
pensiero presuntuoso ma è paurosamente realistico.
Le prime date dei Fire si sono svolte all'estero: coincidenze casuali o è indice
di una vostra precisa volontà "esterofila"?
In effetti l'idea era di suonare prima in Europa per farci condizionare dall'aria che
tira, per cercare un sound più esterofilo e meno Italiano. Anche il fatto che fuori da
qui vieni considerato un Musicista e un Artista e non un semplice Intrattenitore
stimola il lavoro e rende tutto molto più carico di entusiasmo. Girare l'Europa,
cercare contatti per suonare, cercare distribuzioni e label aiuta a mantenere una
certa concentrazione sul progetto, mentre suonare in Italia per l'ennesima volta e
poi tornare a casa dopo il concerto porta tutto a una sorta di routine che toglie
vitalità.
Ascoltando "Loverdrive" ho notato che i brani hanno una grossa
musicabilità: hai mai pensato che, per far breccia nel pubblico nostrano,
avreste potuto cantare qualcosa in italiano?
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Molti testi suonerebbero bene anche in Italiano ma mi sono un po’ stufato di questa
regola non scritta, dove per vendere un disco in Italia bisogna fare il singolo in
Italiano: ma dove viviamo? La scusa è che la gente vuole capire cosa si dice nei
testi? Balle! Allora perché Marilyn Manson o Madonna per essere inclini al mercato
dello stivale non fanno i loro singoli in Italiano? Venderebbero il doppio? Non credo,
però se sei Italiano e non stai alle regole della discografia sei out. Il pubblico che
vuole cantare le canzoni che sente alla radio, farfugliando un fake english lo può
fare su un pezzo dei Placebo (tipo mia sorella) o dei Rolling Stone (tipo mio padre)
come su uno nostro (tipo me)… (altre risate, NdI)
Quali sono i gruppi musicali che al momento trovi più interessanti e
stimolanti?
Al momento ho un po’ di crisi degli ascolti: mi annoia tutto ma è colpa mia, non della
musica. Devo dire però che mi sono innamorato da un paio di anni dei The Fire
Theft, un gruppo stellare formato dagli ormai sciolti Sunny Day Real Estate dove
milita anche il bassista dei Foo Fighters. Anche Foo Fighters e Motorpsycho mi
hanno entusiasmato, e poi posso dire che sto andando molto indietro, mi sto
ascoltando i primi lavori di Tom Waits a ripetizione e anche un po’ di sano hard rock
tipo i Deep Purple, i Motörhead o gli AC/DC, dei sempreverdi che ogni tanto vanno
rimessi nello stereo per ricordarsi il motivo per cui lo sono. Riguardo ai gruppi Italiani
invece mi fa piacere citare Lemeleagre, ottimo gruppo rock romagnolo, e Deasonka,
che ho scoperto grazie al progetto Rezophonic.
Contatti: www.thefiremusic.com
Giorgio Sala
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“MusicalBox”
Fortezza Albornoz, Urbino (PU), 19/6/06
Edizione numero sei per “MusicalBox” che, distaccatosi dal cartellone di “Frequenze
Disturbate” – all’interno del quale si esibiranno comunque i vincitori di quest’anno –
ritorna nella sua sede abituale della fortezza Albornoz. Forse per questo motivo,
forse per la presenza in cartellone degli ospiti Damien* (sempre più maturi) e Tre
Allegri Ragazzi Morti (una garanzia di divertimento, bacini e r’n’r, con la novità in
scaletta di una notevole cover in italiano di “My Little Brother” degli Art Brut), fatto
sta che la cornice di pubblico è stata delle più soddisfacenti. Esattamente quella che
un concorso di questo livello merita.
Il che, in pratica, significa una qualità media dei gruppi finalisti davvero elevata. Alla
fine, primo classificato è risultato il cantautore trevigiano Giorgio Barbarotta che,
accompagnato da una ottima band (con alla batteria Nicola “Accio” Ghedin degli
Estra) ha presentato un pugno di canzoni intense e raffinate allo stesso tempo,
confermandosi come autore ispirato e tutt’altro che banale. Secondi, invece, i
sassolesi Les Fauves, che hanno mostrato a suon di garage’n’roll come le buone
parole spese per il loro EP di esordio “Our Dildo Can Change Your Life” siano più
che meritate. Terzi, infine, i fiorentini Underfloor, con il loro rock lirico e graffiante, in
cui la lezione radioheadiana viene in qualche modo stemperata da stilemi e
soluzioni tipicamente italiane, per un risultato finale di grande impatto emotivo.
Doverosa, infine, la menzione anche per chi è rimasto fuori dal podio, ovvero – in
ordine alfabetico – i torinesi Farmer Sea con il loro indie-rock pavementiano e i
Joule (Alessandria), titolari di un rock d’autore muscoloso e spigoloso con testi
particolarmente interessanti.
Bilancio più che soddisfacente, insomma. A maggior ragione se si pensa alle
difficoltà logistiche e finanziarie che, ancora una volta, gli organizzatori si sono
trovati a dover fronteggiare. D’accordo che gli enti pubblici – e gli sponsor privati –
stanno vivendo una situazione non certo facile, ma un poco di attenzione in più per
manifestazioni di questo genere sarebbe tutt’altro che sprecata, visto il suo valore
non solo culturale e artistico, ma anche aggregativo.
Aurelio Pasini
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