Istituto MEME: Buio - Esperienza di intervento musicoterapico su un

Istituto MEME
associato a
Université Européenne
Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles
Buio
Esperienza di intervento musicoterapico su un bambino non vedente
Scuola di Specializzazione: Musicoterapia
Relatore: Dott.ssa Roberta Frison
Contesto di Project Work: Scuola dell’infanzia
Tesista specializzando: Silvia Cavatorta
Anno di corso: Primo
Modena, 15 Maggio 2008
Anno accademico 2007-2008
ISTITUTO MEME S.R.L MODENA – ASSOCIATO UNIVERSITÈ EUROPÈENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L BRUXELLES
SILVIA CAVATORTA - SST IN MUSICOTERAPIA – PRIMO ANNO A.A 2007/2008
PIPPO
Indice dei contenuti
Due parole prima di cominciare
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1.
Introduzione
1.1. Musicoterapia o didattica musicale?
1.2. Quale musicoterapia?
4
7
15
2.
Francesco
22
3.
Le emozioni predominanti
3.1. La Paura
3.2. La Rabbia
3.3. Bambini arrabbiati
29
29
34
37
4.
Memorie di viaggio
4.1. Obiettivi
4.2. Setting
4.3. Musica del sonno, musica della veglia
4.4. Cacciatori e uccellini
4.5. Gioco vecchio, regole nuove
4.6. Confusione
4.6.1. La teoria dell’attaccamento
4.7. In gruppo, ma fuori
4.8. In marcia
4.9. Di nuovo in gruppo, la fatica di stare “dentro”
4.10. Percorso
4.11. Nel gruppo
4.12. Ripresa e cambiamenti
4.13. Gioco di regole
4.14. Batteria
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39
39
40
43
47
50
55
60
61
63
65
69
70
72
73
5.
Conclusioni
76
6.
Bibliografia e Sitografia
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Due parole prima di cominciare
Ciò che segue è la “registrazione” della mia prima esperienza di intervento
musicoterapico.
In realtà questa è stata anche la prima volta che mi sono trovata direttamente a
contatto con il mondo dei diversamente abili.
Per sintonizzarmi su questo canale, sconosciuto e per certi versi misterioso, ho
osservato molto e pensato altrettanto.
Gran parte di quello che segue è infatti basato sulle osservazioni fatte lungo la
strada e su spiegazioni che ho cercato di darmi in relazione alle cose che
osservavo.
Concludo questo breve incipit con una sintetica spiegazione dei contenuti di
questo scritto, virtualmente diviso in quattro parti.
La prima parte, “Introduzione”, si apre con una breve descrizione di come si è
svolto il mio lavoro nelle scuole fino ad ora per poi passare all’analisi delle
differenze fra musicoterapia e didattica musicale, partendo dalle definizioni più
comuni date alle due discipline ed arrivando infine alla spiegazione dei vari
modelli di musicoterapia riconosciuti a livello internazionale.
La seconda parte, composta da due capitoli, “Franco” e “Le emozioni
predominanti”, è dedicata al protagonista di questo lavoro, il bambino non
vedente con il quale ho compiuto questo viaggio e a quello che di lui ho
osservato lungo la via.
La terza parte, “Memorie di viaggio”, è una sorta di diario degli incontri, delle
attività svolte, dei cambiamenti, delle sensazioni, dei dubbi e dei pensieri
registrati in questi mesi di lavoro.
La quarta e ultima parte è quella relativa alle “Conclusioni”.
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1. Introduzione
Ho conosciuto Franco (il nome è di fantasia) tre anni fa nella Scuola
dell’Infanzia che frequenta tutt’ora.
Il primo incontro non è stato dei migliori.
Inserito in un gruppo con il quale iniziare un percorso musicale, Franco si
teneva stabilmente le mani premute sulle orecchie, piangeva aggrappato alla sua
maestra di sostegno e se mi avvicinavo mi mandava via.
Purtroppo il poco tempo a disposizione non mi ha permesso di dedicargli la
dovuta attenzione e di approfondire i motivi di questo rifiuto.
L’anno successivo, l’anno scorso, nel tentativo di avvicinarci a lui abbiamo
cambiato strategia e, pur essendo sempre inserito in un gruppo, cosa che Franco
non ama particolarmente, si è comunque mostrato molto più disponibile ed
“accogliente” nei nostri confronti.
Dal momento che ne parlerò spesso, prima di proseguire mi sembra corretto
spendere due parole riguardo a quello che io e Corrado Equilibrati, il mio
collega didatta, compositore e chitarrista, proponiamo a scuola.
Da anni, occupandoci di musica, lavoriamo su quello che consideriamo il primo
dei saperi: il saper ascoltare.
Senza ascolto non c'è comprensione, non c'è comunicazione, non c'è rispetto,
senza ascolto non c'è crescita, senza ascolto non esiste sapere.
Le più grandi culture del passato tramandavano i loro saperi oralmente, coloro
che sapevano ascoltare erano degli eletti.
Oggi saper ascoltare è purtroppo patrimonio di pochissimi.
Da questa considerazione è nata la volontà di incentrare principalmente
sull’ascolto i nostri laboratori didattico musicali dedicati ai bimbi delle Scuole
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dell’Infanzia. Ovviamente, data la giovanissima età dei nostri “alunni”, tutti i
progetti sono caratterizzati da un approccio alla musica estremamente giocoso,
basato su attività di ascolto, piccole attività vocali, attività ritmiche e attività di
movimento.
La musica eseguita in classe durante ogni incontro diventa così realmente una
sorta di “persona” con cui i bambini possono interagire, comunicare, giocare,
rapportasi, a cui affidare confidenze e piccoli segreti e da cui ricevere in cambio
una “carezza di suono”.
Quello che cerchiamo di fare nel primo approccio dei bambini con il mondo
della musica, oltre a cercare di abituarli ad un ascolto più attento ed
“emozionale”, è far capire loro che la musica è qualcosa di vicino e conosciuto
con il quale possono interagire.
Per questo motivo leghiamo la
musica ad emozioni e sensazioni
“forti” che loro già conoscono
perché
vivono
quotidianamente,
come ad esempio la gioia, la
tristezza, la paura, la ritrovata
serenità, la rabbia (non siamo i
primi: il melodramma dell’800 deve
a questa idea gran parte del suo
successo).
Tutti
questi
concetti
passano
anzitutto attraverso l’uso del corpo
(alzarsi, sedersi, muoversi come
dice la musica, passare dentro al
tunnel nero della paura dal quale si
può uscire solo quando arrivava la
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musica della ritrovata serenità, andare tutti nell’angolo della musica arrabbiata e
così via) in modo da viverli prima di tutto “dentro” se stessi.
Successivamente viene chiesto ai bambini di “ tirare fuori” queste emozioni
musicali ad esempio collegandole ai colori e sempre facendo sedimentare i
concetti anche attraverso vari giochi.
Altre volte viene chiesto loro di disegnare le loro sensazioni subito dopo
l’attività, in modo che siano il più “fresco” possibile (un piccolo esempio:
l’attività legata al tunnel della paura, nel quale i bambini entrano da soli in un
brucomela opportunamente “mascherato”, si conclude con l’uscita dal tunnel,
che deve avvenire solo quando lo dice la musica, quando arriva la musica della
“non paura”.
All’uscita i bimbi arrivano in un
ambiente molto diverso da quello
che trovano all’interno del tunnel:
materassi morbidi, teli profumati,
caramelle sparse, luce.
Immediatamente gli viene chiesto di
disegnare la cosa che al mondo li
spaventa di più.
È interessante vedere che molti
bambini disegnano il buio come
qualcosa di nero in mezzo a
moltissimi colori).
Tornando a Franco, è facile capire
che
per
lui
abbiamo
dovuto
inventare un nuovo modo di procedere.
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1.1. Musicoterapia o didattica musicale?
Prima di tutto credo che sia bene chiarire cosa si intende per “musicoterapia” e
cosa per “Didattica musicale”.
Dal momento che spesso gli interventi, in entrambi i campi, non si rivolgono a
persone che possiedono particolari competenze legate a questi ambiti, ed è a
loro che spesso bisogna far capire la differenza fra i due “mondi”, ho trovato
interessante effettuare una piccola ricerca in internet per capire come vengono
definite, presentate e “spiegate” la musicoterapia e la didattica musicale ad un
pubblico eterogeneo per età, stato sociale, cultura, interessi, formazione, contesti
di vita e convinzioni come si immagina sia quello di Internet.
Ecco allora alcune definizioni del termine “musicoterapia” trovati in rete.
Dal sito http://it.wikipedia.org
http://it.wikipedia.org/wiki/Musicoterapia
La World Federation of Music Therapy (Federazione Mondiale di
Musicoterapia) ha dato nel 1996 la seguente definizione:
"La musicoterapia è l'uso della musica e/o degli elementi musicali (suono,
ritmo, melodia e armonia) da parte di un musicoterapeuta qualificato, con un
utente o un gruppo, in un processo atto a facilitare e favorire la comunicazione,
la relazione, l'apprendimento, la motricità, l'espressione, l'organizzazione e
altri rilevanti obiettivi terapeutici al fine di soddisfare le necessità fisiche,
emozionali, mentali, sociali e cognitive.
La musicoterapia mira a sviluppare le funzioni potenziali e/o residue
dell'individuo in modo tale che questi possa meglio realizzare l'integrazione
intra e interpersonale e consequenzialmente possa migliorare la qualità della
vita grazie a un processo preventivo, riabilitativo o terapeutico."
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Dal sito http://www.mtonline.it
http://www.mtonline.it/definizioni.php
In questo spazio si raccolgono varie definizioni di musicoterapia che nella loro
diversità testimoniano la
ricchezza e la freschezza di una disciplina
relativamente giovane.
Associazione Professionale dei Musicoterapeuti della Gran Bretagna
“La musicoterapia è una forma di trattamento in cui s’instaura un mutuo
rapporto fra paziente e terapeuta, che permetta il prodursi di cambiamenti nella
condizione del paziente e l’attuazione della terapia.
Il terapeuta lavora con una varietà di pazienti, sia bambini che adulti, che
possono avere handicap emotivi, fisici, mentali o psicologici.
Attraverso l’uso della musica in maniera creativa in ambito clinico, il terapeuta
cerca di stabilire un’interazione, un’esperienza ed un’attività musicale
condivise che portano al perseguimento degli scopi terapeutici determinati
dalla patologia del paziente".
Associazione Canadese di Musicoterapia
“La musicoterapia è "l’uso della musica per favorire l’integrazione fisica,
psicologica ed emotiva dell'individuo e l’uso della musica nella cura di malattie
e disabilità.
Può essere applicata a tutte le fasce d’età, in una varietà di ambiti di cura.
La musica ha una qualità non – verbale, ma offre un’ampia possibilità
d’espressione verbale e vocale.
Come membro di un’équipe terapeutica, il musicoterapeuta professionista
partecipa all’accertamento dei bisogni del cliente, alla formulazione di un
approccio e di un programma individuale per il cliente e poi offre specifiche
attività musicali per raggiungere gli scopi.
Valutazioni regolari accertano ed assicurano l’efficacia del programma.
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La natura della musicoterapia amplifica l’approccio creativo nel lavoro con gli
individui handicappati.
La musicoterapia fornisce un approccio umanistico possibile che riconosce e
sviluppa le risorse interne del cliente spesso non sfruttate.
I musicoterapeuti desiderano aiutare l’individuo per spingerlo verso un
migliore concetto di sé, e, nel senso più ampio, per far conoscere ad ogni essere
umano le proprie maggiori potenzialità".
Associazione Nazionale di Musicoterapia U.S.A.
“La musicoterapia è "l’uso della musica nella realizzazione degli scopi
terapeutici: il ristabilimento, il mantenimento e il miglioramento della salute
mentale e fisica: è l’applicazione sistematica della musica, diretta dal
musicoterapeuta in un ambito terapeutico, per portare i cambiamenti desiderati
nel comportamento.
Tali cambiamenti permettono all’individuo di affrontare la terapia per arrivare
ad una maggiore comprensione di sé e del mondo intorno a lui, e di ottenere
quindi un più adeguato adattamento alla società.
Come membro della squadra terapeutica il musicoterapeuta professionista
prende parte all’analisi dei problemi dell’individuo e alla formulazione degli
obiettivi del piano generale di trattamento, prima di progettare ed elaborare
specifiche attività musicali.
Valutazioni periodiche vengono fatte per determinare l’efficacia delle
procedure impiegate".
Federazione Mondiale di Musicoterapia
“La Musicoterapia è l'uso della musica e/o degli elementi musicali (suono,
ritmo ,melodia e armonia) da parte di un musicoterapeuta qualificato, con un
cliente o un gruppo, in un processo atto a facilitare e favorire la
comunicazione, la relazione, l'apprendimento, la motricità, l'espressione,
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l'organizzazione e altri rilevanti obiettivi terapeutici al fine di soddisfare le
necessità fisiche, emozionali, mentali, sociali e cognitive.
La Musicoterapia mira a sviluppare le funzioni potenziali e/o residue
dell'individuo in modo tale che il paziente o la paziente possano meglio
realizzare l'integrazione intra e interpersonale e consequenzialmente.”
Dal sito http://www.musicotherapy.it
http://www.musicotherapy.it/corpo.asp?S=0&M=0&R=1&L=0
“La musicoterapia è una tecnica che utilizza la musica come strumento
terapeutico, grazie ad un impiego razionale dell’elemento sonoro, allo scopo di
promuovere il benessere dell’intera persona, corpo, mente, e spirito.
Oggi vi sono diversi approcci alla musicoterapia, diverse metodologie, che
hanno prodotto diverse musicoterapie, con un ampio spettro che va
dall’approccio pedagogico, a quello psicoterapeutico a quello psicoacustico.
La musicoterapia viene impiegata in diverse campi, che spaziano da quello
della salute, come prevenzione, riabilitazione e sostegno, a quello del benessere
al fine di ottenere un migliore equilibrio e armonia psico-fisica.”
Finito questo piccolo viaggio in rete, stringo il campo all’ambito di coloro che
operano in campo didattico musicale o musicoterapico.
Ecco alcune definizioni di “Musicoterapia” date da celebri “addetti ai lavori” e
raccolte in dispense dedicate a futuri “addetti ai lavori”.
Definizione di G. Orff (da “La musicoterapia Orff”, Cittadella Assisi, 1992)
“La musicoterapia è una terapia multisensoriale.
L’utilizzo del materiale musicale (linguaggio fonetico ritmico, ritmo libero e
metrico, melodia nel linguaggio e nel canto, capacità di maneggiare gli
strumenti) è organizzato in modo tale da indirizzarsi in tutti i sensi”
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Definizione di E. H. Boxill (da “Musicoterapia per bambini disabili”, 1991)
“La musicoterapia è un’amalgama di Musica e Terapia.
Quando la musica, in quanto agente di cambiamento, è utilizzata per stabilire
una relazione terapeutica,per favorire la crescita e lo sviluppo della persona,
per assisterla nella realizzazione di sé, il processo è musicoterapia.
Ampliando la definizione la musicoterapia è l’uso della musica come strumento
terapeutico per il ristabilimento, il mantenimento ed il miglioramento della
salute psicologica, mentale e fisiologica e per l’abilitazione, la riabilitazione ed
il mantenimento delle capacità comportamentali, evolutive, fisiche e sociali, il
tutto all’interno del contesto di una relazione cliente – terapeuta”.
Definizione di R. Benenzon (da “Manuale di Musicoterapia”, 1981)
“Dal punto di vosta scientifico, la musicoterapia è un ramo della scienza che
tratta lo studio del complesso suono – uomo, sia per il suono musicale o no, per
scoprire gli elementi diagnostici e i metodi terapeutici ad esso inerenti.
Dal punto di vista terapeutico, la musicoterapia è una disciplina paramedica
che usa il suono, la musica ed il movimento per produrre effetti regressivi ed
aprire canali di comunicazione che ci mettono in grado di iniziale il processo di
preparazione e di recupero del paziente per la società”.
Definizione di K. Bruscia (da “Definire la musicoterapia”, 1992)
“La musicoterapia è un processo sistematico di intervento ove il terapista aiuta
il cliente a migliorare il proprio stato di salute utilizzando le esperienze
musicali ed i rapporti che si sviluppano attraverso di esse come forza dinamica
del cambiamento”.
(definizioni tratte dalla dispensa “Musicoterapia, scuola e intergazione” di Paola
Pecoraro Esperson).
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Per quanto riguarda la “didattica musicale”, in rete non ho trovato alcuna
definizione ma solo una lunga serie di siti che propongono attività variamente, e
spesso discutibilmente, legate alla musica e, soprattutto, alla musica “per
bambini” (piccola osservazione personale: questo conferma in modo spaventoso
ciò che molti pensano, cioè che “fare musica” con i bambini sia “facile” dato
che, in fin dei conti, con loro “va bene tutto”) .
Mi sono quindi dedicata alla ricerca relativa al termine “didattica”.
Ecco alcune delle definizioni trovate:
Dal sito http://www.dizionario-italiano.it
“Arte e metodo dell'insegnamento”
Dal sito http://www.demauroparavia.it
“Parte della pedagogia che studia i metodi di insegnamento validi per ogni
disciplina”
“Ramo
della
pedagogia
che
studia
i
metodi
di
insegnamento”
“Insegnamento, il modo di insegnare”
Per dare una definizione a “didattica musicale” mi sono rivolta alla “Nuova
Enciclopedia della Musica Garzanti”
che, alla voce “didattica musicale”,
rimanda alla definizione di “educazione musicale”.
“(…) L’espressione educazione musicale può essere utilizzata con diverse
accezioni.
In primo luogo l’educazione musicale può essere intesa come pratica concreta
dell’insegnamento musicale.
In secondo luogo, educazione musicale è la denominazione di una specifica
disciplina scolastica, che rappresenta una delle componenti del curricolo
complessivo; ma la nozione di educazione musicale coincide con un dato
modello educativo (un insieme concettuale o una teoria) che costituisce o
dovrebbe costituire il fondamento delle attività concrete e un modo di concepire
la disciplina scolastica stessa.
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Infine, in un’accezione più allargata, con educazione musicale può intendersi il
campo delle ricerche che riguardano l’insegnamento musicale, quindi tutto il
complesso dei modelli o delle teorie, ciò che si progetta, propone e realizza
intorno al problema dell’insegnamento musicale.
Per “didattica della musica”, poi, si intende l’insieme dei procedimenti, dei
mezzi, delle strategie che permettono di tradurre un certo modello in precise
operazioni di insegnamento.
Un modello di educazione musicale – secondo la logica della moderna teoria
curricolare – dovrebbe prevedere in linea essenziale gli obiettivi da perseguire
(ciò che deve essere appreso), i contenuti su cui operare (in senso lato: attività,
tipi di conoscenze), le metodologie funzionali all’apprendimento.”
(da “Nuova Enciclopedia della Musica Garzanti”, marzo 1993, pag. 915)
Definiti i concetti, passiamo all’eterno dilemma: cosa distingue l’intervento
musicoterapico da un incontro di didattica musicale?
Come fare a chiarire l’ambito di intervento se spesso le “armi” a disposizione,
corpo, voce, ascolto, suono, strumenti, sono le stesse?
Dall’analisi di queste definizioni appare evidente come sia la finalità
dell’intervento, lo scopo ultimo, l’obiettivo a fare la differenza fra didattica
musicale e musicoterapia.
Mentre la didattica musicale si pone come scopo l’educare il soggetto alla
musica, il fornire materiale di apprendimento, il formare tecniche, competenze
ed abilità, l’obiettivo primario della musicoterapia è la presa in carico di un altro
essere umano attraverso un approccio bio – psico - sociale nel tentativo di
promuovere il benessere dell’intera persona, composta da corpo, mente, e spirito
(visione olistica dell’individuo).
La musicoterapia è quindi un rinforzo per contrastare patologie varie e/o
facilitare i processi riabilitativi attraverso una relazione di aiuto.
In più, come chiarisce Bruscia, le cose che si imparano attraverso la didattica
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musicale sono generali ed universalmente valide (i parametri del suono,
l’altezza delle note, il loro nome, ecc…) mentre ciò che si apprende attraverso la
musicoterapia è una via d’accesso per entrare in contatto con noi stessi e con gli
altri, cosa che si basa su variabili estremamente personali e legate al vissuto di
ognuno.
Infine il rapporto che lega allievo e insegnante è molto diverso per intimità,
dinamiche e contenuti da quello che lega paziente e terapista.
L’insegnante accompagna lo studente “dentro” la conoscenza di una materia
mentre il terapista aiuta il paziente nel viaggio dentro sé stesso e verso un
migliorato senso di salute e benessere.
Per quanto riguarda le aree di intervento, è possibile delineare quattro ambiti di
intervento musicoterapico:
- Ambito preventivo
Il musicoterapeuta che opera in questo ambito si trova ad agire in contesti nei
quali non esistono particolari patologie su cui “lavorare”.
La “terapia” viene vissuta e proposta come “apportatrice” di benessere
psicofisico per chi la fruisce e quindi preventiva alla nascita eventuali disagi.
Fanno parte di questo ambito il lavoro con gli anziani, con gli adolescenti di
fasce sociali a rischio, con gestanti e partorienti, con malati terminali e il lavoro
nelle scuole.
- Ambito integrativo
In questo ambito, il laboratorio di musicoterapia può diventare luogo
privilegiato per favorire ed incentivare l’integrazione dei diversamente abili
all’interno delle scuole.
- Ambito abilitativo – riabilitativo
Questo ambito riguarda gli interventi in cui la musicoterapia viene utilizzata nel
trattamento di deficit psichici e psicomotori, disturbi dell’età evolutiva, disturbi
dell’età senile, disturbi sensoriali, disturbi del linguaggio, disturbi neurologici
(alzaimer, parkinson), stati di coma e pot coma.
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I musicoterapeuti che agiscono in questo ambito operano in equipe con gli altri
specialisti che si occupano, ciascuno in base alla sua specializzazione, del
paziente.
- Ambito terapeutico
In questo ambito, riservato a medici o psicologi abilitati e specializzati in
musicoterapia, generalmente sono trattati pazienti psichiatrici (interventi
dedicati ad autismo, psicosi, nevrosi).
I musicoterapeuti che non sono medici e che operano in questo ambito devono
ovviamente operare in equipe con medici, psicologi e terapisti.
Tutti gli interventi devono essere ovviamente adattati ai bisogni fisici, emotivi,
intellettuali e sociali del paziente.
1.2 Quale Musicoterapia?
La musicoterapia è una scienza relativamente giovane, molto vitale e, di
conseguenza, in continua evoluzione.
Nel 1993 è stato pubblicato un documento basato su materiale dedicato alla
musicoterapia raccolto da 38 esponenti di altrettanti paesi mondiali appartenenti
ai diversi continenti.
I risultati hanno evidenziato una moltitudine di scuole, pratiche, tecniche, letture
ed interpretazioni legate alla musicoterapia.
Per far chiarezza in questo mare di interpretazioni, il 9° Congresso Mondiale di
Musicoterapia tenutosi a Washington nel 1999 ha presentato i cinque modelli di
musicoterapia riconosciuti a livello internazionale.
Sono:
• l’Immaginazione guidata e musica;
• la Musicoterapia analitica;
• la Musicoterapia creativa;
• la Musicoterapia benenzoniana;
• la Musicoterapia comportamentale.
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Prima di illustrare brevemente le principali caratteristiche di ogni metodo, per
chiarezza è importante definire i significati dei termini “metodo”, “variazione”,
“procedura”, “tecnica”, “modello” (in base alle definizioni che Bruscia fa nel
suo “The Dynamic of Music Psychotherapy” del 1998).
Un metodo è una particolare esperienza che il paziente sperimenta a scopo
terapeutico (a esempio: la musicoterapia recettiva).
Una variazione è il particolare modo in cui quella particolare esperienza
musicale è formata.
Una procedura o strategia è tutto ciò che il musicoterapeuta fa per coinvolgere
il paziente nell’esperienza (ad esempio: l’improvvisazione).
Una tecnica è l’unità più piccola della procedura che il terapista attua sul
paziente (ad esempio: il rispecchiamento musicale).
Un modello è l’approccio sistematico al metodo, alla procedura ed alla tecnica
(ad esempio: la Musicoterapia analitica).
Questi i termini base del “lavoro” musicoterapico.
Per quanto riguarda invece gli elementi prettamente musicali, che all’interno di
un intervento musicoterapico possono essere per il terapeuta fonte di spunti ed
informazioni sul paziente, è importante citare:
• Timbro (che indica l’identità).
• Intensità (che può indicare sia il volume che il tipo, la qualità di
“partecipazione” all’incontro).
• Altezza dei suoni, intervalli, melodia.
• Armonia (che può essere consonante o dissonante).
• Componenti ritmiche (pulsazione e rispetto della pulsazione, durate).
• Forme musicali (se esistono e sono riconoscibili).
• Fraseggio (cioè come tutti gli elementi già citati, timbro, melodia, armonia,
ritmo, intensità, vengono gestiti insieme).
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• l’Immaginazione guidata e musica - GIM (modello sviluppato da Helen
Bonny)
La definizione data a questo modello da Helen Bonny, colei che l’ha sviluppato,
dice che “GIM è un processo dove l’immaginazione è evocata durante l’ascolto
musicale” (Bonny, 1990).
Altra definizione efficace è stata data da Goldberg nel 1995 dice che “GIM è un
approccio profondo alla psicoterapia musicale dove un determinato repertorio
di musica classica è usato per generare una comprensione dinamica delle
esperienze interne.
È olistica, umanistica e transpersonale e permette l’emergere di tutti gli aspetti
dell’esperienza umana: psicologico, emozionale, fisico, sociale, spirituale e
dell’inconscio collettivo”.
Questo metodo prende l’avvio da un’esperienza che Helen Bonny fece nei primi
anni ’70 quando selezionò musica da sottoporre all’ascolto di alcolisti e pazienti
oncologici terminali in abbinamento al trattamenti psicoterapeutico sperimentale
con allucinogeni.
In seguito la Bonny sviluppo un modello psicoterapico che non prevedeva l’uso
di allucinogeni e nel quale un rilassamento profondo provocava un’alterazione
dello stato della coscienza al quale seguiva un breve ascolto di brani di musica
classica.
Attraverso il “viaggio musicale”, che è il centro di questo metodo, il paziente ha
modo di esplorare diversi aspetti della sua vita, “rivivendola” in modo
simbolico.
• la Musicoterapia Analitica (modello sviluppato da Mary Priestley)
La Musicoterapia Analitica nasce all’inizio degli anni ’70 grazie all’impegno
della violinista inglese Mary Priestley che ebbe l’intuizione di sviluppare una
teoria che mettesse insieme musicoterapia e psicanalisi.
La Musicoterapia Analitica è uno strumento creativo con il quale esplorare la
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vita interiore del paziente ed offrirgli possibilità di autoconoscenza.
In questo tipo di musicoterapia il paziente è attivamente coinvolto nelle attività
musicali, molto spesso orientate verso l’improvvisazione.
L’improvvisazione e l’analisi dello stile, delle caratteristiche, delle modalità, dei
ritmi che il paziente usa e sceglie sono modi attraverso i quali il paziente stesso
entra in contatto con il suo mondo interiore esprimendo se stesso ed allo stesso
tempo importanti indizi e spunti di analisi per il musicoterapeuta.
• la Musicoterapia Creativa (Modello Nordof-Robbins)
Questo modello, creato dal compositore e pianista americano Paul Nordoff e
dallo psicopedagogista inglese Clive Robbins, è diventato il modello di
musicoterapia improvvisata più famoso degli ultimi 50 anni.
Nella Musicoterapia Creativa la musica suonata è al centro dell’esperienza
musicoterapica e le risposte musicali del paziente costituiscono il principale
materiale su cui il terapista può lavorare.
Proprio a causa dell’importanza e del valore dell’esperienza musicale, nel
modello Nordof-Robbins il musicoterapeuta deve avere una solida formazione
musicale che gli permetta una notevole padronanza dello strumento e della
tecnica improvvisativa.
L’“improvvisazione clinica” è infatti veicolo preferenziale di comunicazione fra
terapista e paziente e mezzo attraverso il quale stabilire una relazione, oltre ad
essere un mezzo di autoespressione e conoscenza di sé, valido non solo per il
paziente ma anche per il terapeuta.
Nella Musicoterapia Creativa la musica è quindi l’anima della terapia, l’oggetto
attraverso il quale si attuerà il cambiamento.
Il nocciolo di questo modello sta proprio nella visione della musica come veicolo
di crescita e sviluppo e nella convinzione che in chiunque, a prescindere dal
disturbo, dalla disabilità, dal trauma o dalla malattia ci sia una parte raggiungibile
e valorizzabile attraverso la musica.
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• Terapia della libera improvvisazione (modello di Juliette Alvin)
Questo modello non fa parte dei cinque riconosciuti a livello internazionale
durante il 9° Congresso Mondiale di Musicoterapia (Washington, 1999) ma è
importante citarlo in quanto modello fondamentale per la musicoterapia
improvvisativa.
La Terapia della Libera Improvvisazione, sviluppata da Juliette Alvin,
violoncellista famosa a livello internazionale, fra il 1950 e il 1960, si basa
sull’”uso
controllato
della
musica
nella
cura,
nella
riabilitazione,
nell’educazione e nella formazione di adulti e bambini affetti da disordini fisici,
mentali ed emozionali.
Attraverso l’uso della musica in maniera creativa, in ambito clinico, il terapeuta
cerca di stabilire un’interazione, un’esperienza ed un’attività musicale condivise
che portino al perseguimento degli scopi terapeutici determinati dalla patologia
del paziente” (definizione della stesa Alvin, 1975).
Obiettivo di questa teoria e agire sulla totalità dell’individuo, integrando le
diverse dimensioni della personalità ed utilizzando la musica come espressione
del carattere e della personalità della persona stessa.
Il metodo della Alvin è un metodo assolutamente musicale: tutto il lavoro
terapeutico si basa infatti sul fare o sull’ascoltare musica.
Cuore del metodo è l’idea della Libera Improvvisazione, che non richiede abilità
musicali da parte del paziente( mentre, così come per la musicoterapia creativa,
al terapista è richiesta padronanza dello strumento e del linguaggio musicale) e
che può prevedere un uso non convenzionale della voce, degli strumenti e del
linguaggio musicale in genere.
Nella Libera Improvvisazione paziente e terapista condividono le esperienze
musicali allo stesso livello (relazione paritetica) improvvisando insieme senza
dover necessariamente rispettare le regole musicali se non quelle decise e fissate
all’interno della relazione stessa e mantenendo entrambi il controllo della
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situazione musicale.
• Il modello Benenzon e il principio ISO
La definizione della musicoterapia secondo il modello Benenzon, dal nome del
musicista e psichiatra Rolando Benenzon, colui che l’ha strutturato, è la
seguente: “La musicoterapia è una psicoterapia non verbale che utilizza le
espressioni corporosonoro non verbali per sviluppare un legame relazionale tra
il musicoterapeuta ed altre persone che necessitano di un aiuto per migliorare la
qualità della vita, riabilitarla e recuperarla per la società; così come produrre
scambi socio – culturali – educativi nell’ecosistema e attuare la prevenzione
primaria della salute comune”.
In questo modello la musicoterapia si definisce come una terapia relazionale non
verbale che riguarda “l’uomo” e non “il paziente”, attraverso l’evidenziazione di
possibilità di impiego molto ampie che vanno dalla prevenzione dei disturbi al
miglioramento della qualità della vita della persona.
Centrale in questo modello di musicoterapia è il principio ISO, termine che sta
ad indicate l’identità sonora.
Ognuno di noi ha la sua particolare identità sonora.
Per aprire i canali di comunicazione fra paziente e musicoterapeuta, fondamentali
per la buona riuscita della terapia, è necessario che ciascuna delle parti del
processo comunicativo individui e riconosca l’ISO dell’altro.
Solo attraverso questo riconoscimento la comunicazione diventa possibile.
• la Musicoterapia Comportamentale
La Musicoterapia Comportamentale si è sviluppata in particolare negli Stati
Uniti, dove ancora oggi rappresenta il principale modello di intervento
musicoterapico.
Bruscia nel 1998 l’ha definita come: “l’uso della musica come rinforzo
contingente o come stimolo segnale per aumentare o modificare comportamenti
adattivi od eliminare comportamenti maladattivi”.
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La Musicoterapia Comportamentale è una forma di modificazione cognitiva del
comportamento, e infatti lo scopo del trattamento è indurre una modificazione
nel comportamento attraverso un condizionamento.
In questo modello la musica non ha la centralità “attiva” che riveste nei modelli
precedenti e può essere usata come segnale, come struttura temporale e guida
per i movimenti corporei, come centro dell’attenzione, come ricompensa.
In tutti questi casi la musica viene comunque usata per cambiare un
comportamento e ridurre i sintomi della patologia piuttosto che come tentativo
di esplorare le reali cause del comportamento.
Nella Musicoterapia Comportamentale la musica viene usata ed agisce come
stimolo e rinforzo di un comportamento non musicale.
Scopo principale della terapia non è l’osservazione di come il paziente
comunica e si esprime attraverso la musica ma la valutazione di ciò che è bene
mettere in atto per ottenere dei comportamenti o delle modificazioni ai
comportamenti nel paziente stesso.
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2. Franco
“La minorazione della vista propone problemi gravi, spesso problemi che non trovano
soluzione nell'ambito dell'individuo, che conducono l'individuo stesso verso forme di vita
abnormi, verso modi di organizzare la propria reazione sociale e la propria attività affettiva
su schemi e verso fini che non sono consueti, e non sono, soprattutto, armonizzabili con gli
schemi e i fini di tutti.
La minorazione della vista può dunque determinare nel soggetto un comportamento
assolutamente estraneo alla comprensione della società.”
Enrico Ceppi, tratto dall’articolo “PEDAGOGIA, METODOLOGIA E DIDATTICA IN
AUGUSTO ROMAGNOLI”
Franco è un bambino non
vedente di 7 anni.
Ovviamente il suo deficit
gli crea grandi difficoltà in
ogni
ambito
della
vita,
compreso naturalmente il
muoversi,
l’orientarsi,
l’organizzarsi nello spazio,
l’esplorare, il giocare, il
relazionarsi con il mondo
esterno in generale.
Fisicamente è molto contratto, chiuso, si muove in maniera rigida, sono evidenti
diverse stereotipie nel movimento (il dondolarsi, il “battere” ritmicamente
ovunque, il muovere le mani).
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A questo proposito, è stato per me molto utile e importante leggere l’articolo
intitolato “Educazione estetica dei ciechi. Gesto - Ritmica – Espressione”,
scritto da Elena Romagnoli Coletta e pubblicato sulla rivista “Tiflologia per
l'Integrazione”, rivista dedicata alle problematiche pedagogiche e didattiche per
l'integrazione dei minorati della vista.
L'atteggiamento del corpo, l'incedere, il gesto, sono rivelatori, in tutti, della
personalità e dello stato d'animo del momento.
Si dice che lo sguardo rivela l'animo, ma non sempre si riesce ad averne la
certezza; lo sguardo si può controllare, ma per l'atteggiamento generale il
controllo è più difficile.
Nei ciechi questa espressività naturale è inceppata dalla mancanza di
esercitazione delle membra e finisce col diventare quasi una paralisi, una
sofferenza fisica dovuta allo sforzo di esprimersi senza averne il mezzo.
(…) Nei ciechi il gesto sgraziato o la staticità rigida sono dovuti alla mancanza
di possesso dell'immagine spaziale e del dinamismo della forma.
La strumentalità dell'espressione mediante il gesto è ridotta nella sua
spontaneità per l'inibizione dovuta al timore di muoversi e alla mancanza della
padronanza dei propri muscoli; padronanza che si ottiene con l'esercizio dei
muscoli stessi.
(…) Non bisogna rendere goffo il cieco, insegnandogli una mimica
convenzionale; ma assuefarlo a innervare nelle sue mani, nel viso e, in una
parola, nelle parti interessate della sua persona i movimenti corrispondenti alle
cose che dice o pensa, è quanto dire animare la sua immaginazione e la sua
espressione”.
Il suo parlato è continuo, logorroico in alcuni momenti.
Si percepisce che non parla per comunicare ma più che altro per calmarsi.
Se è chiamato a rispondere direttamente a una domanda, soprattutto se è gli è
richiesto di parlare di se, spesso cade nel mutismo.
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Quando sente esaurito “il pericolo” ricomincia con la sua pseudo
comunicazione.
La comunicazione diventa reale solo in contesti di lavoro a due e sempre in
relazione con adulti di cui si fida.
È però un bambino a suo modo attento e curioso che continuamente vuole
conoscere il perché di tutto.
Così come il suo parlato, anche la sua produzione vocale è fuori da ogni
contesto comunicativo e viene usata solo come sorta di “rinforzo” alle
stereotipie di movimento.
Se invitato a partecipare ad una qualsiasi attività vocale, cantare una
canzoncina, intonare una filastrocca, sia di gruppo sia in un contesto di lavoro a
due, la sua reazione è sempre quella di deciso rifiuto.
A scuola ha atteggiamenti piuttosto dominanti.
Sia con le maestre che con gli altri bambini, con i quali questa è l’unica
modalità di relazione che mette in atto, è lui decide cosa fare e cosa gli altri
devono fare.
Se gli si chiedono cose diverse da quelle che lui ha deciso o si rifiuta o entra nel
mutismo o si innervosisce, molto spesso reagendo in modo violento.
Molto difficilmente esegue le consegne che gli vengono affidate, non perché
non le ricorda ma solo perché non gli va di farle.
Anche sotto il punto di vista relazionale Franco ha diversi problemi.
Osservandolo all’interno del suo gruppo, è piuttosto evidente che i bambini
della sua sezione non lo trovino una compagnia particolarmente divertente.
Spesso infatti lo escludono dai vari giochi che animano le loro giornate
scolastiche.
Nemmeno Franco, almeno apparentemente, cerca la relazione con i compagni.
Il rapporto è sempre con l’adulto e anche con gli adulti è comunque molto
selettivo.
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Difficilmente si allontana dalla sua insegnante di sostegno, tranne quando si
trova davanti ad alternative che giudica più appetibili, situazione nella quale le
chiede invece di andare via.
Spesso rifiuta con decisione ogni tipo di nuova figura.
Se viene invitato a giocare con i compagni o rifiuta o diventa aggressivo,
soprattutto nei confronti degli altri bambini.
Ho provato ad ipotizzare spiegazioni a questi comportamenti: la prima è che il
fatto di sentirsi poco accettato lo porti per reazione a rifiutare.
Un altro sospetto è che, all’interno di quello che dovrebbe essere il gruppo dei
pari, il bambino si annoi.
Cosa che sarebbe comprensibile, considerando la differenza di età (i tre, quattro
e cinque anni dei suoi compagni contro i suoi sette) e il fatto che comunque
Franco è un bambino per certe cose già “grande” di suo.
In più, quando gli altri bambini della sezione si rapportano con lui, mediano e
“aggiustano” ovviamente molto meno di quanto non faccia qualsiasi figura
adulta che graviti nella sua orbita.
Ho l’impressione che il gruppo in cui è inserito Franco, composto da una
ventina di bambini dai 3 ai 5 anni, non sia mai stato particolarmente “preparato”
alla presenza di un amico “diverso” come può essere un bambino non vedente.
I bambini, soprattutto e a maggior ragione se opportunamente preparati ed
informati, sanno essere estremamente dolci ed accoglienti con i “più deboli” e
mi è capitato spesso di osservare con quanta passione, delicatezza ed attenzione
sanno curarsi di un amico in difficoltà.
Non ho notato niente di tutto questo nei compagni di Franco che il più delle
volte si limitano ad ignorarlo.
Bisogna però anche dire che, a causa degli atteggiamenti violenti e dominanti
che Franco ha sempre tenuto nei confronti dei suoi compagni di sezione,
probabilmente loro faticano molto a riconoscere in lui un amico e, soprattutto,
un amico da aiutare.
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A conclusione di questa piccola considerazione, mi piace riferire una frase che
ho trovato molto significativa.
È tratta da un articolo di Barbara Celani Psicologa Clinica e di Comunità,
intitolato “I bambini non vedenti nella scuola: gli insegnanti e le strategie
didattiche” e pubblicato sulla rivista “Tiflologia per l'Integrazione”.
“La presenza in classe di un alunno con minorazione visiva dovrebbe diventare
una fonte di stimolo per organizzare un’azione educativa più attenta alle
possibilità d’uso di tutti i sensi, finendo in questo modo per favorire tutta la
classe.”
Nemmeno la sezione in cui Franco vive il suo tempo scuola è stata molto
“preparata” al suo arrivo.
Gli spazi, non ampissimi, sono disseminati di oggetti (tavoli, seggioline, angoli
di gioco e travestimento, senza contare i giocattoli, pennarelli e oggetti vari
dimenticati sul pavimento, tutte cose normali, considerando che parliamo di una
scuola dell’infanzia) dei quali ogni tanto viene modificata la disposizione.
Purtroppo non esiste un luogo pensato per lui in cui Franco possa sentirsi
“sicuro” e protetto dalle sue ansie e paure e questo probabilmente rende ancora
più difficile il suo già problematico rapporto con il movimento nello spazio.
L’importanza di questa situazione, ovviamente non volontaria o figlia di cattiva
volontà ma conseguenza delle difficile organizzazione e gestione degli spazi
all’interno delle nostre scuole, è ben spiegata in questo passaggio dell’articolo
“Educazione psicomotoria del bambino minorato della vista” scritto dalla
Prof.ssa Luigina Teresa Orsini e pubblicato sulla rivista “Tiflologia per
l'Integrazione”.
“È importante, almeno inizialmente, che ogni oggetto abbia un posto stabilito,
onde evitare che il bambino, confondendosi, si disorienti.
Se si sposta qualcosa, ad esempio una sedia, va informato e possibilmente
coinvolto nell'azione, poiché egli, come già detto rapporta lo spazio al proprio
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corpo e alle esperienze motorie con le quali riesce a dare una collocazione agli
oggetti.
I locali in cui vive devono diventare talmente familiari da permettergli
esperienze complete di movimenti che interessino tutta la sua persona.
Di ogni ambiente deve conoscere la “voce” caratteristica, avendone uno
schema immaginativo sempre più preciso.
(…) Solo quando avrà imparato a riconoscere le sue cose e ad orientarsi
attraverso esse, si potrà variare, con intelligente gradualità, la disposizione
degli oggetti in modo che non si fossilizzi in schemi fissi e soprattutto non si
blocchi di fronte a situazioni nuove.
L’orientamento consiste nell’acquisire l’abilità di dirigere i propri movimenti
nello spazio precedentemente esplorato, nel riviverlo a livello immaginativo
motorio e nel riuscire a descriverlo.
(…) Viene a determinarsi così una forte correlazione fra capacità esplorativa,
sicurezza nella deambulazione e processi di orientamento, tutti elementi che
concorrono allo sviluppo conoscitivo, che trova concreta espressione e verifica
nel percepire gli ostacoli, nel riconoscere spazi e locali valutandone dimensioni
e forme, nel ritrovare l’orientamento individuando particolari noti.
(…) Riepilogando: l'orientamento è il presupposto indispensabile di ogni
autonomia e va di pari passo con lo sviluppo psico-motorio e con quello
affettivo e intellettivo.”
Per permettere a Franco di sentirsi accettato e a suo agio durante il laboratorio
musicale, l’anno scorso abbiamo pensato di eleggerlo aiutante mio e del maestro
Corrado.
Questo ruolo “privilegiato”, del quale Franco ha abusato tentando di
monopolizzare la mia attenzione e, ancora di più, quella di Corrado e rendendo
difficile e frammentario lo svolgimento dell’incontro per gli altri bambini
presenti, gli permetteva però di passare il tempo degli incontri seduto vicino a
noi (eliminando leggermente, almeno in quei momenti, l’ansia legata allo spazio
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e al movimento) e di essere investito di un ruolo preciso, quello dell’aiutante (e
spesso suggeritore di scherzetti volti ad “imbrogliare” con la musica gli altri
bimbi del suo gruppo).
Questo gioco, poco didattico mi rendo conto, oltre a divertire moltissimo
Franco, ha permesso a noi di entrare in contatto con lui ed essere finalmente
accettati come amici.
Concludendo questo capitolo dedicato a Franco, osservandolo è facile capire
che due sono le emozioni che emergono con maggiore chiarezza dai suoi
comportamenti: la paura e la rabbia.
Franco le esprime continuamente, la prima attraverso tutto ciò che il suo corpo
si rifiuta di fare, attraverso la contrattura, la rigidità, il blocco, la chiusura a
tutto, le stereotipie; la seconda soprattutto attraverso le reazioni violente, sia
verbali che fisiche, che spesso lo travolgono.
Ma anche quando non esplode in maniera eclatante, la sua rabbia è sempre
presente.
Traspare, alle volte velata e vestita di altri colori, anche dai suoi giochi, anche
dai momenti in cui è apparentemente sereno.
Il fatto che sia per lui fonte di divertimento il rimprovero fatto ad un amichetto,
il fatto che abbia atteggiamenti violenti nei confronti dei compagni anche
quando questi non gli danno alcun fastidio, il fatto che l’unico modo di
interagire con loro sia dominarli, così come spesso tenta di fare anche con gli
adulti, il fatto che nei giochi di fantasia ci sia sempre qualcuno da uccidere,
qualcosa a cui sparare, il fatto che sembra non provi nessuna forma di empatia
nei confronti di niente e nessuno credo siano elementi da non sottovalutare.
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3. Le emozioni predominanti
Paura e rabbia sono considerate, insieme alla gioia, alla tristezza e al disgusto,
emozioni “fondamentali”.
Sono così definite perché tutte queste emozioni sono innate, autonome dallo
sviluppo cognitivo e riconoscibili attraverso una serie di espressioni facciali che
non variano al variare della cultura di appartenenza.
Ecco di seguito una breve analisi delle due emozioni che più di tutte emergono
con decisione dai comportamenti di Franco.
3.1. La Paura
“È forte la paura, è importante.
Meno male che c'è la paura.
Ti mette in allarme la paura, ti fa stare attento, ti
aiuta.
È come un campanello che ti fa fermare per
ragionare, per capire.
Non ti permette di essere superficiale.”
Giancarlo Abba, direttore dell’Istituto dei Ciechi di Milano
Tratto dal resoconto dell’iniziativa “Dialogo nel buio”
Con il termine “paura” si intende una intensa emozione derivata dalla
percezione di un pericolo, reale o supposto che sia.
Essendo una delle emozioni primarie, comune sia alla specie umana sia a molte
specie animali, è governata prevalentemente dall'istinto ed ha come obiettivo la
sopravvivenza dell'individuo ad una presunta o reale situazione di pericolo.
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Si scatena infatti ogni qualvolta si presenti qualcosa che viene vissuto o
percepito come un possibile rischio per la propria incolumità.
Il termine ”paura” spesso viene usato in modo generico per indicare stati di
diversa intensità emotiva che possono andare dal timore, all'apprensione, alla
preoccupazione, all'inquietudine sino ad arrivare all'ansia, al terrore, alla fobia o
al panico.
(grafico tratto dal sito http://www.benessere.com/psicologia/emozioni/la_paura.htm)
La paura viene vissuta come un senso di forte spiacevolezza, di tensione, di
insicurezza e desiderio di fuga, come un intenso desiderio di evitamento nei
confronti di un oggetto, di una persona, di un contesto o di una situazione
giudicata pericolosa.
Dai risultati di molte ricerche si giunge alla conclusione che potenzialmente
qualsiasi oggetto, persona, evento o situazione può essere vissuto come
pericoloso e quindi indurre una emozione di paura in base, appunto, alla
percezione e valutazione dello stimolo come pericoloso.
Essenzialmente la paura può essere di natura innata oppure appresa.
Le paure innate possono avere origine da:
• stimoli fisici molto intensi (ad esempio il dolore oppure il rumore);
• oggetti, eventi o persone sconosciuti;
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• situazioni di pericolo per la sopravvivenza dell'individuo (ad esempio
l'altezza, il buio, il freddo, l'abbandono da parte della figura di
attaccamento);
• circostanze in cui è richiesta l'interazione con individui o animali aggressivi.
Esempi di paure innate sono: la paura degli estranei, del buio, la paura per certi
animali (ragni e serpenti), il terrore alla vista di parti anatomiche umane
amputate.
Le paure apprese riguardano un’infinita varietà di stimoli che derivano da
esperienze dirette vissute dal soggetto e percepite come in qualche modo
pericolose.
Il meccanismo universale responsabile dell'acquisizione di paure apprese viene
definito condizionamento e può trasformare un qualunque stimolo neutro in
paura attraverso l’associazione ad uno stimolo originariamente fonte di paura.
Fisicamente la paura si manifesta in un modo molto caratteristico: occhi
sbarrati, bocca semi aperta, sopracciglia avvicinate, fronte aggrottata, stato di
tensione dei muscoli del viso.
Tutto ciò rappresenta quella tipica “espressione della paura” che è ben
riconoscibile già in età precoce e in tutte le diverse culture.
“Le alterazioni psicofisiologiche sembrano differenziarsi fra quelle che si
associano a stati di paura intensa quelle invece concomitanti alla
preoccupazione e all'ansia.
Precisamente, uno stato di paura acuta ed improvvisa caratteristica del panico
e della fobia, si accompagna ad una attivazione del sistema nervoso autonomo
parasimpatico, si ha quindi un abbassamento della pressione del sangue e della
temperatura corporea, diminuzione del battito cardiaco e della tensione
muscolare, abbondante sudorazione e dilatazione della pupilla.
Il risultato di tale attivazione è una sorta di paralisi, ossia l'incapacità di
reagire in modo attivo con la fuga o l'attacco.
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(…) Paradossalmente, in casi estremi, tale reazione parasimpatica può
condurre alla morte per collasso cardiocircolatorio.
Stati di paura meno intensi invece attivano il sistema nervoso simpatico, per cui
i pelli si rizzano, ai muscoli affluisce maggior sangue e la tensione muscolare
ed il battito cardiaco aumentano; il corpo è così pronto all'azione finalizzata
all'attacco oppure alla fuga.”
(informazioni tratte dal sito http://www.benessere.com
http://www.benessere.com/psicologia/emozioni/la_paura.htm)
Nonostante la “brutta fama” di questa emozione, la funzione della paura, così
come quella del dolore fisico, è sicuramente positiva.
Serve infatti a segnalare uno stato di emergenza ed allarme, preparando la mente
il corpo alla reazione.
La paura infatti non costituisce semplicemente una risposta istintiva a qualcosa
che viene vissuto o percepito come un pericolo, ma piuttosto una modalità
messa in atto dagli individui per relazionarsi al mondo ed all'ambiente
circostante, esplorandolo contenendo i rischi.
Lo studio di questa importante emozione evidenzia che solo grazie alla paura,
emozione strettamente legata alla nostra sicurezza e sopravvivenza, è possibile
affrontare l’eventuale pericolo in modo adeguato.
A questo proposito, cito questo passo dell’articolo “Paura e autonomia” scritto
dalla psicologa e psicoterapeuta Maria Luisa Gargiulo e pubblicato sulla rivista
“Tiflologia per l'Integrazione”
“L'evoluzione ha predisposto il sistema nervoso umano in modo tale che una
forte paura abbia la precedenza su qualsiasi altra cosa nella mente e nel corpo.
L’organismo di fronte ad un evento minaccioso reagisce con comportamenti che
l’essere umano ha in comune con numerosi altri animali.
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Fiutare il pericolo, allertare l’attenzione, esaminare la situazione, bloccare
ogni altra attività.
È una risposta naturale, necessaria e opportuna, volta a preservare la vita o
l'integrità del soggetto o dei suoi oggetti, mantenendone sufficientemente
conservato il potenziale difensivo e reattivo.
Chi non sente la paura o l’ansia si pone in serio pericolo nella realtà esterna,
chi invece vive in una condizione patologica di perenne paura, a prescindere
dall'oggettività o meno dei pericoli esterni, è solitamente alle prese con
fantasmi interni di varia natura derivanti dall’interiorizzazione di paure esterne
mal gestite o mal vissute, oppure dalle paure introiettate da adulti
significativi.”
Per tutti questi motivi la paura non è un’emozione da evitare ma da imparare a
conoscere, perché parte della vita di tutti, a comunicare e a gestire.
Concludo con una considerazione tratta dal già citato articolo “Paura
e
autonomia” scritto dalla psicologa e psicoterapeuta Maria Luisa Gargiulo e
pubblicato sulla rivista “Tiflologia per l'Integrazione”
“Aiutare il bambino a non spaventarsi delle sue stesse reazioni, significa dare
dignità anche a questo sentimento.
Non tutti e non sempre siamo disposti ad ammettere di aver provato paura,
perché questo per alcuni può essere un segno di debolezza o peggio, di
codardia.
Provare paura, in certi contesti implica una valutazione sociale negativa.
È questo il caso in cui paura e vergogna diventano elementi contigui e
concatenati.”
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3.2. La Rabbia
“… e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.”
Da “Alla Sera” di Ugo Foscolo
La rabbia è un’emozione considerata fondamentale da tutte le teorie
psicologiche.
Anche questa, come la paura, è un’emozione primitiva (come pure la gioia e il
dolore), è inoltre una tra le emozioni che vengono percepite ed espresse più
precocemente nell’uomo e può essere osservata anche in specie animali diverse
dell'uomo.
La rabbia può essere definita come la “reazione ad un limite” ed esprime il
bisogno profondo di affermare il proprio Io: i bambini, ad esempio, si
arrabbiano violentemente, con le cose, con i divieti con le persone, ma non è
raro vedere le stesse reazioni anche negli adulti.
Ci si arrabbia quando qualcosa o qualcuno si oppone alla realizzazione di un
nostro bisogno, soprattutto quando viene percepita una certa intenzionalità di
ostacolare l'appagamento del bisogno stesso.
La rabbia può quindi essere descritta come reazione ad una precisa sequenza di
eventi:
• stato di bisogno;
• oggetto o soggetto che si oppone alla realizzazione di tale bisogno;
• attribuzione a tale oggetto dell'intenzionalità di opporsi;
• forte intenzione di attaccare, aggredire l'oggetto frustrante;
• azione di aggressione che si realizza mediante l'attacco.
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Essendo l'emozione la cui manifestazione viene maggiormente inibita dalla
cultura e dalla società attuali, nella specie umana spesso si assiste ad una
inibizione della tendenza all'azione di aggressione e attacco e al mascheramento
dei segnali della rabbia verso l'oggetto frustrante.
L’impedimento, come già detto spesso imposto dalla cultura, dalla società e dal
rispetto di norme e regole morali e civili, di dirigere la manifestazione e l'azione
della rabbia direttamente verso l'agente che la scatena, può però portare a gravi
problemi come l’autolesionismo e l’auto aggressione (la rabbia viene diretta
verso se stessi).
Come per tutte le emozioni, la rabbia non è mai giusta o sbagliata: esiste,
bisogna prenderne atto, capirla e gestirla al meglio.
Reprimere le manifestazioni d'ira può essere nocivo per la salute psicofisica:
depressione, problemi psicosomatici come l'ulcera e l'emicrania possono colpire
i troppo accomodanti.
Chi invece esprime la rabbia, spesso entro poco tempo si trova ad affrontare
grossi disagi relazionali e arrecare conseguenze negative a se stessi e agli altri.
Sotto il punto di vista fisico anche la rabbia, come la paura, possiede una sua
espressione facciale tipica e ben riconoscibile: aggrottare violentemente fronte e
sopracciglia, scoprire e digrignare i denti sono le modificazioni del viso che
meglio esprimono l'emozione della rabbia.
Le variazioni psicofisiologiche tipiche sono: accelerazione del battito cardiaco,
aumento della pressione arteriosa e dell'irrorazione dei vasi sanguigni periferici,
aumento della tensione muscolare e della sudorazione.
Tutta la muscolatura del corpo può estendersi fino all'immobilità, la voce si fa
più intensa, il tono minaccioso, tutto l'organismo si prepara all'azione, all'attacco
e all'aggressione.
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Tutte queste modificazioni, che si manifestano attraverso una forte propensione
all'agire con modalità aggressive, sono destinate alla rimozione dell'oggetto
frustrante (cioè dell'ostacolo che si oppone alla realizzazione del bisogno).
Le numerose ricerche compiute sui comportamenti di specie diverse dall'uomo,
hanno dimostrato che l'ira e le conseguenti manifestazioni aggressive sono
determinate da motivi direttamente o indirettamente legati alla sopravvivenza
dell'individuo e delle specie (gli animali, infatti, spesso attaccano perché
qualcosa li spaventa oppure perché vengono aggrediti da predatori, per avere la
meglio sul rivale sessuale, per cacciare un intruso dal territorio o per difendere
la prole).
Negli uomini invece, i motivi alla base di un attacco di rabbia riguardano
maggiormente la frustrazione di attività che erano connesse con l'immagine e la
realizzazione di sé.
Come negli adulti così anche nei bambini esistono collere sane, non violente e
costruttive, e collere eccessive che si trasformano in violenza.
Le prime devono essere ascoltate, le seconde decifrate.
Entrambe devono essere rispettate in quanto espressione di bisogni profondi.
Nei bambini la rabbia è la prima tappa dell’accettazione della frustrazione.
Accettare il “no” significa infatti passare attraverso questo sentimento naturale
ed evolutivo.
Per questo motivo soddisfare un bambino perché non si arrabbi significa non
solo non aiutarlo, ma anzi, rendergli più difficile lo sviluppo del sentimento di
identità.
Quando però il malessere è troppo intenso e il bambino non trova il modo per
far arrivare il proprio messaggio, allora può succedere che la collera si trasformi
in violenza, rendendo ancora più incomprensibile ciò che si vorrebbe esprimere.
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Informazioni tratte dai siti:
http://www.benessere.com
http://www.benessere.com/psicologia/emozioni/la_rabbia.htm
http://italiasalute.leonardo.it
http://italiasalute.leonardo.it/News.asp?ID=7332)
http://www.genitoriquasiperfetti.it
http://www.genitoriquasiperfetti.it/rabbia_bambini.htm
3.3. Bambini arrabbiati
Tratto dalla premessa del libro “Aiutare i bambini pieni di
rabbia e odio” di M. Sunderland e N. Armstrong, 2005,
Trento, Erickson
• Bambini che feriscono, colpiscono, mordono, schiacciano, calciano,
gridano.
• Bambini che hanno perso il controllo di loro stessi.
• Bambini che hanno spesso scoppi impulsivi di rabbia anche senza motivo.
• Bambini che riescono a sfogare la propria rabbia solo attraverso
aggressioni verbali o fisiche, senza essere in grado di pensare e riflettere
sulle proprie emozioni.
• Bambini che si cacciano sempre nei guai per aver reagito in modo
impulsivo.
• Bambini che sono arrabbiati perché è più facile che sentirsi feriti.
• Bambini che sono arrabbiati perché è più facile che sentirsi tristi.
• Bambini chiusi nella propria rabbia perché qualcuno li ha abbandonati.
• Bambini chiusi nella propria rabbia a causa della rivalità con un fratello o
con una sorella.
• Bambini che non sono in grado di regolare il proprio livello di stess.
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• Bambini sovraeccitati e iperattivi.
• Bambini talmente chiusi nella propria rabbia che le loro emozioni più gentili
e affettuose vengono eclissate o sono de tutto assenti.
• Bambini che non sono in pace con loro stessi.
La rabbia è una massiccia disorganizzazione del sé; come dice Damasco, “ una
perturbazione totale della mente e del corpo” (1996, p. 69).
Durante uno scoppio d’ira, il livello di tensione nel corpo e nella mente del
bambino è talmente alto da suscitare in lui un incontrollato bisogno di
scaricarlo, verbalmente o fisicamente.
Alcuni bambini esplodono regolarmente, scaricando la terribile tensione che
sentono nel corpo e nella mente attraverso morsi, calci, picchiando,
imprecando, gridando o perdendo il controllo.”
(Dal sito delle Edizioni Centro Studi Erickson
http://www.erickson.it
http://www.erickson.it/erickson/repository/pdf/PRODUCT_992_PDF.pdf)
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4. Memorie di viaggio
4.1. Obiettivi
- Stimolare in Franco il gusto per l’esplorazione vissuta come strategia di
conoscenza degli altri e del mondo.
L’esplorazione che si cercherà di stimolare sarà quella dello spazio in cui
Franco passa il suo tempo e quella degli oggetti che “incontra” o che gli
vengono proposti nella speranza che questo stimoli in lui il desiderio di
esplorare se stesso e gli altri.
- Stimolare in Franco un minimo di “liberazione” del corpo e del gesto per
avvicinarlo ad un’autonomia nel movimento e ad una presa di coscienza del
proprio corpo e dello spazio.
- Stimolare in Franco l’interazione con i compagni di sezione e favorire la sua
integrazione all’interno del gruppo.
4.2. Setting
Il luogo in cui si svolgono
gli incontri con Franco è il
“salone”
della
scuola
dell’infanzia.
La scelta è stata piuttosto
obbligata
ma
comunque
felice: il salone è l’unico
luogo in cui poter lavorare
senza
“l’intromissione”
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degli altri bimbi ed è più o meno libero da oggetti così da permettere a Franco di
muoversi con tranquillità nello spazio.
La cosa più bella di questo spazio è che si presenta su più livelli, come una sorta
di anfiteatro.
Ha infatti una zona più bassa piuttosto ampia, una gradinata composta da
gradini bassi e molto profondi e una parte superiore che riporta alle varie sezioni
della scuola.
Questa disposizione è interessante perché può permettere attività di movimento
molto più varie rispetto ad una sala disposta su un unico livello.
Dentro al salone si trovano diversi oggetti sui quali è possibile stendersi,
muoversi, arrampicarsi, camminare, rotolare, strisciare: due grossi materassi
bassi, un materasso composto da tre “onde” piuttosto alte, cubi morbidi e altri
oggetti morbidi di forme diverse.
In più ci sono un tavolo con intorno alcune seggioline e un angolo in cui sono
raccolte grosse palle colorate usate per la ginnastica e la psicomotricità.
I “luoghi di azione” utilizzati con Franco, come si vedrà di seguito, cambieranno
quasi ad ogni incontro, in modo da offrirgli una “visione” il più possibile
d’insieme dello spazio salone.
4.3. Musica del sonno, musica della veglia (7 Febbraio 2008)
Franco sapeva che oggi avremmo lavorato insieme e, dalla quantità di volte in
cui è venuto a sentire “se era ora”, era evidente che aspettava la cosa con gioia.
Infatti è stato molto disponibile ed aperto.
La sua maestra di sostegno nei giorni scorsi mi ha fatto notare che Franco
“batte” ritmicamente in continuazione e che questa modalità, essendo usata in
modo molto poco ”costruttivo”, non solo non gli fornisce ulteriori vie di
comunicazione, ma anzi sembra che la utilizzi per isolarsi ancora di più.
Quella che Franco mette in atto è una delle sue stereotipie.
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Per chiarire il significato di questa parola, cito parte di un testo di Stephen M.
Edelson del Ph.D.Center for the Study of Autism (Salem, Oregon) intitolato
“Comportamenti stereotipici (auto-stimolatori)” e pubblicato a questo indirizzo
internet http://www.asperger.it/?q=node/166
“Per stereotipie, o comportamenti auto-stimolatori, si intendono movimenti
ripetitivi del corpo o movimenti ripetitivi di oggetti.
(…) Questo comportamento è comune in molti individui con disturbi dello
sviluppo; tuttavia sembra essere più comune nell'autismo.
(…) I ricercatori hanno suggerito varie ragioni per cui una persona può
adottare comportamenti stereotipici.
Un gruppo di teorie suggerisce che questi comportamenti forniscano al soggetto
uno stimolo sensoriale.
A causa di un sistema cerebrale o periferico difettoso, il corpo cerca
stimolazioni e perciò il soggetto indulge nelle stereotipie per sollecitare il
proprio sistema nervoso.
Una teoria in particolare afferma che questi comportamenti rilasciano betaendorfine nel corpo (sostanze oppiacee endogene) e procurano al soggetto una
forma di piacere.
Secondo altre teorie le stereotipie si manifestano quando il soggetto deve
calmarsi (quel senso di quel determinato soggetto è ipersensibile).
Questo significa che l’ambiente è troppo ricco di stimoli e il soggetto si trova in
uno stato di sovraccarico sensoriale.
Conseguentemente il soggetto indulge in questi comportamenti per bloccare gli
stimoli esterni e la sua attenzione si sposta verso l’interno.”
Per cercare di dare un significato reale e in un qualche modo emozionale a
questo suo comportamento ritmico e per vedere se, assecondando questa sua
“ritmicità” Franco riusciva a tranquillizzarsi un po’, una volta arrivati nel salone
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e seduti sulle seggioline intorno al tavolo, gli ho chiesto se aveva voglia di
raccontarmi la sua mattinata con il ritmo (con le dita battute sul tavolo, come fa
sempre) ma non era molto dell’idea.
Quindi abbiamo preso un’altra strada: insieme a Corrado abbiamo inventato la
musica di quando si dorme e la musica della sveglia.
Abbiamo analizzato un po’ le due musiche cercando di capire cosa le rende
diverse e abbiamo visto che una era lenta e morbida e l’altra era veloce d
energica e che la cosa che le distingueva di più era il ritmo.
Poi ci siamo dati questa regola: quando la chitarra suonava la musica del
dormire bisognava appoggiare la testa sul tavolo che avevamo davanti, quando
la chitarra suonava la musica della sveglia, bisognava far finta di spaventarsi e
alzare le braccia verso l’alto.
Ho immaginato questo piccolo gioco per dare a Franco un pretesto per
muoversi, pensando che il muoversi stando seduto, quindi muovendo solo il
busto, e il muoversi “dentro” la musica gli avrebbe dato un aiuto, uno stimolo e
una sicurezza in più.
Non è stato così.
Fisicamente è completamente bloccato, rigido, persino appoggiare la testa alla
mano lo mette in grande difficoltà.
Infatti persino questi semplicissimi movimenti, sono risultati molto complicati
per Franco che li ha fatti per un po’ e poi si è rifiutato.
Abbiamo continuato il gioco riconoscendo le musiche “a voce” e non più
attraverso il movimento.
Quando l’ho visto un po’ più tranquillo, su consiglio della sua maestra di
sostegno gli ho chiesto, forse forzando un po’ i tempi, se quando c’era la musica
del dormire, gli andava di levarsi gli occhiali come fa quando la sera va a
dormire.
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Gli occhiali non gli servono assolutamente a niente, anzi, credo che gli creino
una certa confusione (ci vedo, non ci vedo) e un sicuro fastidio, ma pare che la
madre glieli imponga per “proteggergli gli occhi”.
Ovviamente si è rifiutato, anche se non con l’energia che mi aspettavo.
Si è però molto divertito con l’alternanza musica del dormire (lenta e morbida)
– musica della sveglia (veloce d energica) che riconosceva bene e viveva ogni
volta come una sorpresa.
4.4. Cacciatori e uccellini (15 febbraio 2008)
La maestra di sostegno di Franco mi ha riferito che in questo periodo è molto
nervoso e che spesso alterna momenti di grande aggressività durante i quale la
caccia e alle volte addirittura la picchia a momenti in cui la cerca per avere
rassicurazioni.
Questi sono comportamenti che Franco ha spesso, ma sembra che ultimamente
siano peggiorati a causa di una difficile situazione famigliare che il bambino si
trova a vivere.
Pare infatti che fra i suoi genitori non ci sia armonia.
La storia di Franco è triste anche in questo senso.
La madre alla nascita l’ha in qualche modo ”rifiutato” smettendo di essere
madre sia per lui che per il fratello maggiore.
Per molto tempo non si è presa cura di lui, tanto che il bambino, fino a non
molto tempo fa, non aveva con lei quasi nessun contatto.
In relazione a questo argomento e per sottolineare cosa questo “abbandono”
potrebbe aver causato su Franco, cito parte di un articolo della psicopedagogista
Virginia D’Antuono intitolato “Lo sviluppo dell’affettività nei bambini non
vedenti” e pubblicato sulla rivista “Tiflologia per l'Integrazione” (lugliosettembre 2007).
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“Il rapporto tra la madre e il bambino non vedente risente degli stati
psicologici che caratterizzano le reazioni dei genitori all’handicap visivo.
La consapevolezza della situazione del proprio figlio, può originare nei genitori
uno stato di shock ed inadeguatezza e talvolta anche uno stato depressivo.
Tali vissuti possono generare un allontanamento affettivo dal bambino
(Gargiulo, 1985).
Dal canto suo il bambino non vedente mostra già nei primi due giorni di vita
una certa apatia motoria, una forma generale di passività che determina nei
genitori, ed in particolare nella mamma, una forte tendenza a ritirarsi ed a
ridurre al minimo il contatto con il proprio bambino.
Spesso quell’atteggiamento che la mamma interpreta come passività o
mancanza di rispondenza non è altro che una forma di attenzione uditiva per
cui il cieco, utilizzando il senso dell’udito molto più efficacemente del bambino
vedente, nel momento in cui ascolta i vari suoni e rumori, si ritrae dalla
situazione inibendo spesso anche il movimento (Burlingham, 1964).
Il problema risiede nel fatto che la mamma non sempre è in grado di capire
questo atteggiamento.
In pratica, quando la mamma ha un comportamento amabile in superficie, ma
in realtà teme il contatto con il bambino, questi riceve questi due messaggi
contraddittori e non congruenti, e non può rispondere ad alcuno di essi senza
determinare risposte ambivalenti.”
Dopo questa premessa, e considerando il fatto che anche in questa stessa
mattinata aveva avuto reazioni molto violente e agitate alle minime richieste
delle sue maestre, ero un po’ preoccupata della reazione che poteva avere
Franco all’ipotesi di lavorare insieme.
Sul tavolo del salone avevo preparato una cassetta di legno con dentro tante
percussioni di diverso tipo: legnetti, campanelli, cembali, tamburi, tamburi con
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sonagli, triangoli, piatti sospesi di tante dimensioni diverse, più uno strumento
che imita il suono di un uccello.
Ho lasciato Franco libero di esplorare gli strumenti della cassetta e ho notato
che ha esplorato il tutto in modo estremamente frettoloso e superficiale, come se
in realtà non gli interessasse conoscerli.
Alle volte li toccava appena per poi passare ad altro.
Così lo abbiamo fatto insieme: abbiamo esplorato tutto quello che la cassetta
conteneva, abbiamo sentito le forme e i materiali di cui gli strumenti erano fatti,
immaginato che suono potevano avere e poi, suonandoli, abbiamo confermato o
modificato le nostre ipotesi.
Poi Franco ha scelto gli strumenti più “belli” ed eliminato quelli che non gli
piacevano.
Osservando le sue scelte ho notato alcune cose: gli piacciono i suoni forti solo
se sono prodotti da lui, se sono prodotti da altri non se li aspetta e lo spaventano.
Ho l’impressione che sia in qualche modo spaventato anche dai suoni prodotti
da strumenti che vibrano come i piatti sospesi, il triangolo, persino i piattini
piccoli, tutti strumenti che invece pensavo gi sarebbero piaciuti moltissimo.
Alla fine della selezione sono rimasti “in gioco”: un tamburo, un tamburo con
sonagli, i legnetti, i campanelli e lo strumento che imita la voce degli uccelli.
Da lì siamo partiti
per inventare la storia
sonora: un cacciatore
va a caccia, i passi
del
cacciatore
che
cammina nel bosco
erano
“detti”
dal
tamburo a sonagli,
poi,
una
volta
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arrivato nel posto giusto, si ferma in silenzio ad ascoltare se per caso c’è in giro
qualche uccellino a cui sparare.
Gli uccellini erano divisi in: uccellino tonto che si fa sempre prendere (i
legnetti), uccellino furbo che non si fa mai prendere (i campanelli), uccellino
piccolo che non vale la pena di prendere perché è troppo piccolo e non c’è
niente da mangiare (il richiamo per uccelli).
Il suono degli spari del cacciatore era prodotto dal tamburo.
Franco, per circa un’ora, tempo per lui lunghissimo, si è molto divertito a fare
un po’ il cacciatore e un po’ l’uccellino, a fare tutte le “voci” del caso e persino
ad immaginare con che contorno avrebbe mangiato gli uccellini più cicciottelli.
Il lato di questo lavoro che a me interessava di più era cercare di dare un senso
al “comportamento ritmico” che Franco pratica continuamente, “battendo” su
tutto in maniera un po’ ossessiva e assolutamente staccata da ogni significato
comunicativo o emotivo.
Giocare con i ritmi e le sonorità e stato un bel modo di dare significato a questi
elementi.
Una bella sorpresa di stamattina è stato vedere finalmente Franco senza occhiali.
L’imposizione di portare gli occhiali viene dalla madre, forse per
autoconvincere se stessa di non avere un figlio cieco ma di avere un figlio che
vede poco.
Il fatto che gli abbia permesso di toglierli potrebbe essere un passo verso
l’accettare questo bambino diverso dagli altri ma non per questo “minore”.
Non ho chiesto niente a lui, preferisco prima parlarne con la sua maestra di
sostegno, ma sono curiosa di conoscere le sue sensazioni riguardo a questo
cambiamento.
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4.5. Gioco vecchio, regole nuove (21 febbraio 2008)
Stamattina, mentre accompagnavo Franco nel salone, una maestra mi ha fermata
per dirmi che anche questa settimana il bambino ha avuto alcune crisi “isteriche
(così le ha definite).
Ha concluso dicendo che secondo lei queste manifestazioni sono sintomo del
disagio e della frustrazione che Franco prova nel passare tutte le sue giornate
all’interno di un gruppo formato da bambini molto più piccoli di lui.
Questo problema alla fine dello scorso anno scolastico ha creato non poche
tensioni fra maestre che consideravano Franco pronto per cominciare la Scuola
Elementare e quelle che, al contrario, consideravano una scelta migliore fargli
trascorrere un altro anno nella Scuola dell’Infanzia.
Non mi sento di esprimermi riguardo a queste decisioni, ma annoto ciò che
osservo.
Franco non ha mai amato molto le attività di gruppo, ma, soprattutto in questo
ultimo anno, non l’ho mai visto interagire con uno dei suoi compagni (l’ultima
volta che l’ho osservato in gruppo a sua insaputa, i bambini della sezione erano
seduti su un divanetto più o meno intenti ad ascoltare la maestra, lui era seduto
in terra dalla parte opposta rispetto ai suoi compagni impegnato a giocare,
ovviamente da solo, con una sedia rovesciata).
Ogni volta che lo vedo gioca da solo o lavora con la sua maestra di sostegno o
con un'altra figura adulta.
Credo che il rapporto con il gruppo dei pari gli manchi molto e, per un bambino
che ha grande necessità di sentirsi “come gli altri”, non è un problema da poco.
Concludo questa mia piccola analisi con una riflessione tratta da un articolo di
Barbara Muzzatti, psicologa e dottore di ricerca in Psicologia dello Sviluppo e
dei Processi di Socializzazione, intitolato “I tempi e le diverse modalità di
apprendimento del bambino non vedente e ipovedente” e pubblicato sulla rivista
“Tiflologia per l'Integrazione”:
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“(…) è da tenere presente che, spesso, i bambini non vedenti (soprattutto in
epoca prescolare) sono meno intraprendenti e tendono a cercare meno
attivamente l’interazione con i compagni e/o a proporre giochi ed attività.
È quindi importante creare delle situazioni di interazione "protette" in cui il
bambino si possa sentire libero di proporre e suggerire attività.”
Tornando ai nostri incontri, oggi abbiamo ripreso la storia dei cacciatori e degli
uccellini che la settimana scorsa aveva lo aveva divertito tanto.
Siamo ripartiti dall’esplorazione della scatola degli strumenti, questa volta
appoggiata sul pavimento in modo da “obbligare” Franco a sperimentare
un’altra posizione (seduto a terra).
Le mie curiosità erano due: vedere se l’esplorazione di Franco, all’interno di un
gioco già conosciuto e quindi in una situazione di maggiore tranquillità rispetto
all’incontro scorso, sarebbe stata più attenta ed approfondita e vedere se avrebbe
fatto scelte timbriche diverse rispetto alla volta scorsa.
L’esplorazione è rimasta molto superficiale e gli strumenti sono rimasti gli
stessi mantenendo anche gli stessi ruoli.
Grazie all’articolo, del quale riporto di seguito un frammento, scritto della
Dott.ssa Barbara Muzzatti, psicologa e dottore di ricerca in Psicologia dello
Sviluppo e dei Processi di Socializzazione, intitolato “L’apprendimento
mediante gli altri sensi” e pubblicato sulla rivista “Tiflologia per
l'Integrazione”, ho chiarito dentro di me alcuni concetti ed alcune difficoltà
legati all’esplorazione tattile che fino ad ora non avevo tenuto nella giusta
considerazione.
“ (…) La vista offre continuamente e costantemente stimoli all’apprendimento
e, soprattutto, permette di familiarizzare con caratteristiche fondamentali degli
oggetti quali la permanenza (l’oggetto non si volatilizza quando se ne perde il
contatto fisico o uditivo), la conservazione (gli oggetti a volte cambiano forma,
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ma rimangono tali) e la complessità degli stessi (la mela è rotonda, liscia,
rossa, gustosa, profumata).
Il tatto e l’udito non assolvono con la stessa efficacia a queste funzioni.
Il tatto è il senso della staticità e del particolare.
Con il tatto è difficile, ad esempio, cogliere le modificazioni di un oggetto, se
non per stadi prefissati. È quindi fondamentale, nella misura maggiore
possibile, isolare le diverse fasi di un processo (per esempio preparare il latte
caldo) e far toccare ed esperire direttamente al bambino ciascuna fase (p.e.: la
mamma apre il frigo, prende la bottiglia del latte, versa il latte nel pentolino,
accende il fornello e scalda il latte, prende una tazza, versa il latte caldo nella
tazza, offre la tazza al bambino).
Con il tatto, poi, si colgono pochi aspetti dell’oggetto e dagli aspetti particolari,
spesso, risulta difficile fare sintesi per giungere alla rappresentazione globale
dell’oggetto e alla generalizzazione del concetto che esso rappresenta.
È quindi importante non trascurare la guida delle mani del bambino
nell’esplorazione sia minuziosa che generale di un oggetto”
Una volta preparato lo strumentario e ricordata un attimo la storia ho aggiunto
alcune nuove regole.
La prima regola era che oggi i ruoli erano fissi: Franco cacciatore, io uccellino.
La seconda, la più importante, era che il cacciatore doveva ascoltare bene la
voce dell’uccellino (i legnetti), sentire se veniva da davanti, da destra o da
sinistra e sparare girandosi dalla parte giusta.
Approfittando della presenza di Corrado abbiamo anche deciso che, per capire
la sorte dell’uccellino dopo lo sparo del cacciatore (e anche per utilizzare
“l’effetto sorpresa” che piace sempre molto a Francesco), una musica veloce e
“scherzosa” indicava che l’uccellino era riuscito a scappare dagli spari del
cacciatore senza farsi prendere mentre una musica dissonante, ma sempre un po’
buffa, indicava che il cacciatore era riuscito a sparare all’uccellino e a prenderlo.
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Franco ha riconosciuto e distinto sempre bene le due musiche ma non è riuscito
a individuare da dove veniva il suono.
Avendo il dubbio che forse le consegne erano troppe per permettere a Franco di
tenere tutto “sotto controllo”, siamo rimasti per un po’ a lavorare solo sulla
spazialità ma non ci sono stati risultati.
Ho avuto l’impressione che Franco sia rimasto male dal fatto di non sapere cosa
rispondere alle mie richieste (“da dove viene questo suono? Prova a prenderlo
con la mano.”), tant’è che per non insistere e non demoralizzarlo ho eliminato
questa regola e abbiamo inventato che gli uccellini che riuscivano a scappare
poi diventavano amici del cacciatore e gli andavano a dare delle beccatine sulla
testa e sul viso.
Per rendere questo gioco “di ripiego” un minimo interessante almeno a livello
sensoriale, abbiamo aggiunto ai legnetti, lo strumento uccellino, il richiamo per
uccelli che ha una parte di metallo.
Franco doveva dire se l’uccellino che lo beccava aveva il becco “caldo”
(legnetti) o “freddo” (richiamo per uccelli).
Mi ha impressionata il modo in cui si lasciava “coccolare” dalle beccatine sul
viso e come, più che al gioco, fosse interessato al semplice contatto fra la sua
pelle e l’oggetto, forse perché la sensibilità cutanea cambia notevolmente e ogni
parte del corpo “percepisce” le stimolazioni in un modo diverso.
4.6. Confusione (29 febbraio 2008)
Oggi non è andata molto bene.
Per stimolare Franco ad un‘esplorazione più attenta e significativa degli oggetti,
ho portato a scuola la chitarra.
Pensavo che la custodia morbida, lo strumento stesso che è composto da
materiali diversi, la forma dello strumento, il fatto che lo si possa suonare in
tanti modi diversi, compreso l’abbracciarlo e il tenerlo addosso, sarebbero stati
elementi di forte interesse.
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Invece anche oggi, nonostante abbia cercato di indirizzarlo e stimolarlo, ha
dedicato all’esplorazione un’attenzione quasi nulla.
Questa mancanza di “necessità di esplorazione” può forse essere ricondotta al
difficile rapporto che Franco ha avuto con la madre nei primi anni di vita.
A questo proposito cito parte di un articolo della Dottoressa Barbara Celani
intitolato “La relazione madre – bambino non vedente”, pubblicato sulla rivista
“Tiflologia per l'Integrazione”.
“Sotto il profilo evolutivo la vista è la primaria modalità sensoriale per la
conoscenza del mondo e per l’interazione con gli altri.
Il contatto visivo con la madre rappresenta una delle prime modalità di scambio
affettivo con lei e costituisce la base per lo sviluppo di altre funzioni importanti.
Le madri di bambini non vedenti, in genere, hanno difficoltà ad interpretare i
segnali non verbali dei loro bambini con implicazioni negative sulla
continuazione dell’interazione (Perez-Pereira, Conti-Ramsden, 2002).
(…) Facendo riferimento al paradigma teorico dell’attaccamento di Bowlby, si
prende in considerazione il legame del bambino con la madre come punto
focale e determinante per lo sviluppo successivo del bambino.
(…) Bowlby considera il legame che unisce la madre e il bambino come una
necessità primaria (innata) che si sviluppa indipendentemente dalla
soddisfazione dei bisogni fisiologici di base (Bowlby, 1958).
(…) La teoria di Bowlby ha trovato conferma nelle ricerche della Ainsworth
(1978), la quale, per valutare la qualità dell’attaccamento al caregiver nei
bambini di un anno, ha utilizzato la videoregistrazione di situazioni create
sperimentalmente (Strange Situation).
In queste situazioni, il bambino viene esposto ad ambienti sconosciuti, a
separazioni di tre minuti dal genitore e alla presenza di un estraneo.
(…) Sulla base di queste osservazioni la Ainsworth propone un sistema di
classificazione per descrivere il modello di risposta del bambino al genitore.
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Modello “sicuro”: il bambino impiega la presenza materna come “base sicura”
per l’esplorazione e il gioco, piange, cerca la madre durante la sua assenza e
l’accoglie attivamente al suo ritorno.
In genere richiede vicinanza o contatto e, una volta assicurata la sua presenza,
torna a giocare.
Modello “insicuro-evitante”: il bambino mostra scarso o nessun disagio alla
separazione dalla madre, continuando ad esplorare attivamente i giocattoli e la
stanza.
Al ritorno della madre il bambino la ignora e la evita, guardando altrove e
rifiutando il contatto prima di tornare ad esplorare l’ambiente.
Modello “insicuro/ambivalente”: il bambino mostra disagio prima della
separazione, quando entra in un ambiente sconosciuto o alla presenza
dell’estraneo.
Il bambino risponde alla separazione dalla madre con grande sofferenza, ma il
suo ritorno non sembra confortarlo, continua a mostrare disagio e non riescono
a riprendere l’esplorazione.
A volte esprime rabbia, alternata o combinata alla ricerca di contatto.”
Alla luce di queste teorie, che verranno affrontate più dettagliatamente nel
paragrafo successivo, appare più chiaro il motivo per cui Franco, che appartiene
al modello insicuro ambivalente, non mostra interesse per l’esplorazione.
Data quindi per fallita l’attività di esplorazione mi sono concentrata su una serie
di giochi che mi aiutassero a capire meglio il rapporto di Franco con lo spazio e
la spazialità.
Abbiamo deciso insieme che il suono della corda grossa della chitarra (Mi
grave) corrispondeva l’azione di allungare verso destra il braccio destro, il
suono della corda piccola della chitarra (MI cantino) corrispondeva l’azione di
allungare verso sinistra il braccio sinistro e che al “bussare” sulla cassa
corrispondeva l’azione di allungare entrambe le braccia davanti a se.
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Per rendere il compito più chiaro e utile, mi spostavo nello spazio intorno a
Franco, seduto a terra al centro del salone, in modo che lo stimolo sonoro
venisse dalla parte corrispondente a quella in cui doveva essere effettuato il
movimento.
Franco partecipa già da diverso tempo ad incontri di musicoterapia, davo quindi
quasi per certo che questo gioco gli sarebbe risultato tanto facile da risultare
noioso.
Dopo qualche tentativo mi sono invece accorta che l’attività gli risultava
piuttosto difficile.
Franco non ha molto l’idea di spazialità e fatica a capire la collocazione nello
spazio della fonte sonora.
Per facilitare la consegna ho eliminato un suono, il battere sulla cassa, tenendo
solo le regole suono grave – il braccio destro si allunga verso destra, suono
acuto – il braccio sinistro si allunga verso sinistra, ma anche questo tentativo
non ha dato risultati apprezzabili.
A questo punto Franco ha cominciato ad agitarsi ed infastidirsi e, per peggiorare
l’atmosfera, siamo stati interrotti dai bambini di una delle quattro sezioni della
scuola che dovevano fare un’attività nel salone in cui si svolgono i miei incontri
con Franco.
Una volta trasferiti nella sezione lasciata libera e recuperata un attimo la
concentrazione, siamo passati a un nuovo gioco sempre legato alla spazialità.
Franco (che aveva deciso che “adesso faceva lui”) aveva a disposizione due
strumenti piuttosto improvvisati ma dai suoni interessanti: un barattolo con
dentro una pallina e una maracas (piccola osservazione: quando Franco entra in
contatto con oggetti nuovi, non si preoccupa di esplorarli e di farsene una sua
idea ma chiede sempre all’adulto presente “che cos’è?”).
Seduto a terra alle mie spalle, quando suonava il barattolo dovevo allungare il
braccio destro verso destra, quando suonava la maracas dovevo allungare il
braccio sinistro verso sinistra.
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Ogni volta doveva controllare se facevo bene e allungavo il braccio giusto.
Se sbagliavo mi doveva correggere.
Il gioco stava cominciando a funzionare benino, anche perché ho fatto in modo
di sbagliarmi diverse volte e Franco si diverte molto all’idea di “imbrogliare” il
prossimo, quando siamo stati di nuovo interrotti dai bambini di ritorno dal
salone.
Franco fatica molto ad entrare in una condizione di tranquillità che gli permetta
di concentrarsi e lavorare.
È facile intuire quanto queste continue interruzioni lo confondano e disturbino il
lavoro.
Questi contrattempi ovviamente non capitano per mancanza di buona volontà e
di attenzione, ma a causa delle oggettive difficoltà di gestione e organizzazione
di tempi e spazi all’interno delle scuole dell’infanzia, soprattutto all’interno di
quelle piuttosto grandi come la scuola che frequenta Franco.
L’occasione è stata comunque utile per capire qualcosa in più del bambino.
Mi ha chiesto perché i bimbi che erano tornati dal salone urlavano così tanto e
mi ha detto che a lui non piace che si urli.
Mi ha raccontato che a casa il fratello gli si avvicina senza farsi sentire e poi lo
spaventa con delle grida.
La vita famigliare di Franco non deve essere affatto facile.
Prima di salutarci, dal momento che non ci saremmo visti per due settimane, gli
ho regalato una tavoletta di cioccolato.
Ovviamente la prima cosa che mi ha chiesto è stata: “cos’è?”.
Gli ho risposto che l’avremmo capito insieme.
L’ha toccata, annusata, ha capito che era cioccolata e, con un po’ di aiuto, è
riuscito a scartarne un angolo e a mangiarne un pezzetto.
Breve osservazione finale: oggi Franco indossava di nuovo gli occhiali.
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Parlando con la sua maestra di sostegno ho saputo che li porta perché in
settimana ha subito un intervento all’occhio destro che, per colore e forma
dell’iride, è diverso dal sinistro.
Per risolvere questa situazione i genitori gli hanno fatto mettere una lente
dipinta davanti all’occhio destro.
Da questa operazione il bambino non ha ricavato alcun vantaggio “visivo”, ma
adesso i due occhi adesso sono uguali.
4.6.1. La teoria dell’attaccamento
La teoria dell’attaccamento nasce subito dopo la Seconda
Guerra Mondiale grazie agli studi che John Bowlby ha
dedicato ai meccanismi che spingono il bambino a legarsi,
cercare un contatto e una forma di comunicazione con il
caregiver e a come queste “tecniche” influenzano nel bambino lo sviluppo e
l’organizzazione di processi emotivi, motivazionali e mnemonici.
Ovviamente questi studi sono stati poi ampliati ed integrati da moltissimi
studiosi e ricercatori, prima fra tutti Mary Ainsworth, prima collaboratrice di
Bowlby che ha basato i suoi studi sull’analisi della relazione madre – bambino e
dei comportamenti ad essa correlati.
Queste osservazioni hanno portato la Ainsworth a definire e strutturare una
“situazione sperimentale”, la Strange Situation (durante la quale il bambino
viene “esposto” ad un momento di solitudine, essendo lasciato solo dal genitore
in un ambiente sconosciuto, seguito dall’arrivo di un estraneo), capace di
evidenziare e differenziare, attraverso l’analisi delle varie reazioni del bambino
a questa situazione di stress, tre diversi stili di attaccamento del bambino nei
confronti della madre: sicuro, insicuro evitante e insicuro ambivalente.
A questi tre stili, grazie alle osservazioni di due studiosi, Main ed Hesse (1990),
si è aggiunta un’altra categoria: l’insicuro disorganizzato.
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L’attaccamento sicuro è caratterizzato da una figura genitoriale disponibile e
incoraggiante, pronta a rispondere quando chiamata in causa ma che interviene
attivamente solo quando è chiaramente necessario, in grado di promuovere
l’autonomia del proprio figlio e di essere punto di riferimento nel momento del
bisogno.
Il bambino, fiducioso nella disponibilità e nel supporto della figura di
attaccamento nel caso si verifichino condizioni avverse o di pericolo, si sente
libero di poter esplorare il mondo.
Questo stile è caratterizzato da:
- sicurezza nell’esplorazione del mondo;
- convinzione di essere amabile;
- capacità di sopportare distacchi prolungati;
- nessun timore di abbandono;
- fiducia nelle proprie capacità e in quelle degli altri;
- Sé positivo e affidabile;
- Altro positivo e affidabile.
L’attaccamento Insicuro Evitante è caratterizzato dalla convinzione del
bambino che, alla richiesta d’aiuto, non solo non incontrerà la disponibilità della
figura di attaccamento, ma addirittura verrà rifiutato dalla figura stessa.
Così facendo, il bambino costruisce le proprie esperienze facendo esclusivo
affidamento su se stesso, ricercando l’autosufficienza anche sul piano emotivo,
“eliminando” la necessità di amore ed sostegno da parte delle figure di
accudimento, con la possibilità di arrivare a costruire un falso Sé.
Questo stile è caratterizzato da:
- insicurezza nell’esplorazione del mondo;
- convinzione di non essere amato;
- percezione del distacco come “prevedibile”;
- tendenza all’evitamento della relazione per convinzione del rifiuto;
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- apparente esclusiva fiducia in se stessi e nessuna richiesta di aiuto;
- Sé positivo e affidabile;
- altro negativo e inaffidabile.
Nell’attaccamento Insicuro Ambivalente il bambino non ha la certezza che la
figura di attaccamento sia disponibile a rispondere con costanza ad una richiesta
d’aiuto.
Il caregiver infatti può essere disponibile in alcune occasioni ma non in altre, il
bambino può essere sottoposto a frequenti separazioni se non addirittura a
minacce di abbandono usate come mezzo coercitivo.
In questo stile l’esplorazione del mondo è incerta, esitante, connotata da ansia
ed il bambino è incline all’angoscia da separazione.
Questo stile è caratterizzato da:
- insicurezza nell’esplorazione del mondo;
- convinzione di non essere amabile;
- incapacità di sopportare distacchi prolungati;
- ansia di abbandono;
- sfiducia nelle proprie capacità e fiducia nelle capacità degli altri;
- Sé negativo e inaffidabile (a causa della sfiducia verso di lui che attribuisce
alla figura di attaccamento);
- altro positivo e affidabile.
Dalle osservazioni della Strange Situation è emerso che alcuni bambini
manifestavano comportamenti non riconducibili a nessuno dei tre pattern sopra
descritti, rivelando la necessità di aggiungere un quarto stile di attaccamento,
attaccamento disorientato disorganizzato, alle tre classificazioni originarie.
Nell’attaccamento Disorganizzato il bambino esprime diverse gamme di
comportamenti (spaventato, strano, disorganizzato, in conflitto) che non
rientrano nei tre stili precedenti.
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Sono considerati disorientati/disorganizzati ad esempio i bambini gli infanti che,
in risposta al ritorno del genitore dopo una breve separazione, appaiono
apprensivi, piangono e si buttano sul pavimento.
Altri bambini considerati disorganizzati possono manifestare comportamenti
conflittuali, come girare in tondo mentre si avvicinano ai genitori o muoversi
verso la figura di attaccamento con la testa girata in un’altra direzione, in modo
da evitarne lo sguardo.
Altri ancora appaiono disorientati, congelati in tutti i movimenti.
(informazioni tratte dal Blog di Massimo Zanetti, psicologo, Bologna
http://massimoequilibrio.blogspot.com
http://massimoequilibrio.blogspot.com/2008/02/teoria-dell-attaccamento-dijohn-bowlby.html)
Questi studi, da quelli di Bowlby e della Ainsworth a tutti quelli che ne sono
seguiti, hanno dimostrato che le modalità di relazione fra madre e bambino
tendono a stabilizzarsi in tempi molto brevi ed a creare fin da subito una sorta di
“copione” inconsapevole di comportamenti.
Questo copione si struttura poi in uno “schema”, quello che Bowlby definisce
“modelli operativi interni”, tanto che alcuni studi (Tronick, 1989) hanno
dimostrato che bambini, anche di pochissimi giorni di vita, tendono a formarsi
delle vere e proprie “aspettative relazionali” su se stessi e sugli altri, creandosi
una prima forma di memoria implicita e non narrabile che gli permette di fare
delle ipotesi, in relazione a se stesso e soprattutto alle figure di accudimento, e
di prendere spunto dalle esperienze vissute per arrivare a delle vere e proprie
immagini del mondo.
Infatti, se consideriamo i diversi stili di attaccamento non solo come elenco di
comportamenti ma come modo di sentire, vedere e vivere il contesto, se stessi e
gli altri, possiamo intravedere dietro queste teorie anche la creazione di “mondi
possibili”.
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Abitare nel mondo sicuro, legato ovviamente allo stile di attaccamento sicuro,
significa vivere in un mondo basato sulla fiducia e dotato di confini chiari e netti
in cui le differenze sono vissute come novità e spunti per l’inizio di nuovi
percorsi e in cui e possibile e presente un chiaro scambio di affetti fra i soggetti.
Abitare nel mondo evitante, legato allo stile di attaccamento insicuro evitante,
vuol dire far parte di un mondo di soli fatti, nel quale le emozioni non esistono o
esistono solo in quanto fastidi da evitare (predominio della razionalità).
Vivere in questo mondo significa essere in balìa di se stessi, staccati ed
indipendenti dai contesti e dalle relazioni che si vivono.
Abitare nel mondo ambivalente, legato allo stile insicuro ambivalente, significa
vivere circondato dall’incertezza, “invischiato” in legami fortemente connotati
da emozioni contrastanti (odio, amore) dai quali separarsi, o anche solo
allontanarsi per averne una visione più critica, risulta difficile se non
impossibile.
Caratteristico di questo “mondo” è il continuo scambio di forti passioni difficili
da gestire e razionalizzare (predominio dell’emotività).
Abitare
infine
nel
mondo
disorganizzato,
legato
allo
stile
insicuro
disorganizzato, significa sentirsi privi di un’identità definita, disorientati e senza
una qualsiasi possibilità di previsione sulle azioni e sul contesto circostante.
Ogni evento viene vissuto come minaccioso e incomprensibile, il mondo viene
percepito come estraneo e oscuro nel quale non è possibile alcuna forma di
dialogo.
Queste “letture del mondo”, che probabilmente abbiamo forse in parte vissuto
tutti, diventano però patologiche quando si presenta una “rigidità dei sistemi di
senso”, quando cioè la scena che si vive si ripete sempre nello stesso identico
modo, con gli stessi ruoli, con gli stessi scambi, le stesse evoluzioni.
In questo caso la musicoterapia potrebbe essere utile per creare nuovi “mondi
possibili” nei quali la persona sia in grado di aggiornasi ad ogni nuovo evento e
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ad ogni nuovo incontro permettendosi di liberare la possibilità di vivere nuovi
capitoli della propria vita.
(informazioni tratte da “Stili di attaccamento e mondi possibili”, dispensa di
Luca Casadio).
4.7. In gruppo, ma fuori (13 marzo 2008)
Oggi primo incontro con il gruppo del quale fa parte anche Franco.
Riferisco brevemente ciò che ho osservato.
Appena entrato nell’aula in cui svolgiamo il laboratorio didattico musicale
Franco ha individuato la postazione del maestro Corrado e si è immediatamente
seduto sulla panchina vicino a lui isolandosi rispetto al gruppo.
Per tentare di modificare questa abitudine, facendo leva sulle sue caratteristiche
dominanti, gli ho chiesto se quest’anno, essendo il più grande e quindi quello
che poteva essere “di esempio” per i suoi amici più piccoli, gli andava di fare
sempre il nostro aiutante ma seduto dalla parte dei bimbi e disposto a mostrare
agli altri le cose che poi avrebbero dovuto fare (ad esempio muovere le braccia
lentamente o velocemente, alzarle o abbassarle).
Si è rifiutato, forse anche perché emozionato dalla presenza di Corrado, per il
quale ha una decisa passione, e sicuramente perché più interessato allo
strumento chitarra che non ai giochi musicali che abbiamo proposto al gruppo.
Dovendo gestire l’attività di gruppo non ho potuto osservare Franco come avrei
voluto, ma ho notato che ha tenuto stabilmente le mani sulla chitarra, sulla cassa
per sentirne la vibrazione, sulle corde (tanto che spesso il suono usciva
stoppato) e sulle mani di Corrado per sentirne il movimento sullo strumento.
Rispetto all’anno scorso è stato molto meno “disturbante” e più rispettoso di
alcune minime regole interne che abbiamo fissato come valide per tutto il
gruppo (ad esempio: non interrompere l’attività per lasciare a tutti il tempo di
capire, ascoltare la maestra e il maestro, ascoltare i propri compagni).
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Sempre nell’idea di rispettare questo suo ruolo di aiutante “attivo”, anche se a
fatica, siamo riusciti a far decidere a Franco il ritmo di partenza dei canti e a
farcelo sentire battendo con le dita sulla cassa della chitarra, dando così un
piccolo significato ai suoi comportamenti ritmici.
4.8. In marcia (14 marzo 2008)
Stamattina, sempre per stimolare Franco ad un’esplorazione meno superficiale e
sommaria, gli ho portato un oggetto particolare: il cajón.
Due parole su questo
strumento ancora non
particolarmente noto.
Il
cajón,
strumento
simbolo della comunità
negra peruviana, come
altre percussioni del sud
america è un sostituto
dei tamburi africani che
vennero
proibiti
agli
schiavi condotti nel nuovo mondo.
Il suo nome descrive esattamente di che si tratta: una cassa di legno.
Si dice infatti che i primi esemplari di cajón fossero cassette per la raccolta della
frutta.
Da
allora
ovviamente
il
cajón
è
stato
perfezionato
ed
ora
si presenta come un parallelepipedo di circa mezzo metro di altezza e trenta
centimetri di larghezza e profondità.
Il lato anteriore e quello posteriore si differenziano da quelli laterali; il primo è
più sottile di tutti gli altri e costituisce la superficie battente, mentre l'altro ha un
foro dal quale fuoriesce il suono.
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Può avere un sistema di cordiera interna destinata ad arricchirne il timbro.
Un aiuto alla diffusione della popolarità del cajón si deve al percussionista
Caitro Soto, al quale va il merito di aver fatto conoscere lo strumento a Paco De
Lucia.
L'abbinamento tra chitarra flamenca e cajón fu un successo immediato e, dalla
fine degli anni settanta ad ora, il cajón si è consolidato come parte integrante di
questo genere musicale.
Il cajón si suona sedendovi sopra, la parte alta della superficie battente ha un
suono secco ed acuto, suonandolo nella parte bassa si ottiene un suono più grave
e profondo.
(informazioni tratte dal sito http://www.cajondg.com)
Al di là del corretto utilizzo dello strumento, la cosa bella del cajón, quella che
mi ha fatto decidere di portarlo a Franco, è che suona ovunque tu lo batta e ogni
parte ha una sonorità diversa.
In più, il fatto di potercisi sedere sopra, può permettere a un bambino di
suonarlo anche con i piedi.
Franco è rimasto molto affascinato da questo oggetto e oggi finalmente
l’esplorazione, anche se un po’ aiutata e indirizzata, è stata significativa e
abbastanza approfondita.
L’ho lasciato libero si assaporare le sonorità dello strumento per un lungo
momento che rimpiango di non aver registrato.
Poi Franco ha voluto raccontarmi la sua giornata attraverso i ritmi sempre
eseguiti sul cajon e ha voluto che gli raccontassi la mia.
Finiti questi racconti ero pronta per iniziare l’attività pensata per oggi, ma
Franco mi ha presa di sorpresa chiedendomi se non c’erano uccellini a cui
sparare.
Improvvisando, ho pensato di cogliere questa occasione e tentare un’attività che
prevedesse il movimento.
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Gli ho detto che lì al campo base dove eravamo non ce n’erano più perché li
avevamo già presi tutti, ma se ci spostavamo verso il fiume sicuramente ne
avremmo trovati altri.
Franco è stato al gioco e mi ha chiesto dov’era il fiume.
Gli ho detto che ci saremmo andati insieme per calcolare bene le distanze e
poterci orientare.
Abbiamo contato otto passi (circa sedici se li volevamo fare molto più corti) dal
campo base (il tavolo con le seggiole) al fiume (l’inizio della gradinata del
salone, di fronte al tavolo a distanza di circa un paio di metri).
Da qui abbiamo cominciato un gioco che ha funzionato molto bene: Franco era
il cacciatore che doveva andare dal campo base al fiume per la caccia e tornare
indietro per portare le prede e far scorta di munizioni.
Per accompagnarlo senza dargli la mano e facendolo quindi sentire
indipendente, gli stavo dietro facendo il ruolo dello zaino che il cacciatore
portava sulle spalle.
Se mi appoggiavo molto voleva dire che lo zaino era pesante e quindi il
cacciatore, facendo più fatica, andava più lento.
Se mi appoggiavo poco voleva dire che lo zaino era più leggero e il cacciatore
poteva andare più veloce.
Abbiamo fatto questo tragitto molte volte, con “zaini” di peso diverso e quindi
velocità diverse.
In questo gioco Franco era sereno e a suo agio in un modo che mi ha sorpresa.
Anche le sue stereotipie, normalmente molto evidenti e presenti, oggi sono
sembrate in qualche modo zittite.
4.9. Di nuovo in gruppo, la fatica di stare “dentro” (18 marzo 2008)
Oggi nuovo incontro di gruppo.
Con l’insegnate di sostegno di Franco abbiamo deciso che, per rendergli utile e
produttivo anche il tempo passato in gruppo durante il laboratorio di musica,
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uno degli obbiettivi di quest’anno sarà tentare di favorire l’integrazione di
Franco all’interno del suo gruppo e lo sviluppare l’interazione con i suoi amici.
Cosa non facile sia perché, come già detto, Franco rifiuta decisamente
l’interazione con i compagni sia perché il lavoro in gruppo prevede che,
giustamente, l’attenzione degli insegnanti sia attiva e concentrata su tutti e che
non solo Franco ma tutti i bambini della sezione traggano vantaggio
dall’incontro.
Abbiamo comunque tentato l’esperimento attraverso una serie di piccoli giochi
musicali che permettessero ai bimbi di imparare qualcosa di nuovo e a Franco di
interagire con i suoi compagni.
Seduti a terra in cerchio abbiamo inventato la parte strumentale di una
canzoncina che stiamo imparando intitolata “Oggi c’è musica”.
Lo strumento era il nostro corpo, “suonato” attraverso quattro battiti delle mani
seguiti da quattro battiti delle mani sulle gambe.
Il tutto ripetuto ad libitum in modo che tutti imparassero l’esercizio.
Una volta memorizzata questa sequenza abbiamo inserito una piccola
variazione: ai quattro battiti delle mani non sarebbero seguiti quattro battiti delle
mani sulle nostre gambe ma sarebbero seguiti quattro battiti delle mani sulle
gambe degli amici che ci sedevano a destra e a sinistra.
Il gioco era accompagnato da questo ritornello: mano mano mano mano, gamba
gamba gamba gamba, mano mano mano mano, amico amico amico amico.
Tutti i bambini hanno messo in atto questa nuova struttura tranne Franco che si
è rifiutato di toccare gli amici che gli sedevano a fianco.
Ha però accettato che loro “suonassero” le sue gambe, contando a voce alta i
battiti e arrabbiandosi moltissimo quando i bimbi che dovevano interagire con
lui non facevano giusto.
Abbiamo poi cambiato gioco, accompagnando il canto della canzone con un
piccolo girotondo.
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Franco, che si era dimostrato almeno parzialmente disponibile nel gioco
precedente, qui è esploso.
Urlando che non voleva farlo ha cominciato a tirare calci e pugni.
Si è un po’ calmato solo quando abbiamo contato il numero dei passi che
avrebbe dovuto fare (otto) e contrattando con lui la possibilità di farne solo
quattro.
Cosa che poi comunque non ha fatto e che ci ha spinto ad interrompere il gioco
e a sederci di nuovo a terra in cerchio per un’ultima esecuzione della canzone.
Per non lasciare Franco fuori dal gruppo, ho chiesto ai bambini del suo gruppo
chi di loro avrebbe avuto piacere di averlo al centro del cerchio per abbraccialo
con le nostre voci.
Tutti i bambini, a sorpresa dal momento che questa cosa non era affatto
preparata, hanno risposto nel modo giusto.
Franco è rimasto piuttosto colpito da questa cosa tanto che dopo un po’ di
insistenze ha accettato di sedersi al centro del cerchio.
Finito l’incontro, forse per sfogare la rabbia di essere stato in qualche modo
“costretto” a fare qualcosa che non gli andava, Franco ha preso per il collo un
bambino del suo gruppo che naturalmente si è spaventato e si è messo a
piangere.
Alla richiesta di spiegazioni ha raccontato che il bambino “lo leccava”.
4.10. Percorso (4 aprile 2008)
Oggi è stato un incontro produttivo.
Volendo lavorare sul movimento per l’incontro di stamattina avevo preparato un
percorso utilizzando due materassi bassi sui quali eventualmente poter anche
camminare e un grosso materasso composto da tre “onde” piuttosto alte.
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PIPPO
L
La strada poteva prevedere delle varianti: passare attraverso le montagne (le
scale, composte da sei gradini profondi e molto bassi), o passare dentro il calore
(una striscia di sole, perfetta perché ampia, dritta e senza grandi impedimenti nel
mezzo, che in quell’ora del mattino attraversa il salone).
Scopo di questo viaggio era raggiungere la tana dell’orso, rappresentato a livello
sonoro dal cajon e suonato dall’insegnante di sostegno di Franco.
Il bambino ha accettato di giocare a questo gioco e insieme abbiamo affrontato
più volte il percorso, strisciando o camminando a quattro zampe sui materassi
bassi, facendo finta di muoverci in una palude, e scavalcando le onde del l’altro
materasso facendo finta che fossero dei tronchi di pianta rovesciati.
Una volta arrivati nei pressi della “tana dell’orso” (il cajon suonato dalla sua
maestra di sostegno) lo lasciavo libero per vedere se riusciva a raggiungerlo da
solo orientandosi attraverso l’ascolto, cosa che oggi gli è riuscita sempre e con
una certa facilità.
Dopo un po’ ovviamente ha voluto cambiare gioco facendo lui la parte
dell’orso, suonando quindi il cajon.
Per trovare un’alternativa che comunque lo mantenesse in movimento ho
chiesto alla sua insegnante di sedersi dalla parte opposta della stanza e di
suonare il tamburello.
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Una volta arrivato questo nuovo suono ho raccontato a Franco che
evidentemente dall’altra parte del bosco c’era un altro animale che aveva voglia
di parlar con lui.
È così iniziato un dialogo fra i due strumenti.
Franco lanciava un’idea ritmica che veniva ripresa dalla maestra con il
tamburello.
Accertato che l’altro animale fosse un amico, abbiamo affrontato il viaggio
verso questa nuova voce, scegliendo però prima se fare il percorso nella palude
e nel bosco, la strada delle montagne o la via del calore.
Franco ha scelto l’ultima via.
Ho provato a chiedergli di muoversi seguendo il calore e di fermarsi se sentiva
che non c’era più perché voleva dire che avevamo sbagliato strada.
La cosa ha funzionato piuttosto bene.
Stamattina osservandolo, ho notato che Franco è diventato più sicuro nei
movimenti, leggermente più fluido e meno contratto.
Ha imparato a tenere le braccia allungate in avanti e ad usare le mani per sentire
gli ostacoli e ad usare i piedi per sentire se nel piano in cui si appoggia cambia
qualcosa.
Almeno in ambito di lavoro a due, o a tre come è capitato questa mattina, questo
aumento di sicurezza si ripercuote positivamente anche sulla sua capacità di
ascolto e sulla sua tranquillità, tant’è che oggi, per la prima volta da che sono
iniziati i nostri incontri, non c’è stato nessun animale o uccellino da ammazzare.
Alle volte mi domando se sia giusto e utile creare dei percorsi di immaginazione
(siamo in un bosco, siamo su una montagna, siamo in mezzo al fango, ecc…)
con un bambino che fondamentalmente non ha mai visto la realtà o se questo
non possa per caso essere per lui fonte di confusione.
Ho trovato qualche risposta a questo mio dubbio in questo articolo intitolato
“Educabilità dell’immaginazione” scritto da Enrico Ceppi e pubblicato sulla
rivista “Tiflologia per l'Integrazione”,
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“(…) Il sapere non può essere conquistato soltanto per concetti, e gran parte di
esso, la parte più ricca più ampia, che porta maggiore vitalità allo spirito si
fonda proprio sulle immagini, su questa miniera inesauribile che permette
all'uomo nel chiuso della propria stanza di rievocare le cime dei monti o le
onde del mare, di ricostruire scene e volti familiari, di disporre la sostanza per
la realizzazione di grandi progetti
(…) Starei per dire che l'uomo vive più di ricordi fondati sulle immagini che di
sensazioni reali; o almeno che la sua ricchezza più grande è data proprio dal
ricordo, da questa forza che lo unisce al passato, che lo fa sentire inserito in un
tutto ampio e infinito che gli da la sensazione di non essere mai solo e gli
permette di costruire il vero substrato della sua personalità.
(…) Anche chi non vede può costituirsi il proprio patrimonio di immagini: non
importa la provenienza, basta aver garantito sulla loro possibilità di esistenza,
perché non venisse di conseguenza l'ammissione che il mondo spirituale del
privo della vista fosse un mondo vuoto, ancorato alle formule e ai nomi, un
mondo incapace di elaborare il vero volto della realtà.
(…) L'importanza della nuova pedagogia dei ciechi, la sua rivoluzionaria
portata, penso che stia proprio in questo rivendicare alle immagini di chi non
vede un valore effettivo di durata e di strutturazione e quindi di rivendicare una
vasta azione pedagogica che educhi e potenzi il sorgere di queste immagini.
(…) Lo spirito va elaborando i dati della propria esperienza, ha in sé questa
forza, questa luce che illumina e da significato a elementi che passerebbero
nell'oscurità della coscienza sensoriale, come dati indifferenti gli uni agli altri:
e indubbiamente la posizione normale dello spirito di chi non vede possiede alla
stessa stregua di tutti, questa forza di sintesi e di illuminazione, per cui il dato
diviene intelligibile, ma occorre pur sempre che il dato vi sia. In tal modo,
ammessa pure l'immaginazione come facoltà originaria dello spirito, occorre
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che ad essa fluiscano le immagini perché si concretizzi e non resti mera
funzione, il che equivale all'annullamento della funzione stessa.
Quando nelle nostre scuole parliamo di educabilità dell'immaginazione di chi
non
vede,
intendiamo
riferirci
a
questo
arricchimento
costante
dell'immaginazione.”
4.11. Nel gruppo (7 aprile 2008)
Solo
poche
un’immagine)
parole
per
(e
descrivere
l’incontro di gruppo di oggi.
Franco ha passato il tempo del
laboratorio seduto a terra in
cerchio
fra
i
suoi
amici
ascoltandoli e ridendo insieme a
loro.
Nessun rifiuto, nessuna crisi.
Credo che l’unione di forze, la creazione di quella famosa “rete” che fino a non
molto tempo fa mi sembrava una cosa impossibile, il lavoro su obiettivi comuni
e, non ultimo, il fatto che sia Franco che i suoi genitori abbiano iniziato ad
andare in terapia, stiano dando qualche frutto.
Franco, nonostante la persistenza delle sue “esplosioni” e delle sue chiusure,
sembra comunque più sicuro, più sereno.
Fisicamente si è abbastanza liberato, la postura, il modo di camminare e di
muoversi in generale, tutto ne ha guadagnato.
Il suo atteggiamento è più fiducioso.
Soprattutto in relazione a questo, mi sono accorta che ciò che credevo che
Franco “non sapesse fare” (espressione terribile), come ad esempio riconoscere
la spazialità dei suoni, era dovuto a una grande mancanza di fiducia, in se stesso
ma anche in me.
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I passi fatti sono piccoli ma comunque importanti.
4.12. Ripresa e cambiamenti (11 aprile 2008)
Oggi ho fatto scegliere a Franco i
materiali con i quali lavorare.
La scelta è caduta sulla scatola degli
strumenti che già da un po’ non
usavamo più.
Seduti sui due materassi bassi,
avvicinati fra loro in modo da
crearne uno solo molto grosso e
avvicinati alle strutture morbide di
varie forme in modo da creare un “angolo morbido” sicuro, ho lasciato Franco
libero di tirare fuori tutti gli strumenti, di suonarli tutti e di decidere quali
rimettere nella scatola perché giudicati “brutti” o poco interessanti.
Ho notato che l’esplorazione è diventata più attenta, anche se resta sempre
piuttosto sommaria.
Per stimolarlo maggiormente in questo senso, ci siamo concentrati non solo sui
suoni ma anche sui materiali degli strumenti (quelli freddi come i triangoli e i
piatti sospesi, quelli lisci come i tamburi con la plastica al posto della pelle,
quelli ruvidi come i tamburi con la pelle), sui pesi, sulle dimensioni e sugli
“accessori” (le cordicelle dei triangoli e dei piatti sospesi).
Mi sono accorta che molti degli strumenti che aveva scartato in questa stessa
attività proposta a febbraio (i piatti sospesi, i triangoli, un tamburello con i
sonagli) oggi sono rimasti “in gioco” e anzi sono stati fra i più “gettonanti”.
Alcuni dei suoni che un paio di mesi fa lo infastidivano e spaventavano (i suoni
lunghi e vibrati dei piatti, ad esempio, ed in particolare quello del piatto più
grosso) oggi sono stati cercati e prodotti in grande quantità da Franco con il
quale siamo anche riusciti a quantificare, contando, quanto durava il suono forte
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prodotto dal piatto sospeso più grosso e quanto durava il suono debole prodotto
dallo stesso strumento e a valutare le differenze.
Rimanendo nell’ambito degli strumenti “vibranti” abbiamo poi inventato uno
strumento formato da tre triangoli tenuti per la cordicella e fatti battere uno
contro l’altro.
Il suono di questo strumento ci ha ricordato le campane delle chiese che ci sono
in montagna e infatti l’abbiamo chiamato “le campane delle montagne” e
abbiamo deciso che era un suono molto festoso.
Franco mi ha raccontato che i suoi genitori gli hanno regalato una batteria e che
la cosa gli piace molto.
Allora mi è venuta l’idea di utilizzare tutti gli strumenti che avevamo a
disposizione per “costruire” una sorta di batteria da suonare muovendosi però
nello spazio.
Così ho disposto tutto intorno a Franco gli strumenti, anche su sua indicazione,
e lui doveva suonarli andandoli a cercare nello spazio.
Il gioco è stato piuttosto divertente ed ha funzionato bene.
Ho notato che nelle situazioni di lavoro a due le sue stereotipie risultano
veramente molto zittite, mentre restano, anche se in misura minore, in situazioni
di lavoro di gruppo.
Questo mi fa pensare che si senta più tranquillo e mi conferma l’ipotesi che
molti degli “insuccessi” passati fossero causati anche da mancanza di fiducia nei
miei confronti.
Prima di tornare in classe abbiamo
esplorato con le mani tutte le forme
che ci circondavano, le strutture
morbide, in modo da dare a Franco
l’idea
delle
forme
che
lo
circondavano (cd traccia1).
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4.13. Gioco di regole (18 aprile 2008)
Oggi i bambini della sezione di Franco hanno fatto le prove per uno spettacolo
dedicato al circo che “porteranno in scena” fra qualche settimana.
Franco era impegnatissimo come “tecnico audio”, facendo andare la cassetta e
spegnendo al momento giusto.
Ho notato che la cosa lo divertiva molto e che era un bel modo per farlo sentire
parte dello spettacolo e “utile”.
Così ho rubato parte dell’idea e durante il nostro incontro gli ho proposto di
registrare parte di quello che facevamo e poi di riascoltare per sentire cosa ne
era uscito.
Franco è stato entusiasta dell’idea.
Abbiamo cominciato con un lavoro sul cajon, che ormai Franco conosce bene,
basato su alcune regole precise.
Per stimolare in lui il movimento e l’autonomia fra braccia e gambe ho proposto
di non suonare con le mani e con i piedi contemporaneamente, ma di “dividere”
i due momenti (traccia cd 2).
Solo ad un richiamo preciso si poteva suonare tutto insieme.
Poi, per stimolare il controllo del movimento le regole sono diventate più
difficili: le mani suonavano piano e i piedi suonavano forte, le mani suonavano
forte e i piedi suonavano piano, in contemporanea mani e piedi tutto forte, poi
viceversa tutto piano (traccia cd 4 e 5).
Il gioco è andato avanti per circa mezz’ora con buoni risultati e molto
entusiasmo da parte di Franco.
Poi abbiamo cominciato a registrare.
E mi sono accorta che forse non questa non era stata una grande idea.
Infatti l’attività ha provocato in Franco reazioni che non mi aspettavo: il ritorno
deciso di alcune stereotipie che durante il lavoro a due erano ormai quasi
sparite, il fatto che fosse decisamente più concentrato sul riascolto che non sulla
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“produzione musicale” e il fatto che questa si sia riempita di strani versi prodotti
con la voce che non gli avevo mai sentito fare (traccia cd 3).
Il fatto di riascoltarsi e riconoscersi gli provocava un’eccitazione evidente che
metteva in secondo piano tutto il resto.
Forse tutto questo era dovuto proprio al fatto di riconoscersi, di risentire la
propria voce, la propria musica, che, immagino, per chi non ha modo di vedersi
sia un impatto molto forte, una sorta di “riconoscersi “fuori” da sé, un po’ come
quando i bambini vedenti si incantano nel guardasi allo specchio o come anche
noi capita di incuriosirci davanti ad una foto che ci ritrae scattata a nostra
insaputa.
Un’altra cosa che mi ha colpito è che Franco riusciva a ricantare con una
notevole precisione i ritmi che aveva suonato, come se non fossero frutto di
un’improvvisazione estemporanea ma parti scritte.
4.14. Batteria (21 aprile 2008)
Stamattina doppio incontro: una prima parte con il gruppo e una seconda soli io
e Franco.
Durante gli incontri di gruppo, anche se per Franco restano molto più faticosi di
quelli a due, il suo comportamento è molto migliorato e, nonostante non si possa
dire che partecipi attivamente alle varie attività, riesce comunque a stare dentro
al gruppo senza crisi e quasi senza opporre resistenze.
Per quanto riguarda invece il nostro incontro “a due”, oggi abbiamo costruito
una batteria utilizzando tutti gli strumenti più “belli” scelti dalle scatole degli
strumenti.
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Prima di cominciare abbiamo “aggiustato” alcuni degli strumenti che avrebbero
potuti essere “belli” ma che erano incompleti, tipo il triangolo ed il piatto
sospeso che erano senza cordina.
Ho chiesto a Franco di cercare le cordine dentro la scatola degli strumenti, in
modo da stimolare in lui la capacità di riconoscere oggetti e materiali.
Una volta trovate le abbiamo legate agli strumenti così da renderli suonabili.
Una volta completato lo strumentario abbiamo disposto gli strumenti sul tavolo
in modo da poterli suonare stando in piedi.
Franco ha scelto la disposizione, decidendo di mettere tutti i tamburi in fila dalla
stessa parte dal più grande al più piccolo e di creare un “angolo” con due
tamburi più piccolini.
I tamburi col sonaglio erano dall’altra parte e più lontani, forse perché gli
piacciono meno.
Triangolo e piatto sospeso erano più o meno al centro del tavolo, i campanelli
molto defilati dietro un tamburo (anche quelli non gli piacciono molto).
I legnetti venivano spesso usati come battenti per i tamburi.
Per suonare bisognava allungare bene le braccia e spostarsi nello spazio lungo il
tavolo.
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Franco ha suonato un “concerto” che in parte abbiamo registrato (traccia cd 6 e
7) e mi ha raccontato tutto il suo fine settimana utilizzando parole, ritmi e
sonorità dei diversi strumenti (traccia cd 8).
Ha poi voluto che facessi io la stessa cosa.
Mi accorgo che ormai Franco è del tutto a suo agio durante i nostri incontri e
questo rende ancora più difficile l’idea che questa strada sia ormai alla fine.
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5. Conclusioni
Quando ho cominciato i miei incontri con Franco onestamente non sapevo bene dove
sarei andata a parare.
In questi mesi ho lavorato su di lui meno di quanto abbia lavorato su di me per
sentirmi minimamente in grado di essergli utile.
Ho capito la grandissima importanza che ha la fiducia all’interno di una relazione di
aiuto e l’importanza di quella famosa “rete” di persone, obiettivi, intenti ed attenzioni
che è fondamentale costruire intorno alla persona sulla quale si “opera”.
Grazie a questa unione di forze, Franco ha compiuto passi importanti.
È in grado di muoversi con maggior scioltezza, soprattutto ora accetta di muoversi,
anche se ancora non sempre e non proprio entusiasticamente.
Il suo corpo è meno contratto e le stereotipie, soprattutto in ambito di lavoro a due,
sono meno evidenti.
Ha cominciato ad integrarsi all’interno del suo gruppo.
Anche se ancora non partecipa alle attività, quasi sempre accetta di sedersi insieme
agli altri bambini, sta imparando a rispettare le regole ed a “ritagliarsi” spazi e ruoli
su misura.
Ovviamente non è stata fatta nessuna magia (magari!) e il Franco dei rifiuti, delle
esplosioni di rabbia, delle paure, delle chiusure, dei piccoli “sadismi” nei confronti
dei suoi amichetti non è scomparso.
Per fortuna però se ne comincia ad intravedere anche un altro.
Concludo questa esperienza con un po’ di rimpianto per tutto ciò che ho capito solo
lungo la via e che forse, se avessi capito prima, avrei potuto usare in modo più utile.
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L’ultimissima riga è per questo bambino così complicato e così speciale, per il quale
continuerò a fare, con forza, il tifo.
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6. Bibliografia e Sitografia
Testi consultati:
- Dispensa “Musicoterapia, scuola e intergazione”, Paola Pecoraro Esperson,
Istituto MEME, A.A. 2007 – 2008.
- Nuova Enciclopedia della Musica Garzanti, marzo 1993.
- Rivista “Tiflologia per l'Integrazione” n° 4 ottobre – dicembre 2006, articolo
“Pedagogia, metodologia e didattica in Augusto Romagnoli” di Enrico Ceppi.
- Rivista “Tiflologia per l'Integrazione” n° 3 luglio – settembre 2007, articolo
“Educazione estetica dei ciechi. Gesto - Ritmica – Espressione” di Elena
Romagnoli.
- Rivista “Tiflologia per l'Integrazione” n° 1 gennaio – marzo 2007, articolo “I
bambini non vedenti nella scuola: gli insegnanti e le strategie didattiche” di
Barbara Celani.
- Rivista “Tiflologia per l'Integrazione” n° 2 aprile – giugno 2007, articolo
“Educazione psicomotoria del bambino minorato della vista” di Luigina Teresa
Orsini.
- Rivista “Tiflologia per l'Integrazione” n° 2 aprile – giugno 2007, resoconto
dell’iniziativa “Dialogo nel buio” di Giancarlo Abba.
- Rivista “Tiflologia per l'Integrazione” n° 3 luglio – settembre 2005, articolo
“Paura e autonomia” di Maria Luisa Gargiulo.
- “Aiutare i bambini pieni di rabbia e odio”, M. Sunderland e N.Armstrong,
2005, Trento, Erickson.
- “Comportamenti stereotipici (auto-stimolatori)”, Stephen M. Edelson,
Ph.D.Center for the Study of Autism, Salem, Oregon.
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PIPPO
- Rivista “Tiflologia per l'Integrazione”, luglio-settembre 2007, articolo “Lo
sviluppo dell’affettività nei bambini non vedenti” di Virginia D’Antuono.
- Rivista “Tiflologia per l'Integrazione” n° 2 aprile – giugno 2006, articolo “I
tempi e le diverse modalità di apprendimento del bambino non vedente e
ipovedente” di Barbara Muzzatti.
- Rivista “Tiflologia per l'Integrazione”, articolo “L’apprendimento mediante gli
altri sensi” di Barbara Muzzatti.
- Rivista “Tiflologia per l'Integrazione” n° 3 luglio – settembre 2005, articolo
“La relazione madre – bambino non vedente” di Barbara Celani.
- Dispensa “Stili di attaccamento e mondi possibili”, Luca Casadio, Istituto
Meme, A.A. 2007 – 2008.
- Rivista “Tiflologia per l'Integrazione” n° 4 ottobre – dicembre 2007, articolo
“Educabilità dell’immaginazione” di Enrico Ceppi.
Siti consultati :
- www.wikipedia.org
- www.mtonline.it
- www.musicotherapy.it
- www.dizionario-italiano.it
- www.demauroparavia.it
- www.benessere.com
- www.italiasalute.leonardo.it
- www.genitoriquasiperfetti.it
- www.erickson.it
- www.asperger.it
- www.massimoequilibrio.blogspot.com
- www.cajondg.com
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